Sonetti al veleno, Emanuela Dal Pozzo

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In uscita il 20/12/2019 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre 2019 e inizio gennaio 2020 (5,99 euro)

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EMANUELA DAL POZZO

SONETTI AL VELENO

ZeroUnoUndici Edizioni


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SONETTI AL VELENO Copyright © 2019 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-356-7 Copertina: immagine Shutterstock.com


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1. IL MONASTERO

Visto da quell’angolazione, il Monastero sembrava una fortezza, ma solo perché i rami nascondevano gli squarci che correvano lungo il muro dal quale le pietre più in alto si erano staccate. Altre sbriciolavano polvere che si addensava per terra. Non che la cosa rattristasse Estrella. Finché le mura sostenevano la costruzione, aveva un tetto su cui contare e un nascondiglio nel quale rintanarsi. La donna si avviò verso l’ingresso, mentre il vento freddo soffiava sulla sua nuca. Anche quell’inverno sarebbe finito e si sarebbe sorpresa a guardare, trasognata, il cielo nell’allungarsi delle giornate, quando il tramonto avrebbe tinto le nuvole più a lungo, nella nostalgia dei suoi colori che ormai non toccava da mesi. Aveva altro cui pensare, soprattutto dopo la misteriosa visita che le aveva lasciato un segno indelebile, una sorta di marchio più nell’anima che nel corpo, a monito di quanto le sarebbe potuto accadere se solo quel cieco visitatore inaspettato, avesse parlato. Il cieco era sparito, inghiottito dal silenzio della valle, con le sue visioni o profezie che fossero, lasciando a testimonianza del suo passaggio l’erba schiacciata dai propri sandali. Se n’era accorta subito, quando era uscita dal Monastero, a controllare che quella non fosse stata solo un’allucinazione. Poi aveva ripreso le sue solitarie occupazioni, come se nulla fosse avvenuto. Ed ecco improvvisamente che ripensava al vecchio Frate che si era spinto fino a lì, messaggero misterioso, a sondare i suoi pensieri, a studiare le sue reazioni, a ravvivare un passato doloroso che preferiva dimenticare. A ridosso delle mura del vecchio Monastero abbandonato, guardò l’orizzonte con apprensione. Solitamente i predicatori mantenevano la strada maestra, dove potevano più facilmente incontrare i viaggiatori. Fuori dai sentieri tracciati si era sprovvisti dei punti di riferimento, e più soggetti ad attacchi e pericoli. Cosa aveva spinto il Frate cieco fino a lì? Quell’incontro era stato casuale o premeditato? Chi lo aveva mandato? Rabbrividì al pensiero che l’Inquisizione potesse sapere dove si fosse nascosta. Anche se il cieco in proposito l’aveva tranquillizzata, ora era


4 diventato un testimone scomodo. Forse era venuto ad avvisarla, forse l’avrebbe tradita, o forse invece la sua venuta non aveva alcun significato, se non quello di farle compagnia. Sospirò, l’alito prese consistenza in una nuvola di vapore, ricordandole che in inverno la natura era meno generosa e maggiore era la necessità di scaldarsi alla luce fioca delle giornate. La legna pronta era accatastata vicino al camino, sotto le arcate che accompagnavano il corridoio esterno. Lì il calore del fuoco impediva alla legna d’impregnarsi di umidità. La sua mente si concentrò sulle minuscole piantine che uscivano, lottando contro le intemperie nel piccolo pezzo di terra coltivato. Vi era una cosa che la riempiva di soddisfazione: l’immenso spazio che dominava da ogni punto di osservazione, dall’interno e dall’esterno del Monastero. Pensò alle strade di Leon, che si allargavano all’improvviso, mentre lei bambina le percorreva festosa nei giorni di mercato, correndo verso le tende variopinte delle bancarelle di spezie. Lo spazio era il respiro della vita. Correva verso la fontana, con l’aria tra i capelli che la trascinava nel vortice di schiuma, tra i panni bianchi e gli schizzi freddi che le sorprendevano le guance. Correva e sognava, oltre i profili delle case al tramonto, oltre i poderosi sbuffi di fumo che sollevavano l’acre odore caratteristico delle sterpaglie bruciate al riparo dal sole, oltre la magrezza del viso rassegnato di sua madre, oltre gli occhi piccoli e inespressivi del padre. Sognava, sollevandosi sui fianchi fradicia nell’erba, dopo l’ennesimo tuffo nella fontana, mentre i suoi pensieri scavalcavano le insolenze delle comari e gli sguardi imbronciati e incuriositi dei marmocchi che si tiravano dietro. Sognava senza immagini, come possono fare gli occhi tuffandosi nella vastità del cielo. Sognava lo spazio aperto, quello sconosciuto aldilà del perimetro della città, quello che abbracciava la campagna, quello che intuiva unirsi al tempo, materializzandosi in tutte quelle facce sconosciute che arrivavano a Leon da un “chissà dove”, pronto a inghiottire i forestieri a mercato finito. Sognava un impreciso punto da cui avrebbero dovuto dipanarsi le strade del mondo. Faceva freddo, le vesti non sarebbero state sufficienti. Ne aveva prese in prestito altre, dai paramenti sacri che aveva trovato nella cappella. Stipati nel baule, si erano sottratti alla felicità dei topi, che si rincorrevano lungo le poche assi di legno rimaste. L’appezzamento di terra, delimitato dalle poderose mura, sarebbe stato più che sufficiente al sostentamento di un discreto numero di abitanti. Il Monastero era stato concepito per contenere almeno una trentina di frati. Con il lavoro e la sapiente semina dell’orto prima, la crescita degli ortaggi poi, con l’aiuto del sole e


5 dell’acqua, tutti si sarebbero sfamati. Le proprietà benefiche della terra avrebbero contribuito a rendere gli animi pacifici e sereni, molto più del cibo ricco e grasso che si poteva trovare in città. Ma per lei sola, della troppa terra del Monastero aveva scelto un perimetro nascosto, che coltivava in modo da avere verdura tutto l’anno. Spostandosi verso il Monastero vicino di Santa Chiara, a circa due ore di cammino, c’era un bosco. Con i rami resistenti di ulivo che aveva trovato, aveva costruito un contenitore senza ruote, che aveva attaccato al proprio cavallo. Fungeva da carro per la legna, che si procurava nel bosco per scaldarsi. Si era procurata anche sementi per il grano e le aveva piantate per avere il pane senza doverlo chiedere ai frati di Santa Chiara, cui aveva fatto credere di essere una povera, senza fissa dimora. Ogni tre mesi circa ci si recava, coperta da un velo, testa, mani e piedi fasciati, qualche ferita ancora evidente, seppur secca. I frati non le chiedevano nulla. Le davano quanto chiedeva e potevano. Estrella accettava il pasto caldo e il ricovero per la notte di cui non aveva bisogno, per avere i semi da piantare nella sua terra. Guardò la luna che si faceva spazio tra le nuvole, nel pallore del sole che stava scolorando le forme. Nella penombra che anticipava la notte, salì la scala che conduceva al piano superiore, verso il giaciglio che l’aspettava. Le provviste erano quasi finite. Aveva imparato a ridurre i pasti e addomesticare la fame, ma non poteva permettersi di ammalarsi. Ripercorse con la mente l’elenco dei medicamenti che teneva a portata di mano, alcuni essiccati, altri diluiti, secondo le proprietà dei quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco. Vi erano le erbe che avevano necessità di salire al cielo per essere purificate, quelle che necessitavano della trasformazione col calore, quelle che trovavano nell’umidità il coronamento della propria natura, quelle che traevano nutrimento dalla terra sotto forma di radici e non desideravano cambiare il proprio stato: un archivio ancora integro e ben fornito per ogni evenienza, che avrebbe fatto sussurrare di meraviglia gioiosa Perez, sempre in attività per debellare il male. Inutile pensare a Perez. Le aveva salvato la vita togliendola dalle torture dell’Inquisizione. Se voleva restituirgli il favore, doveva rimanere lontana da lui. Era certa che il medico fosse ancora in pericolo, spiato e seguito, sempre che nel frattempo non fosse stato imprigionato a causa sua. Non poteva sapere e preferiva non pensare a questa infausta possibilità. Forse con lei lontana il cerusico non aveva motivo di temere. Poteva essere che, passato un certo periodo di tempo, il suo nome stesso cadesse nell’oblio e le consentisse di rifarsi una nuova vita. Ma quanto


6 tempo? Calcolando le stagioni che avevano modificato il paesaggio, era lì da almeno tre anni, quindi doveva essere il 1528 e lei aveva quarant’anni. Eppure le ultime parole del cieco risuonavano nella sua mente: «Potresti scoprire di non dover temere nessuno, perché chi temi muore alla luce del sole…» Il Vicario non era più giovane, poteva essere già passato a miglior vita. Ma ci voleva troppo coraggio per uscire da lì e sapere se il suo principale persecutore la stava ancora cercando. Alla fine non le importava più nulla. Il mondo non le interessava più. Fuori era la guerra, lì la pace. Le prime stelle brillavano nel cielo sereno. Sarebbe stato opportuno recarsi al Monastero di Santa Chiara per le provviste. Era luna crescente, avrebbe potuto raccogliere qualche radice lungo la strada. Il mattino successivo si preparò per il viaggio. In qualche ora di cammino sarebbe giunta. Avrebbe visto fattezze umane in carne e ossa. I suoi occhi si sarebbero tuffati in immagini tangibili. Forse avrebbe scambiato qualche parola, se non avesse avuto sentore di pericoli.


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2. IL MONASTERO DI SANTA CHIARA

Frate Julius l’accolse serenamente, a braccia conserte. Con occhi attenti e silenziosi cercava la sua confessione che tardava a venire. Incuriosito da quello spettro sotto sembianze femminili, che ogni tanto prendeva forma, la sollecitava chiamandola sorella e addolcendo la voce, come esortandola al coraggio e alla speranza: «Dio perdona ogni peccato. Puoi confidarti con fiducia e restituirgli l’anima mondata. Vuoi, sorella, condividere con me le tue sofferenze e permettermi di aiutarti?» Estrella lo guardò, ma abbassò lo sguardo e tacque. Parlava a gesti, spesso con gli occhi. I frati pensavano che avesse perso l’uso della parola, forse anche della ragione. Cosa se ne faceva di quei semi che raccattava e custodiva gelosamente come reliquie? Fossero stati gioielli o preziosi avrebbe potuto farne commercio, ma quei semi non l’avrebbero certamente arricchita, né sfamata. Alla fine si erano convinti: l’originalità della lebbrosa si doveva a fissazioni su antichi ricordi. Sapeva che la compativano, cercando di essere generosi con lei, quanto avrebbero potuto esserlo nei confronti di una bestiola affamata e indifesa. Seguì Frate Julius mentre scendeva nelle cantine. L’umidità saliva dal terreno, ma non sembrava disturbare l’andirivieni dei frati nell’ora della dispensa dei viveri ai più bisognosi. Sulla scala stavano sedute alcune donne, col fazzoletto stretto sulla testa, le gonne lunghe e ragazzine scalze e spettinate tra le ginocchia, che la guardavano con i loro occhioni grandi. Gli uomini erano scesi con lei nelle dispense, e addossati alla parete se ne stavano in piedi. Aspettavano pazienti, con il cappello in mano, pronti ad aiutare se i sacchi erano pesanti. Tutto era silenzio e gioco di sguardi e di mani. Solo i frati parlavano, con la tipica cadenza di chi ha allenato la voce per lungo tempo alla preghiera collettiva. Il convento placava la sua angoscia per quei gesti misurati, quotidiani, consueti, sicuri e cortesi nei confronti degli ospiti, cui non si facevano troppe domande. I pellegrini affollavano nei giorni feriali i corridoi lungo i quali passava. Si scansavano al suo passaggio, senza nascondere


8 un moto di ripugnanza. La maggior parte, poveri e affamati, spesso malati, non le prestavano troppa attenzione, maggiormente inclini a pensare alle proprie sofferenze che a quelle altrui. Estrella sapeva, per esperienza, che sotto qualche cappuccio si celava un anonimo perseguitato in fuga, che non desiderava essere riconosciuto e, per dovere di sopravvivenza, molto attento a cose, persone, eventi, almeno quanto lei. Doveva comunque stare attenta: non era da escludere che vi si nascondessero spie, assoldate da quel o tal altro hidalgo, desideroso di acquisire benefici in cambio di favori. Frate Julius le fece cenno di attendere. Le cantine si aprivano una dietro l’altra, e i visitatori non potevano oltrepassare la sala d’ingresso. Anche Frate Gerolamo e Frate Domenico erano dediti all’accoglienza. Emergevano dal buio con grosse ceste di formaggi e salami, che sarebbero servite a integrare il pane, sempre abbondante e fragrante, che veniva cucinato nel forno al piano superiore. La colazione che benediceva la nuova giornata era il pasto più importante, quello che avrebbe dovuto sorreggere il corpo e lo spirito, anche nelle avversità delle ore successive. Frate Julius tornò con una bisaccia nella quale aveva integrato la razione per Estrella con della frutta secca e del succo d’uva cotto. Estrella gli aveva manifestato a gesti l’urgenza di ripartire subito. Il freddo invernale, la meta ignota della donna, la conoscenza della sventurata che già ormai da molte lune si presentava umilmente alla porta, l’alone di misterioso silenzio che l’accompagnava, facevano ogni volta pensare a Frate Julius che potesse essere quella, l’ultima ora per lei, prima del ricongiungimento eterno a Dio. Per questo le razioni che le forniva erano sempre particolarmente generose. Frate Domenico, nel ridiscendere la scala, diede un’occhiata alla bisaccia di Frate Julius, dalla quale spuntava l’insolita abbondanza. Lo guardò con meraviglia. Julius sorrise, i suoi lineamenti giovani si distesero. Un guizzo birichino attraversò i suoi occhi chiari: «Dio concede secondo bisogno» commentò divertito. Frate Domenico squadrò la donna e indovinò la sua magrezza sotto le vesti informi. Non era usuale che una donna sola, in pieno inverno, si presentasse in quel convento a mendicare. Non aveva un marito cui affidarsi o dei figlioli da custodire? Una donna sola destava sospetto. Il diavolo poteva impadronirsene in diversi modi, o traviandola, o usandola per i propri scopi. «Dovrebbe cercare un lavoro» commentò soprappensiero. «Ti sembra in condizioni sane?» la indicò Julius, con gesto eloquente.


9 «Se è stata in grado di attraversare le montagne e salire fin qui per mendicare, significa che il corpo la sorregge e la fibra è ancora forte. Forse potrebbe scendere a Ubeda a fare del commercio, o a prestare il suo tempo a qualche guardiano di pecore, se il suo aspetto è poco cittadino.» «Uhm, Ubeda, per quanto ne so, con la messa in opera delle modifiche della nuova chiesa, offre volentieri lavoro solo agli artigiani qualificati. Ora poi che Carlo V è in Spagna e si sono sparse le voci che Francisco de Los Cobos potrebbe tornare alla sua città natale, incaricato dallo stesso Imperatore di controllare il procedere dei restauri, Ubeda è in subbuglio. Non credo abbia la pazienza di ascoltare un’anima in cerca di conforto materiale e spirituale» commentò Julius, raggiungendo Estrella che aveva assistito in silenzio e apparentemente assente l’intera conversazione. Julius le diede le provviste e la salutò con un sorriso aperto. «Quando vorrai confessarti, figliola, mi troverai qui ad aspettarti.» Estrella rifece il percorso a ritroso, mentre la fila di pellegrini si scostava al suo passaggio, evitandone il contatto. Prima di uscire, oltre la portineria, Frate Cristoforo le diede il solito sacco di sementi, chiedendosi dove lo avrebbe portato, cosa ne avrebbe fatto, ma soprattutto come se lo sarebbe caricato, oltre il convento, per le vie accidentate della natura. Quando Estrella varcò la soglia per riprendersi l’abbondante fetta di libertà che la sorte le aveva donato, la campana del convento suonava l’ora media. Giunse al Monastero a pomeriggio inoltrato, dopo avere raccolto alcune radici di pungitopo, pianta di segnatura saturnina. Il giorno di sabato era volato via. Se non avesse conosciuto il calendario lunare, così utile per la raccolta delle piante e dei suoi frutti, e non avesse imparato a indovinare l’ora dalla luce del sole e dalla meridiana, che aveva appositamente costruito all’esterno del Monastero, il tempo sarebbe scivolato senza lasciare traccia.


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3. MOVIMENTI SOSPETTI

Estrella allungò le gambe rattrappite. Dopo essersi sgranchita anche le braccia in un largo respiro, lasciò il muro perimetrale del chiostro. L’alba era sorta da un pezzo. Un pallido sole spuntava oltre il grigiore del cielo. Si avviò verso il pozzo per prendere un secchio di acqua gelata, sperando che qualche raggio benevolo ne penetrasse la superficie. Aveva nostalgia dei caldi bagni della casa di Sara, dei profumi con cui amavano cospargersi, più della ricchezza dei vestiti e dei colori di cui allora era circondata. Gli ultimi giorni erano stati spensierati, sia perché il ricordo di Inigo, il suo giovane amante, si era affievolito e non faceva più male al cuore, sia perché aveva ignorato per un poco di tempo le sue paure. All’epoca si chiedeva se i suoi timori non fossero stati frutto di fantasia, pungolati dai cruenti avvenimenti di cui era stata testimone, spettri agitati dall’anima inquieta del suo padrone perennemente in viaggio, forse in fuga. Ma i fatti successivi l’avevano escluso. I pericoli erano reali e molto più vicini di quanto non avesse osato immaginare. La presenza rassicurante di Sancho Perez non era bastata ad allontanare da lei le spie che la sorvegliavano durante il suo apprendistato medico. Quando lasciava la casa del dottore e dei suoi pazienti per rientrare nella propria residenza, ombre fugaci invadevano la via. Sentiva il loro respiro soffiare sinistro alle sue spalle, mentre se ne difendeva con il suo passo veloce. Aveva l’accortezza di non lasciare mai la via maestra. I solitari vicoli che s’intrecciavano alle case del borgo erano molto più insidiosi, pieni di angoli bui e privi di presenze umane. Estrella non si sarebbe mai servita degli occasionali passanti per sfuggire alle misteriose ombre. Diffidente com’era ormai sulla natura umana, concepita più come nemica che alleata, non avrebbe chiesto aiuto ad alcuno nel momento del bisogno, ma questo, le ombre, non lo potevano sapere. Per questo nella via maestra era in vantaggio su di loro. Solo a Sancho Perez aveva confidato i propri sospetti. Alla fine il medico le aveva creduto. Si era offerto di riaccompagnarla nelle ore tarde, non poteva fare null’altro: né rivolgersi alle autorità, né affrontare le impalpabili ombre, né sostituirsi a Estrella, giacché era lei che volevano. Con angoscia lei si chiedeva: “Ma perché non mi affrontano? Non mi


11 rapiscono, o mi spiegano le ragioni del loro interesse?”, non c’era risposta. Immaginava che il burattinaio fosse lo stesso Vicario cui era sfuggita anni prima per rifugiarsi al Convento de la Conception di Toledo. Ora, in quel Monastero, le ombre finalmente si erano dissolte. Tutto taceva nella nebbia che chiudeva l’ex lazzaretto, cancellando a tratti la vallata e privando gli ulivi dei propri arti infreddoliti e ricurvi su se stessi. Quella parte dimenticata di mondo sembrava adatta a lei, lebbrosa o eretica, comunque estromessa dalla vita comunitaria, incapace di trovarvi una giusta collocazione. Estrella pensò a Inigo. Si chiese se avesse terminato il retablo in Siviglia. Gli echi della città le arrivavano sbiaditi. Rimaneva vivido solo il ricordo degli affreschi della residenza di Hernandez a Burgos, quello completato da Inigo nella casa di Sara, che la ritraeva, e i successivi che lei stessa aveva creato negli angoli spogli della villa dell’amica. Del vivace turbinio quotidiano delle azioni dei cittadini, faccendieri o mercanti, artigiani o commercianti, allevatori o frati, non sarebbe rimasta che una labile scia, presto cancellata dai passi di altri uomini, più o meno fortunati nelle risorse, più o meno abili nell’intrattenimento, più o meno prolifici e generosi: tracce fugaci che si aprivano nei porti, che si riversavano verso il mare, ingoiati dal tempo e dagli eventi piccoli e grandi che costituivano le storie della famiglia e segnavano i nodi della civiltà. Tutto quel gran movimento che correva nel tempo e contro il tempo, era destinato a perire: non sopravviveva al ricordo che pochi attimi. Rimanevano le Cattedrali, gli affreschi, le statue lignee e bronzee, l’attimo dipinto della vita dei discepoli di Cristo, che ancora respirava sulla vita presente antiche saggezze, rintracciabili nei loro sguardi vivaci e nei gesti eloquenti, che scalfivano le pareti delle Chiese. Era il mistero dell’arte che si affiancava alla bellezza della Natura, senza sostituirla, ma potenziandone le capacità espressive. Presto sarebbe arrivata la primavera con i fiori. I colori della vallata sarebbero velocemente mutati. L’erba rinverdita avrebbe fatto risaltare le forme, rinvigorendo la struttura degli sparuti alberi, disseminati a ridosso delle mura del Monastero. Gli uccelli avrebbero ripreso a cantare. Qualche serpe sarebbe scivolata lungo il pendio in cerca di sole. Lei sarebbe scesa verso le rocce, a rubare la polvere magica che, mescolata con i tuorli d’uovo, le avrebbe permesso di dipingere. La superficie delle mura del Monastero erano bastevoli per un’intera vita. Le poche galline che aveva comprato, con parte dei soldi lasciatele


12 da Hernandez, si erano moltiplicate. L’unico problema era rappresentato dal gallo, che con il suo canto acuto poteva attirare l’attenzione dei rari viandanti. L’orto e i prodotti della terra potevano essere in parte nascosti o camuffati, gli animali meno, per quanto rimanessero all’interno di un recinto. Purtroppo esercitavano la facoltà del verso secondo il volere di Dio. La fattoria, oltre alle galline, contava ormai tre maiali, due asinelli, cinque capre e il cavallo che teneva legato in un punto protetto esterno, adiacente al Monastero. Dalle galline ricavava le uova, dalle capre il latte, gli asini le servivano per caricare le cose che comprava al mercato le rare volte che scendeva in città, ed erano preziosi in settembre, al momento della raccolta delle olive, quando Estrella, sul loro dorso, ripuliva gli alberi dai frutti che finivano nelle due sacche fissate ai fianchi degli animali. I maiali invece facevano parte del mercato di scambio. Li allevava per denaro disponibile, una volta venduti. Per questo scendeva una volta all’anno al mercato più vicino, nel quale convergevano contadini e allevatori della zona, fasciata dalla testa ai piedi, per non essere riconosciuta. Sospettata come lebbrosa, alcuni arricciavano il naso e si tenevano alla larga. Ma i maiali erano merce preziosa. Alla fine trovava sempre qualcuno che, superata l’iniziale diffidenza, si lasciava allettare dalla merce. Il cavallo invece era la sua salvezza: sempre pronto per una fuga imprevista e precipitosa. Le ci erano voluti un paio di mesi per erigere un muro in sassi alto due metri e lungo tre, a ridosso del muro sud del Monastero, sul lato opposto dell’ingresso. Vi aveva ricavato una piccola uscita d’emergenza in caso di pericolo. Per maggiore sicurezza, l’ingresso principale della costruzione segnalava la presenza di lebbrosi. Della cassetta segreta di Hernandez, sepolta sotto la terra del chiostro, aveva preso solo il danaro, spendendone il necessario. I veri tesori che il suo padrone le aveva lasciato alla sua morte: il libro antico e il prezioso astrolabio, rimanevano lì, gelosamente custoditi dalle tenebre e dalla sua memoria. Le erano rimaste ancora poche monete che custodiva nella cappella, in un punto in cui le assi sconnesse del pavimento celavano una nicchia sufficiente per riporvi un sacchetto di tela in una scatola di latta, al riparo dai topi. Estrella si avvicinò al pozzo e vi tuffò il secchio, slegando la catena che lo imprigionava. Lo stava posizionando in un punto in cui i pallidi e tiepidi raggi solari sembravano convergere, quando sentì il cavallo nitrire. Fece un’ispezione mentale del Monastero.


13 A un occhio indagatore tutto tradiva che fosse abitato: il secchio, il camino con la catasta di legna addossata, le provviste nella dispensa, l’orto e gli animali, ma sarebbe stato difficile individuare chi e perché. Non vi erano tracce che portavano a lei, sempre così accorta di non essere seguita quando tornava dal bosco, dal Monastero di Santa Chiara o dalle spese della città. Una cosa era certa: chiunque fosse stato, anche avesse dovuto varcare la soglia e scoprire quanto non avrebbe dovuto, non doveva trovare lì in attesa né lei, né il tesoro. La preziosa cassetta di Hernandez era nascosta con cura e nessun simbolo, mappa o indicazione, ne lasciava indovinare l’ubicazione. Il cavallo nitrì una seconda volta, nervosamente. Dalla finestra vide ciò che non avrebbe voluto vedere: due cavalieri stavano galoppando verso il Monastero. Ebbe un unico pensiero. Si precipitò nella cappella per impossessarsi del denaro rimasto e della biancheria di stretta necessità già pronta in una sacca, e fuggì in direzione della stretta breccia, dove il cavallo aspettava. Sapeva da tempo che quel momento sarebbe arrivato. Ma non credeva che tutto si sarebbe svolto così velocemente. In un paio di minuti gli era già in groppa, diretta verso le montagne, in cerca di un riparo. Sapeva già cosa doveva e non doveva fare, così come chi temere sopra ogni altro al mondo, con il fiuto istintivo dell’agnello che scappa dalla volpe affamata.


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4. LA VIOLAZIONE DEL MONASTERO

Juan de Zumarraga, dell’ordine superiore dei Francescani e Inquisitore, non appena nominato primo vescovo di Spagna da Carlo V, aveva dato ordine di fare un censimento delle proprietà ecclesiastiche di tutta la Spagna. Determinato a sconfiggere l’eresia e la stregoneria, aveva ordinato che in tutte le giurisdizioni vi fossero controlli accurati, sia in relazione ai beni materiali della chiesa, di cui voleva aggiornare il registro, sia alle anime dannate, che intendeva estirpare come mala erba. Era certo che questo provvedimento gli avrebbe procurato fama e onori, ma non era così sprovveduto da non immaginare l’ambizione del progetto che avrebbe richiesto dispiegamento di mezzi, di forze e di tempo, data la vastità del territorio interessato. Quindi per prima cosa emise un bando che fu letto nelle piazze delle principali città, in cui si spiegava che si cercavano uomini forti e coraggiosi, disponibili a setacciare la campagna e a snidare il maligno, uomini di fede, pronti all’occorrenza a dare la propria vita senza esitare, uomini capaci di riconoscere nell’aspetto chiese, cattedrali e luoghi di culto, conventi e monasteri, eremi abitati o abbandonati, abili nello scrivere e a far di conto, per il loro censimento. Si sarebbero dovuti recare al più presto dalle autorità della città per offrire i propri servizi, che sarebbero stati largamente ricompensati con la decurtazione delle gabelle e un avanzamento sociale. Juan de Zumarraga aveva un’alta concezione della propria missione. Avrebbe snidato il male di qua e di là dal mare, e appena terminato questo ambizioso progetto, sarebbe andato nelle nuove terre a predicare la parola di Cristo e a fondare sulla pietra la propria fede, celebrando la grandezza della chiesa con la costruzione di collegi e ospedali. Ma aveva fretta perché, nonostante la sua carriera spianata, non era più così giovane. Poteva contare sul proprio nome, capace di aprire porte diversamente chiuse, ma quanti anni ancora Dio gli avrebbe concesso per portare a compimento la propria opera? Così aveva demandato il compito alle provincie, sollecitando i poteri locali affinché assoldassero uomini e impiegassero mezzi per il buon esito del censimento, promettendo loro favori.


15 Appena i due cavalieri si presentarono al cospetto del Corregidor della città di Jaen, già impegnato nella ristrutturazione della città dopo la caduta di Granada, cui l’improvviso ordine autorevole sembrò un compito di gravissimo impegno aggiuntivo, vennero assunti senza troppe domande. Era l’anno 1528 e certamente il fatto che fossero sopravvissuti alla lebbra era sia un segno divino, che un vantaggio terreno. Avrebbero potuto aggirarsi con tranquillità anche in zone di pericolo contagio senza timore. Il Corregidor di nuova nomina, felice di quella insperata fortuna, già meditava di potere spezzare quella lancia a proprio favore, se non fosse riuscito a rispondere appieno al proprio mandato: sorvegliare la comunità, curare l’ordine pubblico e promuovere la convivenza pacifica nella città tra fazioni religiose diverse. Avrebbe detto: «Non dimenticate che grazie a me si è potuto controllare il tal lebbrosario… ecc.» Così i due nuovi assunti furono istruiti sui propri compiti, equipaggiati con vesti adeguate, forniti di un lasciapassare firmato dal Corregidor che iniziava con la magica formula: «Per volontà di…» capace di aprire loro ogni porta di Castiglia. Furono rifocillati e si acconsentì a dare loro anche della birra speziata, che bevvero in quantità la sera precedente la partenza, fino a che i loro occhi brillanti pregustarono l’avventura del viaggio e l’utile che ne sarebbe derivato. I due nuovi assunti aspiravano alla carica di hidalgo, che avrebbe migliorato la loro esistenza tanto nel nome, quanto nel costume, riservando loro trattamenti di favore come il non pagamento delle imposte municipali. L’alba successiva i due cavalieri, del cui passato tenebroso erano a conoscenza solo i rispettivi cavalli, s’inoltrarono tra le montagne della zona, senza cognizione e senza mappe, un po’ a casaccio, chiedendo informazioni a quanti passavano per sapere dei Conventi, dei Monasteri, degli eremi in disuso, e di tutte quelle costruzioni somiglianti a una cappella atta a funzioni religiose, o che comunque facesse suonare una campana, ridacchiando sotto i baffi per quella piega imprevista che aveva preso la loro vita. «Ehi, di’. Pensavi veramente che saremmo andati a elemosinare per le vie, richieste di chiese e di campane! Non conosco preghiere e non ricordo i miei piedi a ridosso di un banco di chiesa o rivolti a un altare.» «Se ci vedono, non ci riconoscono. Tutti a dire: ma che si sono rincitrulliti quei due? La loro testa s’è impazzita d’improvviso? A scorrazzare in campagna aperta in cerca di funzioni religiose!»


16 «Eppure tu staresti bene con un vestito da prete. Io ti ci potrei portare il sacco dell’elemosina e predicare quanto basta per riempirlo.» «Eh, mica dureremmo troppo con il sacco pieno. Per la fatica di portarlo. Io lo svuoterei volentieri per alleggerirti il compito.» «E che mi faresti, fesso? Io porto il sacco vuoto e tu te ne vai con il bottino?» se la ridevano i due cavalieri, quando nessuno li stava a sentire. Poi, con piglio autoritario, si riprendevano il ruolo che nessuno, per la verità, aveva dato loro. Giocavano la parte meglio che potevano. La severità dei loro occhi indagatori sarebbe stata bene ricompensata, tanto dai mandanti quanto dai clienti. Per fugare ogni dubbio sulla natura della propria missione, estraevano la pergamena con la formula miracolosa che sapeva aprire ogni porta: «Per volontà di…» Il fatto che non frequentassero chiese e funzioni non gli aveva impedito di entrare a porgere favori dall’ingresso principale. L’adulazione sopperiva alla loro ignoranza, così come la furbizia all’intelligenza. Avevano entrambi un’idea schematica della vita e questo si dimostrava essere molto vantaggioso, perché li portava dritti allo scopo. Il sommario elenco dei difetti umani più comuni li traeva d’impaccio nelle trattative difficili. Bastava osservare l’interlocutore di turno e capire il suo lato debole, poi con agile abilità carpire la sua fiducia. In fondo gli uomini peccavano tutti allo stesso modo: chi nell’orgoglio, chi nell’ingordigia, chi nella vanità e chi nella codardia. Essi davano a intendere di offrire ciò che a loro mancava. La parte che recitavano più volentieri era quella autoritaria. Vi si sbizzarrivano, se sfilavano avanti a loro gruppi di fraticelli intimoriti dalle loro vesti, dai modi e soprattutto dal loro mandato. Preferivano invece smorzare i toni e cambiarli in adulazione di fronte a cariche consolidate o personaggi di prestigio. In quella mattina invernale, coperti da una giubba di lana e calzando adeguati stivali, con le redini dei cavalli tra le mani, entrarono nella fortezza, immaginando di essere accolti da un’accozzaglia di storpi e di mendicanti con le vesti a brandelli. Invece percorsero il lungo corridoio vuoto del Monastero, in cui risuonava solo l’eco dei loro passi. La prima cosa che fecero fu quella di entrare nella cappella, costatandone l’evidente stato di abbandono. Lì ebbero la certezza che il Monastero non fosse abitato da gente di chiesa. Poche panche e poche assi di legno, oltre a un grande crocifisso ligneo, erano le uniche risorse ecclesiastiche. I due provenivano dal Monastero di Santa Chiara. Esibendo il mandato in loro possesso la porta del Monastero si era schiusa all’istante. Avevano varcato il portone senza tradire la propria meraviglia per un


17 luogo di culto ricco di preziosità, cui si andavano via via abituando, man mano che il lavoro da compiere apriva loro porte impensate. La rozzezza dei propri modi era bilanciata dalla sfrontatezza con cui si presentavano, che dava adito a pensare che avessero poteri e licenze invise ai più. I frati, spaventati, li facevano passare senza perdersi in troppi particolari, desiderosi di fare bella impressione. Spesso chiedevano loro di intercedere presso quel o talaltro signore, per ottenere vantaggi e danari: un’ala più accogliente, maggiore considerazione dell’Ordine e delle vocazioni, strumenti più aggiornati per la coltivazione delle terre e del raccolto, la predisposizione di stalle per le bestie. I due, condiscendenti, promettevano e intanto si foraggiavano abbondantemente nelle cucine assaggiando i prodotti locali. Poi accettavano di fare l’accurata ispezione dei diversi spazi, cosa che prendeva un tempo largamente necessario, intervallato da lauti pasti e riposi oziosi. Non mancavano i minuziosi rendiconti di spese che annotavano su una lista. Si informavano sugli ospiti e i residenti, sulle tasse versate e le entrate derivate dalla vendita al mercato di erbe e ortaggi. Alla fine tutto il convento era stato passato al setaccio. Avevano censito il numero dei frati e si erano informati sulla conduzione quotidiana delle loro attività. Erano stati controllati i registri contabili e le opere realizzate: alcuni affreschi e una discreta collezione di libri miniaturizzati, che rappresentava il valore culturale più importante della storia del Monastero, la cui fondazione si perdeva nella notte dei tempi. Avevano visitato i locali, la mensa, la foresteria, la stalla, le cellette dei frati, la cappella. Si erano intrattenuti con il Priore che, elogiando l’assidua attività collettiva, aveva consegnato loro una petizione per una richiesta di fondi per l’ampliamento di un’ala, capace di ricevere in pace i pellegrini un tempo sufficientemente lungo per potere provvedere alla loro conversione. Erano ripartiti piuttosto soddisfatti. Tutto si era svolto ordinatamente. Erano stati bene accolti e riveriti come emissari d’indiscussa autorità, nonostante le loro facce rovinate avessero suscitato ribrezzo in passato. Ora, quel nuovo Monastero appena varcato, segnato sulla carta ed eretto solitario tra le montagne, rivelava essere un lazzaretto. Cos’erano le tracce delle proprie precedenti ferite in confronto alle vive lacerazioni di chi tuttora era torturato dalla malattia, legato alla vita da un esile filo di speranza? Ma più i due attraversavano rumorosamente i corridoi e le stanze interne del Monastero, più si accorgevano che doveva essere imprevedibilmente disabitato. Forse una calamità aveva indotto


18 tutti al suo improvviso abbandono? Dopo la visita del giardino interno ne erano sicuri. Ciò rappresentava un bel problema. Cosa avrebbero potuto stilare sulla relazione? Numero degli occupanti: imprecisato; risorse economiche: sconosciute; stato della costruzione: buona; responsabile della gestione: introvabile. Né vi era traccia di medicinali, capezzali, moribondi, bende e fasce e quanto necessario per sedare febbre, sete e fame. Decisero di fare un giro più accurato. Al piano superiore trovarono alcuni affreschi recenti e la sensazione di un silenzio che perdurava da tempo. Il piano inferiore era decisamente più accogliente: il camino non era acceso, ma la legna vicino era invitante. All’esterno un secchio pieno d’acqua era collocato al sole. Sembrava fosse stato posto di recente, perché era colmo fino all’orlo: l’acqua non era evaporata. Se qualcuno aveva abbandonato il Monastero in fretta e furia, forse non avrebbe avuto il tempo di portare con sé il danaro o altre cose di valore. D’altronde ne avrebbero dovuto fare l’inventario, prima che ci avesse pensato qualcun altro. Con quella finta intenzione presero a frugare i cassetti, i pochi armadi, i mobili della dispensa, le cavità naturali o predisposte tra i sassi senza risultato. Poi si precipitarono nella cappella, dirigendosi all’istante all’altare, dove sapevano essere custoditi l’ostensorio e altri oggetti preziosi e sacri per la celebrazione della Messa, ma anche quella e la stanza della sacrestia erano già state spogliate di tutto. In un baule trovarono alcune stoffe marce e delle assi sconnesse, più affidabili per il passaggio dei topi che per il deposito di qualche tesoro. Dopo un primo momento di delusione, uno dei due fece una gran risata e disse all’altro: «È meglio che addentiamo quanto è rimasto, prima che lo facciano loro» alludendo al rumore distinto che si sentiva sotto l’assito. «Giusto!» commentò l’altro. Scesero nella dispensa. Vi trovarono del formaggio, delle uova e delle olive. Dopo un po’ che masticavano, gareggiando a sputare i noccioli delle olive il più lontano possibile, l’altro disse con un sorriso sdentato: «Anche il tuo stomaco ama gli animali quanto me?» Si precipitarono nel pollaio, che s’intravedeva tra i fusti e l’erba alta dello spiazzo antistante. Le galline, ignare, saltellavano e chiocciavano. Tirarono a sorte per dividersi i compiti: uno le avrebbe tirato il collo e spennata, l’altro si sarebbe occupato del fuoco, affinché la rosolatura avvenisse secondo regola. Quando la cena fu pronta, si coricarono presso il fuoco, brontolando


19 l’assenza di vino e dissetandosi con l’acqua gelata del secchio. L’indomani mattina avrebbero perlustrato i dintorni del Monastero, sperando di trovare qualche lebbroso.


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5. LA FUGA

Estrella accarezzò il muso del cavallo per impedirgli di dare sfogo al nervosismo, depositò la sacca sulla groppa e partì al galoppo, appiattendosi sul dorso. I capelli neri le ricadevano sulle spalle e, in quel frangente, non avrebbe voluto che qualcuno capisse che era una donna, tanto più che, senza bende, non aveva nemmeno l’arma della malattia. Superata la prima fila di ulivi respirò di sollievo. Nessuno la stava rincorrendo, né grida incitavano altri cavalli al galoppo. Si voltò per un attimo a guardare quei pezzi di muro che erano stati per un periodo la sua casa. In una stretta d’angoscia rivide il pozzo, il camino, l’orto e gli animali che avevano condiviso con lei quel periodo di eremitaggio. A volte era necessario imboccare vicoli al posto di vie, addentrarsi in greti secchi, piuttosto che seguire l’impeto della corrente dei fiumi. Aveva abbracciato volentieri un eremo vuoto, facendone la propria culla al riparo dal mondo, ma ora che le condizioni erano mutate, e non per sua volontà, doveva intraprendere un’altra direzione, per la propria salvezza. Scese a valle, lasciando respirare la distanza tra lei e il Monastero. Nuove immagini riempirono i suoi occhi, cancellando le vecchie e una brezza frizzante entrò nel suo organismo, ossigenandola. I ricordi della civiltà affioravano alla mente, nel turbinio di colori delle città di mare che aveva visitato. Si diresse verso una macchia d’alberi sopra a un’altura, delle capre pascolavano lì vicino ma nessun pastore sembrava sorvegliarle. Strinse le redini attorno a un ramo nodoso e scese da cavallo. Tra breve avrebbe dovuto affrontare la vita cittadina e doveva prepararsi. Rimase qualche minuto assorta a pensare. Avrebbe dovuto evitare i posti in cui era già stata, perché certamente sarebbero stati sorvegliati. Non poteva quindi andare nemmeno al Convento de la Conception, anche se sapeva che la Madre Superiora sarebbe stata felice di offrirle ospitalità. Si chiese cosa ne fosse stato della residenza di Burgos, dopo la morte di Hernandez. Non sapeva se il suo ex padrone avesse avuto parenti, eredi o affetti. Avrebbe dovuto contattare Padre Miguel, unica persona fidata e informata. Ma se nella lettera di Hernandez la villa non era stata citata, significava o che non era più in suo possesso, o che doveva tenersene


21 alla larga. Il problema ora era come arrivare a Burgos, se fosse valsa la pena di affrontare un viaggio così lungo e, infine, se fosse stato prudente rifarsi viva in una città nella quale avrebbe potuto essere riconosciuta. Aveva con sé ancora qualche moneta. Forse le sarebbe servita per iniziare una vita nuova in qualche località sconosciuta, ma avrebbe dovuto abbandonare il ruolo della lebbrosa. Come avrebbe fatto ad avviare una qualche attività con il retaggio di quella malattia? E senza quel travestimento non era difficile incontrare casualmente qualcuno che avrebbe potuto riconoscerla. Ora che conosceva il segreto di Hernandez, poteva immaginare che la inseguissero per quello. Si sforzò di pensare. Quando dalla residenza di Burgos si era rifugiata nel convento di Toledo, il Vicario voleva interrogarla sulla morte dello scultore. Altre morti si erano intrecciate ai passi suoi e del suo padrone, troppo misteriose per non pensare che facessero parte di un piano preordinato. Forse il Vicario non voleva solo interrogarla. Forse voleva ottenere qualcosa da lei. Magari il tesoro di Hernandez? Dal momento che era stato sepolto nel Monastero e non desiderava servirsene, avrebbe potuto andare dal Vicario a consegnarlo e sarebbe stata salva se… se anche l’Inquisizione non la stesse cercando per motivi altrettanto oscuri. Chi aveva fatto la spia? Il Vicario? Aveva nemici di cui non sapeva? E qual era il fine ultimo di quella persecuzione? Guardò diritto davanti a sé. Dall’altura in cui si trovava, la montagna disegnava sentieri e avvallamenti, ma a un certo punto il terreno diventava piano, striato da un filo azzurrognolo appena percettibile. Doveva scendere verso il fiume e abbeverare il cavallo che aveva gradito quella sosta e ora brucava in tranquillità la rada erba ingiallita. La primavera sarebbe giunta a breve, ma intanto il freddo pungeva ed Estrella non voleva che la notte la cogliesse all’addiaccio. Slegò il cavallo e scese la valle al passo, perché il terreno era accidentato. Ogni tanto qualche pietra rotolava sul declivio, e gli zoccoli dell’animale erano messi a dura prova dal ghiaino e dalle buche dei sentieri appena accennati. Dopo qualche ora furono nei pressi del torrente. Lì l’erba era più verde e la trasparenza dell’acqua rimbalzava tra i sassi. Estrella guardò l’orizzonte. In piano era più difficile orientarsi ma aveva visto il sole affacciarsi per un attimo prima di sparire tra le nuvole. Se si fosse diretta a destra, sarebbe arrivata nella città di Ubeda. Forse nei pressi dell’abitato ci sarebbe stato un fienile, o una stalla, o un rudere disabitato nel quale passare la notte.


22 La luce sparì velocemente. Estrella, che camminava agevolmente al buio, temeva più per l’incolumità del cavallo che per la propria. Finalmente un gruppo di case, alternate a baracche, emerse dall’ombra, annunciate dal latrato di un cane. Estrella non aveva nessuna intenzione di legare il cavallo a un albero, con il rischio che venisse rubato, perciò s’intrufolò tra gli stretti pertugi fiancheggiati da muri, cercando un giaciglio di paglia coperto, e contando sulle usanze della vita contadina che vedeva gli uomini coricarsi presto. Anche se in inverno la terra richiedeva meno lavoro, molti erano allevatori e si alzavano prima che sorgesse il giorno. Dovevano sfamare le bestie, foraggiare le stalle, portarle in pascoli sempre più lontani, nei quali l’erba non era stata ancora assaggiata. Si sistemò sotto un porticato in pietra, chiuso lungo i lati da assi di legno a una delle quali legò il cavallo, e sprofondò addosso a una montagna di fieno, riparata dalle punture di freddo che le torturavano le ossa e dalle ondate di vento che si smembravano contro la palizzata di protezione. In un’incosciente e imprevista felicità, sognava Ubeda: la città di cui aveva sentito parlare nel Monastero di Santa Chiara, ricca di arte e di artisti, forse non abbastanza grande per lei da passare inosservata, ma abbastanza piacevole da meritare una tappa. Le città sorgevano intorno alle Cattedrali o ai Castelli o a entrambe, a indicare che esisteva un potere divino e uno umano, quasi mai slegati tra loro. Così come gli astri governavano la natura e davano la segnatura alle piante, indicando al contempo le loro proprietà benefiche sull’uomo e sugli animali e potenziandone gli effetti a quanti li sapevano interpretare e conoscevano i segreti dell’essenza divina in esse racchiuse, allo stesso modo l’uomo, fatto a somiglianza di Dio, assecondava la propria natura mortale e divina, non sempre in equilibrio nella volontà del giusto, non sempre disponibile nella lettura dell’anima, usando il proprio potere per assoggettare i più deboli, costruendo le fortezze per difenderlo, regnando in terra come Dio in cielo. Chi dimenticava che la divinità nelle cose si manifestava nel numero tre: corpo, anima e spirito, e ne perdeva la ricetta, tendeva a soggiogarne gli elementi neutralizzandone il valore. Chi amministrava la Cattedrale avrebbe voluto amministrare anche il Castello e viceversa, come se la supremazia di una parte sulle altre avesse portato maggiore conoscenza, finalizzando meglio il senso della vita. Tanto amava la struttura, l’imponenza della pietra, la solidità della fortificazione, il lavoro accurato artigianale degli scultori e degli architetti, la ricerca della forma e della proporzione nelle statue, la


23 vivacità dei colori degli affreschi, la snellezza di certe torri, la ricercatezza dei pinnacoli, la complessità delle scene sacre rappresentate nei portali, l’accurata scelta dei materiali per rendere la lucentezza o la trasparenza, l’armonia o la magnificenza, tanto disprezzava chi col danaro impartiva ordini e con la stessa determinazione poteva decidere della costruzione di una nuova cappella o del taglio della testa dell’artista che l’aveva creata. Si assopì con la tecnica della dissoluzione delle immagini e dei pensieri, che aveva imparato nel lungo tempo di solitudine, per scacciare il sibilo del vento. Nel cuore della notte fu svegliata da uno scricchiolio simile a un rumore di passi proveniente dall’esterno. Istintivamente si diresse verso il cavallo e gli accarezzo il muso, protettiva, per evitare che s’innervosisse e tradisse la sua presenza. Sperò che i passi si allontanassero e così fu, ma era il segnale che era tempo di riprendere la strada. Se il cavallo si era saziato, il suo stomaco rivendicava un pasto con l’urgenza dell’urlo di un bambino. Sperò che Ubeda, la città dei pittori e degli scultori, fosse lì ad aspettarla dietro la svolta della prima curva, ma la notte nera non le permetteva di mettere ancora a fuoco i segni inequivocabili della vita cittadina.


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6. UBEDA

Finalmente arrivò. Le sagome delle case emersero nella tarda mattina, in un tempo incerto e uggioso fatto di nebbia, che si diradava man mano che Estrella procedeva tra le strette file di case. Ubeda era meglio di quanto immaginasse. Le vie erano pulite, con case in pietra ordinate, dalle quali si deduceva uno stile di vita sobrio, ma non povero. Doveva essere un luogo in cui i contadini, provenienti dal circondario, si incontravano con gli artigiani. Ne ebbe conferma penetrando al suo interno. Fabbri, falegnami, calzolai, vetrai, conciatori, maniscalchi, venditori di pietre, provenienti dalle montagne vicine, abitavano le vie principali. I negozi si spalancavano sulla veduta sottostante: un declinare di ulivi verso valle che osservò dallo slargo prospiciente un dirupo. Sotto serpeggiava una striscia lucente. Estrella si rituffò nella città, lasciandosi guidare dal profumo del pane appena sfornato, misto all’odore selvatico di una mandria di capre che stanziava nella via. Il pastore, lì di passaggio, si era fermato per chiedere informazioni sulla vendita della lana. Il suo carro, colmo di riccioli di pecora, occupava parte dell’acciottolato ed Estrella passò di lato col cavallo. Entrò dal panettiere, che la osservò curioso, e dopo aver acquistato del pane, lo addentò. Nella via molti erano fermi a contrattare. Alcuni ragazzetti sbucavano all’improvviso per rincorrersi. Estrella pensò alla sua infanzia, agli schizzi nella fontana, alla sua vivacità redarguita dalle comari, al suo canto irrefrenabile che infastidiva tutti, ai colori del mercato di Leon, e a quando immaginava si sarebbe sposata con un pittore, o avrebbe posato per lui. La sua immaginazione si era avverata solo a metà: non si era sposata ma aveva posato per Inigo e si erano amati nella casa di Sara. Represse un’incrinatura interna che assomigliava molto al desiderio di piangere. Ora era sola, anche se forse a Leon viveva ancora la sua famiglia. La sua vera famiglia, per un tratto di vita, era stato Diego Hernandez, ma era stato ucciso. Forse lei avrebbe fatto la sua stessa fine. Si avviò verso il centro della città, un complesso di costruzioni spiccava


25 per la compattezza del colore della pietra, diversa da quelle delle circostanti abitazioni. Il campanile della Chiesa di Santa Maria, di cui aveva già sentito parlare, si ergeva su tutto: un invito alla preghiera verso Dio, affiancato da altri muri che racchiudevano spazi che Estrella avrebbe voluto visitare. Sperava di percepirne l’animo, di comprendere il messaggio che quel luogo voleva inviarle, ma soprattutto era curiosa di ammirarne lo splendore e di vedere gli artigiani al lavoro. Le piaceva la fase dell’esecuzione del progetto, quando l’opera giorno per giorno prendeva forma e cominciavano a delinearsi le intenzioni dell’artista. Intorno al campanile capannelli di frati si intrattenevano in conversazione, altri uscivano dalla chiesa in quel momento ed Estrella indovinò si fosse appena celebrata qualche funzione religiosa. Poco oltre, seduti su un muretto, due giovani vestiti in mantello e calzamaglia parlottavano animatamente. Dalle loro inconfondibili sacche, Estrella comprese che stessero lavorando a qualche progetto d’innovazione interna. Aveva sentito nel Monastero di Santa Chiara, durante una delle sue visite, dei pellegrini che menzionavano certi lavori all’interno del Chiostro, per i quali erano stati mobilitati diversi scultori. La sua recondita speranza, che non voleva confessare nemmeno a se stessa, era quella di ritrovare tra gli artisti Inigo Consalves. Sarebbe stata un’opportunità insperata e la parziale soluzione ai suoi guai. La via che portava alla Chiesa di Santa Maria finiva in un piazzale delimitato da un muretto alto circa un metro, tranne che per un tratto sulla destra dal quale scendeva verso la vallata. Un gruppo di faggi manteneva saldo il terreno in una roccaforte quadrata, attorno alla quale la terra si sgretolava verso valle. Estrella legò il cavallo a un albero e si sporse a guardare più sotto. Il corso del fiume tagliava l’orizzonte in modo irregolare, sbriciolando l’immagine dei sassi. Intorno, le colline s’intrecciavano alle valli e più in alto le incisioni delle montagne mettevano a nudo le tinte ocra delle terre. La colse uno struggente desiderio di dipingere. Intanto una pioggia sottile cominciò a cancellare la nitidezza dei colori, e con essa la nostalgia dei tempi andati. Si affrettò verso il portale della chiesa, apprezzandone la composta eleganza, così lontana dalla grandiosità delle Cattedrali di Burgos e di Leon. La chiesa dava nel chiostro, lo capì subito dalla porta secondaria spalancata, e dall’andirivieni di uomini affaccendati, dalle loro mani sporche e dai materiali che introducevano. Estrella non sapeva se le donne fossero ammesse a presenziare ai lavori,


26 così si fermò ai primi banchi della chiesa, in una posizione tale da poter osservare gli argani posizionati contro le colonne del chiostro, in grado di sollevare diversi blocchi di pietra. Si stavano ampliando le Cappelle laterali, così come aveva sentito dire nel Monastero di Santa Chiara. Per entrare nel cantiere dei lavori ci sarebbe voluta una buona motivazione. Quando varcò la soglia, una decina di uomini stava allineando le pietre, secondo l’ordine impartito da un uomo più anziano. Uno sguardo veloce fu sufficiente per comprendere che Inigo non si trovava tra loro. Il capomastro si avvicinò accigliato. La squadrò senza proferir parola, poi si allontanò continuando a impartire ordini mentre i manovali la guardavano stupiti, domandandosi se quella donna fosse parente di qualcuno di loro. Visto che non portava vettovaglie per nessuno e non aveva una grave ambasciata da fare, la sua presenza lì era piuttosto inspiegabile. Estrella comprese che i visitatori non erano graditi. Si fece forza e si diresse verso il capomastro. «Vi sono altri che lavorano qui?» chiese con autorevolezza. Il capomastro sputò sul pavimento e disse: «Altri chi?» «So che le Cappelle saranno decorate, quindi… pittori e scultori» rispose lei. «Cercate qualcuno o volete sapere del lavoro? E per conto di chi?» chiese diffidente il Capomastro. Estrella, presa alla sprovvista, rispose la prima cosa che le venne in mente: «Per conto del Priore del Monastero di Santa Chiara.» Al Capomastro non era molto chiaro chi fosse questo Priore, né le relazioni d’autorità tra le cariche ecclesiastiche, abituato a eseguire i lavori che gli venivano affidati da qualunque parte provenisse il danaro che avrebbe ricevuto in cambio, quindi si ammorbidì e spiegò a Estrella che per quel che lui sapeva il responsabile del progetto era alle dipendenze di don Francisco del Los Cobos e faceva di nome Andrès Vandelvira. Estrella gli chiese dove avrebbe potuto trovarlo e l’uomo indicò una direzione sul lato est del Chiostro, verso un gruppo di case seminascoste dalla roccia. «Quando contate di finire la muratura?» chiese ancora la donna. Il Capomastro la squadrò nuovamente, perplesso. Era ben strano che la chiesa si avvalesse di una donna per conoscere lo stato di avanzamento dei lavori. Estrella, indovinando i suoi pensieri e pensando di potersene approfittare, disse: «Sono un’artigiana. So affrescare e mi interessa vedere la tecnica che


27 usate per stendere il colore.» Fece una pausa per permettere all’uomo di realizzare il significato delle sue parole, poi aggiunse: «Sono stata allieva di Inigo Consalves. Sapete se lavora qui?» Il capomastro negò, ma chiese con meraviglia se qualcuno conoscesse l’artista di nome o di fatto, senza ottenere alcuna risposta. Estrella si congedò ringraziando, e uscì mentre tutti gli sguardi erano puntati su lei. Non avrebbe potuto trovare un modo più clamoroso per annunciarsi. Sciolto il cavallo, ridiscese per un viottolo sassoso per guadagnare il versante del monte che guardava a est, laddove il capomastro aveva detto avrebbe trovato l’architetto. La pioggerella appena caduta rendeva scivoloso il percorso, ed Estrella cambiò d’un tratto idea e con essa la direzione. Non poteva permettere a se stessa o al cavallo di scivolare. Sarebbe stato più saggio aspettare il giorno successivo o quando il tempo si fosse rimesso al meglio. Intanto doveva trovare un alloggio e sperava di non dovere dare fondo alle poche monete rimaste. Forse se avesse chiesto ospitalità in qualche stalla gliel’avrebbero concessa senza chiederle nulla in cambio. Normalmente i pellegrini venivano ben trattati, ma una donna sola poteva destare qualche diffidenza. Doveva pensare a una versione credibile sulla sua vita trascorsa, tale da non crearle maggiori difficoltà di quante già dovesse affrontare. Avrebbe potuto inventarsi un marito da raggiungere, i due figli che aveva avuto da lui erano stati affidati a una sorella a Toledo, per permetterle di affrontare il viaggio… stava terminando le risorse economiche che lui le aveva lasciato… era partito per ragioni di lavoro e ovviamente era un bravo artigiano, solo così avrebbe potuto girare negli ambienti che più le interessavano e cercare contemporaneamente Inigo senza destare meraviglia. Era meglio non fare il suo nome, né mescolarlo alle proprie vicissitudini, per non comprometterlo, dato che non sapeva la vita che attualmente conduceva, né se avesse famiglia. Dopo l’interruzione della loro corrispondenza, il filo invisibile che li legava sembrava essersi spezzato. Nemmeno l’intima comunicazione con gli astri, che Estrella coltivava, le era stata d’aiuto. Eppure non poteva pensare che Inigo fosse morto, né che si fosse dissolto nel nulla, né che potesse essere prigioniero contro la propria volontà, o al confino per opera del maligno. Agli spiriti liberi quella sorte veniva risparmiata. Più facilmente subivano una trasformazione alchemica, elevandosi a uno stadio superiore, a meno che la terra non l’avesse trattenuto in faccende più pratiche: una moglie, una famiglia da sostentare, un tempo d’attesa più


28 lungo, prima del compimento della volontà dello spirito. Si rese conto d’un tratto di avere cancellato dalla mente l’esistenza del maligno che ordisce contro il destino degli uomini. Il Vicario stava sbiadendo nella sua memoria, così come le sue prigioni, quelle imposte dell’Inquisizione, con gli interrogatori subdoli e le catene che le soggiogavano il corpo e le altre cercate nel Monastero abbandonato. Animata da una nuova fiducia, dopo anni di silenzio, la sua voce usciva libera, concatenando parole e formulando frasi di senso compiuto. Le bende, le fasciature, il travestimento da lebbrosa, che per tanto tempo l’avevano relegata in un punto della montagna, lontana dagli sguardi altrui, vicina al linguaggio delle stelle, protetta dalla curiosità della gente, nascosta ai potenti della chiesa, si erano dissolti come fantasmi alla luce del giorno. Eppure non aveva paura. Intorno sentiva respirare solo le creature della natura. Le piccole piantine bagnate bevevano e la osservavano, allungando le minuscole spore verso lei, partecipando alla sua libertà ritrovata. Ripassò davanti al muro perimetrale del Chiostro. Le campane del campanile presero a suonare. Indovinò i frati fluire alla funzione, prima della consumazione del pasto, mentre la piazza si impregnava del caratteristico profumo della zuppa di cavolo. Vi era movimento in città. Qualche carro scaricava sacchi di provviste e le donne uscivano dalle case, nonostante il freddo, per aiutare gli uomini, salutandosi con una vena allegra nella voce. Qualche ragazzetto sbucava dalle gonne della madre e si rincorreva tra i ciottoli della via schiamazzando. Vi era un non so che d’indulgente negli occhi dei padri, da far pensare a Estrella che, o quella cittadina fosse particolarmente tranquilla, o che andasse incontro a un periodo prospero che induceva tutti al buonumore. Estrella riandò alla memoria a Leon, quando, bambina, con gli zoccoletti ai piedi e la lunga veste correva tra i vicoli, a caccia di gatti, ascoltando l’assordante canto delle cicale. Dalle finestre aperte gli odori si mescolavano, senza rispettare le divisioni tra religioni, razze e costumi. Il cavolo e la cipolla dovevano lasciare posto alle correnti di peperoncino e di zenzero, l’odore della cucina ebrea si mescolava a quello della gente semplice, che tornava dagli orti con la verdura fresca, profumata di basilico, mentre poco oltre, l’aroma della selvaggina rosolata nel vino, tradiva origini più sofisticate e famiglie più abbienti. Sua madre in primavera raccoglieva radici e insalata selvatica, o cercava il tarassaco e la cicoria, ma per le origini ebree della famiglia, lo faceva di nascosto, stando attenta a non farsi vedere, per non venire accusata di stregoneria. Si era un attimo fermata sotto una quercia al lato della piazza, a ridosso


29 delle case, prudentemente lontana dalla scala esterna di una di queste che doveva condurre alla cucina. Anche se la prima impressione di Ubeda era stata rassicurante, non poteva evitare di pensare che tutto ciò che sembrasse troppo a portata di mano nascondesse un tranello, così vinse il desiderio di salire la scala dell’abitazione per conoscere la famiglia e chiedere asilo. Mentre fantasticava su questa evenienza, dal lato opposto della piazza una coppia di monaci si dirigeva verso il chiostro con passo sbrigativo, richiamati dal tocco delle campane, brandendo una cesta di verdura. Per un attimo uno dei due si fermò e sollevò il cappuccio, tergendosi la fronte e guardando nella sua direzione. I suoi occhi chiari e i capelli rossicci le ricordarono Inigo. Sentì un tuffo al cuore prima di capire con la ragione l’assurdità di quell’ipotesi. «Perché i dotti, gli studiosi, gli speziali, gli astronomi, gli inventori provengono più dai conventi che dall’ufficialità delle Università? La risposta è semplice: la vita che conduciamo ci porta alla meditazione, alla contemplazione e all’inevitabile osservazione dell’affresco divino, così meravigliosamente disegnato da Dio che si chiama creato» stava dicendo il Frate dai capelli rossi «la natura si dispiega nei propri segreti agli occhi attenti e partecipi di chi, non colto dalla fretta di racimolare danaro, non sedotto da falsi miraggi di altri obiettivi, vuole indagare la bellezza della vita e il suo divenire, analizzando gli eventi maligni a essa contrari, potenziando gli effetti benefici che l’arricchiscono, imitando quella naturale inclinazione di rigoglio e bellezza per elevarsi nello spirito e nella pienezza.» L’altro Frate annuiva, ma si vedeva chiaramente che gli faceva fretta, allungando il passo e forse tollerando per educazione i suoi discorsi. Così Estrella, vincendo il connaturato timore verso gli uomini di chiesa, decise di rompere il muro e di affiancare la propria energia a chi indovinava essere uno spirito puro. Si affrettò verso il Frate. «Scusate, Padre» gli toccò leggermente il saio «sono appena arrivata in città e viaggio sola. Sapete indicarmi un luogo nel quale possa riparare senza incorrere in pericolo?» Il Frate si fermò, la guardò e parve interrogare un attimo la sua anima, poi rispose: «Il pericolo a cui alludi è materiale o spirituale?» sorrise enigmatico, e prima che Estrella potesse rispondere, continuò: «in entrambi i casi penso ti sarebbe di conforto recarti presso il Convento delle Madri della Misericordia, che troverai costeggiando la strada, dall’altro lato, sempre che vi siano ancora posti disponibili… e non mancare di salutarmi Suor


30 Teresa, che riconoscerai subito e che non appena le farai il mio nome, Frate Cesare, ti accoglierà bene se potrà.» Detto questo le sorrise, e allungò il passo verso il compagno che in quel mentre stava già varcando l’ingresso del giardino.


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7. IL CONVENTO DELLE MADRI DELLA MISERICORDIA

Le strade di Ubeda erano sgombre dai giovinastri che ricordava riunirsi sfaticati nelle città di mare che ben conosceva. Là, non appena una via si allargava a imbuto, quel tanto che bastava a un invito di compagnia, fosse una piazzola, un banchetto o un carro generoso di spirito d’uva o di sambuco e di altre miscellanee che più che essere gradite alla sete lo erano al divertimento, gli uomini correvano a fiotti, giovani o vecchi, per raccontarsi le ultime novità e tirare tardi. Alla fine del sopralluogo, i pochi luoghi d’incontro al coperto di Ubeda le erano parsi: una terrazza contornata da un’ampia scalinata, sovrastata da una tettoia e capace di contenere qualche decina di persone, al momento teatro di gioco di un paio di ragazzini scalzi ma sufficientemente bardati per il freddo, e un locale semibuio, preceduto da qualche sedia all’ingresso e nominato con un’insegna in ferro “Siesta”. A un’occhiata penetrante di Estrella, alcune ombre risposero al suo interno. Uomini sorseggiavano qualcosa lungo un tavolo rettangolare, senza prestare attenzione a quelli che occasionalmente passavano oltre la porta. Continuando l’acciottolato in discesa, Estrella si trovò a valle. Qui la città pareva terminare nelle distese terrose coltivate, distinte dal bosco selvatico che le attorniava. Era lieta della scoperta, i boschi selvatici erano ricchi di piante. A quella media altezza e in quella stagione avrebbe trovato pungitopo, cardi ed equiseti, se fosse stata attenta alla direzione delle acque: un territorio nuovo da esplorare. Se fosse rimasta lì sufficientemente a lungo per osservare il procedere delle stagioni, avrebbe potuto fare incetta di tutte le piante necessarie, più di quante ne avesse catalogate nel Monastero dal quale proveniva. Avrebbe raccolto la melissa, la menta, l’iperico, il convolvolo, l’edera, l’achillea, l’assenzio, la lavanda e poi sarebbe passata alla perlustrazione delle piante: il biancospino, il sambuco, la rosa canina, la betulla, il pino, il nocciolo. Avrebbe potuto dividere le foglie dai frutti, i fiori dalle radici e, o essiccandoli, o macerandoli, estrarne come da tempo non faceva le proprietà essenziali. Ma questo se si fosse fermata un tempo sufficientemente lungo per fare in modo che la luna e gli astri


32 accompagnassero il suo lavoro, così come indicato dai preziosi insegnamenti di Padre Pedro, nel Convento delle Clarisse e dei suoi preziosi libri, ricchi di annotazioni e ricerche. Sorrise stupita di quel lontano ricordo: apparteneva a un’altra vita così come Padre Pedro, dopo il suo omicidio, apparteneva alla vita celeste. Padre Pedro era stato un ottimo speziale e un eccelso insegnante. Seppure poco incline a rivelare i misteri che accomunano il moto del cielo e le trasformazioni della terra, le aveva trasmesso integro il suo testamento spirituale: l’indissolubile legame tra la terra e il firmamento. Ora sapeva di essere sfuggita all’Inquisizione grazie a un compito assegnatole da Dio, passando per mano di Padre Pedro e quanti in vita aveva conosciuto, perché nulla avveniva per caso in terra come in cielo, “sotto come sopra”. Rifece a ritroso il cammino, imboccando la parallela in salita. Le vie si dipanavano tenendo il Chiostro sulla sommità al centro. Forse apparteneva a un Castello un tempo. Il vento doveva avere sgretolato le ultime pietre rimaste, le cui tracce erano ancora visibili sul declivio del monte, laddove la pietra cambiava colore e s’ingrigiva in macchie. Un altro castello era visibile e pressoché intatto sulla collina adiacente. Lungo le pendici vi era quel gruppo di case che avrebbe raggiunto quel giorno se il terreno non fosse stato sdruccioloso, il cavallo stanco e lei arrendevole nella nuova veste di pellegrina. Era tempo di andare a bussare alle Madri della Misericordia e di reintegrare, sperava, la colazione, seppur abbondante, del mattino che ormai aveva lasciato un vuoto nel suo stomaco. Il convento era seminascosto da una muraglia esterna. Oltre, il muro era mimetizzato da sempreverdi secolari. Estrella girò il fianco in cerca di un’apertura. Si chiedeva se le suore non vivessero in clausura e se l’accesso a quella fortezza non fosse che un miraggio per gli occasionali visitatori, quando l’edera a un certo punto parve spezzarsi, lasciando intravvedere una griglia rettangolare poco più grande di un viso. Cercò il modo di farsi annunciare e lo trovò. Aspettò, mentre le nuvole grigie ammassate non lasciavano presagire nulla di buono. Il sordo rumore di un tuono innervosì il cavallo, che riuscì a trattenere a fatica. La suora portinaia arrivò con il mazzo di chiavi in mano, un attimo prima che una fitta pioggia rinverdisse l’altopiano. Estrella chiese di Suor Teresa e menzionò Frate Cesare. La suora aprì e le fece strada fin sotto la tettoia prospiciente l’ingresso, mentre le prime gocce toccavano il suolo. Legò il cavallo come meglio poté e si avviò lungo i lucidi corridoi percorsi da Suor Concetta, come ebbe modo di sapere poi. Dal refettorio


33 giungeva l’odore di zuppa di patate e di pane sfornato. Dovette attendere un po’ prima di incontrare Suor Teresa. Estrella pensava a una madre Superiora avanti in età. Sperava fosse grassoccia e cordiale, poiché si sapeva che le persone robuste avevano la gaiezza della fanciullezza, invece fu colpita dalla sua compostezza. Con un sorriso infantile in un viso non più giovane, l’accolse e le chiese per quanto si sarebbe fermata. Era una domanda cui non aveva pensato e rispose con prudenza: «Sono solo di passaggio.» «Tutti siamo di passaggio» commentò Suor Teresa. In quel momento venne aperto il portone centrale, per far passare i forestieri che giornalmente si recavano al convento. Una ventina di persone entrò con evidente appetito e il corpo segnato da altri malesseri. Estrella guardò Suor Teresa e le chiese: «Chi li cura?» «Noi badiamo a che il corpo sia nutrito e si possa meglio difendere. Alle cure spirituali ci pensa Dio.» «E a quelle mediche?» chiese Estrella interessata. «Non ci sono medici a Ubeda, a parte il veterinario che sta nell’altro versante del monte, oltre a Frate…» sospirò pensierosa la madre. Si vedeva che avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro, ma tacque senza concludere la frase. Anche Estrella non disse nulla, ma pensò di avere con sé una mercanzia utile e preziosa: la propria conoscenza in fatto di erbe e malanni. Forse il Cielo l’aveva mandata lì per rendersi utile e aspettava un nuovo segno per manifestarsi. Dormì in una stanza, insieme ad altre donne. La maggior parte era accompagnata da bambini, se si escludevano un paio di vecchie: una aveva problemi articolari e si lamentava che per via delle ossa non aveva più l’agilità di un tempo, l’altra l’ascoltava comprensiva a tratti, dato che la sordità la rendeva poco curiosa nello svolgersi della conversazione. Preferiva atteggiarsi a un’espressione di circostanza, per evitare di farsi ripetere i concetti e si stancava di leggere le labbra. Le donne più giovani avevano formato un cerchio e si raccontavano dei figli abbandonati in altre mani e di quelli che portavano con loro, più piccoli e più dipendenti. Una allattava e si lamentava della scarsità di latte e ciascuna suggeriva rimedi, frutto di esperienze o dicerie tramandate di generazione in generazione, come il mangiare il melograno appena colto o l’immergere nel latte delle mele mature lasciandole macerare fino a che il latte non venisse assorbito dai frutti,


34 ben coperte da un panno e lontano da occhi indiscreti, onde evitare che l’effetto benefico venisse trafugato da altri e andasse a beneficio di altre donne. Estrella sorrise tra sé: se avesse preso la Galega Officinalis detta volgarmente “capruggine”, avrebbe risolto il problema, ma non intendeva intervenire nella conversazione. Avrebbe dovuto spiegare come mai conosceva le erbe e i loro effetti, e destare sospetti. I bambini avevano fatto presto amicizia e giocherellavano sulle assi di legno in cerca di bestiole. Avevano trovato un nocciolo di pesca lì da chissà quanto e se lo lanciavano, contenti del nuovo gioco. Estrella se ne stava in disparte. Non era abituata alla compagnia e, naturalmente incline ai pensieri solitari, a fatica si sottoponeva alla moltitudine di voci che assorbivano il silenzio dell’ambiente. Sarebbe stata più motivata nel sapere le tradizioni di quel convento: la presenza di una scuola, le ore di studio e soprattutto l’esistenza di un archivio con una catalogazione di libri. Sarebbe stata una bella occupazione se si fosse fermata più del previsto. In fondo Ubeda le piaceva. La città le sembrava accogliente, estromessa dal mercato delle città più importanti che aveva conosciuto. Riandò col pensiero a Toledo, al caro convento che aveva abbandonato in tutta fretta, alla Badessa, ai frati che armeggiavano nell’orto e che raccoglievano la frutta, al vino nelle cantine che aveva tradito Simon Pedro, come poi si seppe, troppo ciarliero tanto da sciorinare i segreti di Padre Pedro e indurre qualcuno ad assassinarlo per impadronirsene; ripensò a Sara, all’amica del cuore che l’aveva ospitata nella sua villa di Cordova e che aveva condiviso con lei l’amicizia di Inigo che le aveva insegnato la bellezza dell’affresco e dell’amore; a Siviglia, dalla quale il suo ex padrone Hernandez, così generoso e sinceramente affezionato, le portava dei regali. Poi con Sara aveva visitato quella città, memore dell’antico fascino esercitato su di lei dai racconti di Hernandez, nei suoi ritorni, che le riportavano l’odore del mare misto a quello del mistero. E ora Ubeda era così diversa, così lontana dal movimento chiassoso di Siviglia, dal luccichio delle sete sotto il sole, ma soprattutto così silenziosa e protetta dall’ombra delle montagne: una buona mediazione tra la contemplazione e la comunicazione diretta allo spirito della gente. Sì, non sarebbe stata una cattiva idea fermarsi lì un po’ di tempo, avendone avuto il modo e soprattutto una qualche opportunità di lavoro, invece che mendicare il pasto e l’alloggio. Il giorno successivo si sarebbe potuta recare, se il tempo fosse stato migliore, dall’architetto sull’altro lato del monte. Ma era perplessa. Non vi erano donne di sua conoscenza che sapessero scolpire o dipingere. Probabilmente il progettista


35 avrebbe preferito la collaborazione di uomini, la cui forza poteva adattarsi anche ad altre fasi di lavoro, come spostare pietre, intagliarle, caricare pesi e montare colonne. Le voci nella stanza si erano smorzate. I bambini respiravano appena percettibilmente con la bocca aperta, riversi sul pavimento, poggiando la testa sul grembo materno. Il piccolo sfamato non vagiva più. Il buio aveva avuto la meglio sui mozziconi di carbone nel camino. Qualcuno ancora non dormiva e si rigirava in cerca di una posizione comoda. Dall’esterno arrivava l’odore della pioggia e l’umidità penetrava dalle fessure. Le braci grigie emanavano odore di cenere. Ancora qualche favilla sfrigolava verso l’alto, ricadendo per sempre. Il legno amico si era trasformato. La cenere preziosa sarebbe stata raccolta: una parte sarebbe servita come detergente in cucina, un’altra avrebbe concimato la terra. Estrella si abbandonò al sonno, senza ricorrere al trucco delle immagini guidate dalla mente, scivolando pian piano nell’incoscienza. Doveva essere un sonno leggero, perché dopo qualche tempo il rintocco di una campanella, seguito da un po’ di trambusto, la svegliò. Si guardò intorno spaventata, prima di realizzare dove fosse e perché. Poi si acquietò. I rumori provenienti dalle stanze adiacenti dovevano essere di normale amministrazione. In un convento anche il tempo della notte era scandito dalle funzioni. D’altronde, il principale compito degli uomini e delle donne di chiesa era quello di pregare. Gli umili pregavano più dei potenti, perché il tempo a propria disposizione era maggiore, quando non si era impegnati in attività che richiedevano cultura, studio e preparazione: una specializzazione che era riservata alle classi più facoltose e nella chiesa agli ordini superiori. Cercò di capire che ora fosse, dalla luce che penetrava dall’esterno. Le sembrò ancora luce lunare, quindi cambiò posizione e cercò di riaddormentarsi. Un tonfo la ridestò: un rumore ben strano nel cuore della notte in un convento. Che qualcuno avesse avuto un malore? Guardò la porta della stanza e considerò il percorso che avrebbe dovuto fare per uscirne. Avrebbe potuto raggiungerla saltellando tra i corpi distesi dormienti, col rischio di disturbare il sonno generale. Si chiese se fosse una buona idea andare a verificare ciò che succedeva oltre il muro. In fondo non era affare suo. Era lì in veste di ospite. Probabilmente non si desiderava che lei mettesse il naso in affari che non la riguardavano. Ascoltò ancora ma tutto giaceva nel silenzio, poi il sonno riprese il sopravvento. I rintocchi dell’alba la svegliarono definitivamente. La luce inondava i giacigli. Le altre donne erano in procinto di levarsi per la colazione,


36 attratte dal profumo, vero o immaginato, del pane appena sfornato. Non appena in cucina, la madre dispensiera si accertò che prima della colazione le mani fossero state lavate. Era una raccomandazione che veniva dall’alto, una norma preventiva contro le epidemie, in particolare la peste. Estrella, per questo, portava sempre con sé un olio specifico, da sé preparato, a base d’iperico e di tormentilla, con cui si cospargeva quando le pareva ci fosse rischio di contagio. Lo aveva imparato durante la collaborazione con Perez, sempre così preso dai propri malati e dalle ricerche di nuove medicine da trascurare la propria persona, e da dover sopperire alla mancanza di tempo con l’utilizzo benefico delle proprietà delle piante che gli servivano, a seconda delle necessità, da tonico, disinfettante, vulnerario. Prese posto accanto alle altre donne, in una posizione tale da non invitare al dialogo, ma in grado di osservare quanto accadeva intorno. Oltre alla madre dispensiera, un paio di suore collaboravano nella preparazione della mensa. Prima si servivano i pellegrini, poi le suore del convento che, finita la funzione mattutina, giungevano a gruppetti e prendevano posto nel tavolone centrale della stanza. Prima della consumazione della colazione, a turno, una Madre leggeva un breve salmo. Seguivano una preghiera di ringraziamento e un canto. Solo dopo il segno della croce, si poteva addentare quanto si trovava a portata di mano. Estrella passò in rassegna la cinquantina di visi sorridenti sotto il velo. Nella lucentezza dello sguardo si poteva dedurre che la maggior parte fosse giovane, con qualche desiderio di gioco non ancora sopito. Suor Teresa non era tra loro. Estrella si domandò dove mai fosse. Finita la colazione andò dalla Madre dispensiera a chiedere di lei. «Sarà qui a momenti» le rispose frettolosamente, mentre ciabattava tra le scodelle «c’è sempre un gran daffare!» mormorò tra sé. «Siete in tante?» chiese Estrella, tanto per avviare una conversazione. La suora la guardò sospettosa: «Mai come alla vigilia della festa» rispose secca. Estrella aspettò, poggiata contro la parete del corridoio che portava le suore alle cellette. Quando Suor Teresa arrivò, la trovò assorta nei propri pensieri. «Hai chiesto di me?» le chiese. «Sì, madre» si genuflesse leggermente Estrella «Frate Cesare mi lasciò sperare che ci fosse un posto per me qui, per qualche tempo.» Suor Teresa sospirò: «Accogliamo i pellegrini che arrivano, ma non li tratteniamo. Lasciamo che seguano la loro via naturale. Dovresti trovare


37 la tua, figliola.» Estrella abbassò la testa. Era vero. Qual era la strada giusta? «Tutte le stanze che abbiamo sono occupate dalle sorelle che hanno bisogno della solitudine in preghiera, quando sono libere dalle incombenze dei preparativi: la cucina, il ricamo, le pulizie e gli addobbi… non saprei proprio dove metterti» concluse Suor Teresa. «Per cosa vi state preparando?» chiese Estrella. Suor Teresa la guardò interrogativa. «Devi venire da lontano se non sai della festa di Santa Amelia che cade il cinque del mese di febbraio. Tra un po’ tutta la città e questo stesso convento sarà invaso dai forestieri e dai pellegrini. Come potremmo rifiutare loro l’accoglienza in una festa così, benedetta dallo stesso Cardinale?» commentò preoccupata Suor Teresa «comprendi, vero, come i nostri sforzi siano tesi al risultato migliore? Tanto più che se arrivasse, come si vocifera, Sua Signoria don Francesco de Los Cobos e ci trovasse impreparate, come faremo a perorare la causa di questo convento? E come se non bastasse, Suor Ippolita, in un momento simile, si ammala lasciando il coro in balìa di se stesso. Come cantare la liturgia? E come insegnare a queste giovani novizie, distratte e indisciplinate, il nuovo madrigale1 che ha composto per l’occasione?» continuò la madre, più riflettendo a voce alta con se stessa che chiedendo un consiglio a Estrella. «Non ci resta che pregare, figliola. Ecco: potresti andare in cappella intanto e pregare Nostro Signore affinché ci spiani la strada» concluse Suor Teresa, scuotendo la testa. «Ho preso lezioni di canto al Convento delle Clarisse di Toledo» si decise a confessare Estrella «non vi potrei essere utile?» Suor Teresa rimase perplessa e la osservò: «Come hai detto di chiamarti?» le chiese a bruciapelo. Estrella esitò: «Estrella.» «Tu nascondi in te molti segreti. Forse hai anche altre doti, ma non ami rivelarti e io diffido delle persone non sincere. Ne parlerò con Frate Cesare. Intanto per stanotte rimani. Ti permetterò di trascorrere il tuo tempo nella cappella a meditare, nelle ore libere dalle funzioni» rispose la suora, meditabonda. Estrella ringraziò, baciandole la mano, e Suor Teresa si avviò verso la propria stanza. Tanti impegni la esortavano all’operosità. Era rimasta 1

Composizione musicale o lirica, scritta per più voci, nato in Italia e diffuso in Francia e Spagna nel ‘500.


38 comunque sorpresa da quanto rivelato dalla donna. Il Convento delle Clarisse non dava certo lezioni di canto alle povere pellegrine senza fissa dimora. Si domandava quale torbido e probabilmente lussuoso passato avesse attraversato Estrella, prima di giungere in quel luogo. Forse valeva la pena trattenerla e scoprirlo. Si avviò lungo il corridoio superiore, lungo il quale si affacciavano le cellette delle novizie. Avrebbero preso i voti con l’arrivo della primavera. Le loro anime, così come i loro corpi, erano ancora fragili, incapaci di sopportare troppo a lungo il silenzio e le rinunce della carne, sacrificata nella strettezza degli abiti e nella scomodità degli inginocchiatoi, come la Regola imponeva. Erano animate dall’entusiasmo della gioventù che guardava avanti con ottimismo. Si erano presentate spesso accompagnate dalla raccomandazione del proprio parroco, che aveva valutato la maturità della loro scelta. Il mistero della vocazione faceva loro prediligere la castità e la vita di gruppo a quella matrimoniale, quando la vocazione era sincera, accanto alla cospicua rendita che ciascuna portava in dote; ma si sapeva che spesso si intendeva in quel modo sbarazzarsi di molte figlie nobili, per allontanarle dall’ambiente nativo per i più diversi motivi. Nel mucchio qualche pecorella era smarrita, lì ignara, o ancora dubbiosa, o trascinata da volontà altrui, cui era difficile opporsi. Sarebbero state necessarie tutta la delicatezza e la comprensione di cui fosse stata capace, nell’accompagnare quelle giovani vite per rendere loro piacevole, o almeno sopportabile, quel destino non scelto. Svoltò l’angolo e continuò per il corridoio successivo. Un’altra anima aveva urgente bisogno di venire compresa. Il malore dal quale era stata colta la notte aveva più di demoniaco che di terreno. L’aveva trovata a terra, pallida come una rosa bianca scossa da tremori senza febbre, mentre la bava fuoriusciva dalla bocca minacciando di soffocarla. Qualcuno l’aveva avvisata al rientro delle funzioni della mezzanotte, prima ancora di svestirsi e prendere posto nel suo letto. Aveva trovato la celletta di Suor Ignazia aperta. Tre madri accorse dalle celle vicine stavano cercando di bloccare il suo tremito, calmandola come meglio potevano. Ripensandoci ora, il comportamento di Suor Ignazia era stato strano negli ultimi giorni, più appartata del solito e inappetente. Ciononostante non avrebbe destato curiosità senza un inaspettato attacco come quello. Vi erano periodi nei quali le madri si sottoponevano, per penitenza, a diete più rigorose e a comportamenti che miravano a fortificare lo spirito. Ora Suor Ignazia, finalmente calma, dormiva, mentre una tazza di tisana


39 fumante era stata collocata sul suo tavolino. Una madre al suo capezzale aspettava il suo risveglio. Suor Teresa si affacciò, lanciò uno sguardo di complicità verso l’assistente della paziente, controllò che nella stanza tutto fosse in ordine e ritornò, sollevata, sui propri passi. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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