Sciacalli, Roulotte e Siriani, Francesco Danti

Page 1


In uscita il 2 /2/20 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine IHEEUDLR H LQL]LR PDU]R ( ,99 euro)

AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.


FRANCESCO DANTI

SCIACALLI ROULOTTE & SIRIANI

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/

SCIACALLI ROULOTTE & SIRIANI Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-529-5 Copertina: immagine proposta dall’Autore Prima edizione Febbraio 2022


“Meglio dormire libero in un letto scomodo che dormire prigioniero in un letto comodo”. Jack Kerouac



PRIMA PARTE



7

CAPITOLO 1

Mercoledì 28 giugno 2017 «G, ho appena ricevuto una chiamata.» Il vivavoce ad alto volume, amplifica lo stato d’agitazione della giovane Jasmine. “G” è Ettore Giraffa, seduto al lato del passeggero mentre mangia una brioche alla marmellata. È la sua colazione, ha le dita appiccicose ma è troppo garbato per leccarle. Ha una garza ingombrante sulla fronte; una ferita fresca che sanguina ancora: quel punto rosso su sfondo bianco sembra la bandiera giapponese. Simone Magno, la sua spalla destra, è alla guida. Ha gli occhi pesti e un grande cerotto a cavallo del naso. Si trovano dalle parti dello stadio, bloccati nel traffico a causa dell’attraversamento di una parata militare. «Cosa ti hanno detto?» chiede Ettore, infastidito dalla confettura collosa sui polpastrelli. «Era un uomo. Con una voce chiaramente contraffatta» continua Jasmine. «Italiano?» «Sì, così sembrava. Ho registrato la chiamata» conferma la segretaria con efficienza. Ettore e Simone si guardano, convinti d’essere arrivati a una svolta. La stampa non è a conoscenza del caso che stanno seguendo. Chi ha chiamato non può essere un mitomane pronto a saltare in una storia di cronaca nera. «Jasmine, per favore, dimmi le parole esatte che hai ascoltato.» «Smettete di cercare! Consorzio Agrario Cheliuskin. Dentro il silo.» Quel posto si trova alle pendici della montagna, perso in mezzo a qualche arbusto sempreverde. Dista tre chilometri da un piccolo centro abitato: centocinquanta anime, alle quali non interessa abitare vicino a scuole o supermercati. Si arriva a quella struttura da una strada bianca, ormai utilizzata solo da animali selvatici o dalla forestale. Ettore finisce di mordere con calma quello che resta della brioche, poi


8 impugna finalmente un fazzolettino di carta. «Fai subito inversione di marcia» dice a Simone, che non perde tempo. Indossano una mimetica. Piccola jeep quattro ruote motrici, luci di posizione accese, due panieri capienti completano il travestimento da cercatori di funghi. Ettore questa volta è preoccupato, sembra aver perso tutte le sicurezze. In effetti questo caso è il più complicato, importante e misterioso che sia stato chiamato a risolvere. Nessuno dei due parla, in macchina regna un silenzio surreale. Ettore vede scorrere la vallata dal finestrino, il fiume è secco e luccica di pietre. Ha accettato questo incarico assicurando un’assoluta riservatezza, quindi nessuno saprà mai se la “Giraffa” ha fatto cilecca, o scioglierà l’ennesima matassa. Arrivano nel piccolo centro abitato verso l’ora di pranzo, e mentre attraversano la strada principale, il borgo è vuoto. Le poche anime che ci abitano mettono la testa fuori di rado, intenti a godersi la pace di quei terratetti così diversi l’uno dall’altro. La strada si stringe e continua a salire in direzione del bosco, verso il piazzale dove l’autobus fa l’ultima fermata prima di girare e tornare in città. Simone Magno è nato in quella valle, conosce quei luoghi come le sue tasche, così decide di parcheggiare prima della strada bianca. «G andiamo a piedi sino al consorzio. Daremo meno nell’occhio.» Ovviamente armati, s’incamminano fischiettando. Mantengono un’allegra indifferenza, tipica di chi va per boschi. Parlano di centravanti, puttane e tasse senza perdere di vista il loro obiettivo, senza dimenticare cosa stanno cercando. A cento metri dal Cheliuskin, la vegetazione si apre e riescono a vedere il silo. È un deposito classico per cereali, in lamiera zincata, posto al centro di uno slargo. Il grande cancello che delimita la proprietà privata è spalancato. Camminano sempre più lentamente. Non molto distante, c’è un vecchio casolare con tapparelle e porte serrate. Il silo non è gigantesco, ma vicino a quell’abitazione sembra proteggerla come un padre con la figlia. La solitudine e il silenzio di quel luogo sono asfissianti, riducono la capacità di riflettere. Si avvicinano al silo, ed entrambi notano che l’ingresso è stato modificato: è molto più grande rispetto all’originale. Per terra ci sono


9 una grossa catena e un lucchetto luccicante, la porta è spalancata. «Ci siamo» dice sottovoce Simone, indicando quella serratura nuova. «Pronto a tutto» risponde Ettore, dopo aver armato la pistola. Simone oltrepassa quel portellone artigianale senza che dall’interno provenga alcun segno di vita. Ettore lo segue con cautela, impugnando la calibro ventidue con entrambe le mani. Si guardano attoniti. All’interno del silo c’è una piccola roulotte tre posti, un modello anni Settanta. È rugginosa, sgangherata, sporca, piena di polvere, le tendine della finestra sono chiuse. «C’è qualcuno?» grida Ettore, cercando di capire se quella sorta di abitazione ospiti umani. Gli sguardi persi dei due comunicano inquietudine, hanno il timore d’essere arrivati tardi. Simone attende istruzioni: spera non tocchi a lui entrare per primo in quella roulotte. Ha tre figli, un sacco di debiti, una moglie con le mani bucate, una suocera rompicoglioni che continua a chiamarlo “ciccione di merda”. In effetti è sovrappeso, e non bastano il suo nuovo taglio marines e la barba folta a nascondere le guance rotonde. Sino a tre anni fa lavorava come guardia giurata, poi l’incontro con Giraffa a un veglione di Capodanno e oggi si trova dentro un silo per cereali che somiglia a un campeggio. Simone non è un codardo, ma ha promesso ai figli una vacanza a Gardaland e quindi preferirebbe non sapere di chi è la piazzola. Ettore invece non ha un filo di grasso, in molti lo ammirano per come si approccia alla vita, per il carisma con cui racconta le storie fangose dalle quali è sempre uscito pulito. Ha i baffi alla Alberto Cova, che non ha più toccato da quando la sua seconda moglie gli ha detto: «Sei sexy così.» È biondo, la sua prima moglie è bionda, la sua seconda moglie è bionda, ha un Golden retriever che ha chiamato Biondo. Ha i demoni privati tipici del maschio alfa: ha paura che il suo biondo un giorno diventi bianco, o di arenarsi nella calvizie. A differenza di Simone non ha figli: adora i bambini ma quando sono degli altri. Quando si è congedato dall’Arma, ha immediatamente aperto l’agenzia investigativa, non può vivere senza dare la caccia ai cattivi. «Apri la porta e spostati. Entro io per primo. Coprimi» sussurra Ettore, pronto a fare irruzione nella roulotte.


10 La luce che proviene dalla grande porta del silo è sufficiente per sparare senza sbagliare, ma pensa non serva più. Il suo olfatto non mente, riconosce l’odore ferroso del sangue come un predatore carnivoro che si avvicina alla carcassa di un indifeso. Un effluvio simile a quello robusto delle monete, inconfondibile per un uomo della sua esperienza. La mano aperta di Ettore è a pochi centimetri dagli occhi di Simone. Le dita si nascondono nella mano una alla volta. Cinque, quattro, tre, due, uno: Simone tira un calcio alla porta. Una volta dentro, Ettore capisce d’essere davvero in ritardo. L’interno è messo peggio dell’esterno, il disordine si confonde con la puzza di marcio. Sul materasso sporco di sangue due cadaveri nudi sembrano abbracciarsi. Hanno entrambi un foro al centro della fronte. Non viveva più una situazione così cruda da quando era in divisa e dava la caccia all’Apicoltore, il serial killer che da più di vent’anni spaventa la nazione. Oggi Giraffa si occupa perlopiù di pedinamenti, se la cava con questioni patrimoniali, dà il meglio di sé nello spionaggio industriale. «Non qui dentro, cazzo!» urla a Simone, che sta vomitando sul tavolino della roulotte. «Scusa G» biascica, continuando a seminare i resti della colazione sino a fuori. Ettore rimane solo all’interno della roulotte, cercando di mettere a fuoco la scena. Avanzi di cibo sparsi un po’ ovunque, molte impronte di piedi nudi che si accavallano su sgommate di tonno e sangue. Un secchio pieno di piscio circondato da mosche. Un luogo riempito dal caos, una totale assenza di suoni che mette in risalto la posizione scomposta delle salme. Il livor mortis ha già formato le prime macchie ipostatiche su entrambi i cadaveri: il colore violaceo si abbina al tessuto scozzese con il quale è rivestito il letto. Quel rimorchio ossidato è una bara piena d’insetti, che si divertono a profanare narici e ombelichi.


11

CAPITOLO 2

Martedì 27 giugno 2017 «Com’è stato il mio funerale?» chiede il vietnamita. «Quanto corri» risponde l’uomo vestito di scuro. I due sono seduti su una panca di legno, bevono limonata, alle loro spalle un poster bruciacchiato dove un peschereccio tenta di domare il Mar dei Ciukci. La stanza è poco ammobiliata, il pavimento è in cotto, nessun rumore esterno disturba la loro conversazione. Le pareti avrebbero bisogno di un imbianchino, qualcuno ha sgomberato quel luogo, e i contorni delle cornici ne sono la prova. «Ho paura. Se non mi ammazzi, m’impicco a uno di questi» continua l’orientale, indicando due cavi elettrici che penzolano da una trave. Chi ha abbandonato quel posto lo ha fatto in fretta, negli angoli ci sono scarti di nastro adesivo e alcuni cartoni sfasciati. Gli ultimi mobili estratti con la forza hanno lasciato dei solchi nelle mattonelle. «Si sono dimenticati un colbacco» dice l’uomo vestito di scuro, provando a cambiare discorso. Quel cappello pieno di pulci è stato mollato sopra a un tavolo in linoleum, mentre su una mensola arrugginita ci sono una matrioska e un piatto di porcellana raffigurante il Cremlino. È giorno, ma è difficile capirlo perché le tapparelle serrate non lasciano passare spiragli di luce. Il vietnamita si chiama Dung Tuong, indossa una maglietta macchiata di qualcosa di rosso e vischioso, al posto dei pantaloni un paio di mutande sudice. È scalzo: i suoi piedi sono sporchi come se non mettesse un paio di scarpe da giorni. Stringe il bicchiere con entrambe le mani mentre beve a piccoli sorsi. «Voglio morire, lo sai» insiste. È raffreddato, ma invece di soffiare il naso, cerca di stapparlo tirando il moccio verso il cervello. «Certo che morirai» risponde l’uomo vestito di scuro, osservandolo girellare irrequieto nella stanza. «Mi ucciderai presto?» chiede Dung, grattandosi la USS Enterprise


12 tatuata sulla coscia destra. L’astronave di Star Trek ha vissuto momenti più gloriosi; nascosta da tutti quei peli, mette solo tristezza. «Fai quello che devi, e morirai presto.» «Io ho sempre maneggiato eroina, lo sapevi. Per me tutto questo è nuovo. Cerco di fare del mio meglio» continua Dung, sulla difensiva. È di bassa statura, gracile, spalle e petto da dodicenne. Il colore giallastro della sua pelle e gli occhi pesti sono una combinazione micidiale alla vista, sembra in fin di vita, anche se non lo è. È estate, l’unica abat-jour della stanza è presa di mira da una famigliola di zanzare. L’uomo vestito di scuro indossa la giacca, ha la fronte sudata. È elegante, anche se il suo vestito sembra d’altri tempi, fuori moda. Ha un vistoso orologio d’oro al polso, un viso anonimo, senza cicatrici, lentiggini o nei. «Ieri notte, dalle mie parti, c’è stato un temporale. Quei tuoni mi hanno svegliato, e ho pensato a te. Ho creduto avessi fatto qualche cazzata», strappando il bicchiere dalla bocca di Dung. L’uomo vestito di scuro è conosciuto come “il Reverendo”, porta sempre con sé una Bibbia tascabile e un rosario. «No, no. Giuro. Ci vado il meno possibile. Finora solo una volta» risponde il vietnamita, strofinandosi le mani sulla maglietta. «Vacci quanto basta!» Il Reverendo ha un fisico robusto, parla scandendo bene ogni parola. Nessuno sa dove sia nato, dove viva, se abbia una famiglia, se sia allergico al polline o sappia suonare l’arpa. L’unico vezzo è la sua Talbot Solara rosso melograno, che guida con signorilità rispettando severamente il codice della strada. Su di lui aleggiano tante storie, e quella del coccodrillo deve essere raccontata. Pare dovesse riscuotere degli interessi dal proprietario di una stireria, un cinese con il vizio di spendere più di quello che poteva. Dopo tanti avvertimenti, un magazzino dato alle fiamme, un’auto fatta esplodere in pieno giorno, il Reverendo si era stufato di attendere oltre. Aveva investito quel cinese con un furgone, rubato per l’occasione. Con tutta calma lo aveva preso a calci, caricato nel retro e si era diretto verso il “Polo Natura”, una fondazione posta alle pendici di una piccola collina, un parco molto vasto, pieno di sentieri. Fra i compiti principali di questa struttura c’è quello del reinserimento degli animali selvatici nel loro ambiente naturale. Proprio in quel periodo, era arrivato al Polo un coccodrillo del Nilo, un gigantesco esemplare confiscato durante il sequestro nella villa di un


13 magnate delle droghe sintetiche. Si narra che il Reverendo abbia trascorso tutta la notte fuori da quel recinto, immobile, guardando dilaniare quell’uomo. «Fai solo quello per cui sei pagato. Niente di più, niente di meno. A tutto il resto ci penso io» ripete dopo essersi scolato entrambe le limonate. Si trovano in un casolare da qualche parte nel Centro Italia, una casa contadina circondata da rovi e sterpaglie. Quell’abitazione fa parte del “Consorzio Agrario Famiglia Cheliuskin”, una piccola impresa fallita nei primi anni Novanta. I vecchi proprietari erano russi, originari di una cittadina sullo stretto di Bering, siberiani, silenziosi, assolutamente inadatti alla vendita al dettaglio. Oggi quel complesso è del Reverendo, lo ha comprato qualche anno fa per una manciata di spiccioli. Era attratto dal pozzo e dalla tranquillità del luogo. Non ci sono vicini con aspirapolvere accesi o bambini che giocano a pallone in cortile. «Ho un brutto presentimento» dice Dung, cercando con la lingua l’ultima goccia di limonata nel bicchiere. Il Reverendo lo guarda negli occhi. «Rimani calmo. Nessuno ci sta dando la caccia. Perché non ti rilassi? Vivila come una festa! Bevi qualcosa!» conclude, uscendo da quella casa. Il vietnamita rimane seduto sulla panca, poi appena sente sbattere la porta si rilassa. La Talbot lascia il casolare con una prima titubante, quasi cercasse di non muovere nemmeno un sassolino. Dung inizia a stuzzicarsi il pisello, non per masturbarsi, ma per controllare che sia sempre al suo posto. Accende una piccola radiolina a batterie. Danza Kuduro, pensa, dopo aver riconosciuto le prime note. Alza a tutto volume cominciando a ballare scomposto intorno al tavolo. È un pesce piccolo, lo è sempre stato. Nell’ambiente tutti sanno che è solo un misero spacciatore d’eroina, una caccola che non infastidisce i grandi trafficanti, nuoce solo a quei disperati dei suoi clienti. Si è sempre vantato d’avere conoscenze importanti nel mondo degli stupefacenti, in realtà il suo giro di tossici è così minuscolo da non fare invidia ad anima viva. Quei quattro spiccioli che alza non disturbano i pezzi grossi, è solo uno che cerca di rimanere a galla.


14 È brutto, goffo, non ha mai avuto una compagna e neanche la cerca. Scopa ogni tanto con una senzatetto prima di regalarle un buco, una sciagurata di nome Stella, con i capelli rossi. La sua carriera criminale è nata in Vietnam, quando era poco più di un ragazzino. Lavorava per la famiglia Mguyen, conosciuta in tutto il Paese per estorsioni, prostituzione minorile, oppio. Una volta, durante una ronda per incassare denari da puttane minorenni, Dung ha fatto partire accidentalmente un colpo. Era in un vicolo e stava riscuotendo le scopate da una certa Linh. La ragazza continuava a ripetere di non aver guadagnato niente quella notte, e lui non smetteva di minacciarla. «Non c’è niente da vedere!» gridava ai passanti che camminavano veloci, abbassando lo sguardo. Sventolava la pistola davanti agli occhi della ragazza, con ampi gesti. Per sbaglio, forse a causa di qualche bicchierino di troppo, era partito un colpo. Quella sera con lui c’era Nhung Mguyen, il nipote più giovane della dinastia criminale. Quel colpo improvviso era rimbalzato sul cemento, conficcandosi nel ginocchio del giovane Nhung. Aveva iniziato a strillare, imprecare, rotolarsi per terra maledicendo quel maldestro subalterno e tutti i suoi futuri discendenti. Per molto meno, l’anno precedente un membro della banda era stato costretto a ingoiare i propri testicoli, così Dung aveva pensato solo alla fuga. Aveva abbandonato quel vicolo buio, lasciando Nhung nuotare nel suo sangue, senza chiamare i soccorsi. Era sfrecciato in aeroporto e aveva preso il primo volo utile: una Korean Air che faceva rotta a Seoul. Atterrato nella capitale coreana, sentiva ancora puzza d’Oriente e aveva preso un secondo aereo: volo Asian Airlines con rotta su Fiumicino. Aveva ritenuto Roma troppo caotica, e non potendo salire su una navicella diretta nello spazio, aveva scelto una periferia dove gli occhi a mandorla non mancano. Ancora oggi, però, ha il timore d’essere inseguito da un sicario della famiglia Mguyen, e continua a guardarsi le spalle. Nel giro lo chiamano “Bonsai” perché è piccolo di statura, ha le gambe corte, piene di vene varicose, simili al tronco di quegli alberi in miniatura. Non vende per strada, distribuisce droga vicino a una palude, in un luogo


15 ideale per gettare tutto in caso di sbirri. Ha una casa da quelle parti, che ha disseminato di trappole per orsi, per paura di ricevere visite indesiderate. Grazie ad alcuni amici è riuscito ad avere un nuovo passaporto e oggi, il suo volto da malato terminale ha un nome da attore: John Lee. Continua a danzare su quel pezzo pop latino, come se quel reggaeton riuscisse a non farlo pensare al rischio che sta correndo. Oggi Dung immagina diamanti, palme, piccoli poco di buono che lo venerano. Fra pochi giorni avrà soldi da buttare, e poco importa chi dovrà calpestare per fare la sua fortuna. Pensa solo al giorno in cui potrà smettere di guardarsi le spalle, a quella mattina in cui si sveglierà e leggerà della sua morte sul giornale. “Sarà un necrologio spettacolare”, pensa continuando a ballare.


16

CAPITOLO 3

Giovedì 22 giugno 2017 Antonio Benevento si è appena alzato dal letto. Come ogni mattina, da quando è rimasto solo, deve farsi due Gin Tonic per mettere in moto il cuore. È un tipo molto abitudinario, versa da anni la stessa quantità di gin, usa la stessa marca di acqua tonica, taglia la fetta di limone molto sottile. Non ha il televisore, legge di rado, pensa troppo. «Bevi ancora, soldato!» recita ogni mattina guardandosi allo specchio prima di buttare giù il secondo bicchiere. Il suo cocktail preferito è nato in India nel 1700, l’esercito inglese lo usava come medicina per combattere la malaria. Ogni soldato aveva diritto a una dose di gin, alla quale veniva aggiunta acqua e ghiaccio per rendere meno amaro il sapore del chinino. Antonio vive da solo in un bilocale in periferia, due finestre che affacciano sul niente. Il suo è l’ultimo palazzo di una via piena di buche senza marciapiede. Passa tanto tempo nel balcone, perché ama annusare il profumo del biscottificio che si trova a venti passi in linea d’aria. È vedovo. Ha una figlia di ventiquattro anni, alla quale è legatissimo. Vive e lavora all’estero come centralinista presso una grande azienda di trasporti. Si chiama Ginevra, e purtroppo ha appena scoperto di soffrire di retinite pigmentosa, una malattia molto rara che porta a una lenta ma progressiva perdita della vista. Antonio sogna di poterla aiutare, cerca il modo di garantirle un tesoretto per quando incontrerà il buio. «Stamani ne ha fatta un secchio!» urla l’anziano del piano terra, mostrando orgogliosamente un sacco pieno di feci. «Ottimo» risponde Antonio, fingendo d’essere interessato all’intestino di un pastore maremmano. “Cosa ho accettato di fare?” si domanda, continuando a sporgersi dal terrazzo per salutare quegli ottanta chili di pelo bianco. “E se per sbaglio lo uccido?” continua a chiedersi, masticando la fetta di limone molto lentamente.


17 Esce di casa e si dirige verso la fermata dell’autobus con la solita andatura pesante. Sale sul mezzo per andare al lavoro. Due adolescenti con lo zaino parlano dell’Apicoltore. «Ergastolo? Quale ergastolo? Se lo prendono, ci vuole la pena di morte.» «È vero! Occhio per occhio!» Antonio trova posto a sedere, ma ha la testa schiacciata fra l’ascella sinistra di un obeso e un palo di ferro. “Se sbaglio mira e lo uccido, meriterò anch’io di morire”. Antonio ha passato i cinquanta, il volto stanco e segnato come quello di un guerriero al termine della battaglia. Arriva al lavoro in anticipo come sempre, e inizia a riordinare gli scaffali. Lavora in un negozio dalle parti del Duomo, uno di quei posti dove puoi acquistare qualsiasi oggetto a novantanove centesimi. «Cosa penserai di me?» domanda alla compagna dopo aver baciato la sua fotografia. La perdita della moglie ancora lo sconvolge, non riesce a darsi pace, a dare colpa soltanto alle sigarette. Il tumore le aveva mangiato pelle, sorriso, capelli, era stanca e desiderava morire: si vergognava dell’immagine che vedeva riflessa nello specchio. «Non guardarmi così. Lo sai, lo faccio per Ginevra.» Antonio è addetto agli scaffali. Un articolo dopo l’altro, ordinati per colore, misura, forma e utilizzo. Non è difficile, la maniera più veloce e redditizia per arrivare velocemente alla chiusura, alla quiete, alla sua inseparabile carabina semiautomatica Benelli. Ha una mira infallibile, che gli è valsa il soprannome di “Spaccapelo”, dagli amici del poligono. Si allena ogni sera. Per lui è solo un passatempo, un’attività ludica in grado di distrarlo dai cattivi pensieri, un modo insolito per scaricarsi e prendere sonno velocemente. Antonio cerca solo silenzio in mezzo a tutti quegli spari. “Mi tremano le mani”, pensa durante la pausa pranzo, non riuscendo a tener fermo il panino davanti alla bocca. «Perché ho accettato?» si domanda ogni cinque minuti durante tutto il pomeriggio. Non vede l’ora d’uscire e tornare a casa; spera che quel bastardo lo chiami. Questa sera non andrà al poligono a usare il suo ferro, perché continua a pensare a quell’unico colpo che dovrà mettere a segno fra pochi giorni. Sale sull’autobus del ritorno, lo strattonano, uno sputa vicino ai suoi piedi, ma il suo corpo non è collegato alla mente.


18 “Basta ripensamenti, lo faccio per Ginevra”, impiega un paio di minuti per infilare la chiave nella toppa. Lascia cadere la busta del pane per terra, si butta sul letto accarezzando il cuscino che era di sua moglie. Spera che il cellulare suoni in quel momento, invece quel maledetto aggeggio è muto da quella mattina. La luna piena, il caldo estivo, la bambina del piano di sotto si esercita con il flauto, ad Antonio squilla il cellulare. “Blu-le mille bolle blu-Blu-le vedo intorno a me-blu-le mille bolle bluche volano e volano e volano”. «Papà come stai? Non ti sento da tre giorni» chiede Ginevra con voce preoccupata. «Tutto bene, tesoro» risponde lui, fingendo di non avere pensieri. «Non sei andato al poligono stasera?» «No, ero stanco.» «Sicuro di stare bene?» «Sì, certo. Ho solo un po’ di mal di testa.» «Pensi alla mamma?» «Ci penso sempre, lo sai. Non ho altro.» «Manca tanto anche a me, ma dobbiamo andare avanti. Se vuoi nel weekend prendo un treno e faccio un salto da te.» Antonio scuote la testa, come se lei potesse vederlo. «Non voglio che torni in città. Questa zona è diventata una fogna piena di delinquenti. Ogni giorno succede qualche casino. Stai lontana da qui. Se vuoi sentirmi felice, dimmi che non tornerai mai più a casa.» «Che dici? Papà io voglio vederti. Lo sento che hai bisogno di me.» «Sei tu che hai bisogno di me. Ginevra vengo io a trovarti prestissimo. Promesso. Ma non voglio che tu venga qui. Hai capito?» «Così mi fai preoccupare. È successo qualcosa?» «Niente. Non è successo niente. Fra pochi giorni ci vedremo. Vengo io da te.» La chiamata termina con Antonio che ancora una volta le chiede degli occhi. Sua figlia è maestra nel fingere di stare bene. È solo in casa, come accade ormai da anni, ma quella sera non ha voglia di bestemmiare contro le multinazionali del tabacco o contro le malattie rare. “Lo odio. Perché non chiama?”. Rimane seduto sul pavimento a gambe divaricate per diversi minuti, al centro della stanza, mangiando quel filone di pane a morsi.


19 Non è fame, è ansia. Finalmente il cellulare – incollato alla sua mano libera – squilla. Antonio risponde prima che Mina possa aprire il gas. «Cosa sta facendo il mio cecchino? Mangia?» chiede con voce ferma il Reverendo. «È tutto confermato?» domanda Antonio, schiacciando il telefono all’orecchio. «Affacciati alla finestra.» Antonio sposta la tenda e, nei giardinetti sotto casa, vede quell’infame comodamente seduto su una panchina. «Ciao» il Reverendo saluta, mantenendo le gambe accavallate. «Che ci fai qui? Sei pazzo?» «Sono passato a dirti che devi star tranquillo. Sarai perfetto» continua il Reverendo, mostrando il pollice alzato. «Quindi non è cambiato niente?» chiede Antonio, prendendo fiato. «Niente. Sai cosa devi fare» il Reverendo chiude la brevissima conversazione, abbandonando la panchina. Su di lui aleggiano tante storie, e quella dello scaldabagno deve essere raccontata. Ha frequentato numerose donne, ma pochissime sono riuscite a entrare in casa sua. Fra queste una ventenne molto provocante, una ragazzetta piena di vizi alla quale piaceva tanto ficcare il naso. Sedere a pera, occhi neri, seno piccolo, accento piemontese, bravissima a creare la giusta intimità fra le lenzuola. La giovane aveva scoperto che il Reverendo nascondeva del denaro in un falso scaldabagno, e ha commesso l’errore di sottrarre qualche banconota. Lo ha fatto per capriccio, non era una ladra, probabilmente voleva solo regalarsi un’intera giornata in un centro estetico o un vestito firmato. Era convinta che non se ne sarebbe accorto, invece non è andata esattamente così. «Non volevo farle del male…» pare abbia detto a un amico fidato, mentre si stava facendo aiutare a gettare i pezzi della ragazza in quello scaldabagno. «È che odio dover cambiare nascondiglio ai miei soldi» aveva aggiunto, pressando la testa in modo da non far uscire i capelli. «Eri fatto?» gli aveva chiesto l’amico fidato. «Non mi faccio io. Ero deluso» sembra abbia urlato un attimo prima di gettare quello scaldabagno giù dalla diga. Antonio cade sul letto con la sicurezza d’aver sbagliato a legarsi a un uomo del genere.


20 Non finirà bene, e lui pagherà per primo, più di tutti gli altri. Non ha l’abilità, il carattere o la faccia per certe operazioni, per reggere un eventuale interrogatorio. La cosa più pericolosa che ha fatto sino a quel giorno, è stata ballare boogie-woogie sul quarto gradino della scala mentre imbiancava il bagno. È un povero disgraziato ma anche lui ha un sogno. Vuole che quando sua figlia non vedrà più niente, abbia la possibilità di campare in un mondo creato per gente sana. L’orologio segna mezzanotte: per farsi i due Gin Tonic è davvero troppo presto.


21

CAPITOLO 4

Mercoledì 5 aprile 2017 Filippo Bartolini ha la gola secca, è seduto sul divano così immerso nei suoi pensieri che non riesce a fare cinque passi sino alla bottiglia d’acqua. È in ogni luogo tranne in quel salotto, la sua mente tenta di distrarsi per non pensare a lei, a quella ragazza per la quale sarebbe pronto a bruciare vivo. Il suo sguardo è perso, non ha voglia di ascoltare musica, accendere la TV, non ha intenzione di riprendere a studiare. A breve avrà un esame di letteratura italiana del Rinascimento, ma poco conosce di Tasso, del poema epico, della “Gerusalemme liberata”. Questi ultimi mesi è nato un nuovo lui. Non è più il ragazzo spensierato che collezionava tappi di birra e saltava allo skatepark. Abita nel centro storico, insieme ai suoi genitori che difficilmente escono di casa. Il loro attico, a pochi metri dal palazzo vescovile, è un rifugio silenzioso, un’oasi perfetta per vivere in pace. Quell’appartamento invece per Filippo è diventata una prigione, mura dalle quali scappare in fretta. «Rimani lucido! Lucido! Lucido! Rimani lucido!» Filippo sente le urla di suo padre chiuso in bagno. Le conosce bene, sono le stesse parole che ripete ogni volta prima di abbassarsi i calzoni. «Adesso si starà toccando la barba, sperando di ritrovare la pace» commenta Filippo, rassegnato. «Io ho fatto cinema, ho fatto tre cine-panettoni. Ho fatto cabaret! Io! Io! Ho vinto quel reality in mezzo alle pecore! Io!» continua il suo babbo, strillando. «Io ho fatto teatro. Sono il più grande caratterista toscano di tutti i tempi» bisbiglia Filippo. «Io ho fatto teatro. Sono il più grande caratterista toscano di tutti i tempi!» urla suo padre, seduto sul water. La sua carriera si è interrotta bruscamente una domenica pomeriggio dell’inverno 2016. Era ospite su Rai Uno, in un salotto televisivo dove si parlava della bellezza femminile. Lui, dopo un paio di battute sul sesso e


22 qualche “trombare” di troppo, è stato richiamato dal presentatore: «Oscar, ti prego, ti ricordo che sei su Rai Uno. È domenica. È un programma per famiglie.» In quel momento, senza controllarsi, forse irritato dal falso perbenismo del giovane conduttore, aveva tirato una bestemmia in diretta nazionale. Era partita la pubblicità all’istante, ma in quel momento nessuno spettatore stava riflettendo su lenti a contatto, profumi o pannolini. L’Italia attendeva la fine dei consigli per gli acquisti, tutti si chiedevano come avrebbero riaperto il programma, che fine avrebbe fatto Oscar Bartolini. «Allora Julia, come ti è cambiata la vita dopo aver vinto Miss Venezuela?» aveva chiesto il giovane conduttore a una sventola abbronzatissima. Il comico fiorentino era scomparso dallo studio. Nessun cenno sull’accaduto, solo primi piani alle labbra rifatte di quella diciannovenne sudamericana. Da quel giorno è caduto in disgrazia, abbandonato da tutti, escluso da contratti futuri che aveva già firmato. Nelle poche sagre che il suo agente riesce a procurargli, il pubblico quasi lo incita a bestemmiare, o si aspetta lo faccia. Quando va a comprare il latte, per le vie del centro, viene additato e deriso per la buffa vestaglia con cui esce di casa. «Io non sono volgare! Il pubblico mi ama!» Filippo lo sente gridare sempre più forte, e si preoccupa per sua madre, una donna fragile che rischia di sgretolarsi giorno dopo giorno. Si alza dal divano e cammina lentamente sino ad arrivare in cucina. «Mamma, non ci pensare. Vedrai che sistemerò tutto.» «Dentro un pozzo… Vorrei caderci dentro e spegnermi lentamente» risponde la signora Ester, seduta vicino all’acquaio. «Cosa cucini?» chiede Filippo, facendo finta di non saperlo. «Il peposo.» Ester è nata all’Impruneta. Sua mamma le aveva insegnato la preparazione poco prima di morire, quasi fosse un segreto, una ricetta alla quale appigliarsi nei momenti difficili. Guardare il fuoco per tre ore la distrae, la pentola in terracotta la riporta ai bei tempi andati. Ha conosciuto Oscar in una radio locale, dove lui muoveva i primi passi e lei era addetta alle pulizie. Era simpatico, magro, bello per essere un comico, non fumava, non beveva, galante.


23 Il resto è stata la naturale conseguenza dell’amore: un matrimonio rapido, un viaggio di nozze in Sardegna dove lui aveva delle serate, una nuova casa in cui affacciandosi si vedevano i tetti degli altri. Lei era davanti alla TV quella domenica. Quasi ipnotizzata, respirava piano per capire come avesse potuto, cosa s’era inceppato nella testa di suo marito. Alla fine della pubblicità aveva iniziato a tagliare il muscolo a cubetti non troppo piccoli, e non si era più fermata. «Sei tanto introverso. Hai preso da me» dice Ester, baciando suo figlio sulla fronte. «In questa casa la vita scorre troppo lenta» risponde Filippo, con l’espressione di chi cerca una via di scampo. «Ma guarda che capelli. Se ti vedesse tuo nonno, avrebbe un infarto.» «Mamma questo sono io. Non tornare sempre sulle stesse cose» dice, toccandosi la criniera rasta. «Sei alto, robusto, hai degli occhi marroni così profondi. Rovini tutto con i jeans strappati e questi capelli. Pensa come staresti bene in doppiopetto, magari con un taglio alla Massimo Ranieri.» Filippo sorride, con la solita faccia stanca. «Il doppiopetto lo metto all’altare, quando mi sposo. Te lo prometto, mamma.» «Quando ridacchi vedo meglio le tue lentiggini sul naso. Sei sempre il mio bambino.» Filippo pensa a una rivincita, alle priorità che servono a riempire il frigo, adora sua mamma e non riesce a vederla così. Senza i contratti di suo padre, la loro vita è destinata all’elemosina. Portare le pizze in giro per la città non basta a mantenersi all’università. «Mi si ferma il battito! Lo sento!» Oscar fa il suo ingresso in cucina, senza più saliva né fiato. «Forse devi solo dimagrire» risponde Ester, seccata. «Io esco» dice Filippo, dopo aver abbracciato la madre. «Lui esce! Ti dà noia il fallito? Non ti davo fastidio quando ero all’apice, vero?» chiede Oscar, mettendosi a braccia larghe davanti alla porta d’ingresso. «Babbo, non voglio litigare.» «Quando ti pagavo il liceo dalle Monache Agostiniane ti piacevo, vero? Alla scuola dei ricchi ti ho mandato!» «Fammi uscire, per favore.» «E dove vai? Da quella ragazzina viziata? Non lo hai ancora capito che non ti vuole?» «Lei non c’entra niente. Lasciala fuori.»


24 «Quella mette solo gli anfibi. Anche d’estate. Che donna è una che mette solo gli anfibi?» «Quella si chiama Aurora» puntualizza Filippo, cercando d’uscire senza arrivare alle mani. La ama dalla prima superiore, da quando la guardava di nascosto in classe. Oggi vorrebbe una stanza, una capanna, un vano scale, insomma un nascondiglio dove poterla guardare in pace. «Stai bene con questi occhiali. Sembri proprio finocchio. Lei non fa per te, non fa per noi. Qui siamo tutti fuori di testa e spiantati» continua Oscar, cercando l’ennesima reazione del ragazzo. «Torna in bagno e fammi uscire.» La faccia di Filippo adesso è senza espressione, come se si trovasse davanti a un folle sconosciuto che non vale la pena menare. Ester guarda la pentola sul fuoco, muta. «Esci, vai da quella. Portale un pacchetto di sigarette, almeno sarà contenta.» Filippo riesce a uscire, cercando di ripulirsi da quelle inutili offese. Percorre le strade del centro con passo svelto, e prende il primo autobus che porta alle “Noci”. È un quartiere in collina dove risiedono le famiglie più benestanti della città. La villa di Aurora è immersa nel verde, nascosta fra gli ulivi. «A me basta questo per stare bene» dice Filippo, sperando si affacci da una delle tante finestre. È bionda, scura di carnagione, ha i capelli corti, usa solo smalto nero, fuma di nascosto, ha tatuaggi sparsi un po’ ovunque. Sono tutti disegni Maori, su braccia, collo, gambe e anche sul décolleté. «Non farmi tornare a casa senza averti vista» bofonchia Filippo, nascosto dietro al muretto di cinta. “Eccola. Mi manchi”, pensa vedendo uscire Aurora dalla porta principale. Parla velocemente al cellulare, stende la sua felpa per terra e poi si siede a gambe incrociate in giardino. Filippo la osserva, cercando d’interpretare ogni minima espressione. Pensa ad Aurora da troppo tempo, è innamorato di lei nonostante sia fidanzata e sa di non poterla amare alla luce del sole. È geloso del suo ragazzo, che l’abbraccia quando vuole, ma è un sognatore cresciuto a pane e telefilm americani. È alla ricerca di una puntata a lieto fine, del coraggio che caratterizza l’attore protagonista. Non si arrende al destino del più forte, alla legge del predestinato, a tutti


25 quei dettagli che fanno di lui un perdente. “Avremo la nostra occasione per essere felici”, pensa incamminandosi mestamente verso la fermata dell’autobus.


26

CAPITOLO 5

Sabato 6 maggio 2017 «Cos’hai fatto alla mano?» chiede il capo servizio. «Ieri ho incontrato l’Apicoltore» risponde Pekka Toivonen in tono sarcastico, continuando a gettare valigie sul nastro. «Non fare lo spiritoso!» È rientrato dopo un giorno di ferie, e quella vistosa fasciatura è saltata subito all’occhio del responsabile. «E quella maglietta?» continua minaccioso. «Che c’è, non ti piace? Questi sono forti!» risponde, irrispettoso, il giovanotto. È mattina presto, Pekka ha appena iniziato il turno, indossa una maglietta dei Metallica. Tutti gli altri facchini hanno quella dell’aeroporto, lo guardano meravigliati, come se non riconoscessero il timido collega di qualche giorno prima. Da sei mesi arriva puntuale, chiede per favore, rispetta la fila in mensa e non si lamenta del purè. Finora ha svolto il proprio lavoro senza dare nell’occhio, portando sempre rispetto ai più anziani. Lavora in quello scalo con un contratto a tempo determinato, che scadrà alla fine dell’estate. «Se non ti piace, la tolgo e resto nudo» insiste Pekka, strafottente. «Provaci, Thor! Se resti nudo ti licenzio!» conclude arrabbiato il capo servizio. Quel soprannome lo perseguita da quando era un ragazzo, ma non si è mai tagliato i capelli per allontanarsi dall’immagine dell’eroe con il martello. Da bambino, quando ancora viveva in Svezia, passava le giornate chiuso in casa facendo flessioni. Attendeva il ritorno dei genitori che avevano un negozio di vini a trenta chilometri di distanza. Una sera la porta di casa si era aperta e suo zio Bror, con freddezza nordica, aveva detto: «Mio fratello e sua moglie sono morti in un incidente ferroviario pochi minuti fa. Forza e coraggio, ragazzo.» Non aveva ancora compiuto dieci anni, e i suoi occhi chiari trattenevano a stento le lacrime.


27 Dopo pochi mesi era un uomo, sapeva difendersi, viveva in una cameretta in casa di zio Bror. Il suo nuovo vicino di casa era Ernst Björklund, un famoso campione di rally degli anni Settanta. Pekka ha trascorso l’adolescenza nel garage di quell’uomo, ascoltando storie di curve, donne, gomme da bagnato, velocità. Ernst venerava la sua “Lupa fra gli agnelli”, una Lancia Stratos con la quale aveva vinto due prove del mondiale nel 1973. Le aveva dato quel nome bizzarro perché diceva non avesse rivali e fosse capace di divorare ogni auto lungo il suo cammino. Fra quell’ex pilota e l’orfano c’era un rapporto limpido. Pekka aveva guidato quell’auto la prima volta a sedici anni per le strade di Uppsala, Ernst era il copilota ed era rimasto meravigliato da come sapesse domare una bestia così irruenta. Guidava con naturalezza, come lo avesse sempre fatto, con la freddezza di un pilota esperto, invece era solo un bambinetto senza patente. Il biondino era perfettamente a proprio agio in quell’abitacolo aggressivo: a diciassette anni aveva corso la sua prima gara clandestina. Quando Pekka si era presentato ai nastri di partenza, molti degli scommettitori si erano messi a ridere. «E questo chi è? Sembra quello dei fumetti» aveva detto uno degli organizzatori. «Chi scommette su Thor?» aveva continuato, battezzandolo per la prima volta. Tutti quei capelli biondi che uscivano dal casco ricordavano quelli del Dio del Tuono, il fumetto conosciuto da tutti per splendore e forza. Ha vinto quella gara e molte altre negli anni seguenti. La sirena del cambio turno suona, e pochi attimi dopo squilla il cellulare di Pekka. «Continua a lavorare come hai sempre fatto. Togli quella maglietta dei Metallica!» dice il Reverendo, arrabbiato. «Cosa ne sai?» risponde Pekka, preoccupato. «Non devi dare nell’occhio!» «Ma dove sei?» si guarda intorno. «Comportati come sempre. Sapevi che ti avrei tenuto d’occhio.» «Dove sei?» «Ovunque» il Reverendo conclude la telefonata. Sul Reverendo aleggiano tante storie, e quella della piroga deve essere raccontata. L’amico fidato, quello che lo aveva assistito durante l’operazione scaldabagno, non si era dimostrato poi così affidabile e aveva iniziato a


28 ricattarlo. «Racconterò questa storia.» «Quanto vorresti?» aveva chiesto il Reverendo, solo per curiosità. «Non ho una cifra. Mi aiuterai ogni volta in cui avrò bisogno.» Quella richiesta non era piaciuta al Reverendo, perché non è mai stato per i legami lunghi. Gli ha sparato tre colpi nello sterno un lunedì notte. Per l’occultamento del cadavere ha sempre avuto molta fantasia, e anche in quel caso non si è smentito. Si è ricordato di un lago artificiale per pesca sportiva, un’oasi per pescatori inesperti dove le trote saltano fuori dall’acqua per essere acchiappate. Il simbolo di quel laghetto è una piroga, una piccola imbarcazione realizzata scavando un tronco d’albero, un inspiegabile tocco africano nel Centro Italia. È ormeggiata nello stesso identico punto da anni, nessuno ci sale per fare un giro; qualche bambino la prende a sassate, a volte viene fotografata, l’unico compito che ha è quello di galleggiare. Il Reverendo ha legato il cadavere allo scafo della piroga. Quella carne morta è rimasta immersa sott’acqua per settimane, prima che la lenza di un pescatore rimanesse impigliata nella cintura dei suoi resti. «Ciao Qiang, domani ti paghiamo l’affitto» Pekka rassicura il proprietario di casa che lo aspetta sulla porta. «Domani. No dopodomani. Domani!» risponde il piccolo uomo, cercando di arrivare con l’indice sotto il naso di Thor. Pekka è arrivato in Italia per amore, per seguire le ambizioni della sua fidanzata Ulla-Brit, divenuta famosa in patria come valletta di un gioco televisivo pomeridiano, poi la sua agenzia le ha proposto di trasferirsi nello stivale per tentare la scalata nel mondo della moda. «Bella, ma hai il seno troppo grosso» le hanno detto alcune grandi firme. Sono passati quattro anni. Lui porta valigie sottobordo e lei lavora in una minuscola emittente televisiva, dove si parla solo di calcio locale. Vivono in un piccolo appartamento sopra a un ristorante cinese, cinquanta metri quadrati, con l’odore di fritto che spacca le narici. Non navigano nell’oro, così quando capita hanno una seconda occupazione.


29 Ulla-Brit rimedia lavoretti extra come “Ombrellina” all’autodromo o come “Ring-Girl” durante incontri di boxe. Pekka invece ha usato il proprio talento per farsi un nome nelle gare clandestine di auto sportive. Corre quando lo chiamano, quando alcuni malavitosi hanno una macchina che vogliono piazzare. Sfrutta quel genere di occasioni per guadagnare, non per stringere amicizie. «Amore sono a casa. Ci sei?» chiede Pekka, dopo aver tolto la giacca. «Ti aspettavo» risponde Ulla-Brit, vestita solo con un completino intimo nero. “Il capo servizio avrà una moglie rompicoglioni piena di cellulite. E stasera mangerà minestrone”, pensa mentre tenta di togliere le antinfortunistiche senza usare le mani. «Voglio una figlia e voglio tornare in Svezia» sussurra Ulla-Brit, camminando lentamente verso la camera da letto. “Un viaggio di sola andata. Poi potremo fare tutto ciò che vogliamo”, pensa Thor mentre le sfila le mutandine.


30

CAPITOLO 6

Sabato 17 giugno 2017 «Pronto? Pensione Albatros? Potrei parlare con la Signorina Nisi? Valeria Nisi.» Recita quella frase con l’esatta cadenza di Jean-Louis Trintignant, fingendo di stringere una cornetta del telefono nella mano destra. Conosce “Il sorpasso” a memoria, è uno dei suoi film preferiti, una pellicola di cui rammenta ogni passaggio. Sono circa le nove di sera e, come ogni sabato, è da solo all’interno della sua sala cinematografica, una stanza imponente con sedici poltroncine; ma in tutti questi anni è l’unico ad averci messo piede. Secondo la rivista americana Forbes, con un patrimonio personale di 6,5 miliardi di euro, Sandro Tasselli è il quinto uomo più ricco d’Italia, e nei primi duecento al mondo. «Non bevi, non fumi, non sai nemmeno guidare la macchina. Ma ti godi la vita tu?» chiede, ironizzando lo splendido Bruno Cortona al giovane Roberto Mariani. «Certo che se la gode!» risponde seccato il milionario, come se stesse recitando in mezzo a loro. Si sente in dovere di difendere il giovane studente di legge destinato a una brutta fine. «Gassman non ti sopporto! Vado in piscina!» grida, uscendo dalla sala. «Egoista» continua, rivolto al personaggio esuberante interpretato dal mattatore. Sandro Tasselli è nato in città, poco all’interno delle mura in pietra alberese. Vive in un palazzo storico, un bellissimo esempio architettonico di fine Ottocento. Ha molta servitù che gira per casa durante il giorno. Fra questi si fida solo del suo autista Pavlo, un ucraino muto, ex militare che per anni ha fatto parte della Sluzba Bezpeky Ukraine, l’equivalente dei Servizi Segreti Italiani. La notte, però, rimane solo all’interno di quei cinque piani: adora camminare per i corridoi sino a stancarsi. «Adesso mi merito un bel bagno» si compiace davanti a uno specchio, è


31 felice del suo aspetto arrogante, della sua bassa statura e di vivere la calvizie con rassegnazione. «Mi domandano perché non lasci la provincia? Perché sei rimasto qui?» chiede a un suo antenato dipinto su tela. «Non la mollo la mia piscina» risponde, sempre rivolto a quel distinto cortigiano di profilo. Scende le scale guardandosi attorno, si compiace di tanta ricchezza, del pavimento in onice rosso; gradisce tutti i giochi di luce che nascono dai lampadari di cristallo. Arrivato al primo piano, nel grande salone, prende la palla numero otto dal biliardo e la lascia rotolare sul tappeto orientale. «I soliti dieci secondi. Akio, conta se non ci credi» questa volta rivolto a un’armatura giapponese in rame e bronzo. «La palla ci mette dieci secondi da un lato all’altro del persiano. Conta Akio!» Quella stanza di dimensioni spropositate è tappezzata di fotografie, diplomi, premi, encomi, sembra un museo dedicato al padrone di casa. Inizia così l’ennesimo dialogo inzuppato di solitudine. «Quanto mi piace questa copertina su Uomo&Manager. Mi avevi regalato tu quella cravatta, vero?» chiede alla prima moglie Ana Gifulkowa, ritratta in una foto con lui al mare. Era una cantante lirica, e il loro matrimonio è durato il tempo di una Turandot. «La maturità scientifica. La laurea in Scienze Politiche. Il congedo militare. Quante soddisfazioni vi ho dato?» chiede ai genitori su un dondolo in una terrazza a Positano. Dopo la loro morte, è diventato l’unico proprietario di una delle più grandi industrie di tessuto al mondo. «Quante ne hai castigate? Eri tremendo» chiede allo storico presentatore di Miss Italia, Marco Candorla. È una foto scattata a Salso Maggiore Terme e, fra i due uomini, spicca una giovanissima Amanda Patrimonio, eletta Miss Sorriso di quell’edizione. «Siamo stati bene a Montecarlo, vero Amanda?» Tasselli sposta un minimo la tenda per sbirciare in strada, forse per una boccata di vita reale. Il centro storico nelle notti d’estate risplende, i negozi sono aperti, i ristoranti apparecchiano i tavoli per strada, alcuni musicisti suonano nelle piazze più affollate. «Quella somiglia a mia moglie» dice, guardando una signora ben vestita che passeggia osservando le vetrine. «Meno male che è morta.» La seconda e ultima moglie è stata l’architetto Carla Genzi Delle Panche, con la quale ha avuto la sua unica figlia Ferdinanda, nata nel 1970. Nel


32 1980 Sandro Tasselli è rimasto vedovo: quel tumore al pancreas lo ha salvato dal secondo divorzio imminente. «Piscina! Piscina! Piscina!» pronuncia agitato, scostandosi dalla finestra, da quell’esistenza troppo vera che lo disturba. Continua a scendere le scale facendo risuonare un mazzo di chiavi agganciate ai suoi pantaloni. «Piscina! Piscina! Piscina!» arrivato al piano terra apre uno sgabuzzino angusto pieno di scatole da scarpe. «Patrizia» dice aprendone una di Gucci. Quella scatola contiene delle mutandine a fiorellini, un braccialetto di corda e un cerchietto per capelli. «Daria» si emoziona aprendone una di Prada. Un reggiseno chiaro, un calzino arcobaleno e una ciocca di capelli biondi. Su ogni scatola c’è un nome femminile scritto a pennarello. Nella parete destra dello sgabuzzino c’è invece una cassaforte. La apre digitando una combinazione a sei cifre. Dentro al forziere solo una grande chiave dorata, l’ennesima all’interno di una casa blindata. Richiude quel ripostiglio e prende l’ultima rampa di scale che porta nel sottosuolo. «La mia piscina» commenta emozionato davanti a un portone che divide il mondo emerso dall’ignoto. Fa girare la grande chiave dorata nella serratura mentre impugna la maniglia. Percorre un cunicolo stretto e intrecciato, sino ad arrivare a una vasca piena di soldi come quella di Paperon De Paperoni. «Questo posto mi fa sentire meno vulnerabile» commenta, salendo sul trampolino. «Lascerò tutto ad Aurora.» Sua figlia Ferdinanda si è sposata nel 1990 a soli vent’anni, con Carmelo, un medico cinque anni più grande di lei. Sono infelici insieme, vivono in una zona sicuramente meno caotica e affollata rispetto al centro storico. Hanno una figlia di ventidue anni: Aurora. Il milionario ha una passione profonda per la nipote, la rispetta perché è introversa, e lui ritiene d’aver contribuito a renderla così schiva. Il presente li vede distanti, non hanno un rapporto amicale ma quella ragazzina è comunque il suo punto debole. «Non ho mai fatto male a nessuno!» ogni sabato sera dopo il bagno nelle sue banconote, riemerge strillando questa frase. Un brutto passato, invece, lo rende l’uomo più fragile dell’universo. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE PRIMA PARTE Capitolo 1 ........................................................................................................ 7 Capitolo 2 ...................................................................................................... 11 Capitolo 3 ...................................................................................................... 16 Capitolo 4 ...................................................................................................... 21 Capitolo 5 ...................................................................................................... 26 Capitolo 6 ...................................................................................................... 30 SECONDA PARTE Capitolo 1 ...................................................................................................... 35 Capitolo 2 ...................................................................................................... 40 Capitolo 3 ...................................................................................................... 44 Capitolo 4 ...................................................................................................... 47 Capitolo 5 ...................................................................................................... 50 Capitolo 6 ...................................................................................................... 53 Capitolo 7 ...................................................................................................... 57 Capitolo 8 ...................................................................................................... 60 Capitolo 9 ...................................................................................................... 63 Capitolo 10 .................................................................................................... 67 Capitolo 11..................................................................................................... 71 Capitolo 12 .................................................................................................... 75 Capitolo 13 .................................................................................................... 77 Capitolo 14 .................................................................................................... 79 Capitolo 15 .................................................................................................... 81 Capitolo 16 ..................................................................................................... 83 Capitolo 17 .................................................................................................... 85 Capitolo 18 .................................................................................................... 87


Capitolo 19 .................................................................................................... 89 Capitolo 20 .................................................................................................... 93 Capitolo 21 .................................................................................................... 97 Capitolo 22 .................................................................................................... 99 Capitolo 23 .................................................................................................. 102 Capitolo 24 .................................................................................................. 105 Capitolo 25 .................................................................................................. 108 Capitolo 26 .................................................................................................. 112 Capitolo 27 .................................................................................................. 115 Capitolo 28 .................................................................................................. 119 Capitolo 29 .................................................................................................. 122 Capitolo 30 .................................................................................................. 124 Capitolo 31 .................................................................................................. 128 Capitolo 32 .................................................................................................. 131 Capitolo 33 .................................................................................................. 134 Capitolo 34 .................................................................................................. 136 Capitolo 35 .................................................................................................. 139 Capitolo 36 .................................................................................................. 142 Capitolo 37 .................................................................................................. 147 Capitolo 38 .................................................................................................. 150 Capitolo 39 .................................................................................................. 153 Capitolo 40 .................................................................................................. 155 Capitolo 41 .................................................................................................. 157 Capitolo 42 ................................................................................................... 159 Capitolo 43 .................................................................................................. 161 Capitolo 44 .................................................................................................. 163 Epilogo ........................................................................................................ 165 Ringraziamenti............................................................................................. 167


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.