Porcellana, Maria Enea

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MARIA ENEA

PORCELLANA

ZeroUnoUndici Edizioni


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PORCELLANA Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-400-7 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Giugno 2020


A mio padre, nell’iperuranio



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1. DRESDA, 1707

Segrete del castello di Grossedlitz Il prigioniero si dimenava spasmodicamente nelle catene e non smetteva di urlare. «Sono Bottger! Sono un famoso alchimista! Non sono un criminale! Perché mi avete portato qui? Chi mi ha fatto arrestare? È un errore! Liberatemi! Voglio parlare con il principe! Portatemi da lui!». Le guardie continuarono la loro partita a dadi, senza curarsi delle sue urla. Ogni tanto trangugiavano un boccone e tracannavano birra. Nessuno rispose al prigioniero. Parco del Castello di Grossedlitz L’unica regola era centrare il bersaglio. Tutto il resto per lui non contava. Il principe avvertiva la tensione dei muscoli del suo polso destro, che formava un tutt’uno con la corda dell’arco. Assoluta calma e padronanza di sé. Autocontrollo, posizione perfetta, mira precisa. Quella beccaccia non sarebbe sfuggita al suo occhio infallibile di esperto cacciatore. Si ostinava ancora a cacciare con arco e frecce, nonostante tutti gli consigliassero metodi più moderni ed efficaci. Qualcuno aveva osato proporre al principe di servirsi di battitori che stanassero le prede e gli facilitassero la caccia. Il sovrano se n’era adontato. Era fatto così. Amava la meticolosa preparazione degli strali, i lunghi appostamenti per avvistare la preda, i sentieri poco battuti, l’odore che la terra sprigiona in ciascuna delle stagioni. Amava lanciare a se stesso delle continue sfide, colpire con la sua freccia obiettivi sempre più piccoli, sempre più distanti. Meglio ancora se l’obiettivo era in movimento. Ogni preda, ogni animale abbattuto, per lui rappresentava una vittoria, una prova certa di aver superato difficoltà, spesso quasi insormontabili. E non gli importava di dimostrarlo agli altri. Raramente faceva impagliare gli animali abbattuti.


6 Nel castello di Grossedlitz, la sua residenza favorita, alcuni cervi e orsi, da lui uccisi, facevano bella mostra di sé sulle pareti, tra spesse cortine e tendaggi, creando una strana mescolanza tra eleganza e rozzezza. Ma lui, Federico Augusto I, principe ed Elettore di Sassonia, nonché re di Polonia dal 1697, non degnava di una sola occhiata quei grossi animali. Valevano molto di più i piccoli volatili, ai suoi occhi di arciere. La beccaccia cadde più oltre, nel folto del bosco. I cani andarono a recuperarla. Il principe li seguì senza fretta, godendosi il suono quasi metallico prodotto dalle foglie secche calpestate. La caccia riusciva ad assorbire totalmente i suoi pensieri, finché vi si dedicava. Al rientro, questioni di stato, e non solo, lo avrebbero nuovamente assalito. Uno degli impulsi che lo spingevano ad andare a caccia da solo era il pressante bisogno di distogliere la mente da questioni spiacevoli e di trovare spazi per se stesso. Altrettanto essenziale per lui era proprio il cimentarsi con se stesso, mettere alla prova le proprie capacità: questo gli dava la misura del proprio valore di uomo. Voleva giudicarsi come uomo, non come sovrano, e con obiettività, senza tener conto dell’adulazione interessata e della piaggeria dei sudditi. Disprezzava i consiglieri pavidi e temeva chi si faceva notare per la propria indipendenza di giudizio. Avrebbe preferito che la sorte gli avesse riservato un ruolo sociale meno impegnativo. Era stanco. Ma non lo dava a vedere. Nelle tenute reali di Sassonia non si sarebbero mai effettuate battute di caccia chiassose e mondane come quelle organizzate dai re di Francia a Versailles. Uomo austero e sobrio, il principe era ben consapevole della propria fama di personaggio eccentrico, e ne andava fiero. Qualunque suo desiderio, anche il più strano, veniva esaudito. Si divertiva a fare appositamente le richieste più strane, con espressione burbera e minacciosa, per vedere servi e cortigiani affannarsi per accontentarlo. In genere chiedeva, all’ultimo momento, piatti elaboratissimi, oppure frutta fuori stagione. A volte gli capitava di richiedere armi fabbricate da un certo artigiano o in un determinato anno. Dentro di sé scommetteva sul nome di colui o colei a cui sarebbe stato affidato il compito di comunicargli che non erano riusciti a soddisfare la sua richiesta. Si dimostrava bonario, comunque, in questi casi. Ciò che davvero non tollerava era che la gente non s’impegnasse nello svolgimento dei propri compiti. Quella era la cosa che riusciva veramente a farlo uscire dai gangheri.


7 Erano celebri i suoi accessi d’ira. Quando si arrabbiava, afferrava qualunque oggetto gli capitasse per le mani e lo scagliava in aria. E non solo soprammobili e suppellettili, ma anche tavoli e mobili, che sollevava senza alcuna difficoltà. Non per nulla era soprannominato Augusto il Forte. D’altronde, era meglio essere temuto piuttosto che amato. Con la beccaccia nel carniere, seguito dai suoi cani, Augusto tornò al castello. Procedeva a passi lenti, affondando nella terra umida gli scarponi da caccia, cuciti appositamente per lui con il migliore cuoio da un artigiano di sua fiducia. Il violento temporale scoppiato quella mattina aveva reso fangoso il terreno. Meglio, camminare in acquitrini e pantani era la sua passione. Se si vive più di una volta, pensava il sovrano, in qualche esistenza precedente devo esser stato una rana. O forse un rospo: è per questo che adesso sono un principe. Sapeva che, ad attenderlo, avrebbe trovato il suo consigliere e complice, Wilhelm von Offburg. Le sue aspettative non furono deluse. Offburg si trovava già nel padiglione esterno dell’edificio, da dove il sovrano era solito entrare e uscire quando si addentrava nel bosco. Capì, con un solo sguardo, che la battuta di caccia era stata fruttuosa. Il sovrano lo guardò a sua volta per comprendere quale fosse l’esito del non facile compito che gli aveva affidato; anche in questo caso, si capiva che la caccia era stata fruttuosa. Fu il sovrano a parlare per primo. «Allora? Com’è andata? L’avete preso?». Mentre parlava, un servo gli sfilava gli stivali infangati e poi gli faceva calzare scarpe pulite. Il sovrano era solito cambiarsi d’abito senza lavarsi. Sosteneva che l’igiene fosse una pratica per i corpi deboli, e che il suo fisico vigoroso non necessitasse di un’eccessiva dimestichezza con l’acqua. «Certo che l’abbiamo preso. Senza problemi». Il sovrano, intanto, si cambiava gli abiti, sempre con l’aiuto del servo. Indossò un completo color cenere della seta più fine, con una giacca più lunga sul retro, che terminava con una coda di rondine. Il colletto bianco della sua camicia era ricco e vistoso. Adesso dimostrava, anche nell’aspetto, la propria sovranità. Il consigliere guardava fuori, distratto dal canto melodioso di un chiurlo tra gli alberi. «E adesso dov’è?». «È qui, maestà, nelle segrete del castello. Se sua maestà vuole vederlo, non ha che da chiederlo».


8 «Lasciamolo bollire nel suo brodo per qualche giorno. Gli farà bene». «Bottger crede di essere stato arrestato per qualche reato. Si dispera perché dice di non aver commesso alcun crimine». «Meglio così. La necessità aguzza l’ingegno. È del suo ingegno che ho bisogno, non dei suoi vizi». «Però, sarà un bene tenere in catene un uomo abituato al lusso?». «Tranquillo, Offburg! Le privazioni non fanno male a nessuno, se sono limitate nel tempo. Dovrà collaborare!». «E se non riuscisse nell’impresa? Non è certo il primo a tentare». Con un gesto annoiato, il sovrano si adagiò su un bel sofà rosso carminio. «Riuscirà, riuscirà. È il migliore». Serbava ancora, dentro di sé, la soddisfazione del cacciatore che ha centrato la propria preda. Vide se stesso nell’atto di centrare Bottger con una freccia. Non avrebbe fallito. Con un gesto della mano congedò il suo consigliere. Era certo della riuscita del suo piano. Sarebbe stato lui, e solo lui, il sovrano europeo che avrebbe ottenuto per primo quel risultato, agognato da molti. La piccola Sassonia avrebbe avuto un primato invidiato da tutti, e tutti si sarebbero inchinati ai suoi piedi. Sì, Bottger non l’avrebbe deluso. Con le maniere forti si ottiene molto, quasi tutto. Tranne l’amore.


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2. GAND, FIANDRE, ANNO DEL SIGNORE 1598

Osmolinda provava perennemente la sensazione di vivere a bordo di una nave colossale. Quella città, edificata su una serie di isolette collegate l’una all’altra da una rete interminata di ponti, conferiva un continuo senso di precarietà a qualsiasi gesto quotidiano, anche il semplice camminare. Gli infanti che si arrischiavano a compiere i loro primi passi in questo strano mondo, in quella città delle Fiandre barcollavano di più. La città si chiamava Gand, ma i suoi abitanti, in lingua fiamminga, la chiamavano Gent. Due fiumi, la Schelda e il Lys, le davano acqua e vita, colorando con i loro riflessi il grigiore del clima umido. A Osmolinda sembrava di trovarsi nell’ombelico del mondo, tra le vie e i canali affollati di gente d’ogni tipo e da una quantità spropositata di botteghe di mercanti, che esponevano chiassosamente i pregi delle loro merci. Il loro vocìo, talvolta assordante, riecheggiava per le vie fino a tarda sera. Le tele fabbricate lì, nelle Fiandre, erano richiestissime; frotte di mercanti stranieri, provenienti da paesi lontanissimi, come la Lombardia, facevano rifornimento proprio in quella zona. Camminando nelle vie, era normale sentir parlare tanti idiomi diversi, dal greco al russo. Non che a Osmolinda interessasse molto di quanto succedeva nelle strade. La sua famiglia non praticava il commercio. La ragazza era infatti figlia di un noto medico. Ma oltre a ciò, Pieter Martens, suo padre, aveva sviluppato nel tempo un grande interesse nei confronti dell’Antica Arte Regia: l’Alchimia. Era divenuto un Adepto. Nella sua abitazione, confortevole ma certamente non paragonabile alle enormi dimore dei nobili, aveva ricavato una camera segreta che aveva trasformato in Officina Alchemica, nonostante i rimbrotti della moglie, assai poco incline a simili astrazioni. Osmolinda aveva ereditato dal padre l’interesse per la materia e per la trasmutazione dei metalli. Gli effluvi, i vapori, gli aromi inconsueti, il calore spesso insopportabile, provenienti da forno alchemico e focolare sempre accesi, le procuravano una gioia profonda. Come le piaceva


10 conoscere la composizione della materia! Che gioia provava nel vedere una sostanza trasmutarsi in un’altra! Ogni volta che la vedeva entrare nel laboratorio paterno, per maneggiare provette e alambicchi, la madre scuoteva il capo, sconsolata, perché non capiva quella strana figlia, che anziché al matrimonio, pensava agli intrugli. Il destino di una donna è sposarsi e fare figli, non perder tempo a cercare di fabbricarsi l’oro! Per fortuna, la figlia maggiore, non le aveva dato pensieri: pur avendo solo diciotto anni, era già sposata da quattro e aveva due figli. Osmolinda, invece, la faceva preoccupare parecchio. A Osmolinda, non importava nulla dei discorsi della madre: aveva quindici anni e non intendeva sobbarcarsi il peso di una famiglia. I suoi interessi la spingevano a ricercare il perché delle cose, a vedere la sostanza dietro l’apparenza. In questa ricerca, era sostenuta e incoraggiata dal padre, Pieter Martens, il quale sosteneva cha la figlia era la migliore allieva che un alchimista potesse desiderare. Entrava nel laboratorio del padre e ascoltava rapita le sue spiegazioni. Lo aveva sempre fatto, fin dalla più tenera età. Mentre sua sorella Magda trascorreva le giornate tra il telaio, le bambole di pezza, il cucito, il ricamo e gli insegnamenti domestici impartiti dalla madre, senza mostrare interesse per altro, lei si stancava presto e andava a rifugiarsi nel suo porto sicuro: l’officina alchemica del padre. Guardava con interesse profondo le sostanze contenute nei vasi, e chiedeva al genitore il nome e l’uso di ciascuna di esse. Apprendeva tutto immediatamente e senza alcuna difficoltà. Il padre notava compiaciuto che con lei non occorreva mai ripetere una spiegazione. Egli le illustrava che cos’è un amalgama, che ha come base il mercurio, oppure come si prepara l’antimonio. Ad attrarre maggiormente Osmolinda, però, fu una cosa che apprese gradualmente: il percorso spirituale dell’alchimista. Comprese, nei suoi più intimi recessi, che, raffinando la materia, si eleva lo spirito. Chissà se anche a una ragazza era permesso raggiungere i livelli più alti della conoscenza! La maggior parte delle donne era analfabeta, perché istruire chi era relegata alle cure domestiche sarebbe stato uno spreco. E poi, secondo l’uomo comune, le femmine erano esseri inferiori e non capivano nulla. Osmolinda aveva già completato il suo corso regolare di studi. Aveva studiato sia con il padre che con i precettori. Da loro, non aveva altro da imparare.


11 La ragazza conosceva il latino, il greco e un po’ d’ebraico; si riproponeva anche di studiare l’arabo. Avvertiva l’urgenza di imparare tutte le lingue in cui erano scritti gli antichi Testi della sua arte. Pieter, che aveva una formazione da medico, poteva supportarla fino a un certo punto: l’alchimia era per lui un punto d’arrivo, e per certi versi poteva considerarsi un principiante. Le sarebbe piaciuto tanto poter trascorrere la vita intera a studiare: c’erano tante cose che ancora non conosceva! Ma correva l’anno del Signore 1598, e anche nelle tolleranti Fiandre lo spazio per le donne era molto ristretto. C’era qualche pittrice, qualche poetessa; ma di alchimiste, che lavorassero in proprio, nemmeno l’ombra. Nessuna disciplina, nessuna arte, nessuna istituzione mostrava rispetto e considerazione per la donna, a cominciare dalla Chiesa, cattolica o protestante che fosse. Almeno in parte, l’alchimia era differente: conferiva alla donna una certa importanza e dignità; per esempio, era consigliabile che un alchimista sposasse una donna che potesse essere un valido aiuto nell’Opera. Ma che potesse farcela da sola, non passava per la mente a nessuno. A Osmolinda sarebbe tanto piaciuto passare la sua vita a studiare, riuscire a ottenere la pietra filosofale e l’elisir di lunga vita. Ancora, ben pochi erano riusciti nell’impresa di ultimare l’Opera con risultati così alti: tra loro nessuna donna, se non come compagna. Non poteva essere lei la predestinata? Il padre si fidava di lei, tanto da affidarle il compito di controllare l’uovo filosofico durante le lunghissime fasi, di quaranta giorni, della sua trasmutazione. L’Opera avveniva in tre fasi: Opera al nero, al bianco, al rosso. La sostanza che cuoceva nell’uovo filosofico, infatti, mutava di colore. Alla ragazza piaceva vegliare per controllare l’atanor. Quelle fredde notti primaverili, specie quelle tempestose, trascorse nella preghiera e nell’osservazione della trasformazione della materia, erano quanto di più spiritualmente elevato riuscisse a concepire. Le vie più brevi all’Opera erano poco spirituali e non formative. Osmolinda e il padre raccoglievano religiosamente la limpida rugiada di maggio per avviare le trasformazioni con il più puro dei liquidi. Oltre agli evidenti contenuti filosofici e teosofici, l’alchimia aveva applicazioni pratiche assolutamente utili nella vita quotidiana. È grazie a esse che gli alchimisti riuscivano a mantenersi.


12 Alcuni alchimisti siriani, per esempio, alcuni secoli prima, avevano scoperto una proprietà dei derivati del fosforo: a contatto con l’acqua si infiammano. Avevano dunque inventato una formidabile arma da guerra: il “fuoco greco”, utilizzata a profusione dall’esercito bizantino a cui avevano rivelato la formula. Quando una nave nemica, araba prima e turca poi, si avvicinava troppo alla flotta bizantina, i marinai gettavano in acqua quella misteriosa sostanza che incendiava la superficie del mare, avviluppando nelle fiamme i malcapitati avversari. Grazie a questo fuoco, che terrorizzava i nemici, l’impero bizantino era riuscito a sopravvivere agli attacchi dall’esterno per un intero millennio. La maggioranza degli alchimisti, tra cui il padre, traeva i propri proventi dalla preparazione galenica di misteriosi farmaci.


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Immersa in pensieri elevati, Osmolinda trascorreva parecchie ore in solitudine. Infatti, con le coetanee parlava poco, perché non aveva interessi in comune con loro. Non aveva amiche. Le ragazze della sua età non facevano che parlare di innamoramenti e pettinature, mentre a lei interessava l’atanor! Osmolinda si interessava poco al proprio aspetto, non cercava di rendersi più bella, indossava abiti semplici. Non sapeva di avere un visetto affascinante, in cui gli occhi, di un blu profondo, spiccavano tantissimo, incorniciati com’erano, da lunghe ciglia, nere come i capelli. Fin da quando era bambina, gli uomini avevano iniziato ad ammirarla. Ma lei era del tutto indifferente al proprio fascino. Riteneva oltraggioso che qualcuno potesse apprezzarla per la sua bellezza, di cui non aveva alcun merito, anziché per la sua intelligenza. La madre e la sorella si stizzivano un po’ per il suo comportamento. Magda, la sorella, non la capiva affatto. Quando le diceva: «Sei bellissima, Osmolinda. Un principe ti chiederà in moglie!», lei si arrabbiava, dicendo che aveva altro a cui pensare. La madre la conduceva al mercato, le acquistava belle stoffe, le cuciva bei vestiti, che lei indossava con assoluta indifferenza. Magda le intrecciava i capelli neri, la pettinava in tanti modi diversi, mentre lei trovava noioso star seduta ad aspettare che la sorella finisse di giocare con le sue chiome. Quando era lontana dall’Officina, si sentiva un pesce fuor d’acqua. Aveva già ricevuto numerose proposte di matrimonio, che erano state puntualmente respinte. Aveva rifiutato anche Jacob Hols, il più ricco mercante di Gand, di vent’anni più anziano di lei. La madre, lusingata per quella proposta, aveva cercato invano di convincerla dei vantaggi di quell’unione, ma Osmolinda era stata assolutamente irremovibile. Mai e poi mai avrebbe venduto se stessa a quel vecchio, per nessuna ragione al mondo. L’ira della madre si era protratta per giorni e giorni; Giuliana aveva messo in atto tutte le possibili tattiche di intimidazione e di persecuzione


14 domestica, senza ottenere alcun risultato. Poi, si era rassegnata. Quella figlia era proprio una svitata. Magda, invece, a quattordici anni, aveva contratto matrimonio con il figlio di un notaio piuttosto ricco, avviato alla stessa professione del padre. Non era bello, Goffredo, ma almeno aveva un carattere mite. Magda, seppur non felicissima, sembrava piuttosto soddisfatta della propria sistemazione. Viveva con il marito in una bella casa nuova, in un altro quartiere di Gand. Osmolinda in realtà non escludeva, in linea teorica, la possibilità di contrarre matrimonio. E come avrebbe potuto? Quella era la mentalità del suo tempo. Quello era l’ineluttabile destino di una donna. Ma non si trattava solo di questo.


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La Scienza Ermetica, a cui era dedita, era totalmente impregnata da un esplicito simbolismo sessuale. Il padre aveva dovuto accantonare il proprio imbarazzo e parlare con la figlia in modo inequivocabile. Tutto ciò che esiste, per gli alchimisti, è dotato di un sesso. Non soltanto gli animali, com’è ovvio ed evidente. Ma anche i minerali. La Materia Prima degli elementi era l’unione dei due opposti principi, il maschile e il femminile. Tutto ciò che è secco, caldo, attivo come il sole, è maschile; tutto ciò che è umido, freddo, passivo, mutevole e sfuggente come la luna è femminile. La terra è femminile, il cielo è maschile. I testi che la ragazza leggeva contenevano illustrazioni del Coito alchemico del Sole e della Luna, di Venere e Mercurio, addirittura dell’incesto simbolico della Terra madre con il Figlio. Per certe operazioni, gli alchimisti adoperavano anche uno strano apparecchio, il “doppio pellicano”, che sembrava ricalcare due corpi, uno maschile e uno femminile, avviluppati nell’amplesso. Osmolinda era dunque perfettamente consapevole di non poter sfuggire alla sessualità universale. Però non le interessava sposare un uomo qualsiasi. Attendeva l’Adepto, l’uomo che potesse essere realmente complementare, nell’anima e nel corpo. Il suo obiettivo era il raggiungimento della perfetta fusione. Chissà che un giorno… Il padre sperava che Osmolinda, la sua figlia diletta, riuscisse ad avere una vita degna del suo talento, migliore di quella che egli aveva potuto offrire alla sua famiglia. Pieter infatti garantiva alla famiglia una vita piuttosto agiata, ma non sfarzosa. La casa dove risiedevano era comoda, ma non lussuosa. L’officina dove compiva i suoi esperimenti era ben fornita e arredata con cura, ma era piccola e piuttosto buia. Era un uomo di buon cuore, e se un uomo povero chiedeva le sue cure, egli prestava il suo aiuto gratuitamente, tra i rimbrotti della moglie. Giuliana infatti era una donna molto legata all’aspetto materiale dell’esistenza; le sarebbe tanto piaciuto vivere come una gran signora. Però, con un marito come Pieter, era costretta ad accontentarsi.


16 Ogni tanto, qualche ricco signore elargiva al medico alchimista lauti compensi per preparati curativi, soprattutto durante le epidemie e le guerre, sempre immancabili. Purtroppo, le Fiandre erano ormai da trent’anni devastate da un conflitto che sembrava non aver mai fine, scoppiato, inizialmente, con pretesti religiosi: la scelta, da parte di alcune delle città dei Paesi Bassi, delle dottrine protestanti di Martin Lutero. La reazione dell’impero, soprattutto degli Spagnoli, non si era fatta attendere: era evidente che quella religiosa era solo una giustificazione per rivendicare l’autonomia. Il conflitto andava avanti a fasi alterne, tra crudeltà, vendette, stragi, rivendicazioni, assedi e pestilenze. Solo il rapporto strettissimo tra gli abitanti di quelle terre e il loro mare aveva impedito che la popolazione morisse. Pieter si considerava un patriota: si prodigava nel curare feriti, e inoltre, nella quiete della sua officina, cercava di trovare il modo di finanziare la sua gente. Se fosse riuscito a ottenere la Pietra Filosofale, avrebbe donato tutto alla sua città. Nessuno osava criticarlo per il fatto che non imbracciasse le armi: si rendeva utile comunque con i suoi farmaci. Tutti i potenti dell’Europa avrebbero ricompensato profumatamente l’alchimista che fosse riuscito a tramutare vili metalli in oro. Ma ciò sembrava impossibile.


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5. DRESDA, 1707

Per i prigionieri, costretti a resistere tra il fetore degli escrementi, il freddo intenso, le cimici e la penombra umida dei sotterranei, persino l’idea della morte era piacevole. Incatenati e addossati alle pareti, trascorrevano le loro giornate senza potersi muovere, con la speranza che qualcosa, qualsiasi cosa, li liberasse dalla prigionia. Bottger era in catene, come tutti gli altri. Manteneva un contegno austero e dignitoso. Non si dimenava più, non si lamentava più. L’uomo sapiente deve dimostrare la propria forza d’animo anche, anzi, soprattutto, nella sventura. Doveva trattarsi di un errore. Quella brutta mattina di quindici giorni prima, appena giunto in città dal Portogallo, dove aveva trascorso un anno, aveva preso alloggio in una locanda in centro e vi aveva trascorso la notte. Al mattino, mentre prendeva abiti puliti dalla valigia, nella camera, improvvisamente, erano entrate delle guardie. Si trattava di uomini piuttosto sudici e dai modi spicci. Portavano un’uniforme grigia. Uno di loro, il più autorevole, che, chissà perché, sembrava a disagio, gli chiese: «Siete voi Johann Friedrich Bottger?». Alla sua risposta affermativa, ordinò: «Prendetelo!». Tante mani lo avevano afferrato, legato e imbavagliato. Infine, lo avevano bendato e portato via su un carro. Si era ritrovato lì, in quel luogo oscuro, fetido e orrido. Quando gli avevano tolto il bavaglio, si era messo a urlare. «Sono Bottger! Sono un famoso alchimista! Non sono un criminale! Perché mi avete portato qui? Liberatemi! Voglio parlare con il principe! Portatemi da lui!». Nessuno gli aveva risposto, né tantomeno gli aveva fornito spiegazioni. I giorni erano trascorsi, e le speranze di uscirne vivo sembravano diminuire. E dire che, pur essendo un uomo di scienza, aveva sempre tenuto al suo aspetto fisico! Adesso, la sua camicia, un tempo candida, era sporca e lacera, il farsetto strappato in più punti, la sua barba lunga e incolta, e il prurito in testa faceva sospettare che vi fossero i pidocchi.


18 Perché era caduto così in basso? Chi poteva aver dato l’ordine di arrestarlo? E con quale accusa? Aveva due sole passioni: la prima era l’alchimia, che lo aveva reso celebre. La seconda, erano le donne. Sì, sì, sapeva bene che, per chi fa ricerca spirituale, si trattava di una passione disdicevole, ma lo sanno tutti che la carne è debole. Si era sempre mosso con grande prudenza, evitando fanciulle vergini e selezionando alcune donne sposate, per non incorrere nelle ire di padri e mariti. Non poteva certo essere una donna la causa del suo arresto. Quanto alla sua arte, ecco, qualche indizio poteva esserci. Aveva dato a un nobile polacco un antidoto per la sterilità di una vacca, pur sapendo che non avrebbe funzionato. Aveva venduto come argento una lega di sua invenzione, perché aveva bisogno di denaro. Ma era successo a Brema, qualche tempo fa. E poi, c’era quella vecchia faccenda in sospeso con Federico I di Prussia... A Dresda era già venuto due anni prima, perché era stato convocato dal principe di Sassonia, Federico I Augusto, che da poco aveva ottenuto la corona di Polonia. Ricordava ancora con molta precisione quell’incontro. Era riuscito a fatica a giungere a piedi alla reggia, perché soffiava un impetuoso vento del nord che spazzava le strade. Bottger si era presentato all’ingresso del palazzo scarmigliato e con i vestiti stazzonati a causa del forte vento di tramontana, imprecando tra sé per quel contrattempo che lo rendeva impresentabile. Ma una dama di sua conoscenza, che per caso si era imbattuta in lui, lo aveva condotto in una camera perché potesse sistemarsi. Era stata una fortuna. Il sovrano, con tanto di paltò bordato di ermellino e diadema sul capo, lo aveva ricevuto nella sala del trono, dove l’oro e il rosso porpora erano i colori dominanti. Tanta pompa e tanto sfarzo gli erano sembrati spropositati per ricevere proprio lui, che non era un capo di stato o un’autorità ecclesiastica. Voleva impressionarlo? E quale poteva essere il motivo della convocazione? Eseguì un perfetto inchino, non privo di un’involontaria ironia. Augusto il Forte se ne accorse e lasciò che l’alchimista rimanesse in piedi. «Nutrite forse scarsa simpatia per me e per il mio regno, signor Bottger?». «No, maestà, non ho nulla contro di voi e la Sassonia…»


19 «Davvero, Bottger? E come si spiega che voi abbiate lavorato in tante città di lingua tedesca, ma non qui? Credete che vi sarebbe riservato un trattamento indegno, forse?». «Niente affatto, maestà, ma non ho mai ricevuto alcuna proposta interessante, qui». «E che mi dite dei vostri… problemi con il re di Prussia? Pare che voi abbiate millantato facoltà che non avete!». «È una lunga storia, maestà. Il re voleva…». Augusto lo interruppe con un gesto stizzito della mano. L’alchimista si interrogava sul vero significato di quell’incontro. «Ho saputo che avete fabbricato un grès di ottima fattura, a Colonia, ad Aquisgrana e a Coblenza». Bottger era molto orgoglioso del proprio lavoro. «Sì, maestà, è vero». «E come fate a ottenerlo?». Gli occhi del sovrano si fecero piccoli e penetranti. Si alzò dal trono e si sedette in una poltrona normale, vicino a lui, indicandogli, finalmente, una sedia. Un tempo, era stato un alchimista dilettante. «Non posso dirvelo, maestà. Sono vincolato a giuramenti di segretezza». «Mi piacete, Bottger» mormorò il sovrano sorridendo. Ordinò di servire del caffé e del cacao in tazza. L’odore intenso delle due bevande penetrò nelle narici dell’alchimista e del sovrano, che prese una tazza di cioccolata e l’annusò avidamente. Amava quelle prelibatezze americane. Anche Bottger gradì molto le due bevande. «E così siete un uomo di parola, Bottger. Me l’avevano riferito. Ma rimarrete tale anche se dovessi promettervi qualcosa di veramente» e soppesò lentamente le parole, «veramente allettante? Anche se dovessi rendervi sfacciatamente ricco?». Bottger era convinto di sapersi muovere negli ambienti di corte e di conoscere le frasi giuste per ciascuna occasione. Scelse quella che gli sembrò più adatta. «Nulla è per me più allettante del favore di vostra maestà». Federico I Augusto, detto Augusto il Forte, scoppiò in una risata inaspettata. «Smettetela di parlare come un pappagallo ammaestrato. Siete un uomo di scienza. So bene che il favore di un sovrano, senza i quattrini, per voi vale quanto per me il favore di una servetta». Il principe si tolse il diadema e lo ripose sul tavolino, vicino alla sua tazza, ormai vuota. Poi, si alzò e si mise a passeggiare nervosamente.


20 «Sapete, Bottger, in gioventù ho praticato, per qualche tempo, la vostra arte. Ma non mi convincevano certe affermazioni. Come posso credere che lavorando la materia, si affina lo spirito? Vi siete affinato, voi? Siete un donnaiolo, mi è stato detto. Ebbene, ciò non fa di voi un cattivo alchimista. Nessun alchimista riuscirà mai a fabbricare la pietra filosofale o l’elisir di lunga vita. Baggianate per religiosi! Roba vecchia! Perfezione dello spirito e sublimazione della materia! Chi volete che ci creda?». Il principe si fermò e sedette nuovamente nella poltrona accanto a Bottger, come schiacciato dall’enormità delle proprie affermazioni. Poi, continuò. «Credo, piuttosto, che l’alchimia possa essere praticata come una vera scienza moderna, con metodi e obiettivi moderni. Io ammiro Newton e Galileo. L’era della magia è finita. Basta con la confusione tra verità tangibili e superstizione! I tempi sono cambiati!». Bottger era sinceramente stupito. Nessuno gli aveva mai fatto simili asserzioni, meno che mai un sovrano. Tutti i reali che aveva conosciuto gli avevano sempre chiesto di costruire l’elisir di lunga vita o di trasformare i metalli comuni in oro. Nessuno aveva dimostrato una simile apertura mentale. Come poteva dar torto al principe? Ma non comprendeva a che cosa tendesse il discorso, nel suo complesso. «Condivido le vostre affermazioni, maestà». E tacque, in attesa della proposta reale. Augusto batté le mani. Un servo condusse un vassoio d’argento, che conteneva un oggetto ricoperto da un tovagliolo di pizzo. Il sovrano, delicatamente, lo prese nelle proprie mani e lo pose su un tavolino vicino al trono. Quindi, tolse il tovagliolo, scoprendo un piccolo, splendido vaso. Aveva lo sfondo bianchissimo, trasparente in controluce, profili in oro e meravigliosi disegni che raffiguravano un drago e fiori di loto. «Sapete che cos’è?» chiese il sovrano, prendendo in mano il prezioso oggetto e cominciando a carezzarlo, «È un vaso cinese della dinastia Ming. Ha quasi quattrocento anni e appartiene alla mia famiglia da oltre un secolo. Perché nessuno in Europa riesce a realizzare nulla di così perfetto?». Bottger ammirando il vaso, rispose: «Perché nessuno conosce il segreto della sua lavorazione, la Cina lo custodisce gelosamente da secoli. La chiamano porcellana». Alzando lo sguardo sul principe, si accorse che era rosso in viso e che sulla sua fronte alta pulsava una vena. Quando parlò, nella sua voce si avvertiva il fragore del tuono.


21 «E come mai nessuno lo conosce, Bottger? Perché inseguite chimere, ecco il perché. Voi alchimisti perdete il vostro tempo nella ricerca di cose che non troverete mai, mai! Se i cinesi riescono a costruire la porcellana, dobbiamo riuscirci anche noi! È stato così anche per la seta!». «La formula è segreta, maestà! L’arcano è sia nei componenti che nella lavorazione. E anche la decorazione ha la sua funzione». Il sovrano ricominciò a passeggiare nervosamente. «Sapete, signore, più di cento anni fa i miei antenati, sul trono di Sassonia, bandirono una sorta di gara tra talenti. Promisero un favoloso compenso a chi fosse riuscito a scoprire la formula della porcellana. Da allora, tutti coloro che si sono succeduti sul trono da me occupato, hanno arricchito quel compenso, ma nessuno, proprio nessuno, si è mai presentato per riscuoterlo. Come mai, Bottger?». «È molto difficile fabbricare la porcellana, maestà. Io stesso ho provato più volte, ma senza successo. Sono riuscito soltanto a migliorare la formula del grès…». Il sovrano lo interruppe. «So tutto, Bottger. Il vostro grès è la sostanza più simile alla porcellana che io conosca. È per questo che ho pensato a voi. Volete lavorare qui a Dresda per me? Volete scoprire la formula della porcellana? Trovatela e otterrete fama e ricchezza!». Bottger rimase interdetto. Nessuno gli aveva mai proposto qualcosa del genere. «Lo farò, maestà. Ma non adesso. Ho già preso altri impegni. Devo andare in Portogallo». «Tralasciateli, i vostri impegni. Quel tesoro attende proprio voi!». «Non sono avvezzo a mancare alla mia parola, maestà. Al mio ritorno, verrò da voi. Vi do la mia parola». Il sovrano non si aspettava un rifiuto, da parte sua. Lo aveva congedato rapidamente, biascicando poche parole rabbiose. In seguito, Bottger si era pentito mille volte per non aver accettato subito l’offerta del principe di Sassonia. Il lavoro in Portogallo non gli aveva dato quelle soddisfazioni che si era aspettato e temeva di aver perso la grande occasione della sua vita. Dopo due anni di assenza, tornato in Germania, si era fermato a Coblenza per qualche mese, per correre poi a Dresda. E ora, in galera! Perché? Perché si ritrovava in catene, con i piedi nei propri escrementi? Forse l’inimicizia del re di Prussia lo aveva raggiunto…


22 Mentre rimuginava sulla propria situazione, sentì un tramestio alla porta della cella. Udì anche delle voci. Urlò, come faceva sempre: «Sono un alchimista, sono innocente! Portatemi dal principe di Sassonia!». Entrarono cinque uomini. Con orrore si accorse che erano gli stessi che lo avevano catturato. Che cosa gli avrebbero fatto? Erano forse venuti per torturarlo? «Che volete da me? Perché mi avete arrestato? Non ho fatto niente…». Non potè finire, perché si ritrovò legato, bendato e imbavagliato. Lo condussero via con la forza. Di sicuro, stavano per condurlo alla camera dei supplizi! Il tragitto, questa volta, fu brevissimo. Quasi subito, lo slegarono e gli tolsero il bavaglio e la benda. Qualcuno gli strofinò un pezzo di tela umida sui piedi ricoperti di lerciume. Si ritrovò in una stanza lussuosa, con molte porte e finestre che si aprivano verso un bosco: quel tipo di locali che si chiamano “giardino d’inverno”. I suoi occhi, ormai abituati al buio della prigione, reagirono male alla luce violenta e cominciarono a lacrimare. «Vi sono piaciuti i miei sotterranei, Bottger?». La voce alle sue spalle lo fece trasalire: il principe di Sassonia! Non portava gli abiti sfarzosi del loro primo incontro, sembrava un qualsiasi signore di campagna.


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6

«È questa la vostra ospitalità, maestà?». Augusto cominciò a ridere. Poi, come due anni prima, fece servire caffé e cacao, accompagnati da una squisita torta al cioccolato. Che cos’era, quello? Uno scherzo di cattivo gusto? Voleva fargli comprendere come si passa dalle stalle alle stelle? «Vi piace questa torta al cioccolato, Bottger? È UNA SPECIALITA’ DI Vienna. Anche la sua formula è segreta, come quella della porcellana. Voi state gustando la porcellana della pasticceria». Osservava divertito le condizioni del suo ospite. «Siete piuttosto malridotto, vedo. Nessuna donna vi degnerebbe di un’occhiata. Vi rifarete presto, non dubitate. Il lavoro farà guarire il vostro orgoglio ferito. Piuttosto, ditemi di questa torta, Bottger. Che cosa sarà mai questa meravigliosa crema che la farcisce?». «Marmellata di rose, maestà. Lo intuisco dal colore, dall’odore e dalla consistenza. E adesso mi dovete una spiegazione. Perché mi avete fatto arrestare?». Il torto subito lo rendeva arrogante e impetuoso. Il principe, invece, era assolutamente calmo e gustava la sua cioccolata dimostrando nel viso la sua goduria. Era un uomo frugale, cioccolata e caffé erano le sue uniche debolezze. Continuò tranquillamente, mentre Bottger lo fissava in silenzio, in attesa di una risposta. Quando ebbe finito di mangiare e di bere, un servo portò via tazze e piattini Soltanto allorché furono soli il sovrano rispose a Bottger. «Non intendo perdermi la vostra collaborazione. Mi siete già sfuggito una volta. Da oggi in poi, voi lavorerete solo per me, finché non troverete la formula della porcellana. Nel frattempo, avrete l’onore di essere mio ospite sotto il mio stesso tetto». «Nelle segrete?» chiese l’alchimista. «No, nell’ala destra del castello. Seguitemi, vi mostrerò il vostro alloggio». Il principe lo guidò attraverso sontuosi corridoi dalle pareti a specchio, con grandi finestre con vista sul parco. La servitù si inchinava al suo


24 passaggio, qualche dama arrischiava un inchino. Le donne sapevano che il sovrano odiava il cicaleccio e la civetteria, quindi anche le dame di compagnia della principessa Margherita si attenevano a severi codici di comportamento. Al passaggio di Bottger, tutti gli lanciavano occhiate incuriosite. Era normale: era uno sconosciuto e per di più, era malridotto e puzzava. Giunto alla fine dello spazioso corridoio al pianterreno dell’ala destra, il principe si fermò davanti a una porticina alla sinistra, prese una chiave che aveva in tasca e la aprì. Quindi, introdusse Bottger nella camera ed egli stesso lo seguì. Era una bella camera spaziosa, con le volte a botte, affrescate con scene di amorini a caccia. «Questa è stata la mia camera, nei miei anni verdi. Sono molto legato a essa. Abbiatene cura». Volse uno sguardo affettuoso ai mobili, alle tappezzerie, alle suppellettili; poi, aprì una tenda verde. Alla sua apertura, si svelò una porticina. Il principe la aprì e invitò Bottger a entrare. Lo studioso si ritrovò in una splendida officina alchemica, dalle pareti rivestite di scaffali. In una di esse, come impressa a fuoco sull’intonaco, si leggeva: “È vero, senza menzogna, certo e molto veritiero Ciò che è in basso è come ciò che è in alto E ciò che è in alto è come ciò che sta in basso Per compiere il miracolo della Cosa Una. E come tutte le cose furono da Uno, per mezzo dell’Uno: Così tutte le cose sono nate da questa Cosa Unica, Per adattamento.” «La Tavola Smeraldina!» esclamò Bottger. «Già» soggiunse il principe piazzandosi davanti a essa, «la Tavola che riporta le parole incise sul gigantesco smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero, quando in seguito alla ribellione a Dio, fu sconfitto dall’arcangelo Michele e precipitò dal Cielo. La conoscenza completa e perfetta che gli alchimisti aspirano a ritrovare. Giusto?». Bottger annuì e si avvicinò al fornello alchemico, il cosiddetto “atanor”. L’avrebbe alimentato a legna oppure a olio, mai a carbone, un vero alchimista non adopera il carbone. Lì, avrebbe messo a fuoco l’uovo


25 filosofico, il cosiddetto “aludel”, un uovo di cristallo in cui si sarebbero compiute le trasformazioni, e che costituiva la sommità dell’atanor. «La saldatura delle giunture del fornello si chiama Sigillo di Ermes, se non vado errato… Ma vedo che la vostra attenzione è attirata da qualcos’altro». Bottger infatti stava osservando una sorta di pendola messa in moto dall’acqua e regolata con un tubo di una lega d’argento. «Mio padre lo fece portare da Magdeburgo. È l’orologio costruito dal grandissimo alchimista Gerberto d’Aurillac, che poi divenne papa con il nome di Silvestro II». Il sovrano si avvicinò al meccanismo e lo accarezzò. Quanti ricordi… «Il re mio padre me lo regalò in occasione del mio sedicesimo genetliaco. Vedo dalla vostra espressione che non eravate a conoscenza della sua esistenza. La leggenda dice che l’eccellenza di Gerberto in campo alchemico fosse dovuta a un’intensa collaborazione con il demonio stesso. L’orologio risale all’anno 997. Dicono che Gerberto l’abbia costruito con l’aiuto del diavolo. Ma noi siamo persone razionali, non crediamo a storie simili, vero, Bottger? E poi non vogliamo credere che un Pontefice fosse votato al male, non è così? È un pezzo unico: è regolato con la stella polare». Su uno scaffale, faceva bella mostra di sé un bellissimo codice miniato, aperto su una pagina che raffigurava la Tavola Smeraldina e il Santo Graal. «È una bella edizione trecentesca dell’Aurora Consurgens, il testo che qualcuno attribuisce a Tommaso d’Aquino. È stata rinvenuta qui, a Dresda, in un laboratorio alchemico abbandonato. Contiene dei veri capolavori della miniatura». Bottger intanto esplorava un recesso della camera, che ospitava l’oratorio. Era piuttosto spartano: un inginocchiatoio, un tavolino con la Bibbia, un crocifisso, un’acquasantiera. Il lavoro alchemico è preghiera: tutto procede dall’Uno, a cui bisogna volgere continuamente il pensiero. «Questa è la prima Bibbia stampata da Gutenberg. È preziosissima, abbiatene cura. L’ho ricevuta in dono da un nostro comune amico» spiegò il sovrano. «Chi sarebbe il nostro comune amico?» s’informò stupito l’alchimista. Augusto non si curò di rispondere, anche perché stava osservando le scarpe insozzate di Bottger. «Accettate un suggerimento. Andate a farvi un bel bagno e a radervi. Fatevi passare il rasoio anche sulla testa, in modo da eliminare eventuali ospiti indesiderati. Vi attenderò qui».


26 Bottger fu ben lieto di cancellare dal suo corpo ogni traccia della prigionia. I servi lo aiutarono a indossare abiti nuovi e puliti, omaggio del principe, mentre un barbiere provvedeva a una totale rasatura del capo. Allo specchio, alla vista di quel cranio lucido, l’alchimista quasi non si riconobbe. Comunque, doveva rassegnarsi; i capelli, in ogni caso, sarebbero ricresciuti. «Signore» disse un servo dall’aria sveglia, andandogli vicino, «il principe ha pensato anche a una parrucca. Se volete, potete metterla». Bottger non se lo fece ripetere due volte. Anche se non somigliava alla sua vera chioma, gli dava un aspetto più gradevole. E poi la moda esigeva l’uso della parrucca. Alcuni gentiluomini collezionavano parrucche di tutte le fogge e i colori. Chiese al servo come si chiamasse. «Wolfgang, signore. Il principe mi ha assegnato al vostro esclusivo servizio». «Dimmi, Wolfgang. È da tanto che si aspetta il mio arrivo? Vedo che tutto è pronto!». «Da circa un mese è stato predisposto tutto». Bottger dunque tornò nell’officina alchemica, dove il principe lo attendeva. «Sapevate già del mio arrivo, a quanto pare. Perché mi avete imprigionato? Avevo già deciso di venire a lavorare per voi!». Il sovrano rise di cuore. Poi, si fece serio. Gli sbalzi di umore di quell’individuo erano veramente fuori del comune. «Non potevo attendere ancora e non intendo lasciarvi libero. Non so se siate persona degna di fiducia; d’altronde, i vostri problemi con il re di Prussia non depongono certo a vostro favore. Voi starete qui, ma non potrete uscire senza il mio consenso e senza una scorta adeguata. Vi consiglio di non tentare la fuga, tutte le uscite sono sorvegliate. Voi stesso siete sorvegliato. Non riuscirete a sfuggire alla morsa che ho creato per voi. Per me personalmente, per l’Europa intera è essenziale che voi riusciate nell’impresa. Voi fabbricherete la porcellana, e lo farete qui. A Dresda nascerà una fabbrica di porcellana. Lo esigo! Ve lo ordino!». Le allusioni al re di Prussia turbarono non poco l’alchimista, il quale sapeva di essere incorso in un grave errore, in quel caso. «E se per caso dovessi fallire? Quanto tempo mi date? L’alchimia è un lavoro certosino, richiede tempi lunghi, dedizione e pazienza!». «Non vi darò limiti di tempo, non preoccupatevi. Se tra dieci anni, supponiamo, dovessi stancarmi della vostra presenza, diventata ormai


27 inutile» la voce del principe si fece sommessa, l’espressione divertita «diventerete mio ospite in giardino, sotto il tiglio». «Non capisco, maestà». «In una tomba, amico mio!». Bottger ebbe un sobbalzo. Era proprio una trappola mortale, quella in cui si era cacciato. «La scelta è vostra. Fabbricherete la porcellana o morirete. Da parte mia, avrete tutto ciò che vi occorre. Denaro, sostanze, persone: è tutto a vostra disposizione. Il tesoro promessovi è ancora a vostra disposizione. Se desiderate una donna, eccetto la principessa mia consorte e mia nipote Teresa, consideratela vostra». «Non mi lasciate alcuna scelta, maestà». «Infatti, non avete scelta. Adesso, dovete preparare una prima lista di ciò che vi occorre. Quindi, vi prego di controllare il contenuto dell’officina. Domani stesso vi metterete al lavoro. Per oggi, vi permetto di esplorare quest’edificio; è giusto che lo conosciate, visto che per un lungo periodo sarà la vostra casa. Wolfgang vi guiderà». Il principe, si alzò e diede un’ultima occhiata alla camera. «Se vorrete, in seguito, potrete scegliervi un collaboratore di vostra fiducia. Per il momento potrete servirvi di Wolfgang come aiutante. Ah, dimenticavo. Non rivelerete a nessuno il motivo della vostra presenza qui. Inoltre, pretendo che voi compiate l’Opera. Forse siete un millantatore, come sostiene il re di Prussia, ma dovete tentare di fabbricare l’oro. Consumerete i pasti nella vostra camera, a meno che io non vi inviti alla mia mensa. Adesso, vi lascio. Buona permanenza!».


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7. GAND, 1598

All’età di nove anni, numero magico per eccellenza, tre moltiplicato per tre, Pieter aveva svelato alla figlia Osmolinda gli arcani legami che mettevano in corrispondenza la Materia con le Potenze Celesti. I segni zodiacali avevano un’influenza diretta sulle varie fasi della Grande Opera Minerale. Osmolinda aveva studiato a memoria la successione delle costellazioni in relazione all’Arte alchemica. Più volte al giorno, la bambina, diligentemente, ripeteva al padre: “Ariete / Calcinazione Toro / Congelazione Gemelli / Fissazione Cancro / Dissoluzione Leone / Digestione Vergine / Distillazione Bilancia / Sublimazione Scorpione / Separazione Sagittario / Incinerazione Capricorno / Fermentazione Acquario / Moltiplicazione Pesci / Proiezione” Il buon Filosofo, com’era l’alchimista, era infatti tutto l’anno impegnato nella preparazione degli Elementi che avrebbe adoperato per la Grande Opera Minerale, che veniva realizzata in primavera. Lo studioso trascorreva tutto il suo tempo nella cura amorevole dei minerali, che non potevano mai essere utilizzati così come venivano estratti dalle viscere della Madre Terra. Mercurio, Zolfo e Sale (quest’ultimo veniva a volte sostituito dall’arsenico) in natura vengono rinvenuti impuri, misti ad altri minerali. Gli Elementi della Grande Opera devono essere puri, così come Dio li volle allorché li creò. L’alchimista, d’altronde, vuole collaborare con la natura, non sostituirsi a essa. La Terra infatti impiega diversi secoli per dare vita a un filone d’oro: secondo gli alchimisti cinesi, ci vogliono esattamente


29 quattromilatrecentoventi anni. Nel chiuso della sua Officina, nei limiti spaziali dell’uovo filosofico, gli studiosi acceleravano i normali processi naturali. «Padre, com’è possibile che avvenga la trasmutazione? Come può una sostanza trasformarsi in un’altra?» chiese un giorno Osmolinda. «Vedi, Osmolinda, tutto ciò che noi vediamo è solo apparenza. Noi non riusciamo a discernere le vere Sostanze. Le differenze che noi notiamo tra un minerale e un altro, tra una pianta e un’altra, sono solo apparenza. Tra ferro, piombo, argento e oro non esiste nessuna reale differenza. Tutto discende dall’Uno, rammenta. Noi, in realtà, non operiamo vere trasmutazioni. Il Mercurio è già oro. Lo Zolfo è già oro. Noi ci limitiamo a rendere evidente questa realtà filosofica, tirando fuori l’oro che è già in essi». «O il piombo che è già nell’oro». Osmolinda ascoltava e approvava. Non sarebbe stato necessario ripetere la spiegazione. Aveva capito al volo. Il padre, compiaciuto, osservava come l’interesse della figlia per la Scienza Ermetica non accennasse a scemare con l’età; anzi, in lei, si evidenziava grande amore per l’Arte, commisto a un acume e a una dedizione non comuni. Ciò lo consolava della cattiva scelta della moglie. Giuliana, la ragazza di cui si era innamorato, che poi era divenuta sua moglie, non solo non mostrava alcuna inclinazione per l’alchimia, ma addirittura non nascondeva una certa avversione. Pieter cercava di moderare i continui rimbrotti della moglie a danno di Osmolinda, che somigliava al padre sia nel fisico che nelle inclinazioni. Osmolinda apprese anche l’arte di scegliere la Materia Prima con cui dare avvio alla Grande Opera, che secondo il padre doveva sempre essere eseguita con infinita pazienza nell’atanor, seguendo la lunga e complicata Via Umida. Il vero Filosofo non doveva cedere all’impulso di ottenere risultati in tempi più rapidi, mai lasciarsi andare a operazioni frettolose. Roba da “soffiatori”: questo era il soprannome sprezzante che gli alchimisti attribuivano a coloro che ambivano a un unico risultato: ottenere la trasmutazione dei metalli vili in oro, per ottenere fama e ricchezza. Per abbreviare i tempi morti e lunghi della Via Umida, i “soffiatori” si servivano del crogiolo, seguendo la breve ma pericolosa Via Secca, che talvolta otteneva risultati rapidi, ma poteva causare fiammate ed esplosioni.


30 Pieter spiegò alla figlia come in passato alcuni alchimisti si fossero smarriti lungo le fascinose vie del male, perché inseguivano sostanze organiche particolari per avviare l’Opera. Alcuni, errando, ritenevano che solo il sangue umano potesse essere adatto; era rimasto impresso nella memoria di tutti il caso di Gilles de Rays, amico e valoroso compagno d’armi di Giovanna d’Arco. Egli, alchimista ambizioso, formulò la teoria che solo il sangue di fanciulli innocenti potesse essere la giusta Materia Prima. Senza alcuna esitazione, servendosi della propria autorità, uccise alcuni fanciulli per raccogliere il loro sangue. Ma la notizia si sparse, e Gilles fu arrestato, processato e condannato a morte. Errore, grave errore, abbandonare la Via Ermetica per inseguire prospettive di facili guadagni. Non è l’oro il fine ultimo del lavoro dell’alchimista, ma il raggiungimento della perfezione morale e della conoscenza delle verità prime e ultime, di cui l’oro non è altro che il simbolo materiale. Nessun uomo avido sarebbe mai riuscito a ottenere la Pietra Filosofale. Uccidere qualcuno per servirsi del suo sangue o di qualche altro organo, era sicuramente il peggior metodo per dare avvio all’Opera. Secondo Pieter, invece, le sostanze giuste erano da ricercare in quel mondo poco conosciuto dei muschi, delle alghe, dei licheni. Erano esseri viventi umili, antichissimi e semplici, ma completi in ogni parte. La perfezione va cercata nell’umiltà. Egli, dunque, insegnò alla figlia a cercare una particolare alga, chiamata “sputo della luna”, che talvolta si trova sul terreno, nelle pozzanghere dopo gli acquazzoni. Per la ragazza, fu sempre un’emozione intensissima, quella di reperire con le proprie mani la Materia Prima e riporla religiosamente nei suoi alambicchi. Nella sua Opera, l’alchimista doveva riprodurre, in piccolo, ogni fase dei sei giorni della Creazione, come sono elencati nella Genesi: creare un firmamento, un sole, una luna, un arcobaleno e così via.


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Durante le calde notti estive, Pieter, quando le vicende della guerra lo consentivano, conducendo Osmolinda per mano, usciva da Gand e si recava in radure buie. Padre e figlia stendevano una coperta sull’erba e si sedevano a guardare gli astri nel cielo. Pieter spiegava alla bambina le orbite dei pianeti e illustrava le loro influenze sulla vita di ciascuno e sui minerali. Dimostrava quale profonda influenza le fasi della luna avessero su tutti gli esseri viventi, soprattutto sulle donne, che dell’astro notturno copiano anche il ciclo di ventotto giorni. Osmolinda apprese la corrispondenza tra la Trinità divina e la trinità degli elementi maggiori dell’alchimia: Mercurio, Zolfo e Sale. Imparò a mescolare tra loro i minerali, sperimentando di persona le loro proprietà. Che conducessero il calore, lo aveva scoperto ustionandosi più volte le mani, maneggiando listelli di vari metalli caldi. Alcune sostanze, come il fosforo, erano molto pericolose, perché tossiche e infiammabili. Il gatto di casa, penetrato un giorno nell’officina, aveva trangugiato alcune briciole di fosforo bianco, rimaste per caso su un piattino; la povera bestiola era morta tra bruciori e tormenti, sotto lo sguardo addolorato di Osmolinda che non sapeva come alleviare le sue sofferenze. Osmolinda aveva accettato dal padre l’incarico di regolare gli stoppini che tenevano accesa la fiamma nell’atanor; nell’assolvere il proprio incarico, le capitava talvolta di avvicinarsi un po’ troppo, procurandosi qualche bruciatura sui vestiti. Ciò provocava continui mugugni da parte della madre, che non capiva quella ragazzina che gironzolava spettinata, e per di più, con i vestiti bucherellati, malamente rammendati e rattoppati. «Sei l’unica pezzente delle Fiandre, il disonore della nostra casa! Corri a toglierti quel vestito! E stai lontana dalle fiamme!». A dodici anni, Osmolinda si muoveva nell’officina con la stessa disinvoltura del padre. Si sentiva pronta per coltivare da sé i propri interessi; chiese dunque al padre il permesso di ampliare la propria cultura filosofica. Allora, filosofia e alchimia venivano ritenute


32 inscindibili. Pieter, consapevole dei limiti della propria formazione, di stampo medico più che alchemico, le diede bonariamente il proprio consenso. «Va’ pure avanti da sola, figlia mia. Tu puoi sicuramente spingerti molto più in là, rispetto a me. Che il Signore ti guidi nei tuoi studi!». La ragazza cominciò dunque a ricercare testi che potessero allargare i propri orizzonti. Si appassionò alle opere dell’eretico Ruggero Bacone, da cui apprese anche nozioni di ottica, oltre che di astronomia e naturalmente di alchimia. «Nulla si può conoscere senza l’esperienza» aveva affermato Bacone. Come poteva Osmolinda non condividere il suo pensiero? Scoprì anche che le origini dell’alchimia erano antichissime, e che quest’arte veniva praticata, da tempi remoti, in terre lontanissime tra loro e assolutamente non cristiane, come la Cina e l’Islam. Questa scoperta la turbò non poco: possibile che esistesse un tesoro di sapienza che non avesse come base la Bibbia? Gli alchimisti stranieri, dunque, non cercavano di riprodurre nella loro Opera la Creazione, come viene descritta nella Genesi? I cristiani, quindi, stavano facendo un grave errore di valutazione, a combattere tra loro per il pensiero della Chiesa o di questo o quel Riformatore! La vera Sapienza prescindeva dalla Bibbia! I primi alchimisti, a quel che si sapeva, avevano operato nell’antico Egitto; essi si rifacevano alle conoscenze di uomini ancor più antichi di loro. Ma chi erano questi uomini? Da dove venivano? In che cosa credevano? Certamente non nel Dio della Bibbia. Il loro sapere, dopo la conquista dell’Egitto da parte di Alessandro Magno, era stato ereditato dai regni ellenistici, e l’antica città di Alessandria aveva ospitato un numero enorme di alchimisti. Nell’Oriente mediterraneo, l’antica Tradizione ermetica non era mai finita; molti testi alchemici erano opera di studiosi musulmani. Anche gli Ebrei vantavano un’antichissima Tradizione alchemica, che comprendeva anche lo studio della Cabala, la quale forniva una chiave di lettura magica, matematica e misteriosa dell’intero creato. Osmolinda era venuta in possesso dello Zohar, il testo fondamentale della Cabala, grazie al quale aveva studiato le Sefiroth, le dieci emanazioni di Dio. Certo, i testi alchemici, che rappresentano il gradino più alto della Conoscenza, non sono di semplice lettura, impregnati come sono di simbolismi grafici e allegorie. Ma lo studioso deve comprenderne il messaggio profondo, e la ragazza si impegnava in ogni modo per cogliere anche le più intime sfumature. Aveva letto con dedizione le


33 opere dell’antichissimo sapiente egizio Ermete Trismegisto, di Nicolas Flamel, dello stesso Nostradamus, il quale aveva tradotto in profezie il suo lavoro alchemico. L’attraeva molto lo studio degli astri. Però, la sua osservazione le insegnava che fossero i sette pianeti a ruotare intorno al Sole, secondo orbite ordinate e perfette. Che tutto ruotasse intorno alla Terra, non le pareva possibile. A ognuno dei sette pianeti, l’alchimia associava un metallo. A Saturno era associato il piombo; ma il suo simbolismo era ancora più profondo, per un alchimista. Saturno era il dio che aveva portato l’età dell’oro sulla terra. Non era forse l’oro ciò a cui miravano le trasformazioni operate dell’alchimista? La conquista dell’oro non era legata al valore materiale del metallo, ma al raggiungimento della perfezione da parte del suo artefice.


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A quattordici anni, Osmolinda chiese al padre di iniziarla all’alchimia; egli le promise di organizzare una cerimonia adeguata, se avesse ricevuto l’assenso, visto che si trattava di un caso senza precedenti. Bisognava attendere, però. «Ma sei proprio sicura della tua scelta, figliola? La gente non si fida di noi alchimisti. È l’antica maledizione che grava sui metallurgi, sugli uomini che fondono e lavorano i metalli. Ricordi la leggenda del dio Efesto? Era forte e abile nella sua arte, ma la tradizione tramanda che dovesse vivere da reietto, lontano dall’Olimpo, nella bocca del vulcano Etna; pare che fosse anche zoppo. Per giunta, pur avendo avuto la fortuna di prendere in moglie Afrodite, la più bella tra tutte le dèe, fu sempre deriso per essere stato sfacciatamente tradito dalla moglie con molti tra uomini e dèi. Anche noi siamo in qualche modo reietti e mal considerati da chi crede che la nostra Arte abbia a che veder con la magia. Vuoi essere una reietta, Osmolinda?» le chiese il padre, accorato, un giorno in cui era particolarmente triste. «No, padre, voglio essere un’alchimista, non una reietta. E tu sei un uomo molto stimato!» lo consolò la figlia abbracciandolo. Nell’attesa del giorno in cui sarebbe entrata nella comunità dei sapienti, Osmolinda perfezionò la sua conoscenza della musica. L’alchimia è un’arte musicale. Le stelle hanno un loro suono e anche il firmamento ne ha uno, che i profani non avvertono. Per la riuscita dell’Opera, è fondamentale riprodurre alcuni suoni. Osmolinda imparò a servirsi di strumenti a corda, come l’arpa, o a fiato, come il flauto. Riusciva a intonare delle melodie talmente dolci che perfino la madre si avvicinava per ascoltarle. Ogni tanto le chiedeva: «Perché non componi qualche madrigale o una canzone da ballo?». Un giorno Osmolinda convinse il padre della necessità di creare delle aperture nel tetto dell’officina, affinché gli astri potessero influenzare al massimo della loro potenza la Materia minerale. Giuliana li trovò intenti a perforare il tetto e diede in escandescenze. «Siete impazziti? Adesso per colpa vostra, ci pioverà in casa!».


35 Osmolinda e il padre idearono allora un sistema di tegole, collegate tra loro e poi a un filo di rame, manovrabile dal basso, che chiudevano i pertugi, in caso di pioggia. L’ingegno, di sicuro, in quella casa non mancava.


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10. DRESDA, 1707

Il castello di Grossedlitz era una prigione dorata, ma pur sempre una prigione. Bottger se ne convinse immediatamente, quando decise di fare un giro esplorativo nel palazzo. Il numero di persone presenti nel castello era elevatissimo. Per fuggire, avrebbe potuto nascondersi tra la folla, durante le udienze, o travestirsi da soldato, mescolandosi alle truppe acquartierate in un edificio vicinissimo al castello. Ma Wolfgang lo seguiva ovunque: ovviamente, questi erano gli ordini che aveva ricevuto. E non era l’unico a farlo. Coglieva occhiate furtive e porte che si chiudevano rapidamente al suo passaggio. Di belle donne non ne mancavano. Tra serve e dame presenti a palazzo, con un po’ di fortuna e il consenso del re, ci sarebbe stato da divertirsi. Il castello era un edificio aggraziato, dai soffitti alti, ma tutto sommato piuttosto spartano nelle definizioni e nell’arredamento. Le uniche eccezioni erano costituite dal grande salone da ballo, dalla sala del trono e dall’appartamento privato della principessa Margherita, che non potè visitare. In questi locali dominavano le dorature, gli stucchi e le cineserie, che andavano per la maggiore in quel periodo. Tutti sembravano indaffarati in faccende urgentissime, tanto che questo girovagare ozioso dell’alchimista dava nell’occhio. Fin dalla più tenera età, chissà perché, Bottger aveva sempre attirato su di sè l’attenzione degli altri, a ragione e a torto: se faceva qualcosa di lodevole, riceveva i dovuti onori; ma se per caso uno dei suoi fratelli combinava una marachella, a prendere le busse era sempre stato lui. Anche nell’adolescenza e poi nell’età adulta, la situazione non era mutata. Riceveva onori e oneri meritati e immeritati. Era impossibile non notarlo, d’altra parte: era talmente alto da superare con tutta la testa gli individui più alti. Benché i suoi lineamenti non fossero molto fini, e il suo naso fosse prominente, le donne guardavano sempre con desiderio quel gigante dalla chioma rossiccia e ricciuta. Il suo arrivo a Dresda non era passato inosservato. E dire che aveva comunicato la sua intenzione di trasferirsi nella città soltanto a due persone: sua sorella Hilda, che viveva a Colonia, e il conte Ehrenfried


37 Walther von Tschirnhaus, appassionato di fisica naturale, con il cui aiuto aveva fabbricato il grès, e che in quel periodo viveva a Lucerna. Era impensabile che uno dei due potesse aver fatto la spia; le sue lettere dovevano esser state intercettate. Forse il sovrano lo faceva sorvegliare da tempo, e a sua insaputa. A quarantadue anni suonati, non aveva acquisito ancora malizia a sufficienza per riuscire a proteggersi, soprattutto dal fascino delle donne. Bottger non aveva una moglie. Questa, per un alchimista, era una grave pecca. Una moglie è il naturale completamento della natura maschile e può aiutare nell’Opera. Ma Bottger era un alchimista anomalo: era un girovago, tanto per cominciare. Non soggiornava mai nella stessa città per più di due anni, sia perché i luoghi gli venivano a noia facilmente sia perché aveva combinato qualche guaio. Aveva girato tutta l’Europa, dalla Russia al Portogallo. Nei suoi progetti per il futuro, c’era anche l’America. Forse, a una donna non sarebbe risultata piacevole quella vita senza radici. Inoltre, egli si applicava agli aspetti più pratici dell’alchimia, più che a quelli spirituali e teosofici. Sapeva di poter vendere al migliore offerente le proprie conoscenze. Forse per questo, negli ultimi anni la Grande Opera Minerale non gli dava i risultati sperati. Il suo spirito era piatto e inerte come marmo, ormai. I problemi con il re di Prussia, sua terra d’origine, erano nati proprio per questo. Convocato da Federico I di Prussia, a cui interessavano i risvolti materiali del lavoro dell’alchimista e le possibilità di facili guadagni, Bottger si era vantato di saper fabbricare l’oro. Aveva mentito spudoratamente. Era arrivato ad asserire di essere riuscito più di una volta nell’impresa. Ma quando il re lo invitò a lavorare a Palazzo, perché la fabbricazione dell’oro restasse segreta, Bottger si perse dietro a qualche gonnella. Una giovane e maliziosa dama gli diede soddisfazioni ben più concrete dell’aludel. L’Opera si rivelò un disastro. Pressato dal re, che chiedeva i risultati promessi, l’alchimista era stato costretto a fuggire nottetempo, con la complicità della servitù, e a riparare all’estero. Ma la collera del sovrano lo aveva inseguito in tutta l’Europa ed era stato costretto, per anni, a vivere in incognito. Le allusioni a questa faccenda gli procuravano sempre vivo dolore perché gli ricordavano un fallimento. La visita di Bottger al castello di Grossedlitz si concluse presto. Guardando fuori, vide una fitta nebbia che precludeva la vista del parco.


38 Si sentì assalire da un torpore invincibile. Aveva proprio bisogno di dormire. Ma, mentre si avviava verso la propria camera, udì una risatina soffocata; si aprì una porta e ne venne fuori una bellissima donna bionda, nobile nell’aspetto e nel portamento. Il sonno di Bottger svanì all’improvviso. La dama, a quanto pareva, cercava proprio lui. «Scusate l’ardire, signore. Sono Susanna di Rottlingen, una dama della principessa Margherita. La mia signora vuole sapere se è vero che voi siete prigioniero nel castello». «Siete perdonata, signora» e si produsse in un baciamano con inchino da manuale. «Quanto alla vostra domanda la risposta è sì. Ebbene sì, sono prigioniero del principe. Permettete che mi presenti. Mi chiamo Johann Friedrich Bottger». Sul bel volto di Susanna si dipinse un finto stupore, le sue labbra assunsero la vezzosa forma di un cuoricino. Che attrice consumata era! «Quale potrà mai essere la vostra colpa, signor Bittger? Un uomo alto e possente come voi, prigioniero qui!». «Mi chiamo Bottger, signora. Non ho commesso alcun crimine, state serena. Il principe vuole che lavori per lui. Sono un alchimista». La donna assunse un’espressione di maliziosa complicità. «Quindi siete qui per fabbricare l’oro! Capisco! Accenderete il vostro fornello e riempirete di fumo le nostre stanze, di giorno e di notte!». «Cercherò di arrecarvi il minimo disturbo possibile, signora. Potete tranquillizzare anche la principessa. E poi, posso rendermi utile. Conosco la composizione di molti farmaci e poi» aggiunse maliziosamente, «so curare disturbi di vari tipi, anche la vostra eventuale difficoltà a prender sonno. Se doveste avere bisogno, accorrerò al vostro capezzale!». Susanna rise scoprendo i denti. Aveva uno sguardo sfrontato. «Se dovessi avere bisogno dei vostri servigi, vi chiamerò, signor Bettger!». Detto questo, gli voltò le spalle e rientrò nella camera da dove era uscita. Si udì un’altra risatina. Quella notte, fu Bottger che non riuscì a dormire. La prospettiva di uscire da lì soltanto da morto, di certo non gli conciliava il sonno. Di buon mattino, si levò ed entrò nell’officina. Durante i quindici giorni di prigionia, non aveva mai riposato. Ma quell’ultima notte d’insonnia l’aveva distrutto. Doveva snebbiarsi la mente. Certo, il tempo non aiutava a svegliarsi. Era una giornata grigia e uggiosa, e la pioggerella fine fine che cadeva dal cielo velava ogni cosa.


39 Se doveva mettersi subito al lavoro, occorreva prima stabilire cosa fare. Bottger non si sentiva di rinunciare all’Opera, che tante soddisfazioni gli aveva dato in gioventÚ. Doveva dunque procurarsi la Materia Prima. Ma quale?


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11. GAND, 1598

Era veramente stupefacente la quantità di risultati tangibili che si ottenevano durante le varie fasi dell’Opera, quando la Materia Prima si mescolava con Zolfo, Mercurio e Sale e cominciava il lentissimo processo della Via Umida. Anche i nomi delle varie sostanze che si ricavavano durante il lungo processo erano attraenti. C’era la testa di corvo, chiamata anche la vela nera della nave di Teseo,che compariva alla fine dei quaranta giorni, che ha il prodigioso potere di decomporre gli oggetti da cui si vuole estrarre l’oro; l’elisir al bianco, chiamato anche la fanciulla bianca dei filosofi, che serve a fare un unguento dalle meravigliose proprietà terapeutiche; l’elisir al rosso, necessario per fare l’oro, che ha la proprietà di guarire tutte le piaghe. A Osmolinda sarebbe tanto piaciuto poter vedere il leone verde, un liquido che rivela l’oro nascosto nelle materie comuni, o il leone rosso, una polvere fulva che converte in oro i metalli comuni; queste ultime sostanze, però, si producevano quando l’Opera stava per riuscire, e Pieter non aveva mai avuto una simile fortuna. La maggior parte degli alchimisti trascorreva l’intera esistenza nel vano tentativo di azzeccare il giusto procedimento per ottenere la Pietra Filosofale. Dalla Pietra si estraeva poi la polvere di proiezione, che trasformava i vili metalli, soprattutto il piombo, in oro. Imboccare la via giusta non era semplice: ci voleva un maestro abile e il libro giusto. Pochi erano riusciti: Gerberto d’Aurillac, Alberto Magno, Ruggero Bacone, Raimondo Lullo, e il celeberrimo Nicolas Flamel, congiuntamente alla moglie Pernelle. Flamel era un uomo comune, un borghese, che nella vita faceva lo scrivano. Aveva sposato Dame Pernelle, una donna due volte vedova, di circa vent’anni più anziana di lui, e con lei conduceva una vita tranquilla e ordinaria. Poi, all’improvviso, il destino aveva bussato alla sua porta. Una notte, mentre dormiva tranquillamente nel suo letto, era stato svegliato da una visione: gli era comparso un angelo, grande e folgorante. Il messaggero celeste porgeva a Flamel un libro prodigioso, e lo invitava a usarlo per


41 raggiungere la perfezione. Fu così che la vita dello scrivano da quel giorno cambiò per sempre. Folgorato dall’alchimia, si era procurato quel libro, di cui era autore Abramo l’Ebreo e, senza avere alcuna esperienza, aveva tentato invano l’Opera. Non aveva un maestro, Flamel. Così, per trovare qualcuno che fosse in grado di spiegargli cosa fare, aveva intrapreso il pellegrinaggio per Santiago di Compostela. La meta del pellegrinaggio non era casuale. Gli alchimisti amavano San Giacomo, in catalano Santiago, che ritenevano il loro protettore, e il suo santuario in terra spagnola. La storia stessa del santuario era avvolta in un alone leggendario. San Giacomo, discepolo di Gesù, andò a morire in Spagna, ma del suo corpo si erano perdute le tracce. Se non che, nel IX secolo, un contadino andò a raccontare al vescovo Teodomiro che nel suo campo si verificava uno strano fenomeno: di notte, una stella sembrava sorgere dal terreno e giocare con la propria luce, tanto che i vicini avevano iniziato a chiamare quel luogo Campus Stellae, il campo della stella. Teodomiro, allora, ordinò di scavare: con grande meraviglia di tutti, fu ritrovato il corpo di San Giacomo in un sarcofago di marmo splendente. In quel luogo fu dunque costruito il santuario che divenne meta di pellegrinaggi. Nell’immaginazione degli alchimisti, il ritrovamento della tomba di San Giacomo, occultata per secoli dalla Terra, rappresenta il ritrovamento della pietra filosofale. Nicolas Flamel, quindi, intraprese il simbolico pellegrinaggio al Campo della Stella. Vi trovò l’Illuminazione. Infatti, lungo il cammino, nella città di Léon, trovò il maestro che cercava, Sanchez, il quale si offrì di accompagnarlo a Parigi. Durante il tragitto, Sanchez spiegò all’apprendista Nicolas come interpretare il libro di Abramo l’Ebreo e realizzare l’Opera. Ma quando si trovavano ancora in terra spagnola, il maestro Sanchez morì, lasciando il discepolo costernato. Al ritorno a Parigi, Flamel cominciò l’Opera secondo gli insegnamenti del libro e del maestro e ottenne il massimo prodigio: riuscì a fabbricare la Pietra Filosofale e diventò improvvisamente ricco. Impiegò le sue ricchezze solo per il bene altrui, non per se stesso. Flamel era diventato perfetto nello spirito. Osmolinda aspirava a quel risultato, soprattutto per il padre, che ormai da più di vent’anni si era dato all’alchimia. Andare a Santiago di Compostela, con la guerra in corso, era impensabile. Doveva assolutamente trovare il libro di Abramo l’Ebreo e il maestro giusto.


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Talvolta, il padre di Osmolinda riceveva misteriose visite da parte di sconosciuti, che entravano con lui nel suo laboratorio e ne uscivano parecchie ore dopo. Era normale che succedesse questo. Gli alchimisti erano un gruppo ristrettissimo, si conoscevano tutti, si incontravano per aggiornarsi e scambiarsi impressioni. Non c’erano rivalità e gelosie, tra loro. La gente li guardava con sospetto, perché, pur considerandoli sapienti, credeva che praticassero la magia e la stregoneria. Durante queste misteriose visite, a Osmolinda era precluso l’accesso; rimaneva a fantasticare, e qualche volta tentava di origliare. Che cosa avevano da dirsi, in segreto? Di che parlavano? Quante domande avrebbe voluto fare! Le sarebbe bastato vedere la polvere di proiezione, derivata dalla Pietra Filosofale, la sostanza che trasformava i metalli in oro. Ma non c’era niente da fare, era esclusa. Chissà se sarebbe mai arrivato, per lei, il giorno dell’iniziazione! Solo di rado il padre le riferiva l’argomento di quelle strane conversazioni; in genere si trattava di nuovi preparati. Un giorno, mentre lei era nella stanza di sopra, era arrivato qualcuno, che la ragazza non aveva visto. Ovviamente, doveva trattarsi di un alchimista. Era pieno inverno e la stagione fredda stava dimostrando tutta la propria inclemente potenza: pioveva a dirotto, lampi e tuoni squarciavano il cielo e il silenzio. Osmolinda, in attesa, fingeva di cucire, senza riuscire a nascondere la propria delusione per essere stata esclusa ancora una volta. Seduta davanti al caminetto scoppiettante, con un libro aperto sulle ginocchia, tentava di carpire, nonostante i tuoni, qualche parola della conversazione che si svolgeva dietro la porta del laboratorio. Forse, poteva essere la volta giusta, il libro giusto, il maestro giusto. Chi poteva essere? Quando lo sconosciuto era arrivato, lei non era presente. Chissà se era un Sapiente, con lunga barba e schiena curva. All’improvviso, avvertì sulla pelle uno strano formicolio. Un tuono più forte degli altri la fece sobbalzare. Provò una strana sensazione. Si sentiva osservata.


43 Due occhi di brace, azzurri ma più ardenti della fiamma nel camino, la stavano fissando dalla soglia spalancata dell’officina paterna. Osmolinda ricambiò lo sguardo dello sconosciuto. Era un uomo giovane, dalla pelle piuttosto scura e l’espressione assorta; vestiva indumenti di una strana foggia orientale. La salutò con un gesto elegante, togliendosi il cappello piumato. Osmolinda non riuscì a distogliere gli occhi. In quell’uomo c’era qualcosa di magnetico. Sentì che il padre diceva: «Questa è mia figlia Osmolinda. Anche lei è alchimista. È la migliore allieva che si possa desiderare. È anche più abile di me!». Il padre intanto pronunciava il suo nome, seguito da quello dello straniero: Andreas Liberavius. Poi, lo accompagnò gentilmente alla porta. Pieter vide che il temporale non era ancora cessato. «Piove ancora, Andreas. Non puoi fermarti ancora? Puoi rimanere a pranzo qui». «Ti ringrazio, Pieter, ma devo andare. Il mio gentilissimo ospite mi attende». «Chi è, padre?» s’informò Osmolinda, quando fu uscito. «È un celebre alchimista tedesco. Ha vissuto molto tra gli arabi, però. Gli arabi si sono sempre distinti nell’alchimia, come Avicenna. Vedi come si veste? Sta tornando da un lungo soggiorno in Inghilterra ed è diretto alla sua città, Dresda. Liberavius è molto abile nella lavorazione del vetriolo azzurro, verde e bianco. Pare che conosca anche mirabili segreti riguardo all’aceto. Guarda che magnifico dono mi ha portato!». Tra le mani, il padre stringeva un bellissimo codice ricco di meravigliose miniature, che cominciò a sfogliare avidamente. «Guarda, Osmolinda. Conosci questo meraviglioso testo? Si chiama Aurora Consurgens: è un vero tesoro per la nostra arte! Ammira che stupende immagini. Ecco, vedi, guarda l’ermafrodito con l’aquila: quale potente simbolo! E qui, ecco Macrocosmo e Microcosmo». Come in alto, così in basso. Come nel grande, così nel piccolo. Questa era la fede degli alchimisti. Ogni più piccolo dettaglio della creazione riproduceva, su scala diversa, tutto il Disegno divino dell’universo. Chissà che posto aveva nell’universo, il tumulto che Osmolinda provava nel proprio cuore. In quel momento si sentiva smarrita. Perché mai quell’uomo era riuscito a turbarla tanto? Sperava almeno che quel libro che aveva recato in dono fosse la chiave per risolvere il problema dell’Opera. Poco dopo, quando il temporale cessò, sua madre la mandò al mulino a comprare la farina.


44 Si tuffò nel solito groviglio dei canali di Gand, senza badare a quello che succedeva intorno a sÊ. Non si accorse che qualcuno la stava seguendo.


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13. DRESDA, 1707

I tre Elementi essenziali, c’erano tutti: Mercurio, Zolfo, Sale. Mancava la Materia Prima. Bottger ne aveva provate tante, in passato: sudore, cortecce, il proprio sangue, una lumaca, persino una rana viva. Nessuna di esse aveva funzionato. Ci voleva qualcosa di diverso, un’idea nuova, mai sperimentata. Quando il principe mandò a chiedere se avesse iniziato, gli fece rispondere che stava organizzando il lavoro e che avrebbe avuto bisogno di uscire per procurarsi la Materia Prima. La reazione del mecenate - carceriere non si fece attendere. Poche ore dopo si presentò nell’officina alchemica. «Dunque, mi dicono che manifestate il bisogno di uscire. Piuttosto sospetta, come richiesta, signor Bottger. Vi manca qualcosa, forse? Vi ho chiesto di controllare il materiale presente». «Maestà, non è così semplice. Ho bisogno di reperire la materia prima per l’Opera. E poi, vorrei prendere della rugiada». «Niente di più semplice, signore. Mandate Wolfgang. È perfettamente in grado di assolvere questo compito». «Ma le sue mani ignare e impure…». Il sovrano scoppiò in una risata incontenibile, comprimendosi il ventre leggermente prominente, fasciato in un panciotto aderente damascato di color ruggine, come voleva la moda. «Saranno pure le vostre, di mani! Non fate altro che palpare natiche femminili!». Poi, di botto, smise di ridere, si alzò e aprì una delle due grandissime finestre che davano aria e luce al laboratorio. Bottger si sentiva disorientato, come gli succedeva sempre in presenza del sovrano. «Ditemi un po’, Bottger. Avete mai visto un laboratorio così bello e così luminoso? Penso proprio di no. Le officine alchemiche di solito sono degli antri maleodoranti e bui. Gli alchimisti cercano segretezza e cercano di evitare anche le fuoruscite di fumo, per non attirare sguardi indiscreti. Qui, invece, il laboratorio appartiene a un sovrano e si trova nella casa di un sovrano; dunque, concede la massima libertà».


46 Con un salto, rivelando un’agilità insospettabile, Augusto si sedette sul davanzale, con le gambe penzoloni, come un ragazzetto. Bottger era allibito: gli sembrava impensabile che un sovrano dimostrasse in pubblico tanta spontaneità. «Io vi ho assunto, se così può dirsi, per fabbricare la porcellana. Il vostro obiettivo è quello. Tutto il resto passerà in secondo piano. Volete compiere l’Opera qui, nel mio palazzo? Bene, fate pure. L’oro farebbe gola anche a me. Ma non distoglietevi dalla meta che vi ho assegnato. Per cominciare voi dovrete mostrarmi come fabbricate il vostro grès». «Dov’è il forno?» s’informò l’alchimista. «Nelle officine reali esiste il forno per la ceramica, che voi potrete utilizzare». Il sovrano, a questo punto, si mise a cavalcioni sul davanzale. «In quale altro posto avrete l’opportunità di guardare il crogiolo e gli alberi del parco?». Tirò fuori una tabacchiera d’oro e annusò una presa di tabacco. «E come va la vostra vita di società, signore? Avete fatto conoscenze?». Bottger, senza attendere l’autorizzazione del sovrano, prese una poltroncina e si sedette. «No, maestà. Non ho visto nessuno». «So che non è vero. Ma non preoccupatevi per la vostra immagine di uomo di corte… vi rifarete. La settimana prossima darò un ballo in onore di mia moglie. Spero che i vostri capelli crescano abbastanza da conquistare i cuori femminili. E soprattutto i loro letti». Con un salto ancor più agile del primo, il principe scese dal davanzale e si aggiustò la marsina. «Pensate alla porcellana e mandate Wolfgang a raccogliere la rugiada che tanto vi preme». Aprì la porta con un gesto rapido e uscì. Bottger doveva mettersi al lavoro senza più indugiare. Chiamò Wolfgang e lo osservò attentamente. Era piuttosto basso di statura, azzimato nell’aspetto, con quella livrea verde che costituiva il distintivo della casata. Aveva occhi scuri e penetranti. Chissà se era duro di cervice? Si sarebbe accertato subito. «Dobbiamo preparare le sostanze che mi servono. T’intendi un po’ di sostanza medicinali, erbe, spezie?». «No, signore, mi spiace». Lo condusse nell’officina e gli indicò un vaso. Wolfgang lo prese. «Vedi questo tipo di cristalli?» Bottger ne prese una manciata e li mise nel palmo del suo apprendista. «Questa sostanza si chiama borace. Per il


47 lavoro che devo fare me ne serve una discreta quantità. Prendi quel sacco nel secondo scaffale e guarda che cosa c’è dentro». «Questa la conosco signore: è argilla!». «Bene, Wolfgang. Ma guarda bene. Non è argilla comune. È un’argilla che resiste alla cottura a temperature altissime. Anche di questa mi serve una discreta quantità. E poi, prendi con grande delicatezza quell’anfora. Bene, così. Adesso aprila e guarda dentro senza versare il contenuto». Wolfgang eseguì gli ordini e guardò sbalordito la sostanza racchiusa nel vaso. «Mio Dio, signore, che cos’è? Sembra argento liquido!». Bottger sorrise. «Infatti lo chiamano anche argento vivo. Ma il suo nome è mercurio. È un metallo liquido. È un elemento importantissimo per la mia arte. Ma bada: non toccarlo mai a mani nude! È velenoso! È talmente tossico da penetrare anche attraverso la pelle». Wolfgang sorrise a sua volta. «È molto pericoloso servirvi, signore. Ma penso che non mi annoierò. Meglio aiutare un alchimista che badare ai cavalli». «Non so se tra qualche giorno penserai ancora la stessa cosa, Wolfgang. Si tratta di lavori lunghi che richiedono molta pazienza. E per giunta, non sempre riescono. I cavalli, almeno, corrono e arrivano sempre alla meta. Io invece devo rimanere sempre qui, legato da briglie fortissime. Mi servirò dei tuoi occhi e delle tue orecchie». Il servo ripose l’anfora nella scansia. Poi guardò Bottger. «Scusate, signore, posso sapere che cosa vuole il principe da voi?». «Non posso dirtelo, Wolfgang. Potresti involontariamente mettermi nei guai, ancora più di adesso. Ma c’è ancora un altro elemento che devi conoscere. Si tratta dello zolfo. Prendi quella grande anfora e guarda». «Lo conosco, signore. Fa bene alle piante, pare». «Sì, Wolfgang. Sei meno inesperto di quanto pensassi. E adesso, mettiamoci all’Opera». )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

1. Dresda, 1707 ............................................................................... 5 2. Gand, Fiandre, Anno del Signore 1598 ...................................... 9 3 .................................................................................................... 13 4 .................................................................................................... 15 5. Dresda, 1707 ............................................................................. 17 6 .................................................................................................... 23 7. Gand, 1598 ................................................................................ 28 8 .................................................................................................... 31 9 .................................................................................................... 34 10. Dresda, 1707 ........................................................................... 36 11. Gand, 1598 .............................................................................. 40 12 .................................................................................................. 42 13. Dresda, 1707 ........................................................................... 45 14. Gand, 1598 .............................................................................. 48 15 .................................................................................................. 50 16 .................................................................................................. 52 17. Dresda, 1708 ........................................................................... 53 18. Gand, primavera 1599............................................................. 56 19 .................................................................................................. 60 20 .................................................................................................. 62 21 .................................................................................................. 66 22 .................................................................................................. 68 23 .................................................................................................. 75


24 .................................................................................................. 81 25. Dresda, 1708 ........................................................................... 83 26 .................................................................................................. 87 27. Gand, maggio 1599 ................................................................. 90 28 .................................................................................................. 93 29. Dresda, 1708 ........................................................................... 96 30 .................................................................................................. 99 31. Dresda, 1600 ......................................................................... 102 32 ................................................................................................ 107 33 ................................................................................................ 111 34 ................................................................................................ 114 35 ................................................................................................ 116 36. Dresda, agosto 1708 .............................................................. 118 37 ................................................................................................ 121 38. Dresda, 1602 ......................................................................... 124 39 ................................................................................................ 127 40 ................................................................................................ 131 41 ................................................................................................ 135 42 ................................................................................................ 137 43 ................................................................................................ 140 44 ................................................................................................ 142 45 ................................................................................................ 145 46 ................................................................................................ 147 47. Dresda, settembre 1708......................................................... 149 48 ................................................................................................ 153 49. Dresda, 1607- 1610 ............................................................... 155 50 ................................................................................................ 159 51 ................................................................................................ 162 52 ................................................................................................ 164


53 ................................................................................................ 167 54. Dresda, Ottobre 1708 ............................................................ 171 55. Dresda, Via Elba, notte tra il 15 e il 16 aprile 1610 ............ 174 56 ................................................................................................ 177 57. Dresda, ottobre 1708 ............................................................. 181 58. Dresda, novembre 1708 ........................................................ 185 59 ................................................................................................ 187 60. Gand, 1610 ............................................................................ 189 61 ................................................................................................ 195 62. Dresda, novembre 1708 ........................................................ 198 63 ................................................................................................ 202 64 ................................................................................................ 204 65. Dresda, settembre 1610......................................................... 208 Epilogo ........................................................................................ 213 Nota dell’autrice ......................................................................... 223



AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Terza edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2020) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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