Oraculum Dei, Claudio Paganini

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CLAUDIO PAGANINI

ORACULUM DEI

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ ORACULUM DEI Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-393-2 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Maggio 2020


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Il tempo è un concetto tanto intangibile quanto tremendamente reale nelle sue mille sfaccettature. Da sempre l’uomo ha cercato di visualizzare un concetto così astratto tentando di renderlo comprensibile alle menti più semplici; è stato così concepito come una linea retta che, partendo dalla notte dei tempi si protende verso l’infinito, verso quel momento in cui lo stesso concetto diventerà obsoleto, inutile, la fine di tutte le cose. Eppure una spiegazione del genere non rispecchia la realtà, non tiene conto di una variabile importante, di un particolare che è fondamentale per la comprensione stessa della storia dell’umanità; alcuni, pochi in realtà se comparati all’intero genere umano, hanno la capacità o il dono di poter vedere oltre l’immediato futuro, oltre quel breve lasso di tempo che separa l’adesso dal dopo. Sono coloro che nel corso della storia hanno visto cose che non appartenevano al loro tempo ma a un altro, frammenti di realtà future che hanno cercato di raccontare utilizzando le elementari nozioni a loro disposizione, esprimendole per enigmi o utilizzando concetti sibillini che ancora oggi sono oggetto di studio e d’interpretazioni. Il tempo assomiglia più a un mare in tempesta, con alte onde e altrettante profonde depressioni, dove gli uomini nascono, lottano e muoiono cavalcando questo mare impetuoso, onda dopo onda. Solo alcuni riescono a vedere cosa succede sulla cresta del frangente che hanno davanti e solo i più dotati riescono a percepire gli avvenimenti che si svilupperanno molte onde dopo la loro, addirittura spingendosi a cavalcarne l’ultima, quella che inevitabilmente andrà a infrangersi sull’estrema spiaggia, quella della fine di tutto. Queste figure sono state venerate, temute, perseguitate o addirittura derise ma hanno lasciato un patrimonio di avvertimenti e di profezie che non possiamo e non dobbiamo sottovalutare. Li hanno chiamati profeti, indovini, perfino maghi o ciarlatani ma l’appellativo che più li identifica è “veggenti”.



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CAPITOLO 1

La raccomandata era finalmente arrivata; avevo quasi perso la speranza di ricevere l’esito del colloquio che avevo avuto più di sei mesi prima nell’ufficio personale di monsignor Anselmi per l’assegnazione dell’incarico di curatore presso gli archivi vaticani della Santa Sede di Roma. Era un lavoro che avrebbe coronato anni di studi e di ricerche, di master e di congressi in giro per il mondo, un incarico che mi avrebbe dato la possibilità di accedere a documenti unici nel loro genere e di collaborare alla loro conservazione e restauro. Non era stato facile riuscire ad avere le giuste conoscenze e ancor meno entrare nelle grazie di coloro che avrebbero potuto appoggiare la mia candidatura a quel ruolo tanto ambito, ma la perseveranza e la passione con cui avevo esposto il mio curriculum e le mie credenziali avevano dato finalmente i risultati sperati. Mi tremavano le mani mentre giravo e rigiravo quella busta, incerto se aprirla o meno; il fatto di averla ricevuta non voleva assolutamente dire che ero stato accettato per cui il timore di un rifiuto definitivo pesava sul mio cuore come un macigno. “Alla personale attenzione del professor Sergio Claride…” recitava l’intestazione del destinatario, ma la cosa che più attirava la mia attenzione era il mittente: Segreteria Generale dell’archivio segreto vaticano, cortile Belvedere, città del Vaticano. Ero rimasto a osservare la busta mentre i ricordi affioravano alla mente quasi senza volere, quando con i miei compagni d’università scherzavamo su quell’appellativo “segreto” sapendo benissimo che voleva solo dire che era l’archivio personale del pontefice e non un luogo pieno di misteri e di tesori sconosciuti. Con un sospiro avevo preso il tagliacarte e cominciato ad aprire la busta facendo attenzione a non danneggiarne il contenuto; all’interno, un unico foglio di carta intestata su cui spiccava lo stemma pontificio bordato in oro e azzurro e poche righe formali dattiloscritte in cui mi si annunciava l’esito della mia candidatura.


6 “Egregio professor Claride, dopo un attento esame delle sue qualifiche accademiche e della sua esperienza maturata, tenuto conto dei meriti degli altri aspiranti canditati, sentito il parere di monsignor Anselmi, siamo lieti di comunicarle l’esito positivo della sua candidatura a curatore dei beni storici e letterari presso la sezione manoscritti dell’archivio segreto vaticano. La esortiamo a prendere contatto con il nostro ufficio per espletare le ultime formalità per la sua assunzione e per delineare con lei le sue mansioni e competenze. Cordialmente la salutiamo…” Le dita stentavano a trattenere la lettera mentre una gioia immensa saliva dal cuore fino alla gola; “ce l’ho fatta, ce l’ho fatta”, continuavo a ripetermi mentre ancora incredulo rileggevo quelle poche righe firmate dal cardinale Anselmi in persona. Lo avevo incontrato un paio d’anni prima a una conferenza sulla validità storica dei vangeli apocrifi e mi era parso subito una persona competente e alquanto gentile e disponibile; avevamo chiacchierato del più e del meno, soffermandoci sugli aspetti etici e morali derivanti dall’accettazione o meno di scritti non riconosciuti dalla Chiesa di Roma e ci eravamo lasciati con la promessa di approfondire alla prima occasione quest’interessante argomento. Mai avrei creduto di poter onorare quella promessa e ancor meno di poterlo fare addirittura nel suo ufficio in Vaticano. All’università la notizia fu presa in modo discordante; da una parte i colleghi si complimentarono per la buona notizia lasciando trapelare una punta d’invidia visto l’impatto che un incarico del genere poteva avere sul mio curriculum accademico e dall’altra la gioia mista al rammarico dei miei studenti, felici che potessi coronare il mio sogno, ma timorosi di perdermi come docente. «Se alcuni di voi pensano che in questo modo vi siete liberati di me, beh mi dispiace deludervi; l’incarico non è in forma esclusiva e mi lascerà tempo e modo di continuare il percorso accademico con chi avrà la costanza e il coraggio di seguirlo. Non vi preoccupate, non vi lascerei mai nelle mani dei miei colleghi, vi assicuro…» La risata e l’applauso che seguirono le mie parole furono commoventi e gratificanti; i miei ragazzi mi erano affezionati e questo, per me, contava più di qualsiasi onorificenza. «Chissà, magari avrò bisogno di alcuni di voi come aiutanti per qualche lavoro di restauro, naturalmente a titolo gratuito a orari impossibili, ma se ci fossero dei volontari li accetterei volentieri. Non dovetti alzare gli occhi per capire quanti si erano offerti; il rumore delle sedie che si


7 spostavano e il fruscio delle maniche che strusciavano le une sulle altre mi diede la conferma che tutti avevano accettato la mia proposta. Uscii commosso dall’aula con la promessa di essere presente alla prossima lezione e a quelle successive anche a costo di litigare con il Papa in persona. A casa la notizia fu presa in modo contraddittorio; da una parte Stefania, la mia compagna, si mostrò molto interessata al mio nuovo incarico, complimentandosi gioiosamente per il fatto che finalmente il mio valore era stato riconosciuto al più alto livello, dall’altra Francesco, figlio mio e della mia defunta moglie, sembrò quasi non sentire quello che gli stavo dicendo. Da un po’ di tempo, infatti, sembrava vivere in un mondo tutto suo fatto esclusivamente di amici e di strane letture che accuratamente nascondeva ogni volta che mi avvicinavo. La perdita della madre avvenuta alcuni anni prima ci aveva segnato in maniera indelebile, ma, mentre io avevo trovato nel lavoro la forza di continuare a vivere, lui non era riuscito a superare del tutto il trauma manifestando il suo disagio in una sorta di autoisolamento da tutto ciò che gli ricordava la madre, me compreso. «Francesco, Francesco mi ascolti? Non mi dici nulla, non sei contento?» «Ho sentito papà; vai a fare il bibliotecario per il Papa, non mi sembra una gran cosa.» Ero rimasto sbigottito da tanto menefreghismo e stavo per rispondere a tono, ma la rabbia repressa da troppo tempo nei suoi confronti mi avrebbe fatto dire cose di cui sicuramente mi sarei pentito subito dopo per cui, dopo aver subito quell’ennesima umiliazione da parte sua, mi ritirai nel mio studio senza dire un’altra parola. «Lascia stare caro, ci penserò io più tardi a spiegare a Francesco che sta sbagliando a comportarsi così con te, vieni di là e raccontami tutto perché so che muori dalla voglia di farlo, vero?» Stefania aveva il potere di rendere semplici tutte le cose avendo su di me e su mio figlio un ascendente che rasentava quasi il plagio, inteso in senso positivo naturalmente. Le sue parole avevano scacciato la malinconia provata nel vedere mio figlio così apatico e ostile e mi aveva ridato la gioia nel condividere con la persona che amavo la realizzazione dei miei sogni. «Ti ricordi che l’anno scorso ti avevo parlato di quel concorso per un impiego agli archivi vaticani? Che avrei voluto partecipare, ma c’era un


8 posto solo e dubitavo fortemente di poter entrare senza un appoggio nelle alte sfere viste le credenziali degli altri candidati?» «Lo ricordo benissimo, come ricordo di averti spronato per giorni affinché facessi ugualmente la domanda; era il tuo sogno nel cassetto, un desiderio che coltivavi da tanto, troppo tempo e che ora, forse, potrà avverarsi.» «Ed è quello che è successo oggi: ho ricevuto una lettera dalla segreteria dell’archivio nella quale mi annunciano di avermi scelto come curatore della sezione manoscritti, quella a cui ho sempre aspirato, quella che mi permetterà di studiare documenti che pochi al mondo hanno potuto vedere, oggetti tanto preziosi da essere custoditi in una serie di stanze blindate e climatizzate dove quasi nessuno ha accesso. Capisci quale occasione mi si offre di studiare quei reperti e di compararli al credo vigente della Santa Sede?» «Forse questa parte sarebbe meglio non esprimerla ad alta voce, specialmente nelle sale vaticane; non vorrei che il mio amore fosse scacciato con l’accusa di essere un eretico o, peggio, un seguace di qualche religione alternativa…» Rideva mentre bonariamente mi prendeva in giro, gli occhi radiosi e le labbra socchiuse che facevano intravedere dei denti regolari, bianchissimi. Era stata una mia studentessa, anche se fuori corso, l’anno in cui Giovanna, mia moglie, si era ammalata. Avevamo fatto amicizia quasi subito e lei aveva cercato di alleviare il mio tormento e la mia preoccupazione per la salute di mia moglie con la sua gioia di vivere, con quel senso di speranza che trapelava in ogni suo gesto, in ogni sua parola d’incoraggiamento. Era sempre stata al suo posto senza mai varcare il confine della semplice amicizia, ma, stranamente, quando le preoccupazioni diventavano insopportabili, c’era sempre lei a un passo da me, con i suoi modi gentili e le sue parole di conforto. A distanza di tempo mi rendevo conto che era stata la sua presenza a impedirmi di impazzire, specialmente dopo quella corsa folle all’ospedale, dove avevo trovato Giovanna ormai agonizzante, prossima alla fine; era entrata in coma qualche minuto prima del mio arrivo, imbottita di antidolorifici e sedativi, gli occhi chiusi come se dormisse mentre il monitor scandiva il suo conto alla rovescia con il suo cicalino ritmico, sempre più lento. Alla fine era rimasto solo il silenzio e un corpo senza vita steso sul letto; la mia vita si era arrestata nello stesso istante e con essa la voglia di continuare a vivere. Francesco era a casa della nonna, ancora ignaro di quello che era accaduto e io non sapevo in che modo avrei potuto dirgli una cosa tanto


9 tremenda. Ero uscito dall’ospedale quasi catatonico, senza riuscire a pensare ad altro che al dolore che mi squarciava il petto: Giovanna se n’era andata per sempre e io non sapevo cosa fare. Mi ero diretto verso una panchina del parco, la più distante dalla gente che entrava e usciva dall’ospedale e lì avevo trovato ad attendermi Stefania, il viso contrito dal dispiacere; si era seduta vicino a me, in silenzio, senza dire una parola e così era rimasta, rispettando il mio dolore e i miei tempi per metabolizzarlo. «È morta…» ero solo riuscito a dire, appena il nodo alla gola aveva allentato la sua morsa, lo sguardo perso nel vuoto, il cuore sanguinante dal dolore troppo recente. «Lo so; ho sentito il tuo dolore e mi sono precipitata qui prima possibile.» Non aveva aggiunto altro fino a quando il sole non aveva cominciato a tramontare e solo allora mi aveva strappato dai miei pensieri. «Vai da tuo figlio; ti starà aspettando e dovrai dirgli cosa è successo a sua madre nel modo più dolce possibile. Credi di poterlo fare?» «Non lo so; sento solo una grande angoscia e una voglia di farla finita, addormentarmi per non svegliarmi più, come ha fatto lei.» Stefania fece l’unica cosa che non mi sarei mai aspettato: mi prese per la giacca e mi fece voltare verso di lei. Nei suoi occhi si leggeva una rabbia a stento trattenuta mentre dalle sue labbra uscivano frase di rimprovero, dure e taglienti come lame di rasoio. «Non dire mai più una cosa del genere! Non puoi permetterti un egoismo così grande in questo momento, non devi essere debole ma forte per coloro che sono rimasti, per tuo figlio, per i tuoi parenti e per te stesso in primis; Giovanna non avrebbe mai voluto sentire parole così rassegnate, ma avrebbe desiderato che tu e Francesco capiste che lei aveva trovato finalmente la pace, l’assenza da quel dolore incessante che la stava facendo impazzire. Devi lottare per tuo figlio, perché superi questa tragica realtà sapendo di avere sempre e comunque te al suo fianco.» La osservai per un lungo istante quasi senza riconoscerla; non avevo mai dovuto constatare di quanta forza e coraggio fosse capace, ma ero sicuro che quelle parole dure mi stavano facendo bene, mi stavano scuotendo nel profondo facendomi tornare lucido. «Devo tornare a casa; mio figlio sarà in pena per il mio ritardo e non voglio dargli un’altra preoccupazione…»


10 «Vuoi che ti accompagni? Ho la macchina qui vicino e se ti servisse una mano con Francesco, beh, io sono qui…» «Grazie, lo apprezzo molto, ma non vorrei disturbarti più di quello che ho già fatto…» «Nessun disturbo ti assicuro; vieni, la macchina è da quella parte…»


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CAPITOLO 2

«Caro professor Claride, è un piacere rivederla dopo tanto tempo…» Il cardinale non era cambiato dall’ultimo nostro incontro, gioviale e cortese come sempre, forse un po’ sovrappeso, probabilmente segno di una vita ormai sedentaria. Mi aveva accolto nel suo studio privato senza farmi attendere troppo, segno di una certa benevolenza che non riuscivo a spiegarmi e aveva cercato subito di mettermi a mio agio notando, probabilmente, il mio disagio e il mio nervosismo. «È passato molto tempo dal nostro ultimo colloquio, ma ricordo ancora una certa promessa di continuare quel discorso sulla validità storica dei vangeli apocrifi, o sbaglio?» «No, Eminenza, non sbaglia affatto; sono sorpreso e lusingato che si ricordi ancora di me e dei nostri discorsi a quella conferenza e onorerò con piacere la promessa di approfondire con lei quest’affascinante argomento. Ero venuto alla segreteria dell’archivio vaticano per espletare alcune formalità, ma mi hanno detto di presentarmi immediatamente nell’ufficio del prefetto e così ho fatto non sapendo che lei, monsignore, ricopriva questa carica. Ci sono problemi che impediscono la conferma del mio incarico?» Ero visibilmente teso nonostante l’atmosfera fosse formalmente cordiale; mi aveva fatto accomodare su una scomoda poltroncina posta di fronte a un’enorme scrivania, volutamente più in basso rispetto all’imponente sedia barocca su cui sedeva il mio interlocutore, un’espediente studiato apposta per creare una sorta di rispettosa sudditanza nei confronti di chi mi stava di fronte. La risposta alla mia domanda non arrivò subito, ma dopo una pausa che ebbe l’effetto di aumentare a dismisura la mia ansia; il volto di monsignor Anselmi era diventato serio mentre tergiversava fingendo di analizzare alcuni fogli che aveva sparsi sulla scrivania e questo non era certamente un buon segno. «L’impiego che le stiamo offrendo non è solo di alto prestigio, ma necessita di doti non comuni come la discrezione e la fedeltà alle regole che vengono imposte per salvaguardare la sicurezza e il prestigio della Santa Madre Chiesa. Non tutto ciò che è custodito negli archivi papali è


12 di dominio pubblico né lo sono alcune sezioni che vengono considerate “riservate” solo agli addetti ai lavori non solo per la preziosità dei documenti custoditi ma soprattutto per quello che rivelano. Alcuni candidati che abbiamo scartato non avevano questo tipo di requisiti, ma altri, non più di un paio forse, avevano qualifiche e caratteristiche tali da renderli, sotto un certo aspetto, più idonei di lei a ricoprire questo delicato incarico…» «Eminenza, perché sono qui?» Ormai l’ansia che provavo era alle stelle e non ero più disposto a sopportare oltre quella tensione. Se avevano fatto un errore nel giudicare le mie referenze ero pronto a prenderne atto anche se questo avrebbe significato la fine del sogno di tutta una vita. Tutto questo tergiversare sulle qualità e sui doveri che l’impiego imponeva non aveva alcun senso se l’intenzione era di non confermarmi l’incarico, per cui perché continuare a insistere, visto che palesemente mi si rinfacciava di non avere i requisiti necessari? «Il consiglio aveva deciso di accordare la sua fiducia a un altro candidato, uno studioso dell’ordine domenicano molto preparato che aveva già lavorato nella biblioteca pontificia, una scelta logica e sensata, ma priva di quelle qualità essenziali che il ruolo vacante richiedeva: l’obiettività e una visione neutrale dell’insieme. «Come può immaginare abbiamo preso accurate informazioni sul suo conto, sia dal punto di vista accademico che morale e ciò che ne è risultato è perfettamente in linea con il mio concetto di persona imparziale. Lei crede in Dio professore?» Era l’ultima domanda che mi sarei aspettato in quella sede; la risposta sembrava scontata visto che l’impiego che mi si offriva consisteva nel gestire il patrimonio letterario e filosofico della Santa Chiesa di Roma dai suoi albori a oggi. Ogni pagina che avrei letto o solo sfiorato sarebbe stata intrisa della fede assoluta di chi, per secoli aveva vergato quei manoscritti venerando Dio Padre Onnipotente; avvicinarsi a quelle opere da miscredente sarebbe stato impossibile, quasi un insulto stesso alla cristianità. «Monsignore, io credo in Dio, ma…» «Ma? Continui professore, non abbia timore; Dio è verità per cui questa è sempre la via più gradita, ovunque porti…» Il sorriso era tornato sul viso del cardinale, quasi stesse assaporando un momento troppo atteso. «Non vorrei sembrare irriverente, ma non è in Dio che ho dei dubbi, ma nel modo in cui spesso i suoi ministri hanno gestito la Sua Parola.»


13 «È quello che volevo sentirle dire! A me serve un osservatore imparziale non vincolato dai propri voti o da una cieca fede in tutto quello che la Chiesa ha propagandato nei secoli. Capisco dalla sua espressione che ciò può sembrare un po’ troppo progressista detto da un cardinale che ricopre la mia posizione, ma quando capirà a fondo la portata e le implicazioni intrinseche del suo mandato, tutto le sembrerà più chiaro; ora vada in segreteria a espletare le ultime formalità dopo di che torni pure in facoltà, ma sappia che da questo momento è tenuto alla segretezza totale per tutto quello che riguarda il suo incarico e gli archivi segreti. Che Dio l’accompagni e la guidi sempre sulla strada della verità, ovunque essa la porterà.» «La ringrazio Eminenza; è stato il colloquio più strano e difficile che abbia mai affrontato, ma sono felice della sua fiducia: non la deluderò, vedrà.» Ero rimasto sconcertato dalle parole sibilline del mio interlocutore; sembrava volesse dirmi qualcosa di estremamente riservato senza però scendere nei particolari, senza rivelarmi più di quello che le semplici parole volevano far intendere, un modo di dialogare più da cospiratore che da cardinale. Uscire da quell’ufficio fu come liberarsi da un peso enorme; scesi gli scalini sentendomi così leggero che avrei potuto volare fino agli uffici amministrativi dove una solerte impiegata era in attesa di farmi compilare e firmare un numero esagerato di moduli e documenti rilasciandomi alla fine un budget tanto semplice quanto anonimo. «Questo è il tesserino provvisorio che le permetterà di accedere al primo livello degli archivi vaticani; lì una mia collega provvederà a fornirle quello definitivo e personalizzato quando si presenterà al lavoro lunedì mattina. Buon fine settimana professor Claride e benvenuto tra noi…» Ricambiai il suo sorriso e il suo augurio e uscii assaporando il sole che splendeva radioso sul cortile del Belvedere e sulle macchine ordinatamente parcheggiate davanti a me. Avevo provato una lieve claustrofobia mentre a passo deciso guadagnavo l’uscita dell’imponente palazzo sede della biblioteca Apostolica Vaticana, una sete di aria fresca che speravo mi schiarisse le idee dopo quell’incontro a dir poco sconcertante. Chiamai un taxi e mi feci portare all’università, appena in tempo per la mia lezione. Il silenzio in aula era quasi assordante; i miei studenti attendevano muti che io iniziassi a parlare, consapevoli che la riuscita o meno del


14 colloquio che avevo avuto in mattinata avrebbe cambiato la mia vita e, forse, un pochino anche la loro. «Ragazzi…» iniziai il mio breve discorso inserendo volutamente una pausa per alimentare l’attesa, «come sapete oggi ho avuto l’onore di essere convocato in Vaticano per discutere di un possibile impiego di prestigio… ebbene, avete di fronte il nuovo curatore dei beni storici e letterari presso la sezione manoscritti dell’archivio segreto vaticano…» Ci fu ancora un attimo di silenzio, come se la notizia che avevo appena dato non fosse stata ancora recepita, poi uno scroscio di applausi e grida furono la manifestazione chiassosa e allegra dell’affetto e dell’orgoglio dei miei ragazzi. Non facemmo alcuna lezione quella mattina, solo una raffica senza fine di domande a cui cercavo in qualche modo di rispondere; avevo ben chiaro il monito del cardinale circa l’obbligo di riservatezza e di segretezza sul mio incarico, ma visto che non sapevo nulla di concreto su quello che sarei andato a fare da lì a qualche giorno, fu piuttosto semplice tenermi sul vago e dare a tutti una risposta il più possibile esauriente. A casa non ebbi lo stesso caloroso benvenuto; Stefania non c’era, impegnata in chissà quale faccenda e Francesco era chiuso in camera sua, come al solito, a leggere o ad ascoltare la musica. Non avevo ben chiaro il momento in cui il nostro rapporto era mutato diventando quello che appariva, con ogni ragione, un formale scambio di convenevoli, una muta ostilità mal celata nei miei confronti. Eppure fino a qualche anno prima i nostri rapporti erano d’amore assoluto, una simbiosi padre-figlio che ancora oggi mi commuoveva e mi faceva star male; sua madre si era ammalata quando lui aveva appena dieci anni e il decorso della malattia era stato rapido e doloroso per tutti, specialmente per lei. Alla fine, nemmeno i più potenti antidolorifici riuscivano a darle un po’ di sollievo e questo tormentava anche noi che assistevamo impotenti alla sua agonia; in questo doloroso calvario l’unico momento di respiro era proprio Stefania che allontanava mio figlio da quell’atroce visione con ogni scusa possibile, accompagnandolo a prendere un gelato o portandolo al parco dove poteva dimenticare per un attimo l’angoscia di quella terribile situazione e giocare con gli amici senza altri pensieri in testa. Era il nostro angelo custode e me ne resi conto solo molto tempo dopo, quando la mente ricominciò ad avere una parvenza di lucidità dopo lo straziante dolore della perdita della persona che amavo di più al mondo; era entrata nella nostra vita in punta di piedi donando l’aiuto che serviva senza nemmeno che le venisse chiesto, una sorta di sesto senso


15 che la portava a essere nel posto giusto al momento giusto per fare quello che altrimenti io non sarei stato in grado di fare. Si occupò di Francesco anche dopo i funerali, accompagnandolo a scuola e seguendolo in tutte quelle faccende che prima erano di competenza di sua madre, incoraggiandolo e donandogli quell’affetto di cui sentiva tremendamente la mancanza. Anche per me era stata un’ancora di salvezza, un appiglio che mi aveva impedito di impazzire e di questo le ero veramente grato. Era passato qualche anno e il suo aiuto era diventato talmente indispensabile da tramutarsi in un lavoro vero e proprio, con tanto di contratto e stipendio. Nel frattempo, grazie anche al mio aiuto, era riuscita finalmente a laurearsi coronando così un sogno che coltivava da troppo tempo. Mio figlio le si era affezionato al punto che più di una volta l’avevo sentito chiamarla “mamma” salvo poi correggersi immediatamente appena si accorgeva dell’errore commesso, ma questo non era un dispiacere per me, tutt’altro; volevo solo che mio figlio fosse di nuovo felice e sereno e forse questo fu l’inizio del suo allontanamento da me. Fu una sera piovosa d’inverno che le cose tra me e Stefania presero una piega diversa e inaspettata. Giovanna era morta ormai da cinque anni e mi ero rassegnato a soffrire della sua mancanza dedicando la mia vita ai miei studi e agli impegni di Facoltà che assorbivano quasi tutto il mio tempo, un modo per tenere occupata la mente impedendole di rivangare tutti quei brutti ricordi. Ero appena rientrato a casa e come sempre avevo trovato la cena pronta e Francesco che terminava di ripassare la lezione per il giorno dopo. Avevamo mangiato tutti insieme come spesso facevamo negli ultimi periodi, quasi fossimo tutti un’unica famiglia, chiacchierando del più e del meno, dei voti di mio figlio e della giornata passata all’università, dei piccoli problemi quotidiani che gestire una famiglia come la nostra comportava. Poi Stefania ci aveva salutato ed era tornata a casa lasciandoci soli con i nostri pensieri e i nostri silenzi, io a riguardare gli appunti della giornata e mio figlio a vedere un po’ di televisione per poi andare a letto senza quasi nemmeno dare la buona notte. Era passata poco più di un’ora e Francesco si era addormentato nel suo letto, le cuffiette dello stereo ancora nelle orecchie e la luce della lampada sul comodino ancora accesa. Ero andato a dargli il bacio della buona notte come ogni sera, ma ero arrivato tardi: gli avevo tolto le cuffiette, spento la luce e accostato la porta della camera in modo che non potesse essere disturbato dai rumori della casa poi, dopo avergli sussurrato “buona notte, ti voglio bene…” ero tornato alle mie scartoffie.


16 D’improvviso, lo squillo del telefono aveva rotto la tranquillità della stanza; non mi aspettavo un rumore così forte nel silenzio quasi totale e il cuore aveva cominciato a battere all’impazzata. «Pronto?» avevo chiesto con un accenno d’irritazione nella voce, visto l’ora tarda e lo spavento che mi ero appena preso. «Pronto Sergio? Scusami se ti disturbo, sono Stefania: sono rimasta in panne con la macchina e non so come fare. Ho chiamato il carro attrezzi, ma finora non si è visto nessuno e qui comincia a piovere e non so come tornare a casa o muovere la macchina da qui… Per favore potresti aiutarmi?» «Stefania, ma cosa è successo? Dove sei? Stai bene?» avevo chiesto forse con troppa apprensione. «Sì, io sto bene, ma la macchina si è spenta e non vuole più ripartire; ho preso una buca piena d’acqua dopo di che il motore è morto e io sono in mezzo alla strada a un paio d’isolati da casa sotto il diluvio…» «Non ti preoccupare, mi metto qualcosa addosso e ti raggiungo. Sali in macchina e aspettami, arrivo il più presto possibile; dove sei di preciso?» «Sono alla fine di via IV Novembre, vicino alla rotonda di piazza Risorgimento… ti prego fai presto…» «Siediti in macchina e aspettami, arrivo subito.» Avevo già una mezza idea di cosa poteva essere successo; la sua macchina era una vecchia Fiat Cinquecento e l’acqua della pozzanghera doveva essere entrata nello spinterogeno bagnando le puntine e chissà cos’altro. Per fortuna avevo un paio di bombolette di idrofugo che unite ai cavi per la batteria, a una robusta fune da traino e alla valigetta degli attrezzi che tenevo sempre in macchina mi avrebbero permesso di risolvere la situazione o almeno era quello che speravo. Diedi un’ultima occhiata a mio figlio e, dopo aver indossato il soprabito e preso l’ombrello, uscii di casa in pieno temporale. La città era deserta, illuminata dai bagliori delle saette che sferzavano il cielo plumbeo, accompagnate dal fragore dei tuoni che sembravano avvicinarsi sempre di più. Trovai la macchina di Stefania quasi subito anche perché occupava buona parte della sua corsia; non era riuscita a spostarla, ma grazie al diluvio che stava spazzando Roma non aveva causato intralcio a nessuno. Mi venne incontro sotto un ombrellino che a fatica le riparava la testa, fradicia d’acqua mentre io accostavo la mia macchina in modo che i fari illuminassero il cofano fornendomi la luce necessaria per poter tentare di risolvere il problema. La feci salire affinché potesse riscaldarsi e raccontarmi bene cosa le era capitato.


17 «Grazie Sergio, non so come avrei fatto senza il tuo aiuto… sembra la classica situazione in cui la ragazza sprovveduta dice al suo salvatore: “mi scusi, ma la macchina non mi parte… potrebbe aiutarmi?”» Era visibilmente scossa da quello che le era successo, ma nonostante tutto aveva ancora la forza di spirito di scherzarci su anche se nei suoi occhi leggevo una disperata voglia di piangere. «Non si preoccupi signorina sprovveduta, vedo cosa posso fare per portare in salvo e all’asciutto lei e la sua anziana vettura… scherzi a parte, rimani qui e cerca di scaldarti un po’ mentre io vado a vedere cos’è successo: non dovrebbe essere una cosa grave, stai tranquilla…» Come avevo immaginato, il vano motore era fradicio d’acqua; aprii la calotta dello spinterogeno e utilizzai l’intera bomboletta d’idrofugo per eliminare ogni traccia di umidità dalle puntine platinate, le registrai con il cacciavite e richiusi il tutto facendo attenzione che le due parti si incastrassero alla perfezione, poi con l’altra bomboletta spruzzai ogni cavo e ogni contatto visibile fino a quando l’odore di etere divenne quasi insopportabile. «Ho quasi finito, non ti preoccupare: tra poco la rimetto in moto e tutto questo sarà solo uno spiacevole ricordo», le avevo gridato sotto la pioggia battente; l’ombrello che avevo lo usavo per impedire alla pioggia di peggiorare le cose ma non era sufficientemente ampio da coprire anche me per cui, ormai, ero talmente saturo d’acqua che la pioggia mi scivolava addosso senza trovare più nulla di asciutto sul suo percorso. Il motorino d’avviamento prese a girare, dapprima lentamente, poi con più forza, aiutato dall’energia supplementare della batteria della mia macchina collegata in parallelo tramite i cavi che mi ero previdentemente portato appresso. «Parti maledetto, mettiti in moto accidenti!» Ero fradicio e infreddolito, frustrato che dopo tutta quella fatica non vi fosse il risultato sperato; Stefania era al volante della mia vettura e teneva il motore su di giri per fornirmi tutta la carica che poteva, ma sembrava che tutto fosse vano, che quella maledetta Cinquecento non volesse collaborare, anzi. Poi di colpo, tra sbuffi e tossicchi il motore prese a girare, in modo forse non proprio regolare, ma almeno era riuscito a mettersi in moto; lo tenni accelerato per un attimo e quando fui sicuro che avrebbe retto il minimo, scesi a staccare i cavi richiudendo il cofano con un colpo secco. «Dovrebbe essere tutto a posto, ma per prudenza guido io la tua macchina fin sotto casa; seguimi con la mia ma non starmi troppo vicino


18 perché se quel ferrovecchio decide di morire all’improvviso, rischi di tamponarmi e così chiudiamo in bellezza la serata…» «Non chiamarla “ferrovecchio”; è una macchinina anzianotta ma molto permalosa e io vorrei portarla a casa senza altri incidenti.» Sorrideva da dietro il finestrino appannato, contenta che le cose si fossero messe al meglio, probabilmente incurante del fatto che di lì a poco mi sarebbe venuta una polmonite a causa di tutta l’acqua che avevo preso grazie alla sua permalosissima “macchinina”. Arrivammo sotto casa sua e parcheggiai quel rottame addirittura davanti al portone, una fortuna che capitava raramente in quel quartiere; attesi il suo arrivo sotto un poggiolo del palazzo mentre il temporale, guarda caso, stava ormai esaurendosi trasformandosi in una pioggerellina fitta ma innocua. «Accidenti, sei fradicio», fu la prima cosa che mi disse guardandomi, non un grazie o qualche altra formula di gratitudine, solo un’ovvia constatazione del mio pessimo stato. «Sali da me, fatti una doccia bollente mentre io metto i tuoi vestiti sui caloriferi, poi ti offro qualcosa da bere per ringraziarti dell’enorme favore che mi hai fatto mentre i vestiti si asciugano…» Ero sul punto di rifiutare, di trovare una scusa per tornare a casa e fare le stesse identiche cose che mi aveva appena proposto lei, ma i brividi d freddo erano ormai arrivati alle ossa e non riuscii a dire di no. «Grazie Stefania, non vorrei approfittarne ma sono completamente congelato e non ce la faccio a tornare a casa in questo stato, ma non voglio che ti disturbi così per me.» «Ma stai scherzando? Ma quale disturbo, mi sembra proprio il minimo non credi?» La sua voce rimbombò nell’atrio del palazzo per cui, vista l’ora tarda, salimmo in silenzio senza fare altro rumore. La sua casa era piccola ma accogliente, piacevolmente calda; tremavo troppo per soffermarmi sui particolari, ma non potei non notare un enorme divano colorato che spiccava in mezzo alla sala, proprio di fronte a un televisore gigante. «È il mio angolino preferito; mi piace sdraiarmici sopra con una calda coperta di pile a guardare film, a volte per tutta la notte fino ad addormentarmi. Il bagno è da quella parte, ma devo avvertirti che non ho la doccia ma una grande vasca, di quelle antiche, di ghisa smaltata; mentre io vado a riempirla togliti tutta quella roba bagnata e mettila dove puoi sui caloriferi, vedrai che si asciugherà in fretta.»


19 La vidi sparire dietro una porta a vetro satinato mentre uno scroscio d’acqua preannunciava un bagno bollente e ristoratore; erano anni che non mi concedevo il lusso di un po’ di tempo immerso nell’acqua calda e profumata di una vasca, incalzato dalla necessità di tempi troppo limitati che solo una rapida doccia poteva sopperire per cui assaporavo quel momento con impazienza mentre disponevo alla meglio le mie cose per la casa. «C’è un accappatoio nella cassapanca vicino al divano, spero sia della tua taglia; togliti tutto e vieni, è quasi pronto…» Provai imbarazzo a denudarmi in casa sua anche se lei non era presente in quella stanza; mi sembrava irrispettoso e quantomeno inopportuno anche se le circostanze erano del tutto impreviste e dettate unicamente dal bisogno. Rimasi in mutande, bagnate anch’esse e mi avvolsi nell’accappatoio che, pur essendo un po’ piccolo, mi diede subito una piacevole sensazione di asciutto sulla pelle; entrai nella stanza da bagno piena di vapore profumato e attesi che Stefania finisse di riempire la vasca. «Ho aggiunto dei sali profumati, niente di femminile ti assicuro; li uso spesso anche io e sono veramente rilassanti oltre a profumare la pelle di muschio bianco, il mio preferito.» «Anche a me piace il muschio bianco, ma non dovevi disturbarti così tanto, davvero, non era necessario…» «Niente di quello che ho fatto è stato un disturbo, l’ho fatto volentieri, per te…» Quelle parole erano rimaste come sospese nell’aria mentre mi voltava le spalle e usciva socchiudendo la porta; l’ambiente era surriscaldato tanto che per un attimo ebbi un brivido di piacere mentre mi sfilavo l’ultimo indumento rimasto ed entravo lentamente nella vasca colma di acqua fin troppo calda. Socchiusi gli occhi una volta immerso totalmente in quel liquido rigenerante; potevo sentire il freddo abbandonare le mie ossa e fluire all’esterno, una sensazione di benessere così intensa da farmi dimenticare ogni cosa, anche il fatto di essere nudo nel bagno della mia migliore amica. Avevo perso la concezione di quanto tempo ero rimasto lì, poco a giudicare dalla temperatura dell’acqua che continuava a bruciarmi la pelle, non abbastanza da suscitare preoccupazione visto che nessuno aveva chiamato per sapere se stessi bene, ma provavo ugualmente la netta sensazione di essermi assopito, almeno per un attimo. Avevo ancora gli occhi chiusi assaporando quello stato di rilassante benessere quando un’improvvisa


20 increspatura dell’acqua me li aveva fatti aprire; Stefania era in piedi davanti a me, nuda in tutta la sua bellezza e stava entrando nella vasca. «Se tiri indietro un po’ le gambe c’è spazio anche per me…» aveva detto semplicemente, come se fosse la cosa più naturale del mondo condividere quel bagno caldo e profumato. Ero rimasto a guardarla mentre lentamente scivolava nella vasca, assaporando i brividi che il calore produceva sulla sua pelle fredda; aveva un corpo snello, quasi acerbo con seni piccoli ma perfettamente modellati e areole scure da cui spuntavano due capezzoli turgidi, dritti e inopportunamente invitanti. Seguii ogni suo movimento senza dire una parola mentre i suoi occhi non si staccavano mai dai miei, visibilmente compiaciuta dell’effetto che aveva su di me; non fece nulla se non sistemarmisi di fronte, la schiena contro il bordo della vasca, il seno e i capezzoli che facevano capolino sulla superficie increspata dell’acqua a ogni suo respiro mentre il contatto della sua pelle nuda sulla mia provocava una serie di conseguenze, la più imbarazzante delle quali era estremamente visibile, inevitabile quanto inopportuna. «Ho la pelle ghiacciata, scusami, ma anche io ho preso un sacco di freddo stanotte e avevo proprio bisogno di un po’ di tepore…» Sorrideva mentre pronunciava quella frase all’apparenza del tutto innocente, ma era il suo sguardo e il modo in cui l’aveva detto che svelava più di quello che dicevano quelle semplici parole. «Io… io non so cosa dire…» balbettai cercando di guardarla in viso, ma i miei occhi erano inevitabilmente attratti da quel corpo perfetto che avevo davanti, che sfiorava e toccava la mia pelle creando ondate incontrollabili di puro piacere. «Potresti almeno dirmi se quello che stai guardando è di tuo gradimento; a una donna fa piacere sapere di essere apprezzata… a me farebbe piacere sapere se ti piaccio.» Non sorrideva più e il suo sguardo era diventato diverso, più attento; anche lei mi stava guardando e leggevo compiacenza nei suoi occhi, specialmente quando osservava le reazioni che il mio corpo aveva al contatto con il suo, la tensione dei muscoli che sfioravano le sue gambe, i suoi fianchi, l’irriverente erezione che osteggiavo in mezzo alle gambe e che lei aveva impedito che coprissi semplicemente tenendo le mie mani nelle sue. Le sue labbra leggermente socchiuse e il suo sguardo intenso erano un invito a cui stentavo a credere. La testa girava e avevo l’impressione di fare la figura del perfetto imbecille mentre il suo corpo aderiva ancora di più al mio, accarezzandolo senza alcun pudore.


21 «Sei bellissima…» riuscii a dire a malapena mentre una vampata di calore m’infuocava il viso. «Sei così eccitante che ho il terrore di fare qualcosa di stupido, di rovinare questo momento, di fare qualcosa che possa distruggere il nostro rapporto, la nostra amicizia…» «L’unica cosa che puoi fare di stupido è rimanere lì senza far nulla; guardami, toccami se vuoi, fai tutto quello che desideri perché puoi star certo che il tuo piacere sarà anche il mio…» Aveva cambiato posizione venendosi a sedere tra le mie gambe, proprio dov’era più evidente la mia attrazione per lei; aveva appoggiato la sua schiena al mio petto, la testa reclinata sulla mia spalla, gli occhi chiusi e il suo lungo collo vicino alle mie labbra, quasi una sorta di devota sottomissione. Le sue mani tenevano ancora le mie, ma era lei ora che le guidava sulla sua pelle, sulle sue spalle, alla scoperta della compattezza dei suoi seni e dei suoi capezzoli così rigidi e tesi. Avevo chiuso gli occhi anche io, assaporando ogni sensazione che le mie dita trasmettevano al cervello, ondate di gioiosa voglia e di desiderio ormai irrefrenabile di prendere e possedere quel corpo così irresistibile. Le mie labbra si erano appoggiate sul suo collo, baciandolo e stimolandolo con piccoli morsi innocui ma estremamente stuzzicanti. La sentii gemere per la prima volta e questo fu il segnale che ruppe ogni indugio, che dissipò l’ultimo timore, l’ultima resistenza. Lasciai le sue mani ad accarezzare quel seno perfetto e scesi più in basso, lungo i fianchi fino alle cosce che nel frattempo si erano spostate per agevolarmi il cammino verso ciò che lei mi stava offrendo con passione; sentivo il suo corpo muoversi in risposta alle mie carezze, inarcarsi sinuoso per poi premersi nuovamente contro il mio in una danza così eccitante da togliere il fiato. «Prendimi ti prego, subito…» mi aveva sussurrato, una preghiera che avevo tutta l’intenzione di esaudire al più presto. Si era protesa in avanti allontanando il collo dalle mie labbra, ripiegando le gambe sulle ginocchia e afferrando con le mani il bordo opposto della vasca; mi stava offrendo uno spettacolo che mi lasciava senza fiato. I lunghi capelli lisci le ricadevano sulla schiena candida, incurvata in modo da posizionare il suo magnifico fondoschiena proprio sopra il mio membro teso; ne avevo appoggiato senza indugio la punta sulle sue labbra schiuse ed ero scivolato in lei immediatamente, con gratitudine, con l’amore che solo in quel momento avevo realizzato di provare per lei, e lei ricambiò il mio


22 sentimento e la mia passione muovendosi lentamente, danzando con me quell’atto dolcissimo d’infinito amore, l’inizio di qualcosa forse a lungo sognato ma mai espresso, l’inizio di una vita da condividere insieme.


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CAPITOLO 3

L’ambiente in cui avrei dovuto lavorare non si avvicinava nemmeno lontanamente a quello che mi ero immaginato; superate le prime stanze dagli alti soffitti a volta, ero stato accompagnato all’interno della zona riservata, quella interdetta ai visitatori, una serie di laboratori climatizzati ermeticamente sigillati da doppie porte per evitare la benché minima variazione delle condizioni di temperatura e umidità, videosorvegliate e protette da un numero imprecisato quanto discreto di addetti alla sicurezza. «Venga, per di qua…» La mia accompagnatrice era la stessa che alcuni giorni prima mi aveva fornito il budget per accedere alle aree riservate e ora mi faceva da guida attraverso quel dedalo di stanze e corridoi che sembravano non avere mai fine. «Questo è il primo livello, dove i tecnici restaurano le opere che vengono donate all’archivio oppure i manoscritti provenienti da musei o da collezioni private; è un lavoro molto specialistico che deve essere fatto in ambienti a climatizzazione controllata. Naturalmente lei ha accesso a questo livello, ma dubito che verrà qui spesso; le sue mansioni sono complementari a questo reparto ma di carattere totalmente diverso…» “Parlare per enigmi dev’essere una prassi da queste parti”, pensavo mentre percorrevamo l’ultimo tratto del corridoio; i laboratori non erano molto grandi, ma ce n’era un numero davvero spropositato tanto che mi ero chiesto più volte qual era la reale estensione degli archivi segreti. «Manca ancora molto?» chiesi celando una certa impazienza; ero elettrizzato dall’idea del nuovo lavoro e ogni ritardo, sia pure istruttivo mi sembrava solo una perdita di tempo e basta. «No professore, non molto, abbia ancora un attimo di pazienza la prego»; sorrideva indulgente alla mia premura, come se avesse vissuto la stessa situazione molte volte prima di questa dando sempre la medesima risposta. «Tra poco arriveremo all’ascensore che ci porterà direttamente alla sezione a cui è stato assegnato; come vede non le sarà difficile trovare


24 l’uscita una volta finito il lavoro, basta seguire le indicazioni o chiedere a uno degli addetti alla sicurezza.» «Un ascensore? Mi hanno assegnato un ufficio nel seminterrato dell’edificio?» Era semplicemente una battuta, ma venne presa un po’ troppo sul serio dalle persone che mi accompagnavano, specialmente dai due energumeni che si erano materializzati davanti a noi, una volta arrivati all’ascensore; sapevo benissimo che gli archivi segreti si sviluppavano su più livelli, alcuni dei quali proprio sotto i nostri piedi, ma non credevo che il mio reparto fosse ubicato proprio in uno di quelli. «Non esattamente professore; qui non esiste un seminterrato, ma questo già lo sa vero?» continuava a sorridermi con indulgenza e a chiamarmi con il mio titolo accademico, come a sottolineare i ruoli che ognuno di noi aveva in quell’ambiente dai rigidi protocolli. «Certamente, ne sono al corrente… volevo solo essere spiritoso, ma non mi è riuscito molto bene.» «Al contrario professore, il suo umorismo era consono alle circostanze, ma, purtroppo, la sua battuta è molto comune da queste parti. Venga, entriamo che le mostro come funzionano i comandi della cabina.» In realtà non c’era molto da vedere; un abitacolo ampio e fortemente illuminato con una porta di accesso e una di uscita diametralmente opposta alla prima, senza alcuna pulsantiera se non una piastra lucida di freddo acciaio e una piccola fessura sottostante larga quanto la tessera che tenevo tra le dita. «Prego, appoggi il palmo della mano destra sulla piastra per la prima registrazione e inserisca il budget in suo possesso», mi disse la guardia con tono gentile, «deve ripetere questa operazione tutte le volte che sale o scende con uno qualsiasi degli ascensori, ma se le due identificazioni non dovessero combaciare alla perfezione rimarrebbe chiuso all’interno della cabina fino all’arrivo della sicurezza… tutto chiaro vero?» «Certamente, ho capito; succede spesso di rimanere intrappolati in uno di questi cosi?» «No, quasi mai e comunque mai per un problema tecnico o di gestione errata del protocollo…» “Che in parole povere vuol dire stai attento a non combinare casini perché se no ci passi la giornata qui dentro prima che ti veniamo a prendere”, pensavo mentre automaticamente annuivo alla spiegazione appena fornitami. L’ascensore partì verso il basso con un movimento quasi impercettibile; non c’era modo di capire quanti piani avesse


25 superato prima di arrestarsi completamente, né in quale parte degli archivi ci trovavamo in quel momento. «Buona giornata professore, da qui in poi le farà da guida un’altra persona, noi non abbiamo l’autorizzazione per questo livello. Le auguro un buon lavoro e una buona permanenza nel nostro staff.» Le strinsi la mano senza che lei varcasse la soglia della cabina; le guardie si erano tenute in disparte e un attimo dopo le porte erano già richiuse e l’ascensore era tornato a salire verso la superficie. “Ma dove sono finito?” mi stavo chiedendo, quando una voce alle mie spalle mi fece sussultare. «Buongiorno professor Claride, sono Luciani, il responsabile di questa sezione dell’archivio; noi la chiamiamo “bunker” e tra poco ne capirà il motivo. Benvenuto tra noi.» Era un uomo basso dagli occhi vivaci e attenti e un sorriso cordiale che rimandava alle immagini dei frati dei calendari; aveva una semplice cappa azzurra da laboratorio, ma il collarino ecclesiastico che spuntava dal colletto della camicia non lasciava dubbi sulla persona che avevo di fronte, non che la cosa fosse così imprevedibile visto il luogo in cui mi trovavo. «Come avrà notato, oltre a essere uno studioso capace sono anche un sacerdote; scoprirà presto che quasi la totalità dell’équipe che lavora in questo livello è composta da religiosi, preti e frati soprattutto con l’eccezione di due suore e… lei naturalmente.» «Io sono l’unico laico? Come mai?» Una spiegazione sommaria mi era già stata fornita dal cardinale in persona, ma volevo avere il parere di chi lavorava sul campo per farmi un’idea più precisa del ruolo che mi avevano affidato. «Francamente è stata una sorpresa per tutti; il candidato che era stato scelto era un frate domenicano molto preparato, con un curriculum decisamente migliore del suo, senza offesa naturalmente, ma all’ultimo momento aveva rinunciato all’incarico e grazie a ciò il mandato ora è suo. Forse sarà lei a fornire una spiegazione a questo mistero, o forse no…» Avevamo percorso un breve corridoio che voltava bruscamente ad angolo retto terminando in un’enorme sala dal soffitto esageratamente basso; lunghe file di scaffali metallici riempivano ogni spazio disponibile di quell’ampio salone, colmi di plichi e faldoni meticolosamente catalogati. L’aria sapeva di carta e di canfora e creava una spiacevole sensazione di soffocamento che il mio accompagnatore sembrava non


26 percepire; mi precedeva descrivendo passo dopo passo tutto il materiale lì custodito, documenti e atti notarili che risalivano addirittura ai primi anni del Seicento e che delineavano il governo e le attività pastorali dei pontefici che si erano succeduti dopo Papa Urbano VIII, l’ideatore degli archivi segreti vaticani. Man mano che procedevamo verso il fondo del salone, un senso di delusione cominciava a sostituire l’iniziale euforia; mi ero immaginato di poter lavorare su reperti e documenti ancora non censiti se non addirittura del tutto sconosciuti e invece quello che sembrava aspettarmi era un banale lavoro di archivista che chiunque dotato di un minimo di professionalità poteva svolgere senza problema. Perché allora occorrevano titoli accademici particolari e obbligo di riservatezza assoluta se era solo questo il materiale con cui sarei venuto in contatto? Doveva esserci certamente dell’altro, ma non avevo nessuna intenzione di far trapelare la mia impazienza, almeno fino a quando non avessi ben compreso la natura e i segreti di quel luogo. «Perché “bunker”? A parte le pareti e il soffitto di cemento e un certo senso di claustrofobia c’è qualche altro motivo per un nome così particolare?» «Questo luogo è relativamente recente; prima gli archivi non arrivavano a questa profondità, ma la necessità di ampliare i laboratori dei piani superiori aveva creato l’esigenza di reperire nuovi spazi dove spostare gli ingombranti scaffali che ha appena visto e ha anche permesso la realizzazione di una sezione del tutto nuova dove accentrare tutto quel particolare lavoro di studio e ricerca che prima era sparso e frammentato in altri luoghi proprio per conservarne la segretezza. Quest’ala dei sotterranei è stata realizzata con una progettazione di tipo militare; i muri sono di cemento armato e acciaio e sono spessi alcuni metri mentre tutto il resto, dagli accessi ai mezzi di sopravvivenza sono stati meticolosamente studiati per rendere questo luogo sicuro e impenetrabile.» «Perché? Non certo per custodire quest’archivio che sicuramente è già stato digitalizzato da tempo; cosa nascondete qui sotto di così importante da rendere necessaria un’opera tanto imponente?» «Per essere il primo giorno, sa già fin troppe cose di questo luogo; naturalmente il cardinale Anselmi l’ha messa al corrente delle ferree regole di riservatezza che è tenuto a osservare e le consiglio vivamente di rispettarle con scrupolosità, con chiunque e in qualsiasi circostanza: il fatto che lei non sia soggetto al vincolo dell’obbedienza come noi religiosi crea un precedente che mette a repentaglio la sicurezza


27 dell’intero programma, ma confido che la saggezza del monsignore abbia tenuto conto anche di questo…» Ora era chiaro; non ero benaccetto tra quelle mura, una mosca bianca che era vista più come una minaccia che come un aiuto. Restava solo da capire il motivo di tanto timore ed ero certo che non sarebbe stata una cosa semplice né immediata. Varcammo altre due porte che immettevano in stanze del tutto simili alla prima fino ad arrivare a un altro ascensore, più piccolo del precedente e ancora più disadorno; due piastre in acciaio lucido e nessuna feritoia erano tutto ciò che c’era sulla parete oltre a due minuscole telecamere posizionate ai lati di quello strano pannello di comando. «E ora cosa devo fare?» chiesi incerto; era la prima volta che mi trovavo in una situazione del genere e man mano che procedevamo mi sentivo sempre più confuso. «Posizioni entrambe le mani sulle piastre e non si muova; le due telecamere scansioneranno il suo viso e rileveranno la temperatura di alcuni punti chiave dopo di che compareranno i dati con l’impronta dei suoi palmi e se tutto combacerà alla perfezione, avrà accesso al livello sottostante, l’ultimo, in caso contrario…» «Sì, so già la risposta: rimarrei bloccato qui dentro fino a quando qualcuno avrà voglia e tempo di liberarmi.» «No, in questo caso nessuno verrebbe a liberarla, non ce ne sarebbe bisogno… niente e nessuno entra o esce da questo luogo se non ha i giusti requisiti, nemmeno il diavolo in persona, e non è una battuta, mi creda.» Ora sì che ero veramente sconcertato; era una velata minaccia quella che avevo appena sentito o una sorta di perverso sarcasmo riservato ai novellini? Padre Luciani non mi sembrava il tipo da fare battute di spirito, tutt’altro; sembrava rigido e austero come un abate dell’Ottocento e qualcosa mi suggeriva di prendere alla lettera le sue ultime parole. Il corridoio che si era aperto all’improvviso davanti a noi era stretto e fortemente illuminato; l’ascensore si era fermato senza che me ne accorgessi aprendo le sue porte davanti a due uomini che ci stavano aspettando e che ci accompagnarono fino a quelle, ermetiche, dei laboratori. Da ciò che potevo osservare erano stanze ampie dai soffitti illuminati a giorno da una luce bianca indiretta, soffusa ma oltremodo potente. Una equipe di persone affaccendate era al lavoro, suddivisa tra i vari banconi e non fece caso al nostro passaggio, probabilmente troppo assorte nei compiti che stavano svolgendo; la cosa che più colpiva era il


28 totale silenzio che regnava in quel luogo, rotto solo dai fruscii dei camici e dal rumore appena percettibile delle strumentazioni che venivano adoperate. «Sembra di essere in chiesa…» sussurrai al mio accompagnatore sperando in un suo sorriso alla mia battuta, ma rimasi nuovamente deluso. «In un certo senso è proprio così…» mi rispose enigmatico il prete. Dopo un’altra serie di controlli arrivammo finalmente dove si sarebbe svolto il mio lavoro, una sorta di archivio laboratorio dov’erano custoditi alcuni tra i manoscritti più antichi di tutta la collezione. «La affido alle cure di frate Domenico, il nostro collaboratore con maggior esperienza; sarà lui che la istruirà sul lavoro che dovrà compiere e sui protocolli da seguire, lui sarà il suo referente e il suo assistente per ogni tipo di esigenza. Naturalmente, ogni richiesta che esula la normale procedura dovrà essere approvata dal prefetto in persona, ma confido che utilizzerà questo canale solo in caso di estrema necessità.» Lo vidi allontanarsi senza altra parola di commiato e questo mi rese ancora più confuso e imbarazzato di fronte al mio nuovo collega. Era una persona piuttosto anziana, dalle spalle curve ma dallo sguardo vivo, intenso; ricambiò la mia stretta di mano trattenendola un attimo più del dovuto, come per sincerarsi di avere di fronte la persona giusta e non un impostore. «La stavo aspettando professor Claride; ho visto che ha già avuto a che fare con padre Luciani per cui credo che il peggio per oggi sia passato: mi segua la prego, ma non tocchi nulla, almeno per il momento…» Aveva una voce calda, stranamente ferma ed energica per l’età che stimavo potesse avere, ma soprattutto ironica e irriverente nei confronti del mio precedente accompagnatore. «Mi chiami Sergio, per piacere, visto che da oggi lavoreremo insieme; i titoli formali non vanno d’accordo in un ambiente di lavoro dove si lavora a stretto contatto, non le pare?» «Sono del suo stesso parere, ma preferivo che fosse sua l’iniziativa e di questo la ringrazio; venga che le illustro cosa facciamo nel “Santuario”…» «Nel “Santuario”? È così che chiamate questo posto? Perché?» «Lei fa già troppe domande, ma era una cosa che mi aspettavo da una mente curiosa come la sua; mi avevano avvertito della sua sete di conoscere in anticipo le cose, fin da quando era piccolo mi hanno detto, non è vero?»


29 «E lei come fa a saperlo?» Ero rimasto sbigottito dall’ultima affermazione che avevo sentito, ma per tutta risposta ricevetti solo un largo sorriso e un cenno a proseguire. «Noi sappiamo molte cose, specialmente su di lei; non crederà certo di essere capitato qui per caso, vero?»


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CAPITOLO 4

“Nei sogni dei bambini si celano i disegni di Dio”; era una frase che spesso mi ripeteva mio padre, ogni qualvolta mi svegliavo in preda a un incubo oppure gli raccontavo a colazione quali strani posti avessi visitato nei miei effimeri viaggi onirici. Solo da adulto, ripensandoci, continuavo a stupirmi della serietà con cui mi stava a sentire, esortandomi ogni volta a essere più preciso, a ricercare nella memoria tutti i particolari che riuscivo a ricordare. Mi sentivo importante in quegli attimi di profonda comunione con lui e mi sforzavo in ogni modo di rendere il più completo e veritiero possibile quel ricordo che lentamente svaniva. “Perché era così attento ai miei sogni?” mi ero chiesto spesso negli ultimi anni, quando ormai era troppo tardi per chiederglielo di persona; forse era solo un modo per condividere le mie esperienze o forse, ma non ne ero più tanto certo, perché alcuni dei miei sogni poi si erano avverati per davvero. Era una fase della mia vita che, inspiegabilmente, continuava a riaffiorare nei momenti più disparati della giornata, specialmente quando ero al lavoro nel “Santuario” degli archivi segreti vaticani; un fatto curioso, come altrettanto curiosa era la frase di benvenuto con cui frate Domenico mi aveva accolto: “Non crederà certo di essere capitato qui per caso, vero?” Quelle parole continuavano a rimbalzarmi in testa senza un motivo particolare, ma avevano stimolato ricordi da tanto tempo sopiti nelle profondità della mia memoria remota, una sorta di parola d’ordine che aveva riacceso una parte del mio cervello rimasta dormiente dalla mia infanzia. «Lei è un frate, ma non riesco a capire di che ordine; non ha nessun segno che la contraddistingue dagli altri religiosi che lavorano qui e me ne chiedevo la ragione, se ce n’è una s’intende.» «Non c’è nessuna ragione particolare; qui siamo tutti membri della stessa confraternita anche se proveniamo da luoghi e da confessioni differenti; io sono un gesuita mentre Giacomo, quella persona che vedi maneggiare il microscopio, è un carmelitano. Qui sono rappresentati quasi tutti gli ordini monastici maggiori per una ragione precisa che scoprirai in


31 seguito, ma non era questa la domanda che mi sarei aspettato da te; eri molto più curioso quando eri piccolo, te lo assicuro.» «Ci siamo già conosciuti in passato? Mi scusi, ma io non ricordo di averla mai vista prima, forse mi confonde con qualcun altro o assomiglio a qualcuno che lei ha conosciuto.» «Ah Sergio Sergio, ho paura che il lavoro che mi aspetta sia più lungo e difficile del previsto; davvero non ricordi nulla? Hai veramente rimosso tutti gli insegnamenti e i consigli di tuo padre?» «E lei cosa ne sa di mio padre? Non credo sia possibile che vi siate conosciuti, né che lei possa essere al corrente di cosa mi insegnava o diceva quand’ero piccolo…» «Tu non sai troppe cose, o meglio non le ricordi e questo rende tutto più difficile e faticoso per me; sono vecchio ormai e credevo di non dover più affrontare nella mia vita un’impresa del genere. Conoscevo bene tuo padre e con lui abbiamo condiviso una parte della tua formazione in attesa che anche tu entrassi a far parte della nostra confraternita; l’Oculum. Questo nome non ti dice nulla?» Ero totalmente frastornato dalle parole del frate; sembrava conoscesse bene sia me che mio padre e alcune delle parole che aveva pronunciato avevano riacceso brandelli di ricordi ancora troppo frammentari per avere un senso, ma erano un chiaro campanello d’allarme che ciò che mi stava dicendo aveva un senso, almeno per lui. «L’Oculum? Che cos’è, una sorta di associazione segreta tipo massoneria o altro?» Cercai di scherzarci sopra, ma il viso impassibile del frate mi fece subito desistere; qualsiasi cosa fosse, lui e mio padre ne avevano fatto parte e io, a quanto pare ero destinato a prendere il posto del membro mancante. «Davvero non ricordi nulla, dei tuoi sogni, delle cose che vedevi mentre dormivi e che poi ci raccontavi con una dovizia incredibile di particolari, dei test e delle sedute a cui tuo padre ti sottoponeva per stimolare le tue facoltà e renderle il più possibile accessibili anche da sveglio? Che ne è stato delle tue visioni? Perché hai quella faccia meravigliata quando te ne parlo?» «Qualcosa ricordo, ma sono frammenti troppo labili per avere un senso, almeno per me; i miei genitori si separarono che io ero ancora piccolo e non vidi più mio padre per tanti anni. Ricordo solo che a causa dei miei “disturbi del sonno” rimasi in cura da uno psicologo infantile fino a quando questi sparirono quasi per magia, da soli, con grande sollievo


32 mio e di mia madre. Ho rivisto mio padre solo sul letto di morte alcuni anni fa, ma non ho idea di cos’abbia fatto nella sua vita quando era lontano dalla famiglia e, con tutto rispetto, non me ne importa nulla.» Aveva toccato un tasto dolente, uno di quelli che non smetteva di far male nonostante fossero passati decenni e non avevo nessuna intenzione di continuare quel tipo di discorso; che diavolo aveva a che fare mio padre con l’incarico che avevo assunto presso la Santa Sede? «Perdona se sono insistente, ma è indispensabile che tu ricordi e che recuperiamo tutti questi anni; la posta in gioco è troppo alta perché io mi possa fermare davanti ai tuoi sentimenti feriti. Vuoi sapere cosa fece tuo padre durante gli anni dopo la separazione da tua madre? Lavorò qui con me, elaborando tutti gli appunti che aveva preso durante le sedute che faceva con te; le aveva meticolosamente trascritte sul suo taccuino, parola per parola e grazie alle tue visioni era riuscito a fare scoperte straordinarie.» Il suo taccuino, quello lo ricordavo bene, rilegato con un cuoio scuro, vecchio e consumato; lo apriva ogni qualvolta andavo da lui a raccontargli quello che avevo sognato e continuava a scrivere fino a quando non terminavo il racconto. Ma perché? Cosa poteva mai esserci di così interessante nelle fantasie di un bambino? Domenico mi guardava serio, assorto, come se si aspettasse da un momento all’altro qualche tipo di rivelazione, qualcosa che gli confermasse che ero io la persona giusta, quella che per anni aveva aspettato varcasse la soglia del “Santuario”. «Rammento quel libricino, ma non ho mai letto quello che scriveva; era marrone, di pelle e aveva impresso a fuoco sul cuoio della copertina una sorta di simbolo, una specie di occhio da cui partivano una raggera di linee, o così almeno mi pare di ricordare.» L’Oculum… Il pensiero si era formato nell’istante stesso in cui avevo rivisto nella mia mente quel simbolo: un occhio aperto, con uno strano sopracciglio, al centro di un poligono a sedici lati. Riuscivo a vederlo nitidamente, in ogni suo particolare, come se lo avessi di fronte, impresso in quel taccuino tanto familiare quanto lontano nel tempo e istintivamente allungai una mano nel vuoto immaginando di poterlo toccare. E l’impossibile accadde; mi ritrovai seduto davanti a mio padre, la stessa figura giovane e imponente che ricordavo. “Papà…” sussurrai con un filo di voce mentre questi alzava gli occhi su di me.


33 “Sergio, bambino mio, è bello poterti rivedere almeno per un’ultima volta; non dimenticare i miei insegnamenti e ricorda lo scopo di tutti gli esercizi che facevamo insieme: hai un ruolo fondamentale da compiere e so che non mi deluderai…” “Papà, ti prego non mi lasciare di nuovo…”; avevo le lacrime agli occhi mentre quell’apparizione lentamente svaniva lasciando al suo posto il viso preoccupato del frate. «Cos’è successo? Ho visto qualcosa che non ha senso, irreale ma allo stesso tempo così vera, così tangibile; che mi sta succedendo?» «Le tue facoltà si stanno risvegliando e questo è un bene, ma affinché tu riesca a padroneggiarle occorre ancora molto lavoro; vieni, forse è ora che tu sappia qualcosa di più sul tuo nuovo incarico.» La stanza dove eravamo diretti era l’ultima di una serie di ambienti più o meno grandi che occupavano tutta l’ala in cui ci trovavamo; l’intera superficie era di gran lunga più vasta del perimetro degli archivi segreti e conteneva un numero impressionante di reperti, tutti minuziosamente catalogati e suddivisi secondo un ordine che ancora non riuscivo a comprendere: pergamene, tavolette, perfino volumi dall’aria misteriosa riempivano decine e decine di scaffali e ciò si ripeteva in ogni locale che attraversavamo, dal primo fino all’ultimo, fino alla stanza dov’eravamo diretti. Mi sentivo sopraffatto e affascinato dalle meraviglie che stavo ammirando, conscio del patrimonio di storia e cultura conservato tra quelle mura, così estasiato da perdere totalmente la cognizione del tempo. «Vieni Sergio, siediti: abbiamo tanto di cui parlare.» La stanza era piccola a confronto delle altre, più uno studio che un laboratorio vero e proprio; due sedie e un’ampia scrivania erano state sistemate sotto un arazzo dalla foggia medievale, di lana pesante e fittamente lavorata, rappresentante proprio il simbolo che avevo descritto al frate poco prima: l’Oculum. «Questa è una figura dai molteplici significati, alcuni palesi, altri nascosti, un simbolo che accumuna genti di etnie e di credi differenti, tutte legate da un dono comune e da uno scopo superiore da raggiungere a tutti i costi; noi non siamo una confraternita legata alla Madre Chiesa, una setta segreta di estremisti cattolici come ci hai definiti poco fa, ma parte di un disegno che ha radici molto antiche, precristiane. Mettiti comodo perché non sarà né semplice né breve colmare le lacune derivate dall’abbandono di tuo padre. Il disegno che tu vedi è stato realizzato


34 intorno all’anno mille nel monastero sul monte Athos, nella penisola calcidica: racchiude, nelle simbologie che vi sono celate, le caratteristiche e le peculiarità che accomunano tutti gli adepti. «L’occhio al centro esprime il dono della “vista”, la facoltà di vedere cose che devono ancora accadere o sono accadute in tempi remoti, perché ognuno di noi, te compreso, in condizioni eccezionali o dopo un’attenta preparazione ha la capacità di dare uno sguardo fugace oltre l’orizzonte degli eventi…» Dovevo avere un’espressione tra il perplesso e l’incredulo visto che, con un cenno della mano, il frate mi aveva impedito di aprire bocca. «Prima di chiedere ascolta tutto ciò che ho da dire poi, se vorrai, potrai farmi tutte le domande che riterrai opportuno, ma occorre che ora ti concentri sulle mie parole e che liberi la mente da ogni preconcetto su quello che ascolterai. Bevi la tisana che hai di fronte; ti aiuterà a rilassare la tua mente facendo riaffiorare i ricordi che vi sono custoditi.» Il suono della sua voce era calmo, quasi ipnotico, tanto che avevo preso la tazza portandola alle labbra quasi senza accorgermene; il liquido ambrato era leggermente asprigno, ma non sgradevole, e stavo per berne un altro sorso quando un dubbio mi bloccò a mezz’aria. “Sta forse cercando di drogarmi per farmi accettare cose che altrimenti mi parrebbero assurde?” L’idea era nata nell’esatto momento in cui il liquido era sceso nella mia gola, troppo tardi per correre ai ripari, ma abbastanza in tempo per limitarne i danni. «Cos’è?» avevo chiesto sospettoso visto che ero l’unico a bere in quella stanza. «Non è né una droga né tantomeno un veleno, te l’assicuro; l’hai già bevuto in passato, con tuo padre e più di una volta aveva prodotto visioni talmente precise da fornire prove concrete sul tuo talento e sulle tue potenzialità. Nessuno vuol farti del male, di questo puoi starne certo, ma occorre recuperare tutto il tempo perduto perché i nostri avversari non sono certo rimasti con le mani in mano tutti questi anni.» «Non riesco a seguirti, di quali potenzialità stai parlando e chi sarebbero questi fantomatici avversari?» «Non così in fretta; niente domande se non dopo che abbiamo finito, ricordi?» «Va bene, cominciamo pure, ma non si aspetti che creda ciecamente a tutto quello che mi dirai…» «E invece è proprio quello che spero mio caro Sergio, proprio quello che spero.» )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

CAPITOLO 1 ............................................................................................... 5 CAPITOLO 2 ............................................................................................. 11 CAPITOLO 3 ............................................................................................. 23 CAPITOLO 4 ............................................................................................. 30 CAPITOLO 5 ............................................................................................. 35 CAPITOLO 6 ............................................................................................. 41 CAPITOLO 7 ............................................................................................. 50 CAPITOLO 8 ............................................................................................. 56 CAPITOLO 9 ............................................................................................. 64 CAPITOLO 10 ........................................................................................... 72 CAPITOLO 11 ........................................................................................... 80 CAPITOLO 12 ........................................................................................... 86 CAPITOLO 13 ......................................................................................... 101 CAPITOLO 14 ......................................................................................... 108 CAPITOLO 15 ......................................................................................... 117 CAPITOLO 16 ......................................................................................... 126 CAPITOLO 17 ......................................................................................... 132 CAPITOLO 18 ......................................................................................... 139 CAPITOLO 19 ......................................................................................... 149 CAPITOLO 20 ......................................................................................... 157 EPILOGO ................................................................................................ 165



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