Morte all'abbazia, Adriana Barattelli

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In uscita il 20/12/2019 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre 2019 e inizio gennaio 2020 (5,99 euro)

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ADRIANA BARATTELLI

MORTE ALL’ABBAZIA

L’EREDITÀ DEL SANTO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ MORTE ALL’ABBAZIA. L’EREDITÀ DEL SANTO Copyright © 2019 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-355-0 Copertina: immagine di Maurizio Bragoni


Alla mia famiglia per esserci sempre stata e a tutti i piedivallani per essere degli amici insuperabili



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NOTA DELL’AUTRICE

Ebbene sì! L’ho fatto di nuovo! Ho volutamente e scientemente inserito anche in questa storia delle citazioni e dei clamorosi anacronismi. Sono quasi tutti voluti, ammetto però che qualcuno mi potrebbe essere sfuggito per caso: mi potrebbe insomma essere partito un colpo mentre pulivo la mia arma preferita. Nella sezione “Chiarimenti” potrete trovarne quindi solo alcuni, insieme al nome dei personaggi e dei luoghi. Vi sfido a trovare tutti gli altri, anche se certi riferimenti sono legati a testi non facilmente reperibili, e a comunicarmeli sulla mia pagina FB. Per darvi solo un’idea dirò che ci sono delle palesi citazioni, ma non sempre. Vanno da Boccaccio, al solito Manzoni, con una puntatina su De Filippo, Battisti, De Angelis, Kipling passando per il troppo simpatico e scanzonato Visconti Venosta. Non potevo poi non fare riferimento a un fantasy che a casa mia va per la maggiore come il Trono di Spade. Spero di avervi incuriosito a sufficienza. Buona lettura e buona caccia!


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CAPITOLO PRIMO

«Ranocchie, fresche, vive!» «Calle, calle, callaroste!» «Su, Craudiè daje, facce sentì qua’ canzone nova, quella co’ quer nome de donna… Qual era? Ah, sì Lella…» «Te la ricordi Lella, quella ricca, la moje de’ Proietti er gravattaro, quello che cià er negozio su ar Tritone…» La voce acuta del bimbetto che si stava esibendo nell’ultima hit del momento era melodiosa, naturalmente ben impostata e, dalla finestra del salotto che un colpo di vento aveva spalancato, arrivava chiara e limpida alle orecchie ancora insonnolite di Adriana, insieme agli incitamenti degli altri due ambulanti. La sera precedente, subito dopo la partenza per la luna di miele di Anastasia – la sua insostituibile assistente di origini russe – con Luca, l’altrettanto prezioso cuoco/factotum, si era addormentata sul divano nell’alloggio di Porta San Paolo che ormai era diventata la sua casa. A questo punto considerava Roma la sua città, anche se ci si era stabilita solo da pochi mesi. Sembrava fosse passato un secolo, ma in realtà era solo la fine di quell’incredibile maggio quando aveva abbandonato Torino, l’amatissima Torino, per cercare di dimenticare Pietro, il poliziotto suo fidanzato che, senza alcun apparente motivo, l’aveva lasciata. Nella capitale lo aveva però incontrato di nuovo e insieme avevano risolto una serie ingarbugliata e cruenta di delitti che l’avevano portata a riprendere – in modo definitivo questa volta – la sua relazione con lui. L’ultima indagine le aveva fatto conoscere anche altre persone che in breve tempo erano diventate per lei insostituibili, una nuova famiglia insomma. Proprio il giorno prima c’era stato il matrimonio della sua assistente con il leonino cuoco. Era stata una cerimonia semplice, ma molto sentita: soprattutto lo sposo aveva mostrato un nervosismo latente per tutto il tempo, dovuto sicuramente all’emozione. I due ragazzi, subito dopo la


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cerimonia, erano partiti alla volta della città degli innamorati per antonomasia: Verona. Sarebbero rimasti nei luoghi di Romeo e Giulietta per una settimana e forse sarebbero riusciti anche a visitare la romanticissima Venezia prima di tornare a casa. Purtroppo Pietro era stato costretto a disertare il matrimonio perché la sua presenza era stata richiesta inderogabilmente a Torino. In quei giorni di fine 1920 si era da poco concluso un periodo complicato e i cui strascichi rischiavano di cambiare in modo imprevedibile il futuro in Italia, e non solo. Di fatto il coinvolgimento della donna nelle due indagini a Torino e a Roma, aveva portato Adriana a estraniarsi dagli eventi legati alla politica che invece proprio in quel periodo avevano gravato e non poco sulla vita sociale a livello nazionale. Si potevano definire gli ultimi due anni come il “biennio rosso italiano”. In effetti, come ripercussione della rivoluzione russa non c’era stata solo una transumanza degli ultimi rappresentanti sopravvissuti della nobiltà zarista, come la loro recente indagine aveva dimostrato. No, la rivolta popolare bolscevica aveva di fatto portato a una presa di coscienza della propria importanza e della propria forza per tutte le masse operaie e contadine europee. E si sa che le idee possono essere molto più pericolose delle persone! Così soprattutto nell’industrialmente più avanzata Italia del Nord, gli operai e i contadini avevano fatto proprie queste rivendicazioni sociali e avevano cominciato a organizzarsi. Era stata molto orgogliosa che fosse partita proprio dal suo Piemonte, e da lavoratrici come le mondine, la richiesta per ottenere un orario di lavoro più giusto. Ripensando a questo si mise a canticchiare a bassa voce: «Ma verrà un giorno che tutte quante o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao. Ma verrà un giorno che tutte quante lavoreremo in libertà. Sto proprio diventando una lavoratrice del riso anche io!» Sorrise soddisfatta, poi ritornò con la mente ai fatti. La situazione tra scioperi e serrate si era protratta per buona parte di quell’anno e solo nel mese di settembre la vertenza aveva cominciato a ricomporsi. La necessità di chiuderla entro dicembre era stato il motivo della convocazione a Torino di Pietro. Una folata di vento più forte delle altre spalancò del tutto la finestra e la fece rabbrividire. Si alzò dal divano e si avvicinò ai vetri. Il bambino continuava imperterrito nella sua esibizione, mentre da diversi appartamenti erano calati dei cestini che dovevano contenere caramelle o spiccioli.


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«E te lo vojo di’… Acqua acetosa!… che so’ stato io… C’è l’acquacetosara!… ma nun lo fa’ sape’, … Acetosa, ciavemo l’acqua acetosa!… nun lo di’ a nessuno, … Chi vole l’acqua acetosa?… tiettelo pe’ te!» I versi della canzonetta si alternavano in modo studiato e simpatico con gli slogan promozionali dell’abile venditrice ambulante. Un altro brivido di freddo la percorse. Allora si avvolse ancora più strettamente la coperta al corpo e, maledicendosi a mezza bocca, guadagnò rapida la cucina. Qui trovò la stufa desolatamente spenta: ovvio, non c’era Anastasia a rimpinguare con legna e carbone l’impianto di riscaldamento che, oltretutto, serviva anche per l’acqua calda: l’aspettava quindi una toletta ghiacciata! Si lavò meglio che poté e, ancora infreddolita, si avvolse nel morbido e lunghissimo cappotto di cachemire color cammello che usava abitualmente a Torino nei mesi più rigidi. Così come faceva nella sua città natale quando l’inverno con il suo freddo bussava alla porta – winter is coming avrebbero detto i suoi amici anglosassoni – si imbacuccò per bene e si diresse verso l’ormai noto commissariato dell’Aventino. Lì doveva incontrare il superiore di Pietro, il commissario capo Vespa, grande amico del padre che l’aveva accolta da subito come una figlia spingendola a coltivare la sua passione per le indagini. Il poliziotto le aveva chiesto di passare in ufficio per delle importanti novità. *** Si era seduta su una delle panchine che occupavano i prati solitari del cimitero acattolico, alle spalle del suo alloggio. Erano da poco passate le dieci e la leggera patina di brina rendeva la superficie erbosa quasi di vetro; l’ora e il clima facevano pensare al grigio e triste mese dei morti finito da poco, invece di anticipare il Natale rosso e scampanellante. Avvolta nel caldo paletot, stava cercando di finire la lettera nella quale raccontava alla nonna tutte le avventure che le erano capitate da quando aveva seguito il suo consiglio ed era approdata nella città eterna. Quello che Adriana non immaginava era che Annunziata – la sua temutissima matriarca – sapeva che quella sarebbe stata anche la destinazione di Pietro. La donna quindi ignorava di dovere la propria felicità attuale all’anziana madamin.


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Un’impasse momentanea – scrivere non era mai stato un problema per lei – la fece riandare con la mente alla richiesta di collaborazione dell’anziano poliziotto che stava per muovere i suoi primi passi. In effetti il caso si preannunciava difficile, ma oltremodo intrigante. Inoltre le avrebbe dato la possibilità di rivedere i luoghi dove aveva trascorso una parte importante della sua vita da bambina e da adolescente: la verde, mistica Umbria. Infatti, un carissimo amico ed ex-compagno d’armi del commissario capo Vespa, il signor Osvaldo Fontana, era, per uno strano caso del destino, il sindaco dello sperduto paesino umbro dove Adriana e la sua famiglia erano soliti trascorrere le vacanze. Proprio lì a Piedivalle, nel prossimo mese di gennaio, ci sarebbe stata una cerimonia molto importante che avrebbe dato un nuovo e corroborante impulso allo sviluppo culturale, ma anche e soprattutto economico, della zona. Infatti nella biblioteca annessa allo Scriptorium dell’abbazia di S. Eutizio – vanto e manifesto di tutta quell’area – era stato rinvenuto un antico codice medievale che precedeva, anche se di poco, i famosissimi Placiti Cassinesi, ritenuti da sempre il primo esempio di volgare. Questo voleva dire che tutti i libri di storia della lingua italiana sarebbero stati riscritti in considerazione di questa scoperta nuova ed esplosiva! In più lo scritto piedivallano era, a livello di contenuto, indubbiamente superiore rispetto a un documento banale e noioso di tipo legale sulla proprietà di alcuni terreni. Si parlava addirittura di un testo didattico con delle importanti indicazioni pastorali! Questo era, a grandi linee, l’argomento della Confessio eutiziana. L’opera era stata scoperta grazie al lavoro certosino del frate bibliotecario, studioso e paleografo di levatura internazionale, Fratel Carlo Maniscalchi. Adriana, quando aveva sentito per la prima volta quel nome, aveva avuto come una sensazione di déjà vu che non riusciva a spiegarsi. A ingarbugliare la questione erano, però, intervenuti degli strani eventi: la parte finale del testo, l’Appendix, era scomparsa insieme al frate guardiano. Contemporaneamente, una ragazzina del posto sembrava riuscisse a compiere dei miracoli facendo apparire cibo e gioielli nella stamberga dove abitava, dando luogo a un via vai non indifferente di curiosi. Per ultimo, la pace e l’armonia del monastero venivano messe in pericolo dalle recenti liti fra diversi gruppi di frati che in un paio di casi erano passati, molto poco cristianamente, alle mani. Tutto questo a poco meno di un mese dalla diffusione della notizia cui si pensava di dare rilevanza nazionale.


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La situazione si presentava quindi delicata come non mai e proprio per questo il sindaco si era rivolto all’amico di sempre chiedendogli aiuto. Il commissario capo Vespa aveva pensato di intervenire inviando alcuni elementi della sua truppa sotto copertura. Si era quindi dato da fare per ottenere documenti e lasciapassare che facilitassero le indagini del commissario Leone e della sua protetta. Purtroppo, la recente convocazione di Pietro a Torino li aveva obbligati a operare un cambiamento forzoso che aveva comportato il coinvolgimento in prima battuta di un altro elemento della task force creata dall’anziano poliziotto: il simpatico e affascinante principe Tancredi Visconti Pallavicini. Il nobile romano si sarebbe sovrapposto al commissario Leone assumendone l’identità sotto copertura. Quindi, insieme ad Adriana si sarebbero presentati come la coppia – i coniugi Dall’Oste – incaricata di organizzare la presentazione ufficiale della Confessio. Da una simile posizione sarebbero stati in contatto diretto con tutti i personaggi interessati. Il fatto poi di essere “sposati” li avrebbe messi in grado di godere di una maggiore libertà di azione e giustificato il loro desiderio di solitudine, in caso di bisogno. Pietro si sarebbe aggiunto con un altro incarico non appena rientrato in sede. La donna aveva dovuto accettare – obtorto collo – la variante imprevista per non far naufragare l’inchiesta ancora prima di iniziare. Al termine della lunga riflessione, la ragazza stava riprendendo a scrivere la sua lettera, quando si sentì prendere alle spalle e stringere in un abbraccio di fuoco culminante in un bacio appassionato sulla bocca. Era assolutamente impreparata a un assalto del genere, inaspettato e inimmaginabile. La sua reazione non fu immediata, lo sbigottimento l’aveva inizialmente paralizzata. Quando finalmente fu in grado di liberarsi dalla stretta e dall’effusione, vide gli occhi di Pietro che da lontano la fissavano con un turbinio azzurrino che non faceva presagire nulla di buono. «Adriana, non puoi farmi questo. Sei fidanzata con una persona che rispetto e che… Pietro?! Non eri a Torino?» Le parole di Tancredi avevano portato ancora maggiore confusione nella testa della donna. Era stato chiaramente il principe a baciarla: allora che voleva dire quella frase? Cosa ci faceva poi lì Pietro? Queste erano solo due delle mille domande che l’agitavano dentro, ma ancora e nonostante tutto, non riusciva a parlare.


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«Pietro, scusami. È tutta colpa mia. Sono sicuro che Adriana non volesse baciarmi. Mi ero avvicinato a lei e forse credeva che fossi tu. Ti posso giurare sul mio onore che non era mai successo prima. Posso spiegarti…» Il nobiluomo fece senza riuscirci la mossa di fermare il poliziotto che, livido in faccia, mise in atto un rapido dietrofront e, ignorando i richiami dell’altro, a passo di marcia lasciò i giardini silenziosi del cimitero presso la piramide. La sgommata stridente che si sentì subito dopo raccontava tutto il suo furore. La donna era in compenso riuscita a riprendersi dal silenzio momentaneo di poco prima e con gli occhi fuori dalle orbite per lo stupore e la collera, assalì come una belva il principe: «IO TI HO BACIATO? Tu piuttosto, come ti sei permesso? Credevo che tra la nobiltà, ma anche solamente tra le persone civili ci si comportasse in ben altro modo! Io sono senza parole…» Ed era – incredibilmente – vero! Adriana non riusciva ancora a capacitarsi di quanto fosse appena accaduto: era stata aggredita da una persona che conosceva e che mai avrebbe ritenuto capace di un comportamento così basso e vergognoso. La cosa che l’aveva ferita di più era stata però la reazione del suo fidanzato: non solo non l’aveva difesa, ma si era comportato come se a mettere in moto tutto fosse stata lei; lei la pietra dello scandalo, invece della vittima quale si riteneva e certamente era! Stava per continuare l’interminabile serie di improperi quando una macchina della polizia, dopo essere entrata all’interno del camposanto, si era fermata vicino a loro. Ne scese il commissario capo Vespa; il suo incedere rapido era quello delle situazioni particolarmente difficili. Si avvicinò e disse: «Mi avevi detto, cara ragazza, che saresti venuta qui. Vedo che ci sei anche tu, Tancredi. Bene, quello che ho da dirvi riguarda tutti e due. Ha appena chiamato il mio amico Osvaldo: all’abbazia questa volta ci è scappato il morto. Fra Gaudenzio, il monaco che si occupava della cucina, è stato trovato affogato nel torrente che costeggia il monastero. Una disgrazia è alquanto improbabile: la vittima era un nuotatore esperto. «Dovete recarvi immediatamente laggiù. Già la scomparsa del frate guardiano quasi contemporanea alla sparizione dell’Appendix, era grave e poteva far nascere ipotesi poco simpatiche, ma un delitto è un delitto. A questo punto ogni aspetto personale passa in secondo piano. Se partite subito, prima di notte sarete arrivati. Il mio amico e la sua famiglia vi


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aspettano e vi aiuteranno, per quanto possibile. Che cosa posso dirvi? Buon viaggio e… speriamo che tutti i santi umbri vengano in nostro aiuto!» Accompagnò quest’ultima affermazione con il sorriso volpino che lo contraddistingueva, poi salutò cordialmente l’uomo e riservò l’ormai solito bacio sulla fronte alla ragazza prima di riavviarsi veloce verso la sua autovettura. Giovanni Vespa si era appena allontanato che Adriana con un tono glaciale si rivolse al principe Visconti Pallavicini: «Visti questi ultimissimi fatti, è inutile qualunque discussione. Non credo che ce la farò a spiegarmi con Pietro in questo momento: è sicuramente furioso. Se lo conosco bene, sarà già sulla strada per Torino. Dobbiamo andare avanti quindi con il nostro piano. «Ti voglio informare di due cose fondamentali, però. La prima è questa: non ti avvicinare mai più a me e non provare a toccarmi. Ti posso garantire che te ne pentiresti e le tue schiere infinite di donne dovrebbero rivolgersi ad altri per soddisfare certe necessità. Infine, ci tengo a precisare che se non riuscissi a chiarirmi in modo soddisfacente con il mio fidanzato, te ne riterrei l’unico responsabile. Anche in questo caso la mia reazione sarebbe a scapito della tua futura possibilità di riprodurti. «Spero di essere stata sufficientemente chiara. Ora vado a preparare le valigie. Fatti trovare sotto casa mia fra un’ora. Andremo con la mia macchina.» Aveva parlato a getto continuo, senza mai riprendere fiato. Terminato il monologo, la donna si allontanò rapida e pareva non toccare terra: la rabbia furiosa che ancora l’agitava sembrava la facesse camminare a cinque centimetri dal piano stradale. Arrivata nell’appartamento sulla via Ostiense, pensò che fosse meglio concentrarsi su un’attività pratica e manuale per non pensare all’assurdità di quanto appena successo. Si diede allora subito da fare con la preparazione dei bagagli. Le nevicate ingenti che c’erano state nei giorni precedenti in Umbria, convinsero Adriana a portarsi un capo d’abbigliamento che non rientrava tra i suoi preferiti: la pelliccia. Non le era mai piaciuta l’abitudine di ricoprirsi con un indumento il cui precedente possessore vi era morto – per giunta ammazzato – dentro. Preferiva quindi indossare cappotti, giacconi e scialli che magari usava abbinandoli. L’inverno particolarmente rigido di quell’anno l’aveva però obbligata a venire a patti con la propria coscienza e così aveva indossato l’ampio mantello in


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visone selvaggio che l’avvolgeva e la riscaldava in modo adeguato, anche se non proprio coerente con le sue opinioni in favore degli animali. Come era sua abitudine, Tancredi arrivò puntualissimo all’appuntamento. Adriana uscì con nonchalance dall’ascensore e si avviò verso l’Isotta Fraschini dopo avergli indicato con alterigia i bagagli che ancora si trovavano all’interno del piccolo abitacolo. Aspettò che il nobile, stranamente silenzioso e incredibilmente simile a un cane bastonato, riempisse il portabagagli mentre lei batteva con supponenza il piede in terra per evidenziarne l’incapacità e la lentezza. Partirono, quindi, senza dirsi una parola e imboccarono la via Salaria che percorsero a velocità sostenuta fino a Rieti. Da qui presero, sempre senza scambiarsi neanche una frase, la Strada Statale “Ternana” che avrebbero seguito fino ad arrivare nel capoluogo umbro che dava il nome alla via. Mentre guidava Adriana fu presa da una rabbia sorda e da una voglia incredibile di gridare e di picchiare quell’inopportuno bellimbusto che l’aveva volontariamente messa in una situazione impossibile con il proprio fidanzato. Sembrava che Tancredi avesse percepito il pericolo che stava correndo, infatti se avesse potuto, si sarebbe reso trasparente. L’uomo, pur di mantenere un profilo basso, non osò avanzare neanche il più piccolo commento. Si trincerò in quella che doveva essere senza alcun dubbio una lettura appassionante: lo stradario d’Italia. Dopo due ore e mezza di viaggio in un assoluto e gelido silenzio arrivarono nella ridente – ma non troppo ultimamente – città di Terni. Era stata designata dall’appena nato Stato italiano a diventare il polo siderurgico nazionale, grazie all’invidiabile posizione strategica e alla ricchezza di risorse idriche della zona. Così già a fine Ottocento iniziò a essere allestita da manodopera italiana e francese la Società degli Alti Forni Fonderie e Acciaierie di Terni, la SAFFAT. Le mastodontiche fabbriche avevano da subito usato per il loro funzionamento l’enorme volume di acqua di cui quella zona era ricca. Appena usciti dalla cittadina, completamente immerso nella natura più incontaminata, a dispetto del polo industriale che avevano appena costeggiato, apparve loro in tutta la sua bellezza selvaggia il salto spettacolare e movimentato della Cascata delle Marmore, dove riecheggiava la leggenda dell’amore impossibile tra un pastore e una ninfa.


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La bellezza di quegli scorci lussureggianti aveva calmato in parte la rabbia di Adriana. Così decise di comportarsi in modo “urbano” con il suo attuale collega e rompendo il lungo silenzio “urbanamente” disse: «È uno spettacolo assolutamente mozzafiato, vero? Era così già in epoca romana. Nel corso dei secoli in molti hanno tentato di avere ragione di questa natura testarda che si ostinava a invadere con le sue acque valli e terreni contendendoli all’uomo. Il pastore Velino e la ninfa Nera hanno sempre vinto, però, sul progresso e sull’ordine. Dalla fine del secolo scorso si è pensato di utilizzare la loro potente forza motrice come mezzo propulsore delle neonate Acciaierie. Adesso vengono anche usate per la produzione di energia idroelettrica, la migliore in assoluto, almeno finché non inventeranno dei sistemi in grado di utilizzare la forza del vento o la luce del sole!» Concluse la sua tirata trattenendo a forza un sospiro: come avrebbe voluto condividere quelle storie con il suo amato, ma ombroso poliziotto! *** Guidare lungo la Valnerina era un’esperienza che faceva rappacificare con sé stessi e con il progresso. Era impossibile essere nervosi mentre si affrontavano le curve dolci, immersi completamente nella natura. Sembrava di essere dentro una fiaba! Erano in viaggio già da un bel po’ senza scambiarsi una parola. A quel punto, Tancredi non riuscì più a trattenersi e a bassa voce, con un tono serio, molto lontano da quello esuberante e sicuro che il nobiluomo metteva in mostra di solito, disse: «Non posso continuare con questo silenzio assurdo. Adriana, prima di tutto ti chiedo scusa. Ti ho di sicuro ferita e mi sono comportato in un modo che – credimi! – non rientra assolutamente nel mio carattere. Hai diritto almeno a delle spiegazioni. «È presto detto: ero invidioso del rapporto che c’è fra te e Pietro! Sì, invidioso, geloso, chiamalo come meglio credi: è la prima volta che mi succede. Non mi era mai capitato di essere ignorato da qualcuno. Così questa mattina, dopo la riunione con Giovanni, ti ho seguito fino al cimitero degli inglesi e mi sono messo a spiarti. Eri così tranquilla e serena! Mentre scrivevi, ogni tanto sorridevi mordicchiando la matita. Di sicuro stavi ripensando a qualche episodio che coinvolgeva quel


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poliziotto! E dall’espressione sognante che avevi stampata in faccia, certamente si trattava di un momento di intimità tra voi due. «Non ce l’ho più fatta a resistere: dovevo agire! Non mi hai mai preso in considerazione come uomo, ma solo come un membro asessuato della squadra. «Per questo ti ho baciato. Per affermare i miei sentimenti. Non è corretto, né giusto, me ne rendo conto, ma non sono proprio riuscito a trattenermi. Quando poi con la coda dell’occhio ho visto il viso di Pietro che sembrava scolpito nella roccia, ho agito d’impulso e ho provato a far credere che avessi preso tu l’iniziativa. Avevo anche messo in conto l’eventualità di venire alle mani con il tuo fidanzato… E invece niente. Si è tolto di torno senza dire mezza parola e mi ha lasciato, purtroppo inutilmente, campo libero. «Non so cosa dire. Non mi era mai capitato fino a ora e francamente credo che non mi ricapiterà più.» Un lungo sospiro segnò la fine della confessione. Aveva espresso tutto il suo pensiero di getto, fermandosi solo per prendere fiato, come a volersi scaricare la coscienza da un peso ingombrante. Si rivolse ancora alla donna con un tono la cui serietà strideva enormemente con la solita allegria disincantata: «Dimmi cosa vuoi che faccia: Vuoi provare a lanciare i dadi nel casinò della vita e tentare di mettere insieme un rapporto serio e unico con me?» Resosi subito conto del tono esageratamente melodrammatico usato, riprese un po’ della sua verve e con un sorriso sincero continuò: «Altrimenti ti garantisco che farò quanto è in mio potere per rimettere a posto le cose con il tuo fidanzato. Sarei anche disposto a subire senza difendermi la “gragnola” di pugni che sicuramente mi elargirà quando gli spiegherò come si sono realmente svolti i fatti!» L’ironia usata fino a poco prima scomparve del tutto, mentre di nuovo serio, tutto d’un fiato disse: «Anche se spero che tu voglia darmi la chance di farti felice!» L’ultima frase era stata detta con un tono di voce basso, quasi un sussurro, a testimonianza dell’intensità dei sentimenti che stava provando il giovane. Sentire quelle parole, ma soprattutto quel tono, aveva fatto evaporare all’improvviso tutta la rabbia e l’animosità di cui era stata piena Adriana fino a poco prima. Tancredi meritava tutta la sua attenzione. Si accostò allora al ciglio della strada e spense la macchina. Si rivolse quindi al suo collega senza la collera e la freddezza dimostrata in precedenza:


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«Non posso proprio continuare ad avercela con te, anche se mi hai messo in una situazione difficilissima. Mi sento molto onorata dalla tua proposta, che però non posso proprio accettare. Hai tutto quello che si può desiderare, ma non vai bene per me. Spero con tutte le forze di riuscire ad appianare – ancora – il rapporto con l’unica persona che m’interessi veramente. «Comunque ti stimo troppo per tenerti come un semplice ripiego. Mi servirà poi di sicuro il tuo aiuto quando dovrò chiarirmi con il caro commissario Leone: non hai idea di quanto possa diventare caparbio e misogino!» Pensava di aver usato la giusta dose di buon senso, sincerità e – perché no? – umorismo. Anche se in quel momento non riusciva a intravedere una possibile soluzione positiva, trovava puerile e poco pratico fare il muso e non parlare con qualcuno con cui avrebbe condiviso ben più dell’autovettura nell’immediato futuro. Arrivarono finalmente alla centrale elettrica di Ponte Chiusita che sfruttava l’ultimo tratto del fiume Campiano prima della sua confluenza con il Nera. L’enorme cisterna svettava imbiancata sulla collinetta brulla. Fin da piccola per lei era stato il Fungo. In effetti, la sua conformazione si avvicinava parecchio a quel vegetale. All’altezza della centrale lasciarono la Valnerina per imboccare la Valcastoriana, ancora più tranquilla e solitaria, che li avrebbe condotti finalmente a Piedivalle. Era sempre più difficile non farsi distrarre dalla natura che imperversava e testimoniava la sua vittoria mostrando innevati boschi di querce – o cerque come dicevano in dialetto – che, insieme agli onnipresenti cespugli ormai secchi di ginestre riempivano ogni anfratto che le rocce contendevano all’incredibile vegetazione. C’erano poi le pievi – Corone e Preci – isolate e circondate da montagne e alberi appesantiti dalla neve che rendevano il paesaggio incantato. Se dopo la cascata delle Marmore si aveva l’impressione di essere dentro una fiaba, ora si aveva la quasi matematica certezza di muoversi all’interno di un presepe enorme, spropositato, grande come tutta la vallata. Finalmente, dopo l’ultima curva, la più impegnativa di tutte – the point of no-return l’aveva chiamata la donna con le sue cugine quando era ritornata al paesello ormai ragazza – si aprì davanti ai loro occhi quella perla preziosa, ma anche nascosta e difficile da trovare, che era Piedivalle.


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CAPITOLO SECONDO

Il paese si dispiegava lungo la strada carrozzabile principale, quella che andava a Norcia.Tutte le altre vie si snodavano partendo dalle scalinate lunghe e ripide che portavano verso la parte alta del borgo. La minuscola cittadina di montagna era in pratica abbarbicata alle colline che costeggiavano la vallata cui il luogo doveva il suo nome. All’inizio, subito sulla sinistra e in salita, si apriva la Via per S. Eutizio che conduceva all’importante monastero, icona esso stesso di tutta la zona. La prima costruzione che si incontrava, poco più in dentro e su una piccola altura, era la residenza del sindaco e di sua moglie, Annunziata Rampi Fontana: proprio lì erano diretti. I coniugi, allertati dal commissario capo Vespa, li stavano aspettando e la donna li salutò calorosamente poi, con la schiettezza tipica degli abitanti della zona disse: «Nengue? No, fa’ troppu friddu. Fiji, dopo che ve site sestimati a casa, dovete anna’ pure all’abbadia. Ci sta quillu fascistone de lu comandante de li carabbinieri che non se move più da lì da quanno hanno ‘rtrovato quillu poraccio de’ Fra Godenzio mortu. Nun bastava Fra Liborio che nun se po’ più rtrovà: ce volìa pure startro frate ‘ffogatu la pe de ‘jo lu fiume! Nun ce posso ‘rpenzà! «Non te preoccupà poi, fija, che v’ ho fatta ripulì casa e ciò fatto mette pure lu prete. Anche se credo propio che non ve serve gnente pe’ scallavve!» Diede maggiore vigore alla sua affermazione posando lo sguardo furbo su Tancredi e sfoderando un sorriso carico di sottintesi. Osvaldo non aveva ancora parlato e probabilmente tra i due era quello che si faceva meno sentire, ma Adriana aveva sempre pensato che fosse lui il dominatore all’interno della coppia. Non a caso il suo soprannome era Cecco Peppe, il nome abbreviato e un po’ storpiato dell’imperatore austroungarico Francesco Giuseppe. A quel punto, però, intervenne: «‘Nunziata, ti stai sbagliando, il signore non è il fidanzato di Adriana, è un altro poliziotto. Giovanni mi ha detto che il commissario Leone è


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stato richiamato a Torino. La cara ragazza, che conosciamo da una vita, saprà comunque gestire la situazione.» Rivolgendosi ai due, continuò: «Andate a casa a scaricare i bagagli con calma e tranquillità. Dovrete poi fare un salto all’abbazia per prendere contatto, come coniugi Dall’Oste, con Fratel Ernesto, il nostro abate. Avrete anche modo di conoscere il comandante dei locali carabinieri, Altiero Guardabeni convinto seguace di quell’essere indecifrabile e pericoloso che è Benito Mussolini. Poi, finalmente, ci vedremo e sarete nostri graditi ospiti alla locanda “agli Scacchi”, a Preci. «A dopo ragazzi, e grazie ancora per tutto.» Concluse il discorso consegnando alla donna le chiavi della sua casa, di cui i signori Fontana avevano da sempre avuto la custodia. Giunti di nuovo sulla via per Norcia, si trovarono davanti al municipio, dove girarono a sinistra e dopo poco incrociarono il fantomatico spaccio che l’intraprendente moglie del sindaco gestiva insieme alla figlia. Praticamente di fronte si stagliava l’antico abbeveratoio di pietra e subito dietro si apriva l’ampia scalinata che portava verso la parte più alta del paese, detta Capo Castello. Proseguendo invece lungo la strada, su entrambi i lati si dispiegavano una fila continua di case tutte in pietra viva e tutte unite tra di loro. Sembrava traessero forza e stabilità dalla vicinanza reciproca. Pochi passi dopo ancora, sulla destra, l’intera vallata si aprì davanti ai loro occhi. Si allargava distendendosi beata e tranquilla, incorniciata da un pittoresco muretto di grandi sassi che costeggiava la curva della strada rivelando i campi e i boschi che sembravano dormire nella valle del Campiano più sotto. La casa di Adriana era proprio lì di fronte. Si fermò con l’auto, scese e andò subito ad aprire la porta di legno massiccio. Era grande, con la parte superiore arrotondata e di un bel verde brillante. Entrata, tirò fuori e fece passare all’esterno la cordicella del vecchio saliscendi di ferro. Accese subito la lampada a petrolio, di corrente elettrica lì neanche a parlarne, e fu attratta dallo scoppiettare allegro del camino largo e alto – poteva entrarci una persona dritta in piedi – che occupava tutta la parte finale della lunga parete sulla destra. ‘Nunziata lo aveva fatto accendere per fortuna, così il tepore benefico che emanava aveva stemperato un poco il freddo polare che si respirava in tutta la casa. Mentre il principe scaricava i bagagli, la donna abbracciò in uno sguardo unico, amorevole, la stanza in cui aveva passato tanto tempo quando era bambina. Dove aveva giocato, mangiato, riso, ma anche bisticciato e pianto. Era tutto come lo ricordava: il lavandino di pietra, la madia – che nella zona


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chiamavano arca – e, meraviglia delle meraviglie, la cucina a legna! In fondo si apriva la grande porta che immetteva nella cantina – una magica grotta di sponga – e di fianco le scale per il piano superiore che erano proprio come le ricordava: consumate e ripide. Adriana fece passare Tancredi che si districava a fatica nello spazio limitato con una valigia per mano. La scala finiva in un soggiorno semplice e comodo dove scoppiettava un piccolo focolare. «La moglie del sindaco non voleva proprio che patissimo il freddo: oltre ai camini ha acceso anche la stufa a legna del corridoio! La camera più calda è sempre stata questa.» Con la mano la donna indicò la prima porta che si apriva sullo stretto passaggio. «Sì, è qui che ha fatto preparare il letto.» Entrata, posò sull’antico canterano di noce la lampada a petrolio che aveva con sé. Era stata subito seguita dal principe che, però, appena varcata la soglia si bloccò. A bassa voce e con un tono incredulo chiese: «Ma chi c’è nel letto?» In effetti, il mobile presentava il caratteristico rigonfiamento al centro, proprio come se qualcuno ci stesse dormendo. «Ma no! È il prete», rispose tranquilla la donna con voce squillante. Sempre più sbigottito l’uomo disse, continuando a parlare sottovoce: «Quale prete? L’abate o il bibliotecario? Non sapevo che i religiosi potessero dormire fuori dal convento. E poi a quest’ora? Ma non è troppo presto anche per degli uomini di chiesa?» Adriana guardò seria Tancredi. Voleva essere sicura che non la stesse prendendo in giro. «Non dirmi che un uomo di mondo come te non sa che cos’è il prete?! «Si chiama “prete” tutta la piccola struttura di legno che si usa per scaldare il letto. Al suo interno si mette uno scaldino di rame e il gioco è fatto!» Lo sbalordimento e l’ottusità insolita del ragazzo, sbloccarono del tutto Adriana che non riuscì più a trattenersi e scoppiò in una risata liberatoria. L’ignoranza del principe lo aveva reso molto più simpatico di prima agli occhi della ragazza. Chiarita la clericale questione, caricarono con la legna la stufa e i camini, quindi uscirono e si diressero in auto verso l’abbazia.


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CAPITOLO TERZO

«“Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di varii albuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare; in sul colmo della quale era un…” Poi qui il Decameron continua in un altro modo, ma fino a questo punto sembra proprio che Giovanni Boccaccio avesse in mente l’abbazia quando ha descritto il luogo all’inizio della sua opera.» Questo era stato il commento e la citazione di Adriana. In effetti, le veniva sempre in mente quel brano quando riandava con il pensiero al solitario monastero. Proprio come nell’introduzione appena recitata dell’autore di Certaldo, l’abbazia di S. Eutizio apparve davanti a loro in tutta la sua aspra eppure mistica bellezza. La pace che circondava il piccolo rilievo era quasi palpabile, oggettivamente percepibile. Subito ad attirare lo sguardo si stagliava, granitica nella sua particolare forma esagonale, la parte finale della chiesa, quella al cui interno trovava posto uno spettacolare coro in noce massello che riportava al centro il pastorale con la mitria, lo stemma del luogo sacro. Il coro era sempre stato la passione della piccola Adriana. Lo spolverava, lo ammirava, passava ore a provare tutti gli scranni, ma soprattutto amava seguire da quel posto nascosto le diverse funzioni religiose che scandivano le sue giornate estive. Le piaceva rimanere lì, in solitudine, potendo vedere – non vista – tutta la navata dall’alto, come solo al sacerdote era concesso. Parcheggiarono e si diressero verso il massiccio arco in pietra che segnava l’ingresso al convento. Entrati all’interno del monastero, mentre erano ancora al riparo della volta ampia, videro sulla sinistra i locali adibiti a infermeria e, di fianco, quelli usati come erboristeria. Proprio davanti ai primi li stava aspettando un agitato Fratel Ernesto Benedetti, l’abate di S. Eutizio. Il monaco stava avendo una discussione non proprio cristiana con un membro delle Forze dell’ordine. La tracotanza di quest’ultimo era enfatizzata anche dall’abbigliamento, che richiamava subito alla mente il più arrembante nativo di Predappio. Come Mussolini


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infatti era calvo, con la mascella prominente e indossava i pantaloni della divisa dentro gli stivali da equitazione. Per finire, ostentava un lungo cappotto nero di foggia militare con uno spesso collo di pelliccia. «Non siamo qui per fare dei proclami, ma per risolvere un increscioso delitto. Una simile disgrazia non poteva capitare in un momento peggiore. Deve trovare subito il colpevole. La questione deve essere chiarita prima della cerimonia. Niente dovrà offuscarla. La riterrò personalmente responsabile di ogni qualsivoglia ritardo o fastidio che l’abbazia dovesse subire a causa della SUA INETTITUDINE.» Il sant’uomo non era riuscito a mantenere l’aplomb che Adriana gli aveva sempre riconosciuto e aveva terminato la sua perorazione con un tono di voce che non gli aveva mai sentito, neanche durante le prediche più veementi. In più, l’abuso del verbo dovere era un altro indice dell’urgenza e della preoccupazione del religioso. Per contro, il destinatario dello sfogo del prelato non sembrava minimamente coinvolto a livello emotivo. Rispose alle invettive con un tono che avrebbe potuto essere minaccioso, se non fosse stato irrimediabilmente stridulo e nasale. In aggiunta, la cadenza e il dialetto innegabilmente partenopei, davano al suo intervento la connotazione propria delle sceneggiate napoletane. «Abate… Dovite restare tranquillo… Ci pensamme nuie a chiste cose… Vui dovite solo penzà a dire ‘a messa… Lo truovammo nuie o’ mariuolo… I’ vade a faticà… Se verimme… A noi!» Per tutto il tempo del suo discorso aveva tenuto le mani ai fianchi ed enfatizzato ogni pausa con uno studiato ondeggiamento avanti e indietro. Aveva poi terminato l’esternazione assolutamente ridicola, allungando tutto il braccio destro in uno scimmiottamento imbarazzante del più noto uomo politico. I tacchi degli stivali produssero uno schiocco secco, quando il militare li sbatté con forza l’uno contro l’altro, prima di eseguire una complicata giravolta che lo portò, alla fine, a recuperare la strada che portava fuori dall’abbazia. Il monaco allargò le braccia sconsolato a conferma dell’enorme ottusità dimostrata dal suo interlocutore. Poi finalmente li vide e un po’ rincuorato andò loro incontro. «Mi dispiace che abbiate dovuto assistere a una simile scena. Il comandante dei carabinieri, il maresciallo maggiore Altiero Guardabeni, ha il suo carattere che… non sempre va d’accordo con il mio! Credo che siate i signori Dall’Oste. Ora capisco perché la scelta sia caduta su di voi: tu», e indicò familiarmente la donna, «sei quella vispa ragazzina che si


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nascondeva sempre nel coro. Sei cambiata tantissimo, ma gli occhi che sono lo specchio dell’anima, sono gli stessi. Mi ricordo che una volta hai rischiato di romperti qualcosa mentre cercavi di scavalcare! Deve esserti rimasta la passione per le cose antiche. Vorrai poi scusare l’uso del tu, ma si può dire che ti abbia visto nascere! Il vostro aiuto ci sarà prezioso per organizzare al meglio la presentazione della Confessio. Vi prego poi di non farvi alcuno scrupolo e di chiedermi qualunque cosa di cui doveste avere bisogno. Con tutti gli altri monaci saremo a vostra completa disposizione. «Purtroppo un tragico incidente ha – proprio oggi – segnato la nostra piccola comunità: un caro confratello ha voluto precederci al banchetto finale e glorioso con Nostro Signore. La sua triste dipartita non ha però nulla a che vedere con la manifestazione. Confido nella vostra discrezione. Ora se volete scusarmi, si avvicina l’ora di compieta e la liturgia legata a questa preghiera necessita di un’adeguata preparazione», disse e, senza dare modo ai due di intervenire, con piccoli passi rapidi si allontanò avviandosi verso la chiesa, che costituiva il cuore del luogo di culto. Adriana e Tancredi si guardarono l’un l’altra, senza parole. Soprattutto la donna non riusciva a interpretare tutti i messaggi che il religioso aveva voluto inviare loro. «Non sono certa di aver capito in modo corretto quanto quel monaco furbo volesse dirci. Di sicuro avremo la sua più completa collaborazione, insieme a quella di tutta la locale comunità monastica. Credo che, però, volesse anche darci un’imbeccata per quanto riguarda la diffusione della notizia sul probabile omicidio. È chiaro che vorrebbe che fosse visto come una disgrazia o, al massimo, come un suicidio. Non dovremo farci fuorviare, anzi, dovremo riuscire a recuperare da quella caricatura ibrida tra il duce e Pulcinella tutta la documentazione sulla morte del frate. Sarebbe anche meglio se riuscissimo a parlare direttamente con il medico che eseguirà l’autopsia. Sarà la prima cosa che chiederò al signor Fontana non appena torneremo in paese. Possiamo anche incamminarci: qui non abbiamo più nulla da fare. «Poi i battibecchi e soprattutto gli scontri di questa mattina ci hanno fatto anche saltare il pranzo e ora ho una fame lupigna. Se non metterò sotto i denti qualcosa nella prossima mezz’ora, non risponderò più di me.» Come conferma si girò e si avviò verso l’Isotta Fraschini, subito seguita dal giovane.


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Passarono di nuovo a casa Fontana e insieme ad Annunziata e Osvaldo si diressero subito verso l’albergo “Agli Scacchi”, nel vicino borgo di Preci. Si stavano inerpicando per arrivare alla locanda posta nella parte alta dell’incantevole paesino, quando Adriana lesse un vecchio cartello che recava la scritta “Roccanolfi” e le venne subito in mente la storia che aveva sentito raccontare da bambina dalle anziane comari del paese. Parlava della regina Nolfe che, delusa dalla vita matrimoniale, decise di ritirarsi dal mondo e non trovò nulla di meglio di questa valle sperduta per soddisfare la sua speranza di non farsi più trovare da nessuno. Si fece costruire un maniero che diede poi il nome all’intero paese, unito per sempre a quello della solitaria regnante: Roccanolfi, ossia la rocca di Nolfe. Da allora l’intera vallata prese il nome di Valle Oblita, ossia dimenticata. Adriana stessa avrebbe voluto avvolgere nell’oblio diversi momenti recenti della sua vita. Era ancora persa in una silenziosa malinconia quando ‘Nunziata prese a dire: «Baffettino co’ la moje hanno sestimatu la casa più grossa de qui, quja delli Scacchi. Penza che proprio uno de issi ha comenzato la Scuola Chirurgica preciana. Aveveno ripreso l’insegnamento delli monaci. Quanno vietorno alli frati de curà li cristiani – “Ecclesia abhorret a sanguine” – quji lo’mparorno alli Scacchi. I Quaglietti cianno messo tutti li sordi che ciavijano – e pure quiji che non cìano! – e mo’ sperano de guadambiacce chiccosa co’ ‘sta storia della Confessio.» Così concluse soddisfatta la donna. Alla locanda il cibo fu straordinariamente buono e gradito da tutti i commensali: Anna, la moglie di Alberto, era una cuoca veramente eccezionale! Mentre stavano per andare via, Alberto offrì loro un assaggio dei favolosi biscotti a base di nocciole – nocchie in dialetto – che divorarono accompagnati da un entusiasmante vino passito, il Sagrantino, della vicina zona di Montefalco. Durante la cena, Alberto aveva raccontato loro dell’invenzione enologica attribuibile alla famosa famiglia preciana. Francesco Scacchi espose gli esiti di una sua ricerca che avrebbe cambiato per sempre il modo di bere. Infatti descrisse, ben cinquanta anni prima di Dom Perignon, come si potesse riprodurre la rifermentazione in bottiglia. Aveva in pratica inventato lo spumante o, per dirla alla francese, lo champagne!


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Certamente la serata e la cena erano state la parte migliore di tutta la giornata. Sulla via del ritorno, il sindaco Fontana diede loro il nominativo e l’indirizzo del medico condotto che a Norcia aveva preso in carico la vittima e che si sarebbe quindi occupato dell’autopsia. Le informazioni fornite da Osvaldo erano, per fortuna, positive. Il dottor Giorgio Bizzarri risultava essere una persona intelligente, coscienziosa e dotata di un’incredibile apertura mentale su cui avrebbero potuto facilmente contare. Dopo aver parcheggiato l’auto nella rimessa di fianco alla casa, si stavano dirigendo verso la porta d’ingresso quando sentirono una strana conversazione. Gli interlocutori non erano riconoscibili, non si vedeva nulla al di fuori del luminescente chiarore che la neve aveva lasciato su ogni cosa: «T’ho fattu ‘stu rigaluccio: ‘sti du’ biri che jò tirato lu collu avantiieri. Argimo cocca. Daje che t’ardò!» Una voce maschile, impastata, aveva pronunciato quella strana esclamazione. La sua sagoma si stagliava scura nel cono di luce della cantina di fianco all’abitazione di Adriana. I due giovani si erano bloccati non appena avevano sentito l’inizio della frase e ora, protetti dall’anonimato dell’oscurità, aspettavano incerti sul da farsi. Si udì allora sempre in quella direzione un suono femminile che, con un tono acuto e querulo, intervenne così: «Te l’avjo dittu. Ce vo’ pazienza! Lo vuli capì o none? Quija è ‘na bardascitta. Si vuli, mperò, ce sto io…» La donna era stata interrotta dalla rovinosa caduta di Adriana che a causa del buio, non aveva visto il ghiaccio sulla strada ed era rumorosamente scivolata in terra. Il suono del capitombolo pose immediatamente fine alla conversazione e i due entrarono subito all’interno: il paese tornò a somigliare di nuovo a un silenzioso presepe. Tancredi aiutò la donna a rialzarsi e a scrollarsi di dosso la neve. Il capitombolo aveva ferito soprattutto nell’orgoglio la ragazza che si sentiva sciocca, inetta come il prode Anselmo che non avendo guardato sul fondo del suo elmo… in tre dì morì di sete, senza accorgersi il tapin! Entrati in casa, si fissarono imbarazzati: non sapevano proprio come comportarsi. A toglierli d’impaccio fu – incredibile a dirsi – il freddo polare che aleggiava in tutta l’abitazione. Dopo aver attizzato il fuoco nel camino della cucina che stava impietosamente spegnendosi, Adriana decise di reagire. Il gelo che l’aveva attanagliata appena messo piede al


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chiuso, sembrava persino più intenso di quello che si percepiva all’esterno. Non le era mai capitato prima di provare un freddo simile: non si sarebbe stupita di vedere un braccio o una gamba staccarsi dal suo corpo e cadere desolatamente rigidi sul pavimento. La gravità della situazione tirò fuori la parte più pragmatica del suo carattere. Infatti, così si rivolse a Tancredi: «Se non altro questo clima allucinante risolve per noi il problema della condivisione del letto. Non credo che sopravvivremmo da soli, ognuno per conto proprio. Spero poi che il sorriso che mi è sembrato di intravedere sia per l’imbarazzo: non credo che mi riconoscerai dopo che avrò indossato tutto il mio guardaroba prima di andare a dormire. Ti consiglio di fare altrettanto, se vuoi arrivare ancora vivo a domani mattina.» Ciò detto si diresse verso la camera. Dopo aver passato la valigia al principe, chiuse la porta e prese a rivestirsi con quanti più abiti potesse. Imbacuccata a tal punto che aveva perfino difficoltà a muoversi, liberò il letto dal prete ormai inutile e vi s’infilò dentro. Tancredi quando fece il suo ingresso era perlomeno raddoppiato come volume e anche lui faceva fatica a compiere i movimenti più semplici. Quasi senza guardare la donna, prese posto vicino a lei e spense la lampada a petrolio che illuminava la stanza. «Hai idea di chi potessero essere quelle voci che abbiamo sentito poco fa? Ho capito quasi tutte le parole, ma sono comunque perplesso.» Al buio la voce del principe sembrava ancora più calda del solito, anche se era quasi percepibile la nuvoletta di condensa che l’aveva accompagnata. «So che abbiamo dato a una vedova la cantina che usavamo per riporre il vino: lei aveva bisogno di un tetto e noi non la utilizzavamo da diversi anni, quindi gliel’abbiamo ceduta “pro bono”. Ci vive insieme alla figlia più piccola, mentre il maggiore, un ragazzone di poco più di venti anni, fa il carabiniere a Valdobbiadene. «Per quanto riguarda la conversazione, sono abbastanza confusa anch’io. L’uomo dovrebbe aver detto “Ti ho fatto un regaletto: questi due tacchini a cui ho tirato il collo l’altro ieri. Agiamo, cocca. Ci penso io a dartelo!” Sull’oggetto che il nostro eroe chiaramente alticcio volesse donare, non credo ci siano dubbi. La risposta della donna era invece abbastanza oscura. «Non riesco a capire chi sia l’interprete maschile di questo siparietto piccante, ma puoi stare certo che me ne interesserò. Comunque adesso


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non vedo l’ora di dormire. Pensavo che avrei avuto problemi dovendo dividere il letto con te, ma ora sono troppo stanca e infreddolita per sobbarcarmi anche di un qualsiasi imbarazzo, quindi buonanotte!» Ciò detto si accoccolò di fianco al ragazzo e, cinque minuti dopo, il suo respiro regolare testimoniava che si fosse finalmente addormentata. Lo stesso non poteva dirsi per Tancredi che infatti faticò – e non poco – a prendere sonno. Aveva dovuto esibirsi in un’indifferenza credibile per non mettere a disagio una persona che, in quel particolare momento della sua vita, era per lui molto importante. In particolare, quando Adriana che dormiva profondamente gli si era avvicinata e lo aveva stretto tra le braccia, era stata messa pesantemente a rischio la missione, ma anche la sua stessa incolumità, se conosceva bene la donna! *** Il mattino dopo quando si svegliò, Adriana si trovò abbracciata e stretta a sua volta in un potente abbraccio con il principe Tancredi Visconti Pallavicini. Appena aperti gli occhi e scoperta la sua posizione, era rimasta basita. Non poteva essere successo nulla fra lei e il nobiluomo! Se ne sarebbe, quantomeno, accorta e – soprattutto – ne avrebbe avuto memoria. Invece non ricordava niente di quanto fosse avvenuto dopo che entrambi avevano guadagnato il letto. Era certa di aver parlato dello strano scambio di battute di cui erano stati testimoni, ma poi una coltre scura aveva coperto tutte le sue azioni. Stava per sondare il terreno con delle domande specifiche, ma fu anticipata dalla voce calda e tranquilla del ragazzo che la stava fissando già da un po’: «Non farti venire strane idee. Non c’è stato nulla più di questa vicinanza, sicuramente dettata dal clima. Credo di poter conservare, almeno per il momento, la mia futura capacità riproduttiva!» Il sorriso cordiale e la simpatica battuta, avevano riportato un po’ di allegria, allentando notevolmente la tensione che aveva preso la donna quando aveva aperto gli occhi. «Non pensavo che l’avrei mai detto, ma… Vado a togliermi qualche vestito, così da poter uscire. Ho notato che l’infaticabile moglie del sindaco ti aveva lasciato attaccato alla porta un cesto con un biglietto e delle cibarie; ho già recuperato il tutto e riattivato il chiavistello. Una volta che sarai pronta anche tu, potremo provare a esibirci in una colazione montagnina. Mi sono già dato da fare e ho riattizzato tutti i fuochi della magione. Ho capito un fatto importantissimo: dobbiamo


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trovare qualcuno che lo faccia per noi. Non credo di essere portato per i lavori esageratamente ripetitivi, poi con la nostra indagine rischiamo di passare molto tempo fuori casa e… non mi sono fatto prestare l’attrezzatura da Umberto Nobile, quindi non sarei in grado di superare ancora un’altra notte a simili temperature!» concluse allegro e pimpante l’uomo che si alzò dal letto e si ritirò in bagno, mentre accennava una famosa aria del Barbiere di Siviglia con la sua inconfondibile voce da tenore. Tancredi aveva da poco chiuso la porta della toilette, che Adriana sentì il classico rumore sordo del saliscendi che si alzava e subito dopo si abbassava di nuovo. Una vocina squillante chiese: «C’è nisciuno? Ho visto lo fume che uscja da lu camino. Volite du’ nocchie? Du’ noci? Ce se fanno li mustaccioli. A me me piaceno tantu li mustaccioli. Che ce l’avete du’mustaccioli?» Adriana, interdetta dalla strana richiesta, rispose che non aveva nulla, poi aspettò di ascoltare la risposta che invece non arrivò. Si diede da fare allora a ripetere il concetto usando un tono di voce più alto e scandendo maggiormente le parole: «NON HO LE NOCCIOLE… NON HO LE NOCI… NON HO I MOSTACCIOLI!» Allora la solita vocetta, rispose cadenzando a sua volta: «NUN… SIMO… SURDI!» La donna, nel frattempo, si era liberata di alcuni vestiti e indossata la pelliccia aveva guadagnato la cucina dove si trovò davanti una ragazzina magra, con uno sguardo sveglio e un giaccone da uomo con le maniche arrotolate a farle da cappotto. Prima che riuscisse ad aprire bocca, la vispa bambinetta riprese: «Ciao, me chiamo Santina. Co’ mamma abitamo qui vicino e nun ciavìu mai visto nisuno qui drento. Come è grossa. Che ce fate co’ tutto ‘stu spazio? In quanti ce abitate? Come sete elegante! A me me piaceno le persone eleganti.» Si vedeva che era molto fiera di aver usato quella parola – elegante – che di sicuro non aveva utilizzato spesso nella sua vita. La donna la guardò. Poteva avere al massimo dieci anni e due occhi nocciola grandi, enormi. Occupavano quasi la metà della faccettina smunta e facevano brillare illuminandolo, il viso semplice, dai lineamenti delicati dove si leggevano intelligenza e voglia di vivere. Il suo sguardo sembrava però nascondere qualcosa. Infatti non aveva mai guardato negli occhi Adriana: questo,


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dalla sua esperienza con i bambini, poteva voler dire solo che c’erano dei problemi. Le si avvicinò e accarezzandole i capelli disse: «Ciao Santina, io sono Adriana. Come mai non vai a scuola? Le vacanze di Natale sono vicine, ma mancano ancora dei giorni. A scuola potrete preparare un sacco di cose divertenti per celebrare allegramente questa festa. È meglio che ti sbrighi o la maestra si arrabbierà.» «Que dici? Oggi è festa: è lu Cerquijolo! Stasera se canta e se balla davanti alli focaracci. Chissà chi farà quiju più billucciu. Ce venite signurì? «E voi ce venite, ce venite pure voi stasera? E ce ballate co me? Io so brava a ballà. Tutti me dicono che me movo bene, anzi benissimo!» Un sorriso furbo e troppo vissuto per venire da una bambina così piccola, accompagnarono la parte finale del suo discorso. Le ultime frasi Santina le aveva rivolte a Tancredi, che era sceso anche lui in cucina mentre la ragazzina parlava. Adriana notò subito un cambiamento nel modo di comportarsi della bimbetta da quando era entrato nella stanza l’uomo. Si era concentrata sul principe e rivolgeva solo a lui le sue parole, ma più che altro le sue attenzioni. Infatti, subito dopo aveva cominciato a lanciare sguardi e accennare carezze a un rappresentante del genere maschile sbigottito e imbarazzato, che non sapeva più come bloccare le effusioni della ragazzina senza ferirla. A togliere dall’impaccio il nobiluomo, intervenne Adriana che molto praticamente le si rivolse così: «Santina, ti prego di non disturbare mio marito e di non toccarlo. Soffre di una rara malattia per cui non può essere accarezzato da nessuno: solo io ho il permesso, quando è strettamente necessario, di sfiorarlo. «Vorrei farti una proposta: te la sentiresti di venire a controllare che i camini e la stufa abbiano sempre la legna dentro? Purtroppo il nostro incarico ci porterà a essere fuori spesso e con questo freddo ci ritroveremmo subito la casa congelata. Ovviamente ti pagheremo per il tuo lavoro, ma a patto che lo farai dopo la scuola.» Sperava di aver usato parole semplici e di aver “protetto” da dimostrazioni d’affetto future il suo compagno. Fu quindi stupefatta quando si sentì rispondere: «Ma allora sete sposati! Ma quistu non cambia niente, pure li mariti…» Mentre parlava si avvicinava ancora di più al ragazzo che non sapeva proprio come sottrarsi a tutte quelle carezze inopportune. La donna allora


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bloccò il braccio della ragazzetta che stava partendo per compiere una nuova moina e con un tono molto più serio e imperativo disse: «Ti ho già detto di non toccarlo. Se vogliamo andare d’accordo, non devi farmi ripetere le cose: è un comportamento che non sopporto. Se vuoi il lavoro è tuo, ma devi rispettare le mie regole.» Le guance magre della piccola erano diventate improvvisamente rosso fuoco poi, quasi le fosse venuta in mente un’idea, con uno sguardo furbo e complice le disse: «Vabbè, ma io te posso toccà a te? Tu poi tocchi a lui. Potimo provà…» La donna prese un grosso respiro prima di rispondere in modo semplice e deciso: «Ascolta. Se vuoi, il lavoro è tuo. Ma questo è tutto. Non voglio che ci siano dubbi sui nostri affari, altrimenti troverò un’altra soluzione. Io credo che tu debba occuparti di faccende adatte alla tua età e lasciare le altre, sicuramente meno divertenti, agli adulti come noi. Ora se accetti il lavoro, devi andare in cantina a rifornire le legnaie e poi controllare i fuochi.» Santina aveva seguito con estrema attenzione tutto il discorso della donna poi, dopo una breve indecisione, il suo viso si era aperto in un sorriso allegro e saltellando si era diretta verso la cantina dopo aver gridato: «SCINE! SI VULI CUSCI’!» Rimasti soli, Adriana andò a guardare nel cesto che la previdente ‘Nunziata aveva preparato per loro. Notò con piacere che c’era tutto l’occorrente per prepararsi un caffè, con tanto di macchinetta napoletana. In effetti, la tonificante bevanda era sempre stata per lei l’unico modo per iniziare positivamente la giornata. Apprezzava tutto di quell’infuso particolare: dal colore, un bel marrone scuro e dai toni caldi, all’odore forte e accattivante, al sapore deciso e pieno. Le sembrava di sentire ancora nelle orecchie le parole dell’anziano professore di filosofia e la sua lenta cadenza partenopea: «Sul becco io ci metto questo coppitello di carta. Pare niente, ma ci ha la sua funzione… Eh, già perché il fumo denso del primo caffè che scorre, che poi è il più carico, non si disperde.» Avrebbero anche potuto inventare un modo diverso, più veloce e meno impegnativo, per ottenere la potente bevanda, ma di sicuro l’ordinaria, vecchia napoletana avrebbe sempre rappresentato un mondo dove tempi e piaceri erano semplici e scanditi da un ritmo naturalmente lento, proprio come lei!


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Mentre questi pensieri filosofici le tenevano occupata la mente, la donna aveva recuperato dall’arca il macinacaffè. Diede quindi inizio alla procedura complessa che doveva portare alla tanto sospirata “tazzurella ‘e cafè”. La bevanda calda e aromatica diede a entrambi i giovani l’energia necessaria per iniziare bene quella che si preannunciava come una giornata ricca di novità. Dopo essersi adeguatamente coperti, uscirono per dirigersi verso lo spaccio. All’emporio, carico di tutte le fragranze e gli odori che riportavano la mente della ragazza indietro nel tempo, incontrarono subito Eutizio Vallicchioni, il possidente della zona. Era un uomo di quasi settanta anni, basso, grasso fino all’obesità e con un’alterigia che non sarebbe sfigurata in un imperatore della Cina quattrocentesca. “Il padrino”, questo era il suo soprannome. In effetti si comportava verso i paesani come quei capofamiglia siciliani che imponevano il loro volere su zone intere dell’assolata isola maggiore italiana. Adriana ricordava di aver sempre provato una sorta di paura mista a ribrezzo, quando da bambina l’uomo le si avvicinava per affibbiarle una carezza sudaticcia. Quella sensazione, unita all’immagine dell’unghia lunghissima del dito mignolo dove brillava un anello vistoso con un grosso rubino quadrato, erano legate indissolubilmente all’attempato benestante nei suoi ricordi. Notò quindi subito che quella mattina il vecchio non sfoggiava come di consueto il gioiello. Eppure era diventata una simpatica presa in giro per tutti i paesani scimmiottarne i movimenti mentre lo metteva in mostra con la solita spocchia. Quel giorno a completare il ritratto non certo edificante, il padrino indossava una pelliccia di lupo lunga e folta, che lo rendeva ancora più simile a quel predatore dei canini aguzzi che ostentava nel viscido e largo sorriso. Fortunatamente, stava uscendo mentre i due ragazzi facevano il loro ingresso nell’emporio. Trovarono ad aspettarli all’interno del negozio oltre alle due titolari – ‘Nunziata e Anna – anche Monica, la figlia che Anna aveva avuto in giovanissima età. La ragazza aveva dato seguito alla sua passione e stava diventando una paleografa. Era quindi curiosissima su tutto quello che concerneva la Confessio. Anna poi propose loro di usufruire dei servizi di Ruffinella, una giovane del posto, che si sarebbe volentieri occupata di tutte le quotidiane faccende domestiche. I due stavano per uscire a loro volta, quando entrò nello spaccio il maestro storico della zona: Benedetto Benedetti. Si presentò al nobile


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mostrandosi fiero del doppio riferimento al santo che il suo nome esprimeva. «Finalmente a Roma hanno capito le mie difficoltà e mi hanno mandato un aiuto. Era ora! Lasciate che vi presenti il maestro Pietro Leone. La sua famiglia è originaria di Norcia, anche se lui è cresciuto al nord, vicino Torino addirittura!» Il maestro Benedetto, un ometto piccolo e curvo con degli enormi favoriti sotto due occhi dolci e azzurri come il cielo umbro a primavera, fece il suo ingresso rumoroso trascinandosi dietro un Pietro recalcitrante e silenzioso. Vedere il suo sguardo duro e metallico come l’acciaio che si produceva a Terni, fece tremare le gambe alla ragazza che non sapeva come comportarsi, ma soprattutto cosa avrebbe fatto il suo sanguigno fidanzato. Era poi certa di essersi persa delle informazioni importanti, fondamentali, ma non riusciva a capire quali fossero. Di sicuro non si aspettava di rivedere il poliziotto così presto, non era quindi assolutamente preparata. Si girò di scatto per evitare l’occhiata incandescente che questi le aveva già rivolto. Il movimento repentino la portò a urtare un enorme vaso di vetro che conteneva fagioli secchi. Il contenitore si disintegrò sul pavimento cadendo insieme ai semi e producendo un fragore che faceva pensare a uno scoppio. «Signora, vedo che quando si muove produce dei disastri incredibili. Suo marito farebbe meglio a tenerla più sotto controllo. Magari potrebbe fornire di ripari adeguati e protezioni idonee i malcapitati che si dovessero trovare a contatto con lei. D’altra parte per il suo compagno è stata di sicuro una libera scelta, ma non credo proprio che questo valga anche per tutte le altre persone. Quanto a lei poi, mio caro signore, possibile che non riesca ad arginare la slavina travolgente con cui ha deciso di condividere la vita?» Fu un commissario Leone livido – a prescindere e nonostante il freddo polare – quello che diede sfogo alla sua rabbia nella sfilza appassionata di rimostranze che identificavano in Adriana l’unica colpevole per tutte le storture del mondo. La donna reagì d’impulso e ignorando il rossore che le saliva prepotente sulle guance gli si rivolse con un tono acuto e sarcastico: «Maestro Leone, non è ancora praticamente arrivato e già è riuscito a trovare qualcosa da criticare. Ha una dote veramente rara: disapprovare ciò che non si conosce è veramente segno di grande apertura mentale: mi


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congratulo con lei e con quanti avranno la sfortuna di lavorare in sua compagnia!» Aveva poi preso subito la porta ed era uscita. Non voleva farsi vedere con gli occhi lucidi per il dispiacere e la rabbia che il suo – a questo punto ex – fidanzato le aveva causato. Tancredi la seguì immediatamente e, mentre stavano dirigendosi verso l’auto, Anna li raggiunse e guardando negli occhi l’amica le disse: «Ma allora è quello il tuo fidanzato? Sai che è un bel tipo! Mi sembra proprio un viso conosciuto. Infatti il maestro ha detto che è di queste parti: l’ho sicuramente già visto. Deve essere molto preso da te. Eravate tutti in incognito, e lui con il suo sfogo ha rischiato di esporsi troppo e di farsi scoprire.» Completò il tutto con un sorriso accattivante e un abbraccio caloroso. *** Saliti in macchina, si diressero subito verso l’abbazia: dovevano recuperare quante più informazioni possibili sulla vittima, per fare domande mirate al medico che avrebbe eseguito l’autopsia. All’ingresso del convento furono accolti da un frate giovane, muscoloso e ben piantato. Il suo sguardo attirò subito l’attenzione di entrambi: era duro e coriaceo. Vi brillavano degli occhi profondissimi e liquidi che presentavano un esempio particolare e unico di eterocromia. Infatti il sinistro era di un verde chiaro con alcune striature giallo oro antico, mentre quello destro aveva un’iride così nera che non si riusciva a distinguere la pupilla. Nonostante la diversità, o forse proprio a causa di questa, spiccavano come fari sul viso lungo con i lineamenti marcati, regolari e catalizzavano immediatamente l’attenzione di tutti. Nell’insieme l’uomo di chiesa risultava bello, ma anche pericolosamente inquietante. Alle domande dei due giovani sul morto rispose: «Mi dovete scusare, ma mi è stato dato l’incarico di guardiano solo da cinque giorni. Dopo che, una settimana fa circa, è scomparso Fra Liborio, il nostro caro responsabile sorvegliante che aveva fatto del controllo e dell’incolumità di noi tutti la sua principale ragione di vita… sempre dopo la devozione a Nostro Signore, ovviamente. L’abate ha voluto dare seguito alle indicazioni dello stesso confratello che mi aveva preso sotto la sua amorevole ala protettrice. Mi dispiace, ma il mio


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compito da quando sono arrivato a S. Eutizio insieme ad altri due monaci – e uno purtroppo l’ho perso proprio ier…» A questo punto si interruppe bruscamente, come se gli fosse sfuggita qualche informazione preziosa che non avrebbe voluto far trapelare e, dopo una breve pausa, cambiò completamente discorso: «Io sono un fabbro e questa occupazione mi porta a passare gran parte della giornata nella fucina, da solo. Continuo a espletarla anche ora che ho assunto le funzioni di guardiano. Non avevo e non ho contatti con nessuno, soprattutto con la cucina, che è nel secondo chiostro, molto lontano dalla mia officina che invece si trova vicino all’ingresso. Mi vedo con tutti gli altri monaci durante i momenti di preghiera in comune e poi… sapete che la nostra regola predilige il silenzio quando possibile? Per il vostro lavoro, dovreste invece prendere contatto con Fratel Carlo, il nostro studiosissimo bibliotecario, ma in questo momento è concentrato nei suoi esercizi spirituali che non posso assolutamente interrompere. Mi dispiace di non potervi essere d’aiuto, avrei voluto fare di più.» Detto questo il giovane si era esibito in una genuflessione che però non aveva nulla della sottomissione di cui il gesto avrebbe dovuto essere testimonianza. Anzi, mentre stava avviandosi verso la chiesa e salutava con un cenno del capo i frati che incontrava, sembrava di vedere un fiero sergente maggiore che controllava e ispezionava le sue truppe. «Proprio uno strano tipo. Non sembra avere nessuno dei requisiti fondamentali che motivino la scelta a entrare in un ordine monastico. Dà più che altro l’impressione che l’abito talare sia stata per lui una soluzione di comodo, dovuta ad altri motivi. Ci conviene andare direttamente a Norcia e sperare di avere tutti i chiarimenti che ci servono dal dottor Bizzarri.» Il tono rassegnato della donna la diceva lunga su quanto l’apparizione e il comportamento di Pietro l’avessero scossa. A dimostrazione di ciò, passò addirittura le chiavi della macchina al principe. Non se la sentiva di guidare, era ancora troppo scombussolata dalle accuse acide e pesanti del suo ex – di nuovo! – ragazzo. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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