Manson, Alessio Balzaretti

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In uscita il /1 /20 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine RWWREUH H LQL]LR QRYHPEUH 2020 ( 99 euro)

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ALESSIO BALZARETTI

MANSON

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ MANSON Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-421-2 Copertina: immagine di Noemi Mercuri Prima edizione Ottobre 2020


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1.

«Da cosa pensi derivi tutto questo male?». Jimmy distolse per un attimo lo sguardo, accecato dal flash. «Ci hai mai fatto caso? È sempre il male che si insinua nel bene, mai viceversa». Non si poteva rimanere eternamente perplessi lavorando con uno come Dwayne. Speravi solo di non finire anche tu catturato dalle sue allucinazioni che, per altro, erano intuizioni spesso geniali. «A me sembra la scena di un film dell’orrore» disse il fotografo della scientifica. I due lo guardarono dall’alto in basso, come se avessero sentito il rumore stridulo di un insetto che passava di lì per caso. Ogni scatto era un istante di consapevolezza stagliato nell’oscurità di quella tenda abbandonata nel bosco. «È come mettere una goccia d’acqua in un bicchiere di scotch. Vale a dire: inutile» fece Dwayne avvicinando alle labbra la piccola bottiglia trasparente che teneva sempre in tasca. «Ne vuoi?». Jimmy non si voltò nemmeno, era concentrato su un particolare della mano appesa al centro, come una lampada da campeggio. Sul palmo si distingueva una cicatrice. «È una croce?». Lo chiese a conferma di quello che aveva visto nella frazione di secondo in cui le pupille, da dilatate, si stringevano, contraendosi come meduse. «È una punizione» rispose Dwayne inginocchiandosi a tastare il terreno che, all’interno del telo macilento appariva umido, mentre fuori era secco. Jimmy si era messo sul viso un fazzoletto spruzzato di mentolo e trementina. La puzza dolciastra della putrefazione aveva reso l’aria


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malsana, ma il suo collega inspirava come se la stesse ispezionando setacciandola attraverso le cellule olfattive del naso. Alle volte capitava di guardarlo avendo la sensazione che si nutrisse di certe cose. Era talmente scavato in volto da sembrare un tossico in continua crisi d’astinenza e nell’Idaho non succedeva abbastanza per uno come lui. «Potrebbe essere una croce, oppure qualcosa che le somiglia» tamburellò l’indice sulle labbra. «La mano è rivolta in basso, quindi il simbolo è capovolto». Non si poteva dire che gli mancasse spirito di osservazione, ma bisognava stare al passo e Jimmy aveva il compito di razionalizzare ogni suo pensiero. «Fotografa anche il terreno e passa tutto quanto al luminol» disse al tecnico. Quel piccolo campo degli orrori era stato allestito in ciò che rimaneva di un boschetto, vicino a una laguna, a cui qualcuno aveva dato fuoco un mese prima, forse per bonificare l’area in maniera dolosa. Era strano quell’unico metro quadrato tra tanti ettari di suolo carbonizzati. «A quanti chilometri siamo da Manson, una ventina?» disse tra sé Dwayne mentre si toglieva i guanti di lattice uscendo all’aria aperta. Guardava verso l’orizzonte spoglio e illuminato dal sole pallido delle dieci di mattina. Non faceva ancora caldo, ma l’umidità, laggiù, toccava i massimi livelli e la voce di Jimmy al cellulare risultava ovattata, come se stesse parlando dentro un bicchiere. «Pronto, sono Jimmy Conley, piacere di sentirti» accennò un sorriso di circostanza. «Senti, non appena avremo finito qui, ti imbusto una mano, avremmo bisogno di rilevarne le impronte. Non ti preoccupare, apparentemente il reperto sembra intatto». Poi cambiò espressione, da seria e professionale a perplessa. «Certo, dirò a Mary dell’invito a cena, la trota alle mandorle andrà benissimo», poi si girò su se stesso strizzando gli occhi per riprendere il filo logico della telefonata «sì, una mano, esatto». Poco dopo, mentre la vecchia Lincoln celeste metallizzato anni novanta, viaggiava sulla statale novantuno nella Contea di Franklin, teneva con la mano destra il volante mentre si mangiava le unghie della sinistra «se qualche vecchio indiano ha deciso di rimettersi a fare lo stregone è un bel guaio». In realtà era una speranza quella di Jimmy, un sotterraneo tentativo di veicolare la questione su quel territorio impercorribile che portava a


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rituali o regolamenti di conti tra nativi americani. C’era una montagna di fascicoli, tra i casi irrisolti, che li riguardavano e nessuno ci teneva ad addentrarvisi.


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2.

Fred Conley, detto Freddy Krueger o Nightmare a seconda delle giornate, aveva diciotto anni e gli piacevano i coltelli. Il suo preferito era del tipo a farfalla e quando si muoveva per casa allenava il movimento apri e chiudi: sgancio, rotazione, frustata di polso e dita in presa rapida. La cosa non piaceva neanche un po’ al suo vecchio che lo aveva minacciato più volte di fargli sparire quell’aggeggio, così, quando sentì gli pneumatici della Lincoln sollevare la polvere della strada sterrata, guardò fuori dalla finestra di camera sua. «Porca puttana». La sua preziosa collezione era ben custodita nel piccolo fienile dietro casa. Il posto che aveva scelto era perfetto, perché quel magazzino faceva parte della proprietà ma suo padre non lo utilizzava, ci posava piede due volte l'anno quando, in occasione della festa di primavera, lo metteva a disposizione della comunità contadina che organizzava la fiera del bestiame della Contea. Freddy e i suoi amici la chiamavano la fiera della merda e lui ne sapeva qualcosa, perché l'odore di letame che aleggiava per chilometri sulla pianura di Frenklin, durava per settimane e partiva proprio da quel fienile del cazzo. Quando si erano trasferiti, il suo vecchio, aveva fatto un commento a riguardo. «E quello cosa sarebbe? Non figura sul certificato di proprietà». L'agente immobiliare, che ci aveva accompagnato in quello che era stato per cent'anni un ranch, aveva risposto incerto: «be’ Capo Conley, in effetti a catasto non risulta, è veramente imbarazzante, ma credo si tratti di un fienile abusivo». Sudava come un cammello e il piccolo Freddy rideva come una scimmietta isterica attaccato alla gamba della mamma. «Appena rientro in città avvio le pratiche per farlo abbattere e non mancherò di contattare i vecchi proprietari per capirci qualche cosa».


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I vecchi proprietari, niente meno che gli eredi della famiglia Fogarthy del Ranch Fogarthy, evaporati nel giro di un paio d'anni in circostanze poco piacevoli: pignoramento. Una brutta malattia quella del gioco d'azzardo e quando, a causa della depressione, i due figli del vecchio Boe si erano ritrovati con le mani in mano e con poco più di un centinaio di vacche, ci si tuffarono di testa, accumulando debiti, prima con le banche e poi con gli strozzini. Le prime non furono meno tenere dei secondi quando i conti non tornavano. Steve si impiccò proprio nel fienile e Duke si fece ammazzare dai creditori, questo è quello che si sapeva in città. In seguito, Jimmy Conley scoprì dagli schedari della piccola centrale di polizia che Boe si era rincoglionito dopo la morte dei figli ed era chiuso in una casa per anziani in preda ad allucinazioni da demenza senile, mentre la sorella di Steve e Duke si era data alla macchia, scomparendo dalla sera alla mattina. Il rapporto sull'impiccagione del primo dei due, riportava pochi particolari, tra cui non si menzionava nessun fienile. E la moglie di Boe? Lei aveva mollato tutto in mano agli avvocati. Si dice che fosse l'unica anima nobile di quella sgangherata famiglia, l'unica vera vittima innocente del declino di una stirpe che aveva fatto fortuna per lungo tempo nella Contea. Una volta uscita da quell'incubo si era dedicata all'assistenza agli anziani nella stessa struttura che ospitava il marito. Qualcuno la interpretò come un'ulteriore penitenza per aver sposato Boe e aver messo alla luce quei tre figli. Per lei era soltanto il modo di ottemperare agli obblighi del matrimonio di una vita, nella buona e nella cattiva sorte, in salute e in malattia. Quindi, il fienile, oltre che essere inutile e abusivo, era anche macchiato di un suicidio, tuttavia il Capo Conley, che era già abbastanza stressato da quel trasferimento, non volle avere anche la scocciatura di una demolizione in pieno trasloco. «Lasci perdere Signor Twikley, se mi sollevate un altro granello di polvere oltre a quella che c'è già, credo che mia moglie potrebbe spararmi. Regolarizzerò io l'immobile più avanti». Ma ovviamente quel giorno, nei successivi dieci anni, non arrivò mai.


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3.

Ogni volta che Jimmy Conley parcheggiava nello spiazzo davanti a casa, i suoi pensieri correvano su due cose: “questa casa circondata dal nulla della steppa è deprimente” e poi “dove diavolo sarà Fred?” Si era inoltre affezionato a una piccola eredità trovata appesa all'attaccapanni dell'ingresso: un cappello da cowboy che gli dava un tono e che lo distingueva dal resto dei suoi compaesani. Ci teneva a indossarlo ogni volta che camminava all'aperto, non solo per ciò che rappresentava, ma anche per non farsi bruciare dal sole incandescente dell'Idaho. Se lo infilò sulla testa anche mentre percorreva quei dieci metri fino al portico, salì i tre gradini di legno cigolante, aprì la porta d'ingresso e finalmente mise piede in casa. «È profumo di torta quello che sento?». Sua moglie Mary era, in apparenza, una casalinga perfetta: dedita alla cucina, maniaca dell'ordine e della pulizia, sempre indaffarata per fare in modo che la casa si presentasse accogliente per gli ospiti e un luogo confortevole per la sua famiglia. Aveva persino creato una rastrelliera per raccogliere riviste di ogni genere, dal classico gossip al fai da te, fino a quelle specializzate in edilizia ed esoterismo, purché andassero incontro alle esigenze di qualsiasi avventore. Quando si erano trasferiti a Manson, era stata quella, che dei tre, aveva accolto la notizia col maggior entusiasmo. «Una casa in stile coloniale tutta nostra! Su due piani! Non è fantastico?» diceva. «Tu Jimmy sarai al lavoro e potrai invitare i colleghi per un barbecue, Fred crescerà in un ambiente genuino e potrà giocare coi suoi amici nel terreno della tenuta, gli preparerò dei pancake e avrò magari del tempo per cucire insieme a delle nuove amiche, sarà fantastico, me lo sento!». Ma ben presto il suo stato d'animo cambiò.


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I colleghi di Jimmy non arrivavano così di frequente, a parte quel Dwayne mezzo matto. Non arrivarono subito neanche gli amichetti di Fred, perché la casa era troppo lontana e loro erano dei forestieri, quindi ci vollero alcuni mesi prima di averne uno o due ospiti a merenda. Appena superati i tredici anni, fu lo stesso Fred ad allontanarsi, sviluppando il classico sentimento di ribellione adolescenziale che da quelle parti era sinonimo di zuffe, gare di velocità con le auto, possesso illegale di armi e, nella migliore delle ipotesi, sperimentazione degli effetti dell'alcol. Insomma nulla era andato come immaginava Mary mentre tutto stava andando come temeva Jimmy. Questo le aveva causato un esaurimento nervoso, prima lieve, poi sempre più accentuato, fino agli attacchi di panico che l'avevano obbligata a una terapia farmacologica. Nel momento di angoscia peggiore, aveva manifestato fobie da accumulatrice seriale e, oltre ad aver sommerso la rastrelliera, le montagne di riviste e giornali erano apparse ovunque. Le crisi durarono mesi, ma da qualche tempo Mary pareva essere tornata la donna di prima, ordinata, bella con i suoi capelli rossi e lunghi, le lentiggini e quella sensualità da eterna ragazzina che aveva conquistato Jimmy. Molti lo invidiavano proprio perché quella sensualità era tanto perfetta quanto stridente se accostata a una donna così tradizionale e casalinga. «Hai fatto bingo!» gli dicevano, «una moglie che sa fare bene due cose così è come poter guidare una Ferrari anche sulle strade di campagna, un vero spasso». Ma non era stato uno spasso vederla sciupata, dimagrita e isterica fino a crollare tentando di tagliarsi le vene. L'effetto dei farmaci l'aveva rimessa in sesto, anche se la sua testa era cambiata, i suoi pensieri erano diluiti, le sue parole uscivano al rallentatore, i suoi occhi non erano più vispi ma persi nel vuoto. Guardava tutto ma non vedeva niente, come se una nebbia continua le impedisse di mettere a fuoco qualsiasi cosa e anche quello che sentiva produceva reazioni ritardate. Il medico di Manson gli aveva parlato chiaro: «non sarà la Mary di prima, Capo Conley. Questi anti depressivi non cambieranno la sua


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percezione della realtà, semplicemente, le impediranno di raggiungere quei cattivi pensieri. Detto molto schiettamente, l'impressione sarà di vederla in uno stato persistente di leggera sonnolenza e di benessere, molto simile a chi assume stupefacenti, seppur in dose minima. Potrà gestirsi da sola nella somministrazione anche se bisogna comunque vigilare. L'abuso crea dipendenza e superata quella soglia...». Guardandola, mentre armeggiava sul lavello senza essersi nemmeno accorta del rumore della porta e delle sue parole, non era più in grado di capire a che punto fosse arrivata, oppure lo aveva capito ma non voleva ammetterlo. «Mary» le toccò leggermente il braccio facendola rinvenire dal suo stato catatonico. «Oh Jimmy» si asciugò le mani tremolanti nel canovaccio e lo abbracciò dolcemente, baciandolo con le labbra umide di commozione come se fosse stata salvata all'ultimo istante dal suo eroe «finalmente sei arrivato» disse mettendosi a piangere. «Ehi piccola è solo mezzogiorno, hai perso il senso del tempo come al solito?». Poi ispezionò con lo sguardo il bidone dell'immondizia e notò uno dei piccoli barattoli di pillole a cui probabilmente aveva dato fondo. Sapeva che se glielo avesse fatto notare, non avrebbe migliorato la situazione, al contrario, nel giro di cinque minuti, Mary sarebbe tornata sorridente e inebetita come sempre. «Si è fatta di nuovo?». Fred era sceso dalle scale scivolando col sedere sul corrimano e si era fermato sulla soglia della cucina a osservare la scena straziante con una mela in mano e uno sguardo insolente. «Ehi!» lo richiamò Jimmy, «non parlare così di tua madre». Il giovane Freddy sbuffò, non aveva neanche voglia di farci discussione, le cose erano così palesi, che se al suo vecchio stava bene, a lui non importava, anzi, in parte lo capiva, perché di solito, per uno strano picco di euforia dato dalle medicine, subito dopo averle assunte, sua madre sentiva un forte desiderio di affetto e spesso gli era capitato di beccarli mentre scopavano di nascosto. Uno spettacolo per lui rivoltante. «Vado a fare un giro» disse sventolando le chiavi della moto da cross e sbattendosi la porta alle spalle.


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Mary, con la lentezza di una lumaca, si asciugò le lacrime e chiese: «torni per cena, tesoro?». Parole al vento, che il suo Freddy non sentì nemmeno. «Non pensare a lui, amore, se la caverà. Noi siamo invitati a cena invece e voglio che tu sia raggiante» le disse Jimmy sistemandole una ciocca di capelli scomposti dietro l'orecchio. Lei lo guardò rassicurata, fece per socchiudere le labbra, poi gli sussurrò: «mi sento già meglio, sai?». Le sue dita affusolate si mossero elegantemente verso i piccoli bottoni dell'abito leggero a fiorellini ma Jimmy la fermò, quasi deludendola. Le baciò le mani sorridendole amabilmente. «Oggi ho molto da fare alla Centrale, mi fermo solo per uno spuntino, che ne dici se assaggiamo la torta capolavoro che hai preparato?». Le gote lentigginose di Mary tornarono a sollevarsi e un nuovo sorriso fece capolino sul suo viso.


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La vita a Manson scorreva allo stesso ritmo dei pensieri di sua moglie, al punto che Conley si stava sempre più convincendo del fatto che, se non fosse stato per l'esaurimento nervoso di cui ovviamente tutti erano a conoscenza, sarebbe passata per una persona perfettamente integrata nella comunità. Anche la topografia di Manson sembrava studiata per non dare modo alla popolazione di sviluppare eccessivamente la corteccia cerebrale. Eagle Street era la spina dorsale, al centro della quale si trovava il fulcro della cittadina, la piazza dedicata a George M.Willing, l'eccentrico lobbista che aveva battezzato il territorio dello stato col nome di Idaho, termine indiano che significava perla delle montagne. Da lì partivano quattro trasversali che portavano i nomi dei punti cardinali, onde evitare che qualcuno potesse perdersi senza avere a disposizione una bussola. Le montagne, innevate d'inverno e verdeggianti d'estate, stavano dappertutto tranne che a Manson. Le vedevi all'orizzonte ma non ci arrivavi mai. Se eri fortunato, nel tentativo di raggiungerle, potevi incappare in qualche vecchia oasi tramutatasi nei secoli in uno stagno pieno di erbacce e sabbie mobili dove spesso, anche gli stessi nativi indiani ormai confinati nelle riserve, rovesciavano rifiuti e immondizia di ogni genere. Lo stato dell'Idaho, in linea col suo stile minimalista, si era preso la briga di asfaltare le strade quel tanto che bastava, cioè fino a un centinaio di metri oltre i confini. Questo dava un sacco di lavoro alle officine che rappresentavano il secondo business dopo la coltivazione di patate, così le due auto della polizia locale finivano in riparazione a settimane alterne e Conley, per contenere il budget del distretto, aveva deciso da tempo di spostarsi con la sua Lincoln celeste metallizzato. Un'altra caratteristica di Manson, come si può dedurre, era il forte legame tra le mille e poco più anime che ci vivevano. Un legame più che


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affettivo si potrebbe definire angosciato, una sorta di controllo reciproco continuo, con l'obiettivo di sentirsi al sicuro in quella specie di micro cosmo edificato nella pianura che un tempo si chiamava Colorado. Se qualcuno aveva un problema personale, diventava il problema di tutti, se un lutto colpiva una famiglia, la perdita era per tutti, ma, allo stesso tempo, se una persona si macchiava di azioni discutibili o giudicate negative per la comunità, allora veniva bandita o etichettata e quelle porte sempre aperte diventavano muri di cemento armato. Tutto per preservare la comunità, qualcuno lo potrebbe definire istinto di sopravvivenza del branco. Questo era uno dei motivi per cui Conley, quel pomeriggio, doveva evitare che il suo vice Dwayne si mettesse a fare troppo il detective. «Buongiorno, Capo Conley!». Il primo a salutarlo dalla cima di una scala fu Jesper Williams che canticchiava, in duetto con Bruce Springsteen, Born in the USA trasmessa in filodiffusione da una cassa acustica appesa fuori dalla gelateria dei Quackerman, all'altro lato di South Avenue. Il loro motto era: quack quack vuoi un gelato?... quack quack ecco il gelato!... quack quack che bontà il mio gelato!... uno spettacolino che si ripeteva davanti a ogni passante, con il faccione di Berry Quackerman che si sporgeva e tirava la catenella che faceva muovere su e giù le ali di un'anatra impagliata posata sul banco frigo. La sua era l'unica anatra che si fosse mai vista in tutta la Contea. Jesper, oltre che cantante improvvisato, era anche il figlio di Will Williams, unico ferramenta tutto fare di Manson. «Salute a te ragazzo, credi che ci vorrà molto per sistemare il neon di quell'insegna?». Erano giorni che lo vedeva sempre lì ad armeggiare senza arrivare a un dunque. Quel lavoretto avrebbe potuto farlo chiunque nel giro di un'ora, ma dato che esisteva un contratto di manutenzione da rispettare, era giusto non togliere a Williams la possibilità di fare la sua parte rischiando di offenderlo. Will aveva sfruttato l'occasione per far fare un po' di gavetta all'erede, ma non si prospettava un ridente futuro per la sua attività. «Non si preoccupi, Capo, ho dovuto ordinare delle viti, ma credo che entro domani avrete un'insegna talmente luminosa che i fuorilegge la vedranno fino alla capitale».


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Jimmy si grattò la testa rasata sotto il cappello nel tentativo di farci entrare il concetto che una ferramenta scarseggiasse di viti e soprattutto che qualcuno usasse ancora il termine fuorilegge, tuttavia annuÏ soddisfatto. Bravo ragazzo, salutami tuo padre disse avanzando oltre la porta a vetri dell'ingresso.


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Quante cose potevano succedere da quelle parti per giustificare una Centrale di Polizia con più di un dipendente, cioè lui? In realtà non molte, quindi ogni minima questione che andasse dal diverbio tra vicini di casa, fino a litigi tra contadini per limiti territoriali di campi coltivati, andava registrata e catalogata sia a livello informatico che dattiloscritto. Tutto doveva essere verbalizzato e gestito con pignoleria, fino al punto di condurre indagini che in una grande città non sarebbero arrivate nemmeno sul tavolo dell'ultimo pivello fresco di uniforme. La cosa importante era che ciascuno potesse fare la sua parte. Fatto sta che la scrivania di Betty in reception era un accumulatore di documenti cartacei e la maggior parte del tempo lo passava con la cornetta agganciata tra la spalla e l'orecchio, rispondendo a decine di chiamate che per la maggior parte non superavano lo scoglio del suo centralino. «Buongiorno Betty, ci sono novità?». La quarantenne in carne si spostava come una scheggia impazzita nel suo spazio di tre metri quadrati, tant'è che Conley non era del tutto sicuro che lo ascoltasse o addirittura che lo vedesse ogni mattina quando varcava l'ingresso. In realtà l'ottanta per cento di quelli che si potevano catalogare come casi, venivano risolti da lei al telefono, quindi era comprensibile che si sentisse la Capa in pectore al punto di non calcolarlo. Quel giorno però l'approccio fu diverso. «Capo Conley buongiorno, abbiamo... un... problema!». Lo disse affannata e disse abbiamo, quindi lei e Conley, i gestori della baracca. Jimmy aggrottò le sopracciglia e rispose con un semplice «mmh...?» di preoccupazione per quello slancio inaspettato.


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Raccolse da uno schedario la cartellina con i rapporti degli ultimi trenta giorni e si avviò verso il suo ufficio con Betty che gli zampettava alle spalle. «Il dottor Bosley ha già chiamato due volte e in posta elettronica abbiamo ricevuto... ». «Abbiamo chi?». «Degli scatti fotografici orribili di cui non sono al corrente». Conley girò sui tacchi e la bloccò ponendole le mani energicamente sulle spalle. «Betty so già tutto, si tratta di un nuovo caso che finirà probabilmente per essere archiviato nel giro di un paio di giorni ma su cui vorrei poter lavorare io personalmente senza distoglierla da tutte le altre questioni che hanno molta più importanza e che dipendono da lei. È d’accordo? Non vogliamo lasciare i cittadini di Manson allo sbaraglio per seguire i riti truculenti di qualche stregone indiano, vero?». Ecco cos'era rimasto della storia del Colorado, la paura ingiustificata degli indiani e davanti a quell'argomento anche un carrarmato come Betty fece un passo indietro, come se da un momento all'altro delle frecce potessero sfondare le vetrate e conficcarsi nella schiena dei miei sottoposti: Smith, Perry e Clarckson che si stavano intrattenendo al distributore del caffè dopo aver consumato il pranzo. «Salve Capo, com'è andata stamattina al bosco?». Chiese Smith che era l'unico a essere stato avvisato direttamente da Conley riguardo il ritrovamento. «Be’, vorrai dire di quel che ne resta» sottolinearono Perry e Clarckson che avevano fatto il sopraluogo in occasione dell'incendio. «Una distesa di cenere e tronchi spezzati che spuntano da terra come lapidi». Conley diede un'occhiata rapida al rapporto che riguardava l'accaduto. «Cosa aveva dichiarato Joe Jackson? Il suo terreno è lì a due passi». I due si scambiarono uno sguardo scettico. «Diceva che non ne sa niente» sorrise Perry, «non ha visto nemmeno un rivolo di fumo, roba da non credere». «La sua casa, in linea d'aria, sarà a un miglio di distanza. Sono bruciati acri interi. Secondo noi stava sparando un mucchio di stronzate» concluse Clarckson sventolando le mani come se stesse scacciando dei moscerini.


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Conley li guardò un po' di traverso, non gradiva molto il modo di operare di quei due ragazzi che, a dirla tutta, avevano un non so che di strafottenza tipica di chi si sente superiore perché indossa una divisa. Non erano cattivi, ma sembravano avere sempre prurito alle mani e soprattutto non voleva che mancassero di rispetto verso un contadino che non aveva mai dato problemi. Sfogliando le carte, trovò anche il resoconto dei vigili del fuoco che erano intervenuti quella notte e non trovò menzione sul ritrovamento di nessuna tenda scampata, chissà come, alle fiamme. «Va bene» disse mettendo da parte il rapporto, «oggi pomeriggio ci vado a scambiare due parole io». I due rimasero stupiti, che bisogno c'era di tornare da quel negro? Anche stavolta ebbero l'impressione che il loro lavoro non venisse apprezzato abbastanza e dovettero ingoiare l'ennesimo boccone amaro. «Tracce di benzina o materiale infiammabile?». «Niente di niente. Con un gruppo di volontari avevamo ispezionato il perimetro e l'interno senza trovare tracce di dolo. Se sono stati dei piromani, hanno fatto un lavoro coi fiocchi, infatti stavamo facendo setacciare ancora la zona con dei gruppi di lavoro settimanali, poi Smith ci ha detto di stamattina». «Sì» fece Conley, «Frank Bellamy mi ha chiamato, hanno trovato una tenda con un po' di sangue, ci stiamo lavorando io e Dwayne». L'ultima cosa che voleva fare Conley era coinvolgere due soggetti come loro in una questione così delicata, per il resto, non aveva dubbi che, grazie a Betty, fossero già tutti a conoscenza di cosa bolliva in pentola. Quando finalmente poté avvicinarsi al suo ufficio vide, attraverso le tendine, una sagoma appollaiata a terra con le gambe incrociate e Smith lo mise in guardia. «Capo, mi scusi, ma stamattina non c'è stato modo di mandarlo via» disse imbarazzato, «prima che Perry e Clarckson perdessero la pazienza, l'ho fatto accomodare da lei, ma se vuole... ». Conley lo ringraziò con uno sguardo, il disturbo che poteva dargli fare le solite due chiacchiere con lo sciamano Amitola, ormai era una routine irrinunciabile «se non lo vedessi qui tutti i giorni mi mancherebbe come una buona tazza di caffè forte». «Ci penso io» lo anticipò il giovane agente. «Portane due».


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Amitola, in lingua Sioux, significava arcobaleno e la leggenda diceva che fu il nome dato al primo capo indiano che dipinse a colori tra le nuvole del cielo. Tobias Frasier era convinto di esserne la reincarnazione e tutti i santi giorni, per ordine di qualche strampalata divinità, si presentava in Centrale, fatto di qualche sostanza allucinogena, cantilenando una filastrocca indiana senza senso. Conley entrò nell'ufficio che profumava di vecchi mobili di legno e appese il cappello sul corno di una testa di bufalo fissata alla parete. La canzoncina di Amitola era un insieme di suoni gutturali quasi ipnotici e lo sciamano si stava esibendo con lo sguardo rivolto verso l'unica finestra illuminata dal sole. «Ahooo mitakuyeee oyasinnn... ahooo mitakuyeee oyasinnn... ». Jimmy gli si inginocchiò di fronte misurando la dilatazione le pupille. Non era neanche lontanamente un Sioux, i suoi lineamenti tradivano origini Californiane: capelli biondi raccolti in lunghe trecce e pelle cotta dal sole con rughe da uomo sui cinquanta. Forse il suo caso era un rigurgito di new age anni settanta, compresi dei tatuaggi più moderni tra cui spiccava una piramide con l’occhio divino sulla punta. Conley non aveva mai ritenuto necessario arrestarlo per possesso di stupefacenti o disturbo della quiete pubblica. In fondo, il personaggio era folcloristico e innocuo, tutti sapevano che viveva in un camper ma non stanziava mai nello stesso posto, la sua preghiera itinerante era arrivata da quelle parti lo stesso anno in cui la famiglia Conley si era trasferita a Manson e da allora non si era più mosso, vedendo nel Capo della Polizia locale un insolito riferimento. «Come va oggi, sciamano?». Amitola continuò a cantare, ripetendo sempre lo stesso ritornello su tonalità diverse. «Oggi non è esattamente una buona giornata per la nostra chiacchierata» continuò sperando di fargli capire che il tempo a sua disposizione era davvero poco. In quel momento entrò Smith con due tazze di caffè caldo e Conley gli fece segno di appoggiarle a terra e di sedersi insieme a loro a formare un triangolo.


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Un inspiegabile impulso gli si fece largo nella mente. «Tobias, la notte scorsa abbiamo trovato la mano di un uomo appesa al centro di una tenda in mezzo al bosco, vicino alla laguna di Toloo. Per caso tu ne sai qualcosa?». Mentre gli poneva la domanda si sentì un idiota ma chissà mai che, per una volta in dieci anni, anche Tobias Frasier avesse qualcosa di sensato da dire. Amitola smise subito di cantare e spostò lo sguardo dalla finestra a Conley. Lentamente si alzò in piedi e se ne andò verso l'uscita della Centrale, con Perry e Clarckson che dalle loro scrivanie commentavano scuotendo la testa «e anche stamattina il circo smonta le tende. Scommetto che il bosco se l'è fumato lui. Una bella ripassata non gli farebbe male». Smith inarcò le sopracciglia in attesa di vedere qualche altra bislaccheria. «Rilassati figliolo» fece Conley chiudendo la porta e avvicinandosi alla cartina topografica di Manson appesa al muro, «sono solo le due del pomeriggio e ne ho già viste di tutti i colori». «Mattinata pesante, signore?». Ecco perché gli piaceva quel ragazzo, perché sapeva porre le domande giuste per capire se quello che gli era arrivato all'orecchio era vero. Sarebbe diventato un buon Capo della Polizia. «Un bel guaio, senza dubbio un bel guaio» rispose Conley puntando l'indice sul terreno di Joe Jackson che era davvero a un tiro di schioppo dal bosco. «Effettivamente non regge molto la versione del contadino, come può non aver visto o sentito puzza di fumo?». A dirla tutta, Smith era interessato all'altra faccenda, questo era chiaro, ma Conley voleva dimostrarsi più furbo di lui. «Capo, io mi riferivo alla mano mozzata e a quel lago di sangue» si interruppe accorgendosi che il suo superiore lo fissava con uno sguardo di resa. «Vedo che ne sai quasi più di me» lo rimproverò bonariamente «comunque, non è detto che le due siano scollegate ed è proprio quello che vorrei scoprire. Probabilmente si tratta di qualche indiano fuori di testa, ma quello che mi preoccupa non è la mano mozzata quanto il suo proprietario». Ci ragionò qualche secondo, poi gli venne un’idea. «Visto che sei già al corrente di tutto, e di questo dovrò ringraziare Betty, ti do il compito di


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sentire gli ospedali di Boise, di Preston e di Twin Falls. Chiedi se qualcuno si è presentato con una mano in meno, ma senza sollevare troppo polverone e soprattutto evita di farti sentire dai tuoi colleghi, teniamo questa storia più riservata possibile, mi sono spiegato?». Smith fece cenno di chiudersi le labbra ermeticamente. «Conosco dei ragazzi alla Centrale di Boise». «Prenditi un paio di giorni fuori sede, meglio evitare che la cosa passi di bocca in bocca. Vai a parlare direttamente con chi lavora al pronto soccorso, ma con discrezione. Se un pellerossa ha deciso di passare al creatore non saremo certo noi a rovinargli la cavalcata nella prateria celeste. La cosa importante è assicurarsi che non ci sia sotto dell'altro, ma di questo parlerò con Dwayne, appena lo trovo» disse allungando il collo verso il piccolo ufficio di fianco al suo che era vuoto.


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«Vecchio bastardo» fece Perry a denti stretti. «Conley non è poi così vecchio, ma concordo sul bastardo» gli fece eco Clarkson. «Guarda qua, ci ha messo di pattuglia per i prossimi due giorni mentre Smith e quel fuori di testa di Dwayne cosa fanno?». Non gli andava proprio giù di farsi tenere la testa sotto la sabbia dal suo Capo come se non fosse in grado di fare il suo lavoro. E poi, quel suo modo sempre accondiscendente, sempre morbido con tutto e tutti, prima o poi li avrebbe mandati in malora. «Non si fida di noi, questa è la verità. Non vuole far emergere la fogna che sta diventando questo posto. Guarda là» fece cenno indicando la tavola calda da Tracy «credi che quei camionisti si fermino tutti i giorni per le uova strapazzate? La figlia di quella vecchia megera fa le marchette nel retrobottega, lo sanno tutti in città e non facciamo niente» disse mentre la volante della Polizia svoltava lentamente in South Street. Il collega si mosse, un po' a disagio, sul sedile del passeggero. Perry sapeva benissimo che anche lui aveva fatto un giro da quelle parti. La piccola Jane era una risorsa interessante in un luogo dove non succedeva molto e dove il tempo scorreva lento. «Per non parlare di questi maledetti indiani» disse Clarkson con il gomito fuori dal finestrino, «il prete ha messo su un tugurio per alcolizzati, altro che rifugio dormitorio». L'Opera di San Tommaso guidata da padre Brody sorgeva in uno stabile che un tempo era stata una fabbrica di bottoni e uno dei suoi sponsor era Richard Stone, l'unico riccone di Manson che teneva sotto scacco la giunta comunale e non solo. «L'ho detto mille volte al signor Stone, ma preferisce che la mano d'opera delle sue manifatture tessili abbia un posto dove potersi dare alla pazza gioia. Se dobbiamo dare una raddrizzata a qualcuno, ci dice lui chi


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e quando, ma senza uniforme addosso e sai cosa ti dico? Un po' di extra fanno comodo e aiutano a rilassarsi» sogghignò Perry. La volante aveva raggiunto le prime campagne a sud della cittadina e poco prima che i due decidessero di fare inversione, in lontananza, videro la polvere sollevata da tre motociclette che tagliavano l'orizzonte dirigendosi verso la vecchia cava, interdetta al pubblico, di Silver Peak. Clarckson strabuzzò gli occhi. «Ma quello non è Fred Conley con i suoi amichetti?». «Proprio così» ingranò freneticamente la marcia Perry «quei sorci ne hanno in mente una delle loro e io non me la voglio perdere». La cava era stata la gallina dalle uova d'oro, nel vero senso della parola, del patriarca della famiglia Stone fino ai primi anni del novecento, quando, a seguito della rivolta dei minatori che scoppiò un po' in tutto lo stato, venne chiusa e fatta saltare in aria. La voragine, aperta nel terreno, aveva le sembianze di un grande cratere del diametro pari a quello di un piccolo lago. Al centro erano rimasti i ruderi delle baracche degli operai che erano servite per buttarci dentro vecchi carrelli di metallo, attrezzi rudimentali e rotaie pronte all'uso per allungare quel serpente sotterraneo di cunicoli da cui estrarre l'oro. Tutti i ragazzi di Manson si erano avventurati almeno una volta a Silver Peak a prendere a sassate qualche vecchio rottame o a infilarsi in qualche cunicolo che era rimasto aperto, per portarsi a casa cimeli arrugginiti o semplicemente per sbirciare il sottosuolo. Questo almeno fino agli anni sessanta, quando una ragazzina era rimasta irrimediabilmente sepolta sotto le macerie. Nei decenni la storia era passata di bocca in bocca, tramandata come un monito per i bambini, esattamente al pari dell'uomo nero “se non fai il bravo, arriva il fantasma di Silver Peak e ti porta giù nelle caverne!” e inizialmente molti ne rimanevano talmente terrorizzati da farsela nei pantaloni. L'effetto si affievolì molto nelle generazioni successive e per uno come Freddy non c'era posto migliore dove passare il tempo se non la, dove nessuno voleva andare. «Ehi Krueger, questa storia non mi piace». Era Big Boy, all'anagrafe Jr Stone, il nipote di Richard Stone, la garanzia per tutto quello che succedeva alla vecchia cava. Ogni volta che faceva storie, ci voleva sempre un incentivo per convincerlo e lui ci marciava.


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Come una specie di scambio tra amici, lui copriva il gruppo, specialmente Freddy, e poteva ottenere sempre qualcosa in cambio. Buon sangue non mente, se era il nipote di Stone, una piccola parte del DNA da affarista doveva averlo anche lui. «Jr non piagnucolare, stavolta l'onore sarà tuo» lo derise Freddy soffiandogli un bacio dal palmo della mano. «Non chiamarmi Jr e poi di che onore parli, ieri ve la siete spassata tu e Mr Anatra qui dietro, vero quack quack Tommy?». Il figlio del gelataio sollevò il dito medio, «fottiti Stone!», e si avvicinò a Big Boy con fare minaccioso anche se l'altro, non a caso, portava quel soprannome perché pesava cento chili, giusto una sessantina più di Tommy che si trovò a prendere a spintoni il muro di gomma costituito dalla sua enorme pancia flaccida. «Smettetela idioti!» li richiamò Freddy «se vogliamo divertirci tutti e tre, non dobbiamo perdere tempo». Così sistemarono le moto da cross dietro una grande roccia e imboccarono il sentiero sterrato che correva tutto intorno alla cava. Il sole era ancora alto e rendeva l'enorme voragine un vero e proprio catino incandescente. Sulle sponde si intravedevano gli ingressi ai cunicoli, molti crollati, alcuni sigillati da colate di cemento e altri chiusi alla buona con assi di legno. Gli ultimi ragazzini di Manson che si erano avventurati, prima che la zona venisse interdetta a causa della tragedia, avevano scavato dei buchi dove c'erano le vecchie entrate, ma Freddy e i suoi amici, avevano scoperto delle prese d'aria, sulla spianata intorno alla cava, che scendevano in verticale come dei pozzi, fino a congiungersi alle gallerie. Prima di abbandonare il sito, tutti quei tunnel erano stati tappati, ma la rete di gallerie era talmente estesa che alcuni, ricoperti dai rovi, non vennero notati. I tre si calavano giù con una corda e l'ultimo a scendere era sempre Big Boy. «Perché sempre io, cazzo!». «Te l'ho già spiegato, almeno un centinaio di volte» disse Freddy irritato. «Sei grasso, ci passi a malapena e se rimani incastrato o la corda si spezza, non voglio trovarmi sotto al tuo culo». «Sei solo uno stronzo Krueger» disse mentre Mr Anatra era già sparito in quel piccolo buco del cesso.


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«Ma certo Sua Santità, intanto noi andiamo a scaldare l'ambiente» lo stuzzicò Freddy balzando nel cunicolo, «però sbrigati, o perdi il tuo turno... Junior» rise a crepapelle e la sua testa scomparve nel terreno. Big Boy lo maledisse e fu tentato di tagliare la fune e lasciar marcire quei due pezzenti sepolti vivi, ma Freddy era andato di testa, sarebbe stato capace di sopravvivere mangiandosi Tommy e, una volta fuori, lo avrebbe cercato per scuoiarlo con le sue stesse mani. Dopo qualche minuto, come d'accordo, iniziò a scendere. Ogni volta era una fottuta agonia, il diametro del pozzo era strettissimo per lui, il rischio di rimanerci incastrato era concreto e spesso, specialmente d'estate, se ne tornava a casa pieno di abrasioni dovute alle rocce appuntite che ne rivestivano le pareti. Il vero problema però era la risalita. Se in discesa si limitava a lasciar scorrere le mani sulla corda, per issarsi doveva muovere braccia e gambe e questo non era possibile. Così dovevano essere sempre quei due stronzi a tirarlo fuori, legando la fune alla moto per non fare fatica. Comunque il gioco valeva la candela, con Nightmare non c'era pericolo di annoiarsi. I loro divertimenti potevano sembrare un po' “estremi” ma in fondo bisognava pur essere capaci di viverci in un posto come Manson senza impazzire dalla noia. Nightmare e Tommy avevano apparecchiato tutto per passare un paio d'ore di puro divertimento. La presa d'aria arrivava proprio in un punto della galleria che veniva usato come refettorio dai minatori. Una camera scavata nella roccia che si apriva lateralmente a uno dei tanti tunnel che cominciava alla cava e sbucava chissà dove. Ci avevano trovato sedie, posate e contenitori metallici per il cibo, lampade a olio e un grande tavolo di legno di quercia. Avevano riorganizzato quelle cianfrusaglie e ora sembrava di essere nella cripta di un monastero, con il suo altare e la luce soffusa delle fiammelle alimentate dall'olio. Quando Big Boy arrivò a destinazione, l'aria era appena respirabile. I gas del sottosuolo avevano impregnato gli ambienti e i ragazzi avevano dovuto isolare la stanza dalla galleria con dei teli di plastica per consentire al pozzo il ricambio di ossigeno. La luce era molto bassa e la visibilità era minima, tuttavia Big Boy percepì subito gli occhi di qualcuno puntati su di lui.


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«Ehi Big Boooyyy, non ti sarai mica cagato sotto, vero?». Freddy e Tommy si muovevano nell'ombra, le loro voci rimbombavano come se venissero dall'aldilà. Si misero a girare intorno al tavolo come in una danza e intanto Jr Stone cominciava a sudare, con il cuore che gli batteva all'impazzata. Su una sedia, Freddy aveva posato i suoi giocattoli, una serie di coltelli che facevano venire i brividi. «Bene ragazzi, vi ricordo come funziona» la voce sghignazzante di Krueger si fece metallica come una spazzola d'acciaio passata sulla carrozzeria di una macchina. Tommy ingoiò un sorso di birra e lanciò una lattina anche agli altri «Big Boy rilassati, altrimenti facciamo notte» rise dell'amico. «Zitto coglione, so benissimo cosa devo fare!» disse l'altro cominciando ad armeggiare con la chiusura dei pantaloni. «Calma socio» lo fermò Freddy «non sei tu a scegliere» e girandosi verso il tavolo, prese con arroganza il lembo del plaid che copriva il corpo femminile e lo mise a nudo. Poi le si avvicinò al volto e disse: «è lei che decide: o un taglio o una scopata con Big Boy e la scelta è... ?». Freddy si divertiva a far crescere la tensione e a tirarla per le lunghe, ma quello era il bello del gioco e quando la risposta fu «tagliooo!», gridò come per festeggiare la cosa più bella del mondo. Big Boy non la prese per niente bene, si pregustava la sua sana scopata e non se la sarebbe fatta rovinare da una puttana. «Vaffanculo!» disse. «Non me ne frega un cazzo delle tue fottute regole!». Si calò i pantaloni, buttò giù una lunga sorsata di birra e salì a quattro zampe sul vecchio tavolo di legno di quercia.


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7.

Dwayne McGrady era arrivato a Manson un anno dopo Conley, aveva fatto la fine del verme nella Tequila, tutti si erano nutriti di quello che il suo corpo aveva prodotto, lo avevano spremuto fino all'ultima goccia, ma una volta toccato il fondo della bottiglia, nessuno aveva avuto il coraggio di ingurgitarselo. I federali lo avevano consegnato a Conley con un curriculum che faceva spavento. Il suo talento nelle indagini e la capacitĂ di vedere oltre quello che vedevano tutti era innato. Laureato in Scienze Criminologiche applicate col massimo dei voti, carattere introverso, all'accademia di Polizia si era distinto per una tesi sulla psicologia criminale e per un'eccellente precisione al poligono. Conosceva quattro lingue: spagnolo, russo, cinese e ovviamente inglese. Nel periodo di servizio presso il Federal Bureau of Investigation era stato encomiato per la partecipazione attiva a diverse operazioni top secret. Nel lungo elenco delle qualitĂ di Dwayne non era stato specificato che era un notevole bevitore di scotch oltre che un consumatore altrettanto superbo di marijuana e, di tanto in tanto, droghe sintetiche. Conley si era spesso domandato il motivo di un'autodistruzione di quelle proporzioni e gli risultava difficile credere che i federali si fossero arresi davanti alle problematiche esistenziali di un talento come lui. La cosa che per Jimmy contava maggiormente era tenere sotto controllo questi suoi eccessi, fare in modo che si integrasse nella comunitĂ , che alla Centrale venisse rispettato il giusto e magari, in un clima meno frenetico di quello a cui lo avevano sottoposto al Bureau, avrebbe trovato una donna per mettere su famiglia. Erano passati nove anni e Conley era ancora fermo al primo gradino: tenerlo d'occhio.


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Mentre bussava inutilmente alla porta del Motel dove alloggiava ormai stabilmente, chiuse gli occhi e inspirò una profonda boccata d'aria. «Dwayne, sei in casa? Mi senti? Dwayne!». Il proprietario del Motel era un portoricano con i capelli impomatati, non era di Manson e aveva scelto appositamente di aprire un affitta camere appena fuori da una città che non conosceva, proprio per fare cassa con tutti quelli che da quella città volevano evadere e da quelli che non ci volevano mettere piede. «Il gringo c'è!» disse a voce alta superando i decibel del piccolo televisore su cui trasmettevano una partita di baseball. Conley si tolse il cappello e poggiò la testa alla porta sconsolato. Gli era capitato molte volte di non trovarlo in casa o di vederlo sparire per giorni, quindi tentò di scacciare il pensiero fisso che il suo vice si fosse di nuovo fatto prendere la mano con la marijuana. «Ehi, amigo!» lo chiamò il portoricano, «mi ha detto che aveva sete e lasciava la porta aperta». Jimmy fece un cenno di ringraziamento e ruotò la maniglia in senso anti orario. La zaffata di alcolici e aria viziata lo travolsero e la porta risultò più pesante del previsto a causa di una sedia che la teneva maldestramente bloccata dall'interno. La luce del bagno, sul fondo della camera, si accendeva e si spegneva a intermittenza. Nella penombra, mentre avanzava con cautela, prese a calci due bottiglie che stavano a terra, vide le pareti rivestite di fogli di giornale su cui erano stati disegnati simboli e scritte, come appunti presi a casaccio su tutte le notizie del quotidiano della zona: il Words. Alcuni ritagli erano stati bruciati e delle lingue nere come il carbone salivano fino al soffitto. «Al padrone di casa questo non piacerà un granché» disse tra sé Conley. Dalla soglia del bagno, cominciò a sentire lo scatto dell'interruttore e, nei momenti di luce, vide la tenda della doccia imbrattata di vernice nera a simboleggiare croci di tutte le grandezze e orientate in maniera diversa. Istintivamente mise mano alla Beretta. «Dwayne, ci sei? Perché non mi sembra un bel modo di tenere un appartamento, non credi?». Non ottenne risposta, ma sentì chiaramente la presenza di qualcuno.


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Poco male se il macellaio della tenda aveva pensato di fare visita al suo vice, ma a lui le mani servivano ben attaccate al resto del corpo. Appoggiò la schiena al battente della porta, trattenne il fiato per due secondi e ruotò su se stesso spianando la pistola. Con l'indice che già premeva sul grilletto, gli si palesò un uomo nudo davanti al lavandino. «Cristo santissimo, McGrady!». Dwayne era voltato di spalle, con una mano accendeva e spegneva la luce, con l'altra disegnava una croce rovesciata sullo specchio appannato dai vapori dell'acqua calda che scorreva nel lavandino. «La conoscevi la storia di San Pietro, Jimmy?». La mano, che poco prima era impegnata con l'interruttore, prese una Bibbia aperta su una pagina del Nuovo Testamento. «Quando fu crocefisso chiese di essere messo a testa in giù poiché non si riteneva degno di subire la stessa passione di Gesù». Conley rimise la pistola nella fondina e si asciugò il sudore che gli aveva imperlato la fronte. «Credevo fosse un simbolo da setta satanica ma... senti Dwayne» si interruppe contrariato, «non ti sembra un po' eccessivo tutto questo?» chiese facendo ruotare l'indice mentre lui gli passeggiava davanti alla ricerca di qualcosa. «Pensavo di fare un salto da Joe Jackson. Il suo terreno è vicino al bosco, i ragazzi gli hanno già fatto visita ma qualcosa non torna. Magari se ci parliamo noi si scioglie un po'». Dwayne non lo degnò nemmeno di uno sguardo, appallottolò un paio di pantaloni e una camicia, li mise sotto braccio e uscì nel cortile come un nudista che attraversa con disinvoltura una spiaggia libera. Conley rimase lì come un fesso, con MacGrady conveniva aspettarsi questi slanci senza offesa, soprattutto perché il suo culo bianco transitava davanti alle facce divertite degli altri clienti del Motel. “Ok Dwayne, buongiorno anche a te” pensò.


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8.

Joe Jackson era un uomo d'altri tempi, uno che ti aspettava col fucile sulle gambe dondolandosi nella sedia preferita davanti alla porta di casa sua. I suoi antenati erano stati degli schiavi e quei terreni erano gli stessi dove si erano spaccati la schiena al suono della frusta dei bianchi. Quando si rovesciò il mondo e i negri conquistarono la libertà, i vecchi padroni vennero invitati a firmare il passaggio di proprietà in cambio della vita. Il granturco era alto e rigoglioso, nel giro di poche settimane sarebbe stato perfetto per il taglio. Quella terra vicino allo stagno di Toloo era sempre stata particolarmente buona e gli schiavi che l'avevano arata per tanti anni ne conoscevano il valore immenso. La Lincoln celeste, una volta abbandonata la statale, si infilò in una strada laterale, uno sterrato quasi invisibile che solo chi era del posto poteva scorgere. Al loro passaggio, un trattore che si muoveva in mezzo alla campagna si fermò. Un uomo alla guida e una donna che lo seguiva a piedi, si misero a guardarli sollevando la tesa del cappello di paglia che portavano in testa. Quando Joe li vide scendere dall'auto si alzò in piedi e si sporse dalla balaustra senza perdere la presa sul fucile da caccia. «Sei il Capo Conley?» chiese sapendo già la risposta. Jimmy si toccò il cappello in segno di saluto e si avvicinò con cautela alla veranda rialzata. Se voleva superare il muro di scetticismo che il vecchio Joe riservava a tutti i bianchi che varcavano il suo podere, era meglio presentarsi dal gradino più basso, lasciando che fosse lui a tendere la mano. Sicuramente la visita di Perry e Clarckson non era stata gradita ed era un miracolo che il fucile fosse ancora poggiato sotto le sue mani anziché puntato verso le loro facce.


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«Allora Jackson, che si dice?». «Dico che quando vedo per due volte in un mese la Polizia venire a casa mia non mi piace affatto». La sua voce era quasi afona, aveva respirato tanta di quella polvere lavorando in campagna, che le corde vocali gli si erano rinsecchite facendolo sembrare più vecchio di quel che era. In quel momento una donna tutta nervi e magra come un chiodo si affacciò dalla porta a zanzariera. «Se siete qui per quell'incendio, abbiamo già detto tutto a quei due stronzi bianchi che lavorano per voi. Noi non ne sappiamo niente e non abbiamo visto niente, né fumo, né fiamme, niente». Si prospettava una chiacchierata breve e piena di monosillabi, tuttavia Jimmy voleva vederci chiaro e sentire con le sue orecchie che un incendio boschivo a un miglio da lì, non venisse minimamente percepito. In altri mille casi sarebbe stato naturale pensare che, i proprietari del terreno confinante, avessero deciso di espandere i loro possedimenti appiccando il fuoco in modo doloso, magari con l'aiuto di qualche professionista. Se riuscivano a convincere le forze dell'ordine che non c'entravano nulla, l'anno successivo avrebbero presentato richiesta al comune per bonificare la zona a loro spese in cambio dell'usufrutto per renderla coltivabile. Ma Joe non era quel tipo di agricoltore avido, lui era uno che proteggeva il fortino, che se doveva scegliere tra espandere il suo regno e rinforzare le mura, avrebbe optato senza dubbio per la seconda soluzione. Conley sorvolò sui gentili aggettivi, della moglie di Joe, riferiti ai suoi agenti e provò a intavolare un discorso. «Mi dispiace essere tornato ma purtroppo alla Centrale ci siamo ritrovati un bel guaio per le mani. Forse, dopo l'incendio, qualcuno è andato laggiù e insomma... » esitò ma decise di raccontare parte della verità per valutare le reazioni dei Jackson, «una persona potrebbe essere stata ferita gravemente». Joe si rabbuiò, mentre la moglie non fece una piega, anzi, non parve minimamente sorpresa. «Noi qui ci spacchiamo la schiena da mattina a sera per il raccolto, i miei figli si alzano alle quattro e rimettono piede in casa quando è già buio. L'unico che può sparare sono io, ma grazie a Dio, gli unici colpi che ho esploso con questo fucile sono serviti per i corvi, quindi no, se è questo


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che volete sapere, nessun Jackson ha ferito o ucciso nessuno in mezzo a quel bosco». Poi si voltò verso il campo adiacente alla casa. «E quello chi è?». Dwayne si era addentrato nel granturco alto quasi due metri issandosi fino alla cima di uno spaventapasseri. Una leggera brezza gli muoveva i capelli e sembrava stesse rimirando il paesaggio e le irraggiungibili montagne all'orizzonte. Poi scese e si avvicinò a Conley che gli diede una squadrata per capire esattamente cosa non avesse inteso quando nel tragitto gli spiegava di non risultare irritante come suo solito. «C'è sempre questa brezza al tramonto?». La signora Jackson rispose: «viene giù dalle montagne e si porta dietro l'umidità dello stagno, di notte rinfresca e di giorno sparisce. Senza questo, il grano seccherebbe prima di maturare e non avremmo abbastanza acqua per irrigarlo». Dwayne annuì e Conley fece le presentazioni «lui è il mio vice McGrady, forse l'avete già visto». «Neanche per sogno» disse Joe, «però ne ho sentito parlare da mia nipote. Alcuni ragazzi in città dicono sia un tipo strano». Tutto sommato era un buon passo avanti che le dicerie sul suo vice si limitassero a quello. A quel punto Dwayne si avvicinò a Conley e gli sussurrò all'orecchio «il bosco divide Toloo da questa casa e l'incendio dovrebbe essere divampato proprio dopo il tramonto». Era chiaro dove volesse arrivare. Qualcuno nascondeva qualcosa, ma era inutile insistere con Joe e sua moglie. Dovevano provare piste diverse. Mentre Conley si grattava la testa come faceva sempre quando cercava una soluzione, dal retro della casa spuntò una ragazza sui vent'anni che, ignara della visita, si stava sistemando i lunghi capelli ricci e srotolava le maniche della camicia a quadrettoni per chiuderle ai polsi. «Ehi signorina, dove diavolo eri finita?!» le rinfrescò subito le idee la nonna. «Tua madre e tuo zio sono al lavoro da ore!». La ragazza rimase di stucco, non tanto per i richiami della vecchia, quanto per la presenza della Polizia.


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A Conley e Dwayne bastò uno sguardo, ma il Capo dovette prenderlo quasi di peso per portarlo alla macchina evitando di importunare la nipote dei Jackson. Quando furono a distanza di sicurezza dalla casa, Jimmy accostò e si rivolse al suo collega. «La persona giusta a cui fare le domande è sicuramente lei, si chiama Ruth se non sbaglio, ma dentro il fortino dei Jackson, valgono le loro regole: non parlerebbe. Se conosce dei ragazzi a Manson vuol dire che la aspetteremo fuori dal guscio e forse sarà più loquace». Dwayne continuava a guardare avanti, come assorto nei suoi pensieri. «Mi stai ascoltando?» chiese Conley irritato. «Scendo» gli rispose «se l'assassino ha camminato da qui fino alla tenda, voglio vedere quello che ha visto lui». «Di quale assassino parli? Per ora non abbiamo nessun assassino perché non abbiamo una vittima ma solo una mano, quindi non dobbiamo correre ma attenerci ai fatti e... » mentre terminava la frase, Dwayne era già due passi fuori dalla Lincoln e si avviava a grandi falcate senza ascoltarlo più. «L'ha rifatto» disse tra sé esasperato «se n'è andato di nuovo mentre stavo parlando, cazzo!». Ingranò la marcia e riprese a guidare, sperando che quella giornata arrivasse velocemente al capolinea.


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9.

Il quotidiano della città, il Words, era nato con lui e probabilmente sarebbe morto con lui, un po' com'era successo con il giornalino del liceo di Manson. Eugene Finnegan era il fratello minore di Elizabeth, meglio conosciuta come Betty, la receptionist della Centrale di Polizia. Questa parentela stretta era una gran rottura di scatole ma al tempo stesso un'occasione che gli aveva permesso di essere il primo a sapere che nelle fogne di Manson era stato trovato il corpo di una donna morta negli anni settanta, oppure che l'ala est del Comune era stata costruita abusivamente o ancora, che la biblioteca sorgeva sulle rovine di un orfanotrofio dove si erano consumati abusi sui minori all'inizio del secolo. Queste erano solo alcune delle soffiate sensazionali degli ultimi anni. Ma lo scoop del momento era la profanazione di tombe che da un paio di mesi teneva tutti col fiato sospeso “ ...chi ha dissotterrato il corpo di Virginia Cole? Gli indiani hanno ripreso vecchi riti di magia nera?”. Questo almeno fino a quella mattinata dell'undici di giugno. Eugene inseguiva quella notizia come un cercatore di diamanti brama la sua gemma e, mentre guardava le foto sul suo laptop, Samantha Iggins gemeva come una puledra sotto di lui e più fantasticava su cosa fosse successo in quella tenda nel bosco, più affondava e spingeva con il bacino tenendole le gambe larghe. Era inebriato da quella miscela tra il profumo di sesso e il gusto di una verità intrisa di sangue. «Dio sì! Non fermarti, cazzo, non fermarti!» gridò lei appena prima di perdere il controllo. «Non mi fermo, baby!» ansimò lui mentre cliccò sullo scatto successivo che gli mostrava la mano mozzata. «Oh sì cazzo, sì, baby!» ed esplose dentro di lei con la ferocia di un vulcano in eruzione. Il caldo soffocante della camera oscura aveva reso i loro corpi sudati fradici e Eugene si capovolse di fianco a Samantha respirando


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affannosamente come uno scalatore che aveva raggiunto la vetta dell'Himalaya. Subito dopo scoppiò in una risata quasi demoniaca, mentre la sua segretaria, nonché moglie, raccoglieva il lenzuolo intorno alle parti basse. «Non è normale eccitarsi così per una specie di macabra sequenza fotografica, lo sai vero Finnegan?». Lui schizzò in piedi, non del tutto sicuro di quello che aveva sentito. «Cosa? Samantha questa roba arriva direttamente dai laboratori della sezione scientifica di Boise, la capitale dell'Idaho, il quarantatreesimo stato federale degli Stati Uniti d'America! E tu la chiami “specie di sequenza fotografica?”. Sei fuori di testa baby, potrei licenziarti per questo». «Punto uno, tu non puoi licenziarmi perché sono tua moglie e punto due, non andare a infastidire nessuno» fece Samantha. Eugene era euforico, iperattivo, non stava più nella pelle e guardò la moglie come si guarda una povera stolta che non sa quel che dice. «Amore mio, io non infastidirò nessuno. Io sarò il loro incubo!» esclamò infilandosi i pantaloni. «Mi attaccherò a tutto il distretto di Polizia di Manson, li pedinerò, li intercetterò, metterò i piedi dove li mettono loro, gli strapperò gli occhi per vedere quello che vedono loro e se servirà gli succhierò il sangue pur di dare a questa gente, alla nostra gente, una notizia che tutti ricorderanno!». In quell'istante, dalla tenda che divideva la camera oscura dalla redazione, la testa di un giovanotto occhialuto fece capolino. «Volete finirla di urlare?». Poi vide la branda disfatta. «Oh mio Dio no, l'avete fatto di nuovo? Io ci dormo in quel letto!» disse adirato Felton Buckannan, il loro giovane aiutante nerd, il cui stipendio comprendeva vitto e alloggio, valeva a dire, un buono panino più bibita da Tracy e una branda nel retro della redazione del giornale. «Suvvia Felton non fare il bigotto, piuttosto, guarda qui» disse Eugene raccogliendo la sua squadra intorno al monitor del computer. «La nostra talpa... ». «Betty, tua sorella» lo interruppe, acida, Samantha «la conosciamo tutti e se sapesse che la chiami talpa si offenderebbe». Lui chiuse gli occhi pazientemente. «Dicevo, la nostra talpa Betty ha ricevuto stamattina queste foto della scientifica riguardo una tenda che è stata trovata nel bosco vicino allo stagno di Toloo.


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«Quello dell'incendio» confermò Felton. «Esatto, proprio lui. Be’, in mezzo alla cenere, la squadra dei volontari di Bellamy ha fatto questa bella scoperta». Le immagini scorrevano e mentre Felton strabuzzava gli occhi dallo stupore, Samantha quasi se li copriva alla vista del sangue. «Credo che andrò in bagno a vomitare» fece lei. «Wow» esclamò il ragazzo, «questa è roba grossa Finnegan!». «Puoi dirlo forte» disse, «voglio che voi due vi attacchiate al culo di ogni singolo abitante della città che può sapere qualcosa, mentre io mi lavorerò la Polizia». «Credi che c'entrino gli indiani?». «Gli indiani, i terroristi, la CIA, i comunisti, tutti! In mezzo ci può essere chiunque e io voglio saperlo prima degli altri». Felton annuì senza perdersi in chiacchiere, corse alla sua scrivania, raccolse cellulare e taccuino, li infilò nella borsa a tracolla e si precipitò fuori non prima di aver cestinato l'inutile bozza di un articolo di apertura sui profanatori di tombe. Ad aspettarlo all'esterno della palazzina a mattoni rossi che dava sulla piazza centrale, c'era la sua inseparabile bicicletta. In quel momento, la Lincoln celeste del Capo Conley gli passò davanti e questi gli lanciò uno sguardo carico di interrogativi, così Felton si sbrigò a pedalare, destinazione: la fattoria dei Jackson. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

1. ..................................................................................................... 3 2. ..................................................................................................... 6 3. ..................................................................................................... 8 4. ................................................................................................... 12 5. ................................................................................................... 15 6. ................................................................................................... 21 7. ................................................................................................... 26 8. ................................................................................................... 29 9. ................................................................................................... 33 10. ................................................................................................. 36 11................................................................................................... 40 12. ................................................................................................. 46 13. ................................................................................................. 51 14. ................................................................................................. 57 15. ................................................................................................. 61 16. ................................................................................................. 64 17. ................................................................................................. 70 18. ................................................................................................. 76 19. ................................................................................................. 80


20. ................................................................................................. 84 21. ................................................................................................. 89 22. ................................................................................................. 92 23. ................................................................................................. 96 24. ............................................................................................... 100 25. ............................................................................................... 106 26. ............................................................................................... 109 27. ............................................................................................... 115 28. ............................................................................................... 117 29. ............................................................................................... 120 30. ............................................................................................... 123 31. ............................................................................................... 126 32. ............................................................................................... 130 33. ............................................................................................... 134 34. ............................................................................................... 138 35. ............................................................................................... 142 36. ............................................................................................... 146 37. ............................................................................................... 151 38. ............................................................................................... 156 39. ............................................................................................... 159 40. ............................................................................................... 163 41. ............................................................................................... 166 Â


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Terza edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2020) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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