Magdalena, una tragedia borghese, Anna Maria Ceppo

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ANNA MARIA CEPPO

MAGDALENA

UNA TRAGEDIA BORGHESE

ZeroUnoUndici Edizioni


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MAGDALENA, UNA TRAGEDIA BORGHESE Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-546-2 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Aprile 2022


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CAPITOLO 1

L’alba della città le parve fredda. Non un muggito, né un chicchirichì. Solo la voce del merciaio ambulante, o il raglio d’un asino. Gli asinelli le facevano pena: sempre maltrattati, a testa bassa, con le lunghe orecchie penzoloni, rassegnate o vergognose. Un carretto passò davanti alla loro porta a pianterreno. Si sentirono le ruote stridere sulle dure pietre del selciato. Un uomo annunciò che riparava le pentole rotte. Magdalena aveva quattro anni. Da uno aveva perso il padre. Dopo la vendita della masseria, lei, sua madre e le sorelle si erano trasferite in città. L’unico figlio maschio era stato mandato a studiare in seminario. C’era stata una gran confusione prima della partenza. Tante pratiche da sbrigare e andirivieni dal notaio; e poiché le donne non erano abituate a sbrigare tali incombenze, alla fine la masseria era stata venduta per metà del suo valore. «Ragazze, è tardi! Dobbiamo accendere il forno» disse la madre alle sorelle grandi, mentre Magdalena restava sul pagliericcio un po’ di più perché era piccola. Tiravano avanti vendendo biscotti: taralli dolci con l’anice e la glassa, o salati con il finocchietto. Che differenza rispetto al paese! In casa vivevano raggomitolate in un buco di due stanze: una per dormire, l’altra per mangiare e vendere i biscotti. Quand’era ora di pranzo, anziché chiudere la porta – perché poteva sempre capitare qualche acquirente – abbassavano la tenda di perline per nascondere la tavola apparecchiata. In paese avevano abitato in una casa grande, a due piani, oltre allo scantinato e alla soffitta, o “stanza delle mele”. Sotto era ubicata la cucina, con gli utensili di rame appesi alle pareti e lucidati durante la Settimana Santa, per le pulizie di primavera; un enorme camino, la credenza azzurra dipinta a fiori rossi, piena di piatti spaiati, un pesantissimo tavolo di quercia, le sedie impagliate, il calderone di ferro dove si versava l’acqua per bere, e si usava anche per sciacquare le stoviglie e lavarsi.


4 Sopra, le camere da letto: quella matrimoniale, e una più piccola per il figlio maschio. La stanza delle ragazze, invece, era molto grande ma senza finezze, con tre cassapanche per i rispettivi corredi. A Magdalena piaceva salire in soffitta a sentire il profumo delle mele, disposte su strati di paglia che sembravano tappeti. Le piaceva di meno scendere nello scantinato, dove si conservavano botti di vino, prosciutti, provoloni e ogni altro ben di Dio. Nonostante fosse molto piccola, Magdalena conserva ancora ogni ricordo intatto nella sua memoria. Persino il colore della vestaglia in cui l’avvolgeva sua madre per portarla al caldo in cucina, la mattina presto. Viola, con un ampio collo sciallato. La madre, Giovanna, era temuta e rispettata dalle domestiche, riverita dai contadini, che si presentavano alla porta di servizio con il cappello in mano: «Ossequi a vossignoria.» Nonostante non fosse più la padrona, qualcuno dei vecchi sottoposti andava ancora a farle visita dalla campagna, portando cestini di ciliegie mature. In cambio non volevano niente, accettavano solo una tazza di caffè, ed era un onore per loro sedersi al tavolo con la signora che serviva il caffè. Solo a una cosa Giovanna non si era rassegnata: lavare i panni. Accumulava la biancheria sporca in una cesta, e un lunedì sì, uno no, chiamava la lavandaia del vicolo, Nunziatina, che andava al fiume a lavare la biancheria di tutto il vicinato. Le lenzuola uscivano belle pulite, sbiancate dal sole. I pannolini di Amalia, la sorella maggiore, che era diventata signorina, recavano sempre delle macchie scure. «Sono ancora sporchi» si lamentava donna Giovanna, ma poteva anche sbraitare, tanto nessuno l’ascoltava più. Un tempo era il terrore delle domestiche. «Per due soldi dovete accontentarvi» aveva la sfacciataggine di rispondere Nunziatina. Ogni sera, chiusa la porta di casa, le due sorelle grandi, sotto la sorveglianza di Giovanna, rammendavano calze, sottovesti e culottes al lume d’una candela. A Magdalena non era permesso uscire a giocare con i ragazzi di strada. Sentiva le voci squillanti delle bambine, che giocavano alla “settimana”, tracciando quadrati con i gessetti. «Perché io no?» si ribellava, ma Giovanna era irremovibile. Loro appartenevano a un’altra razza, a quella dei padroni, e anche se erano caduti in disgrazia, un giorno Rocco, il fratello, avrebbe riscattato il podere, o trovato un impiego per toglierle dalla miseria. Non studiava per diventare prete, gli mancava la vocazione. Studiava per ottenere un diploma: in seminario può entrarci chiunque. Si ha una buona istruzione,


5 s’impara il latino, quello scritto nel messale, ed è gratis, vitto e alloggio compresi. L’aria della città rende tutti uguali. Questo, Giovanna non l’ha compreso. La lavandaia era trattata con poco riguardo, e poteva comandare solo alle figlie. L’altro guaio della città è che i divertimenti sono pochi. L’unico avvenimento degno di nota era l’arrivo dei teatranti ogni quindici giorni. Per l’occasione ci si dava convegno in un fienile, e ciascuno portava la propria sedia. Giovanna indossava un cappotto blu e le volpi argentate d’inverno; l’abito di seta, la borsetta di lamé e le perle in estate. Era anche l’unica in paese a non doversi portare appresso la sedia. Gliela davano i teatranti come ospite d’onore. L’accompagnava Rocco, che andava pazzo per gli spettacoli. Mentre suo marito restava a casa insieme alle bambine, alle quali non era permesso quel genere di svaghi. Però, che bellezza stare a guardare il carrozzone! I cavalli erano bardati a festa. Rose di carta sul muso e finimenti dorati. Così come le attrici! Bardate più dei cavalli. Gonne lunghe alla caviglia, di colori accesi. Pellicce di gatto spelacchiato sulle giacchette corte, strette in vita. Stivaletti con i bottoncini, molti dei quali mancanti, e labbra truccate con il rossetto. Una vergogna per l’epoca. In mezzo alle sorelle maggiori, tenuta per mano, Magdalena si riempiva gli occhi di quella scena: le attrici a spasso e i paesani dietro, che le insolentivano con motti e lazzi per attirare la loro attenzione. Poi Rocco, la sera dopo lo spettacolo, raccontava la trama del dramma. Una bella vita! Una volta al mese, in piazza, si teneva la fiera. Accorreva gente anche dai paesi vicini. Che meraviglia le bancarelle, dove gli ambulanti vendevano di tutto! Nastri, stoffe, chincaglieria, stoviglie, statuette della Madonna e dei Santi. Giovanna si faceva strada tra la folla, le figlie la seguivano a vista. Poi venivano le domestiche incaricate di portare i pacchi, casomai la signora avesse trovato qualcosa di suo gusto. Non si tornava mai dalla fiera senza un regalino per le ragazze. Bambole di biscuit quand’erano piccole. Nastri colorati, scialli da mettere sulle spalle, uno scampolo di cotonina, quando cominciarono a crescere nella vanità.


6 I loro corredi erano stati affidati alle suore, abili ricamatrici. Appena un lenzuolo era pronto, le suore lo facevano recapitare, e Giovanna invitava a casa le amiche per sciorinarlo in giardino. Quanti “oh” d’ammirazione, mentre si distribuivano i pasticcini e – sommo lusso straniero! – le tazze di tè. Nelle sere d’inverno ci si riuniva intorno al camino, e la domestica più anziana raccontava le storie e faceva lavorare la fantasia. Principi, orchi e principesse danzavano tra le faville del fuoco. Fuori ululava il vento, spesso cadeva la neve. Dentro si stava al calduccio e si poteva immaginare il diavolo senza alcun timore. Nelle sere d’estate si ascoltavano i grilli. Buon per noi che l’estate dura poco!


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CAPITOLO 2

In effetti, molti particolari di quella vita felice Magdalena li apprese dai racconti delle sorelle. Molti, forse, se li inventò di sana pianta. Comunque, tutte e tre le sorelle convenivano sul fatto che la vita in città era scialba, monotona e priva di distrazioni. Le cose cambiarono quando Amalia, la più grandicella, si accorse degli sguardi dei giovanotti. La madre la mandava a comprare la farina – elemento indispensabile per la loro sopravvivenza – dal negozio di don Pietro. Doveva arrivare in fondo al vicolo, ma qualche volta si allungava fino al Duomo, poco distante. Se avesse tardato a tornare, chissà quanti rimproveri! Una domenica mattina erano andate a sentir messa alla Trinità. Avevano attraversato il corso principale a testa bassa, vergognose dei loro abiti modesti. La città era piccola ma ambiziosa. Le mogli degli impiegati sfoggiavano colli di pelliccia, come quelli che Giovanna aveva venduto. La gente si salutava a gran voce, formava crocchi che ostacolavano il passaggio, si godeva la passeggiata domenicale, che serviva soprattutto a mettere in mostra le facciate del perbenismo borghese. Loro non conoscevano nessuno. Erano estranee, esuli dal paradiso, non considerate perché venivano dalla campagna. Occhieggiarono furtivamente le vetrine: fiori di stoffa su sciarpe drappeggiate, preziosi pezzi di porcellana. Le gioiellerie avevano la saracinesca abbassata. Non poterono permettersi il gelato al Gran Caffè di Piazza Prefettura, meta ultima della passeggiata. Durante il breve percorso mattutino, Amalia notò lo sguardo dei giovanotti posarsi con insistenza su di lei. Da principio ne fu sorpresa, quasi spaventata. Ricordava gli ammonimenti della madre quando aveva scoperto il sangue sulle mutandine: «Sei diventata signorina, perciò d’ora in poi devi stare attenta. Se qualcuno ti chiama per strada, non ti fermare. Gli uomini aspettano solo che una donna gli cada tra le braccia. E sai qual è la conseguenza? Ti ritrovi incinta, o, nel caso migliore, con una cattiva nominata, per cui nessuno vorrà sposarti.» Giovanna si era trasferita in città con la speranza di far sposare le figlie. Non avevano più dote, neanche corredo, ma forse la gente di città aveva


8 una mentalità meno gretta che in paese, e qualche giovane onesto magari si sarebbe accontentato dei sani principi e della buona educazione in cui le aveva allevate. Amalia, infatti, corse dalla madre a raccontarle che i giovanotti del bar la guardavano. «Dei fannulloni perdigiorno!» li bollò Giovanna, e proibì alla figlia di passare davanti al bar. Fu così che Amalia cambiò itinerario. Doveva fare un lungo giro per evitare i molestatori, i quali, a dire la verità, si erano limitati a larghi sorrisi, a qualche cenno di recondito significato. La nuova strada le fece scoprire la Boutique di Madame Chenier, una ballerina russa che aveva sposato un avvocato e, non contenta della vita matrimoniale, si era messa in proprio dandosi un nome d’arte. La sua specialità erano i cappelli. Non si celebravano feste in città senza i cappelli di madame Chenier. Fu un colpo di fulmine. Amalia s’innamorò dei cappelli, veri capolavori con tante nuvole di tulle e pochissimi fronzoli, mentre alla madame piacque subito quella ragazzetta acqua e sapone, con una chioma fiammeggiante, benché legata nelle trecce, e le lentiggini sul naso. In qualche modo le ricordava le ragazze del suo Paese. «Non ti mangio mica, non aver paura» disse invitandola a inoltrarsi nello stretto corridoio su cui si aprivano le vetrine. Amalia entrò con il batticuore, e la signora le offrì il caffè. «Ho tredici anni, non so se posso…» rispose, dimenticandosi persino di ringraziare, data l’agitazione. «Certo che puoi, non è veleno. Qui in Italia si usa così, da noi era sempre pronto il samovar» replicò la russa. Poi le osservò le mani: erano minute, fragili, non ancora rovinate. Sembravano perfette per i lavori d’ago. «T’insegnerò a cucire.» Più che come una proposta suonò come un ordine. «Prima devo chiedere il permesso a mia madre» esitò la figlia modello. «Sarò lieta di conoscerla. Portala qui quando vuoi.» Così si concluse il primo colloquio importante della vita di Amalia. Come deve comportarsi una povera mamma – peraltro vedova – in un caso del genere? Una straniera che aveva fatto la ballerina, per l’epoca, era considerata una poco di buono. Anche se era la moglie di un avvocato abbastanza conosciuto, tale Ruggieri, passava più tempo al negozio che a casa. Era rispettabile, o no?


9 Avrebbe giudicato di persona. L’appuntamento era per le quattro del pomeriggio, ora morta nella vendita dei biscotti. In che guaio l’aveva trascinata la sua primogenita! Uscì, lasciando le bambine sole in casa. Magdalena non dormiva mai di pomeriggio, era sempre vispa; somigliava in tutto e per tutto alla sorella maggiore. Lucia invece era più calma, flemmatica, con una certa tendenza a ingrassare, e in questo aveva preso dalla nonna paterna, che da tempo era venuta a mancare.


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CAPITOLO 3

«Prego, accomodatevi» la Chenier accolse Giovanna e Amalia, precedendole nel retrobottega. Aveva fatto portare i pasticcini dalla pasticceria Rispoli, la più rinomata della città. Le due sedettero sul divanetto di crine, rivestito di velluto rosso. La madame si accomodò di fronte a loro, sulla poltroncina. Tutt’e tre sedevano con il busto rigido, eretto, come prescrivono le buone maniere. Le due donne più anziane si squadrarono a vicenda. «Allora, a quanto ho sentito, lei prenderebbe a lavorare Amalia» cominciò Giovanna. «Precisamente. Per il momento come apprendista, perché le insegnerei a cucire…» «Già se la cava un po’. Sa anche ricamare» interloquì Giovanna. «Ma io le insegnerò a cucire di fino. Mi sembra portata per le cose belle. L’ho sorpresa ad ammirare la vetrina» replicò con una punta di orgoglio. Il retrobottega era un locale spazioso, arredato con gusto; forse un po’ spartano, perché non era sovraccarico di soprammobili e di quadri, come usavano i ricchi. Del resto, serviva a ricevere le clienti. Giovanna esitava. Le rincresceva mandare a lavorare la figlia. In altri tempi non se lo sarebbe mai sognato, ma in casa i soldi scarseggiavano. La Chenier, malgrado il suo passato, sembrava una signora a modo. D’impeto prese la sua decisione. «Va bene, accetto.» «Non abbiamo parlato della paga» fece notare la madame. «Risolverà la questione con mia figlia» rispose Giovanna, che già si sentiva abbastanza umiliata. La Chenier e Amalia si scambiarono un sorriso di complicità. «Allora dobbiamo festeggiare.» Madame Chenier si alzò, spostò il tavolino con il vassoio delle paste, in modo che le ospiti se ne potessero servire con libertà. Dal ripiano inferiore trasse una bottiglia di Asti Cinzano, che versò nei calici di cristallo. «Alla salute!» brindò, alzando la coppa in direzione di Amalia. «Mamma, per una volta tanto!» implorò la ragazza, prevenendo il diniego materno.


11 «E se poi ti dà alla testa?» l’ammonì Giovanna. Le sue figlie non erano abituate al vino, tanto meno a quello frizzante. In altre circostanze glielo avrebbe vietato, ma ormai Amalia si era resa indipendente: non poteva più imporle la sua volontà. Prima di congedarle, la madame prese un cappellino a cloche da uno scaffale e lo porse a Giovanna. «Un piccolo omaggio» spiegò quasi con l’aria di scuse. Rifiutare sarebbe stato da screanzati. Perciò si vide costretta ad accettare. «Se aspetta un minuto, glielo incarto.» Stavolta Giovanna si schermì. Non vedeva l’ora di andar via. *** Allorché Amalia cominciò a lavorare, le sue incombenze ricaddero sulle sorelle, anche sulla piccola Magdalena. Poco importava, perché la sera aspettavano con ansia il suo ritorno. Le davano giusto il tempo di cambiarsi, d’infilare il camicione da notte, per poi mettersi intorno a lei mentre cenava, e ascoltare i suoi stupefacenti racconti su madame Chenier, sui cappelli che confezionava e sulle clienti. Tutte signore dell’alta società: mogli di medici, di avvocati, di direttori di banca. Il fior fiore della borghesia. E quanti pettegolezzi! Le ragazze appresero con stupore che alcuni mariti avevano l’amante e – da non credersi – anche alcune mogli. Nella boutique si venivano a sapere i particolari più piccanti. Per esempio, che la moglie di un usciere era stata vista a teatro nel palco del prefetto: questo per i meriti della signora, che faceva carriera nel letto di uomini sposati. Non facevano discorsi simili in presenza di Giovanna, che si sarebbe messa a strillare: «La degradazione in casa mia!» e magari si sarebbe strappata i capelli, e avrebbe preteso che la figlia troncasse ogni rapporto con madame Chenier. Poi la descrizione dei cappelli. Lusso e sobrietà: era il motto della maison. I tessuti venivano da Parigi, perciò i colori erano diversi dai soliti. Un rosso che dava nel rosa, un turchino che sfumava nel grigio. A poco a poco Amalia imparò ad abbinare le tinte in modo da produrre l’effetto desiderato. Più semplice il modello, più ardito l’accostamento, senza mai strafare, perché l’esagerazione è nemica del buon gusto. In quanto alla sua datrice di lavoro, Amalia l’adorava. Pranzavano insieme con pane e prosciutto, e sottaceti, di cui la russa non poteva fare a meno. Fin dal primo giorno le aveva fatto riportare indietro il panierino con la colazione, dichiarando: «A te provvedo io.»


12 E che buone cose ordinava in salumeria! Freschissimo pane bianco, che si tagliava come burro, prosciutto emiliano e latticini di fabbricazione locale. Si era fatta installare una linea telefonica, ma il più delle volte il telefono non funzionava. Perciò ogni mattina il fattorino del salumiere passava a prendere le ordinazioni. Fu il primo amore di Amalia, che non conosceva altri ragazzi. Ma quando madame Chenier se ne accorse, le fece una bella ramanzina, peggio di come avrebbe fatto Giovanna. «Vuoi gettarti via con un pezzente? Anche se adesso non nuoti nell’oro, non dimenticare chi sei.» Poi riprese con più dolcezza: «Anch’io da giovane, nella mia patria, sbarcavo a malapena il lunario, ma non mi sono mai data per vinta. Verranno tempi migliori, mi dicevo, e difatti ho incontrato un principe, non uno delle favole, uno vero, che mi fece assumere al Bolshoi. Così è incominciata la mia carriera. Prima danzavo in un postribolo. Tu non sai nemmeno che cos’è. Poi, durante una tournee a Parigi, ho conosciuto il mio attuale marito. Puoi immaginare la gioia quando mi ha chiesto di sposarlo. Sì, rinunciavo alle grandi città per andarmi a chiudermi in provincia. Ma il matrimonio è la scelta più sicura, e, come vedi, ho anche la mia libertà.» Queste parole furono più convincenti dei discorsi della madre. Quando il garzone tornò con i panini imbottiti, Amalia lo ignorò.


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CAPITOLO 4

Natale passò senz’allegria. Giovanna aveva imparato a fare i biscotti con il miele, i cannellini sparsi sopra, che da principio sono durissimi, poi con il tempo si ammorbidiscono. La gente li conservava in scatole di latta, si vendevano a chili perché duravano tutto l’inverno. Rocco tornò dal seminario il giorno di Natale, si fermò solo a pranzo. Non voleva dar fastidio e non aveva un posto dove dormire. Amalia era stata invitata a casa dei Ruggieri, ma Giovanna non volle sentir storie: il Natale si passa in famiglia, non in casa di gente estranea. Un giorno del nuovo anno, Magdalena chiese se per Pasqua sarebbero tornate in paese. Giovanna fu talmente scossa dalla domanda che sbottò: «Ancora non hai capito che tuo padre è morto, che in paese non ci torneremo più, che la nostra casa e le terre sono state vendute e nessuno ci aiuta?» La bambina restò intontita. Dunque la stanza delle mele era perduta per sempre. Non avrebbe più avuto un gatto con cui giocare. Nel vicolo ce n’erano tanti, con la pancia stesa al sole, ma non erano suoi, e la madre non voleva animali in casa. “Bastano i topi” diceva, e guai a contraddirla. La mamma aveva già troppi pensieri. Si svegliava la mattina alle cinque per impastare, le mani bianche di farina, il viso segnato dalle occhiaie bluastre. Dava una rapida ripulita al forno, prima di accendere il fuoco e mettere a cuocere i taralli e altre sue specialità. La domenica mattina preparava il pane per la famiglia, che doveva durare tutta la settimana. Anche la pasta era fatta in casa: cavatelli, strascinati, tagliolini, sempre conditi con il pomodoro. Quando gli affari andarono un po’ meglio, si azzardò a mandare Lucia al mercato. Erano state a digiuno di frutta e verdura per parecchio tempo. Ora potevano permettersi di comprare le cime di rape, che sono ottime con le orecchiette e i peperoni essiccati. Mangiarono anche le mele: quelle striminzite che si danno ai porci, perché quelle fresche e fragranti costano di più. Bisognava fare economia, così conservavano qualche moneta in una vecchia scatola di scarpe, sotto il letto di Giovanna.


14 A cinque anni, sotto la guida di Amalia, Magdalena prese l’ago in mano. Sarebbe stata la grande passione della sua vita, ma per il momento si limitò a fabbricarsi bambole di pezza con gli strofinacci da gettare. «Sai che sei brava?» osservò Giovanna, vedendola assorta nel suo lavoro. Ricamava gli occhi, la bocca e il naso a punto erba, il più semplice. Ma i punti erano minuti e regolari, e i vestiti delle pupe erano rifiniti con cura certosina. Giovanna notò che stava superando Amalia, in quanto a bravura. Quelle bambole tanto semplici diedero un’ispirazione a Giovanna. Per la Pasqua che si avvicinava, con la pasta dei biscotti compose una figura femminile: una specie di Cappuccetto Rosso. La spennellò con i coloranti artificiali forniti da don Pietro, mise due chicchi di caffè al posto degli occhi, un quarto di ciliegia candita come bocca, e la battezzò “scarcedda” perché era brutta a vedersi, ma buona da mangiare. La scarcedda ebbe un successo insperato. Vennero a comprarla anche da altri quartieri e, siccome i pezzi si esaurivano presto, bisognava prenotarla. Grazie a questo nuovo introito, si concessero qualche lusso: scampoli di tessuto leggero con i quali Amalia, nel tempo libero e con l’aiuto delle sorelle, avrebbe confezionato tre vestiti estivi. Le ragazze crescevano. Lucia non poteva portare gli abiti smessi di Amalia, perché le andavano stretti. Tutt’al più li conservava per Magdalena. Occorrevano anche le scarpe, e quelle sono care. Madame Chenier regalava alla sua apprendista tutto ciò di cui era stufa, ma si trattava di cose poco adatte a una giovinetta. Borse da signora e scarpe con i tacchi, vestiti appariscenti, con la gala e la pettorina ricamata, cappotti di due taglie più grandi. Comunque Amalia non diceva mai di no. Portava quella roba a casa e studiava come ricavarne un utile. La povertà aguzza l’ingegno. «Ti consumi gli occhi» l’ammoniva Giovanna, vedendola cucire di sera nel fioco alone della candela, ma lei non le dava retta. Si era messa d’impegno ad accomodare la roba, e ci riuscì così bene da sorprendere le sorelle con la sua eleganza. Quando inaugurò per la messa una camicetta ricamata su una gonna di panno, nessuno vi avrebbe riconosciuto i vestiti di madame. Una domenica pomeriggio, mentre Giovanna macinava il caffè – il cui aroma si spandeva in tutta la casa – e il vicolo sonnecchiava, Amalia porse alla madre un soprabito grigio perla. «Provati questo.»


15 «Sei pazza!» replicò Giovanna. «Tuo padre è morto soltanto da un anno e mezzo, e tu vorresti farmi levare il lutto?» «Il grigio è mezzo lutto» ribatté la figlia, con un’alzatina di spalle. «Non un grigio chiaro come questo. Il discorso è chiuso.» «Per quanto tempo continuerai a vestirti di nero? Sei ancora giovane, potresti trovare marito.» «Per chi mi hai presa? Per quella buona donna che frequenti? Io sono la vedova Glielma e tale resterò fino alla fine dei miei giorni!» rispose piccata. Magdalena assisteva alla scena dietro la porta della camera da letto, non riusciva a dormire il pomeriggio. Lucia russava beata dopo aver fatto fuori gli avanzi dell’ultima scarcedda. Stropicciandosi gli occhi, tirò la gonna di Giovanna. «Mi dai il permesso di uscire? In paese uscivamo sempre la domenica pomeriggio.» «Amalia, accompagnala tu. Andate a fare una passeggiata» sospirò Giovanna. Non era del tutto conveniente farle uscire da sole, ma non poteva neanche tenerle chiuse in casa, dato che lei la domenica lavorava. Almeno Lucia amava la vita sedentaria; invece, la piccola e la grande erano irrequiete.


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CAPITOLO 5

Magdalena camminava, saltellando, accanto ad Amalia. «Devi darti un contegno in mezzo alla strada» la rimproverò la sorella maggiore. «La gente penserà che sei maleducata.» La rimproveravano in continuazione: non si canta a squarciagola, non si succhia il brodo, non si parla con la bocca piena. Quando don Pietro ti dà una caramella, ringrazia. L’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del Re. Se sulla tavola compare il vassoio dei dolci, non allungare subito la mano, aspetta il tuo turno. Quanti divieti, quante proibizioni! E ogni volta che sgarrava, un ceffone. Eppure lei riusciva a essere felice. Possedeva una specie di luce interiore, che si riverberava nei sogni, e ne faceva di bellissimi. Il più frequente era quello in cui tornava in paese, nella sua vecchia casa. “Quando mi sposerò”, pensava “avrò una credenza azzurra con i fiori dipinti”. «Quando ti sposerai…» così cominciavano tutti i discorsi che Giovanna faceva alle ragazze. Era inammissibile per una donna non sposarsi. La sua educazione, gli insegnamenti che riceveva, erano finalizzati a quell’unico scopo. A tredici anni compiuti, Amalia era già una bellezza. I giovanotti si voltavano a guardarla, anche quelli distinti, con il bastoncino da passeggio e la paglietta. Portava ancora le trecce, ma il suo seno prorompeva sotto le camicette. Era l’immagine stessa della primavera. Magdalena sperava di diventare come lei, crescendo. «Signorina, permette una parola?» l’abbordò un bellimbusto. Amalia accelerò il passo, strattonando la sorellina. «Non sono uno sconosciuto. Faccio pratica dall’avvocato Ruggieri e l’ho vista nella boutique di sua moglie.» «Allora saprà che sono una semplice apprendista. I miei ossequi all’avvocato, ma ora mi lasci in pace.» Tra le classi sociali, esisteva una netta divisione. Un aspirante avvocato, che si rivolgeva a una ragazza senza dote, non poteva avere intenzioni serie. Certo, capitava che una ragazza povera sposasse un uomo ricco, ma era una rarità, ed era saggia regola non incoraggiare gli scapestrati,


17 che volevano farsi beffe di lei e magari vantarsi con gli amici della nuova conquista. Amalia era ormai edotta su come comportarsi, su quello che era giusto fare e quello che era sbagliato. Aveva anche capito di non potersi creare troppe illusioni sul suo futuro marito. Le sembrava opportuno limitare le proprie aspirazioni alla classe medio-bassa: un funzionario d’infimo livello, un militare; qualcuno, però, con lo stipendio assicurato a fine mese. Diffidava dei commercianti, che potevano fallire. Davanti alla chiesa della Trinità, frequentata da gente chic, le due sorelle si fecero il segno della croce. Per la messa e le altre funzioni religiose preferivano San Gerardo, la loro parrocchia, meno pretenziosa, pur essendo una cattedrale. Giovanna le seguiva solo ogni tanto: era sempre impegnata, ma a parte questo, da quando la fortuna le aveva girato le spalle, aveva perso la fede. Arrivarono a Porta Salsa, dove c’è una biforcazione: procedendo verso l’interno, si raggiungeva il quartiere di Santa Lucia, mentre, proseguendo diritti sul ponte, si raggiungeva una pineta. Lì si aprivano le botteghe dinanzi alle quali Magdalena sostava ogni volta con occhi sognanti, anche quando erano chiuse. Il negozio di giocattoli “Vinciguerra” e la cartoleria senza nome. Amalia captò la direzione dei suoi sguardi e le promise di comprarle una bambola vera non appena fosse stata promossa da apprendista ad assistente. Promessa che non avrebbe mai mantenuto, perché, con il primo stipendio, si comprò un paio di orecchini da Cusano, la gioielleria dove spendeva madame. *** “Io mi ammazzo di lavoro per loro, litigo con i negozianti per risparmiare, e loro come mi compensano? Amalia sta tutto il giorno fuori casa, Lucia pensa solo a rimpinzarsi, e Lenuccia è ancora troppo piccola per darmi un aiuto. Tra poco dovrà andare a scuola, avrà bisogno del grembiule e del fiocco, forse di un paio di scarpette nuove”. Così rimuginava tra sé Giovanna, con le mani immerse in un mucchio di farina, dove versava acqua calda e olio per fare i taralli salati, che piacciono anche d’estate. A giudicarla con i parametri d’allora, la vedova Glielma era una bella donna, alta e robusta, con un seno fiorente, le chiome intrecciate in un’acconciatura alta come una torre, appena venata di fili bianchi. Molti


18 si complimentavano con lei, soprattutto don Pietro, che era vedovo pure lui, e avrebbe voluto risposarsi. Certo, non sarebbe mancato il pane, neanche il companatico, dato che vendeva un po’ di tutto, ma Giovanna era inflessibile. Aveva fatto suo il motto dei carabinieri: “Fedele nei secoli”. E dire che il suo non era stato un matrimonio d’amore, ma un’unione combinata dalle famiglie, come si usava all’epoca. Lei era figlia dell’amministratore dei principi Torlonia. Suo padre riceveva un regolare stipendio, ma non possedeva niente di suo, neppure la casa in cui vivevano. Perciò l’aveva fatta sposare con il padrone di una masseria, sperando di elevarla socialmente.


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CAPITOLO 6

«Sempre all’opera, donna Giovanna» disse Mena Fioravanti, la nuova vicina, entrando in casa. «Che volete…» sospirò Giovanna, passandosi il polso sulla fronte sudata «solo nei giorni di festa ho il tempo di preparare il pane e la pasta per noi.» Mena rispose: «Come vi capisco!» e si mise a sferruzzare in un angolo, per timore d’infastidire. Anche lei era un caso pietoso. Suo marito, che lei definiva un principe, era partito per l’America e non aveva più fatto ritorno, lasciandole una figlia da allevare. Al pari di Giovanna, si era rimboccata le maniche: aveva aperto un minuscolo caseificio in un altro locale pianoterra, abitando sul retro con la figlia Maria. Si svegliava all’alba, quando un suo compare della campagna le portava i secchi colmi di latte, appena munto, di pecora e di capra. Verso le dieci erano pronte le trecce di mozzarella e le ricotte, nei loro cestini di vimini. Aveva avuto successo. Nel rione San Gerardo tutti compravano da lei, perché il latte veniva dalla campagna. Le sue mozzarelle erano di un bel colore paglierino, e le ricotte candide come la neve. Qualche volta le arrivava anche il burro, il butirro fresco, di un bel giallo carico, che sembrava oro. La parte migliore era la scorza che si poteva mangiare. La gente ne andava matta, lo ordinava per gli antipasti dei pranzi importanti. Filomena era invecchiata prima del tempo. La delusione l’aveva scarnificata: era pelle e ossa, i capelli erano tutti grigi, raccolti in una crocchia sulla nuca; e anche la figlia Maria cresceva minuta. «Le patate sono aumentate di due centesimi al chilo» disse Mena, alzando gli occhi dal lavoro a maglia. Era rapidissima a sferruzzare. Giovanna la invidiava: con tre ragazze in casa c’era sempre bisogno di calze. Anche Rocco avrebbe avuto bisogno di un maglione pesante. Al seminario si moriva di freddo. «Finché ai miei figli non manca il necessario, non mi lamento» replicò Giovanna. «Ci sono dei giorni in cui non vorrei alzarmi dal letto, giorni in cui mi sento più sfatta del solito. Ma la vita continua, deve continuare.»


20 Mena le diede ragione. Poi, per l’ennesima volta, raccontò come aveva conosciuto suo marito. Lei era una semplice contadina, non sapeva né leggere né scrivere. Un giorno, mentre tornava dai campi, lui era apparso su un cavallo bianco. L’aveva rapita e presa in moglie contro la volontà dei suoi. Mena, allora, era una bella ragazza con le trecce bionde. Giovanna non sapeva quanto ci fosse di vero in quei racconti, e pensava che in buona parte fossero frutto della sua immaginazione. Per dimostrarle che diceva la verità, però, Filomena tirava fuori dalla tasca una stinta fotografia, nella quale era ritratta lei da giovane. Però la foto era così consumata che i lineamenti non si distinguevano. «Vi credo, vi credo» asseriva Giovanna per farla contenta. «Dovete mettervi l’anima in pace. Forse vostro marito si è trovato un’altra donna in America. So di molti emigranti che hanno fatto così. Quando c’è l’oceano di mezzo, l’amore finisce.» In effetti, dell’amore Giovanna sapeva poco e niente. Aveva assolto ai suoi doveri coniugali solo perché la legge lo imponeva. Ignorava, come se fosse ancora vergine, il piacere carnale. Rimpiangeva la buonanima di suo marito per un mero fatto economico. Le aveva lasciato la masseria ipotecata. Questo non glielo poteva perdonare. Almeno l’avesse saputo prima, ma con le donne non si parlava mai d’affari, perché non erano educate a comprenderli fino in fondo. Invece Filomena aveva un gran concetto dell’amore, come se l’avesse letto nei romanzi. Quando parlava del marito d’oltremare, le s’illuminava il viso grinzoso. Che le nozze fossero avvenute davvero, Giovanna un po’ ne dubitava. Capita spesso che un proprietario terriero metta incinta una contadinella, e che poi la famiglia lo spedisca in America per evitare d’imparentarsi con lei. Ma Filomena giurava e spergiurava d’essere stata davanti al prete, prima di finire a letto con il suo principe. «E che baci, che passione, comare mia! Mi sentivo una cosa sola con lui. Mi addormentavo nel momento esatto in cui si addormentava lui. Sognavo i suoi sogni. Al mattino ce li raccontavamo e scoprivamo che erano uguali. È durato solo un mese, ma quel mese è stato una villeggiatura in paradiso. Del resto, voi lo sapete meglio di me.» No, Giovanna non sapeva proprio niente di quelle cose. Le avevano insegnato che solo le meretrici provano diletto ad accoppiarsi con gli uomini. Le meretrici e le bestie. Mentre le donne costumate non si concedevano quel genere di piaceri. Il matrimonio serviva a tramandare il cognome e l’eredità. Se un uomo voleva la passione, il trasporto amoroso, doveva cercarselo fuori casa sua, a pagamento.


21 I discorsi di Mena l’attraevano e la disgustavano nello stesso tempo. Forse i contadini erano abituati in modo diverso. Vivevano a stretto contatto con gli animali, perciò non vedevano il male. A modo loro erano innocenti, come i cani che fornicavano per strada. «Ecco Maria che torna dal catechismo» disse Filomena affacciandosi sul vicolo. «Tolgo il disturbo e grazie per l’ospitalità.» «Così piccola e già la mandate al catechismo!» esclamò sorpresa l’amica. «È presto per la Prima Comunione.» «Intanto impara le preghiere in latino. Sapeste come le recita bene! Pare proprio d’ascoltare il parroco in persona.» Maria entrò timidamente, giusto per salutare. Con lo sguardo frugava il basso, in cerca di Magdalena. Le due se la intendevano un po’. Maria era l’unica bambina della sua età che Lena avesse il permesso di frequentare, da quando abitavano in città. Non rappresentava la compagnia ideale, perché, nonostante la giovanissima età, già apparivano evidenti le differenze di carattere. Magdalena era esuberante, e gioiosa; Maria era placida, obbediente, veniva portata ad esempio di virtù filiale. Cogliendo le occhiate della ragazzina, Giovanna l’informò che Lena era uscita con le sorelle. «Bisogna pure che prendano un po’ d’aria. Non posso sempre trattenerle qui, specie quando si soffoca come oggi» spiegò, quasi per scusarsi. Sapeva infatti che loro uscivano solo per recarsi in chiesa. Non concepivano l’idea d’andare a spasso. Erano state educate alla dura scuola del lavoro nei campi.


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CAPITOLO 7

Dopo circa quattro anni dal loro trasferimento in città, Amalia era ormai una donna fatta. Alla sua età, Giovanna era già in dolce attesa, ma i tempi stavano cambiando. Le donne iniziavano a tenere alla propria indipendenza, e su una rivista francese, di quelle che arrivavano a madame Chenier, avevano persino visto la foto di una donna che indossava dei pantaloni. «Se non la vedessi con i miei occhi, non ci crederei» mormorò Giovanna quando la figlia gliela mostrò. Per fortuna Amalia era una ragazza seria, e non si montava la testa per i complimenti che riceveva in continuazione. L’unico strappo alle regole era stato di tagliarsi i capelli. Li portava sciolti sulle spalle, ondulati dalla permanente. Giovanna non aveva mai varcato la soglia di un parrucchiere, e i capelli glieli avevano tagliati solo una volta, da bambina, per via dei pidocchi quando studiava dalle suore. Lena frequentava la terza elementare, e ogni anno – data la sua crescita costante – bisognava cucirle un grembiule nuovo. Lucia era la solita pacioccona, però si era trovata un corteggiatore: un giovane falegname a cui piacevano le donne grassottelle. «Mentre la bella si prepara, la brutta si marita» fu il commento poco felice di Giovanna. La bella, cioè Amalia, aveva già rifiutato due o tre proposte di matrimonio, tra cui quella del figlio di don Pietro, Luigino, che si era messo in proprio, aprendo una drogheria molto fornita. Giovanna, tuttavia, non sapeva che Amalia aveva un amore segreto. «Mamma non sa che ci parliamo» spiegò lei, una sera, al giovane carabiniere che l’aspettava come sempre davanti alla boutique. «Me la devi presentare al più presto. Voglio fidanzarmi in casa prima di partire per la guerra» replicò lui. «Ma quale guerra!» esclamò Amalia. «Sono questioni che non riguardano l’Italia. Lo diceva anche madame l’altro giorno. Giolitti negozierà con l’Austria la cessione di Trento e Trieste, e noi riavremo i nostri territori senza spendere una lira.»


23 «Avrà ascoltato i discorsi di suo marito, che è liberale, ma non ha fatto i conti con i nazionalisti. D’Annunzio vuole la guerra e l’avrà. I giovani sono con lui.» «Anche tu?» chiese Amalia. Lui s’infervorò: «Io ho la testa sulle spalle. Amo la mia patria e sono un fedele servitore del Re. Però, mi trovo d’accordo con Giolitti. A che pro sprecare vite umane e risorse quando esiste un’alternativa pacifica? Ma il poeta-soldato infiamma gli animi. Sapessi quanti cortei ha guidato! E presto o tardi forzerà il Parlamento a spedire gli italiani al massacro.» «Speriamo di no» fu tutto quello che riuscì a controbattere lei. Aveva molta stima di Guglielmo D’Auria. Lo considerava istruito, perbene. Ne apprezzava persino l’accento genovese, che gli conferiva un tono chic e lo distingueva dai suoi commilitoni del Sud. Stabilirono che la presentazione alla madre sarebbe avvenuta in un luogo neutrale: al Gran Caffè di Piazza Prefettura. L’unica difficoltà consisteva nel persuadere Giovanna a trascurare i suoi doveri per una mezza mattinata. «Almeno la domenica puoi concederti una vacanza» cominciò Amalia a perorare la sua causa, il sabato sera. Lei trovò mille scuse: non le piaceva il modo di cucinare di Lucia: abbondava con la sugna; e poi non capiva per quale ragione dovesse uscire. «Per farmi guardare? Per accalappiare uno spasimante? Alla mia età è meglio starsene in casa.» Alla fine Amalia fu costretta a confessarle la verità. «Voglio farti conoscere una persona… una persona a cui tengo.» Non poteva trovare argomento migliore. Giovanna si convinse subito. Anzi rispolverò dall’armadio il soprabito grigio perla e il cappello che le aveva regalato madame, per non sfigurare. Quando madre e figlia arrivarono, Guglielmo aveva già occupato un tavolino per tre. Giovanna rimase impressionata sia dalla sua prestanza fisica, sia dalle sue buone maniere. Solo le dispiacquero i corti capelli pel di carota. Anche Amalia era rossa, ma almeno tendente al rame. Con un sorriso, immaginò subito i loro figli. Guglielmo scostò le sedie per loro e le invitò ad accomodarsi. «Prego.» Poi si mise sull’attenti. «D’Auria Guglielmo, al suo servizio.» Giovanna era stata donna di mondo, il marito l’aveva portata a Napoli in viaggio di nozze, perciò sapeva come comportarsi. Si mostrò disinvolta e discreta nel chiedere il motivo dell’incontro.


24 Guglielmo divenne più rosso dei suoi capelli. «Vorrei domandarle il permesso di fidanzarmi ufficialmente con Amalia. Ho intenzione di formare una famiglia. Il lavoro, come vede, ce l’ho. A guerra finita, sperando di tornare sano e salvo, ci sposeremo e andremo a vivere al Nord, sempre con il suo permesso.» Certo, l’idea di allontanarsi dalla figlia non fu consolante. Tuttavia, pur di vederla sistemata, era disposta a quel sacrificio. Scelse con cura le parole per dare il suo consenso. Dentro di sé rifletteva sui preparativi per la festa, perché un fidanzamento andava festeggiato. *** «Non ditelo a nessuno» raccomandò alle due figlie minori dopo aver comunicato con solennità la notizia. Temeva che le mettessero gli occhi addosso. Raccomandazione vana. Quel pomeriggio stesso, Magdalena raccontò a Maria che sua sorella si fidanzava. A sua volta Maria lo riferì alla madre, la quale informò tutto il vicolo della novità. Le congratulazioni fioccarono su Giovanna, la gente andava apposta a comprare i suoi biscotti per approfondire i particolari. La prima domenica di maggio fu scelta come data per il ricevimento. Giovanna non si risparmiò nella preparazione del buffet, lavorando anche di notte. Gli invitati non ebbero di che lagnarsi. Ognuno collaborò, portando le seggiole da casa. Don Pietro offrì lo spumante, d’obbligo in quelle occasioni. Amalia era euforica. Bellissima, vestita d’azzurro, con un abito che aveva confezionato insieme a madame. Riceveva baci, abbracci, strette di mano. A un certo punto la sorellina la prese da parte. «Cosa si prova a essere innamorati?» le domandò. Rimase stupita dalla domanda, e rispose: «Non lo so. La vita non è una favola, di quelle che leggi tu!» In effetti Magdalena si rifugiava spesso nella lettura, una scoperta che l’aveva rapita non appena aveva imparato a compitare. Nei libri c’era un mondo a portata di mano, un mondo magico, meraviglioso. Sfogliare un libro era per lei come varcare una soglia. Conosceva persone che non avrebbe mai incontrato nella realtà, e leggeva di posti che non avrebbe mai visitato. Leggendo, Magdalena viaggiava e volava, librandosi al di sopra delle tegole rosse, dei neri corvi gracchianti. Seguiva il corso del fiume nella valle e, più in alto, le nubi. Da quando leggeva, vedeva ogni cosa con


25 occhi diversi, come se avesse acquistato una seconda vista. Per esempio, non si era mai resa conto della bellezza che la circondava: la foschia d’argento sul fiume – un velo da sposa adagiato – o il profumo intenso e inebriante dei pini, il cinguettio dei passeri, lo stridio delle rondini al tramonto. Tutto questo, fino ad allora, le era stato nascosto dietro un paravento, adombrato dalle necessità quotidiane. Il primo libro che la mamma le comprò da una bancarella, fu la raccolta di fiabe dei fratelli Grimm. Era un librone molto spesso, tanto che Lucia pensò che non sarebbe mai riuscita a finirlo. Invece lei lo lesse in fretta. Il pomeriggio, seduta sul baule che la madre aveva portato dal paese, nel silenzio delle ore dedicate al riposo, s’immergeva nella lettura. Quelli che scopriva erano scenari a volte truculenti, non proprio adatti a una mente infantile. La sera, mentre le sorelle cucivano e la madre lavava i piatti, raccontava le storie di cui era rimasta più impressionata. «Brava! Hai preso il posto della vecchia contastorie» diceva Giovanna, e tutte loro rivivevano i bei momenti del passato. E pensare che, quand’erano in paese, invidiavano la gente di città, senza sapere di trovarsi in paradiso!


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CAPITOLO 8

Una ventina di giorni dopo il fidanzamento di Amalia, i giornali uscirono con titoli a caratteri cubitali: “L’ITALIA IN GUERRA”. Gli strilloni non si stancavano di ripetere la clamorosa notizia, e ovunque se ne discuteva con vigore. I fautori del conflitto davano addosso ai pacifisti, chiamandoli vigliacchi e nemici della patria. Tra i più giovani si rischiò la rissa. In quella situazione vendettero pochi biscotti. Alla scuola di Magdalena la maestra tenne una lezione di storia, spiegando che quella, per l’Italia, sarebbe stata la quarta guerra d’indipendenza. Si combatteva per riconquistare il sacro suolo di Trento e Trieste, ancora sotto il tallone dell’Austria. In una circostanza tanto grave, il pensiero di Giovanna era rivolto soprattutto ai soldati. «Poveri ragazzi!» «Guglielmo l’aveva previsto. È più intelligente lui dell’avvocato Ruggieri» dichiarò Amalia con una punta d’orgoglio. «Chiameranno anche Rocco?» chiese Lucia. «Non dire sciocchezze!» la redarguì Giovanna. «Non vedi che porta ancora i pantaloni corti? Quest’anno, se supera gli esami, entrerà in quarta ginnasiale. È un ragazzino. Prima che compia diciotto anni, la guerra sarà finita.» Ma le previsioni degli uomini lasciano il tempo che trovano. Del resto, anche per gli Dèi lo specchio del futuro è opaco. Solo Dio conosce la verità, ma se la tiene stretta. Da principio la guerra incise sul prezzo degli alimenti, soprattutto di quelli indispensabili, come la farina e il latte. Giovanna aumentò il prezzo dei taralli, ma in pochi ormai si concedevano il superfluo. «Comare mia, dovete cambiare mestiere, o inventarvi qualcosa di cui la gente non possa fare a meno» le consigliò Filomena, che non aveva problemi simili, dato che il suo caseificio continuava a prosperare. Fu allora che Giovanna si rivolse ai bambini, estranei da ogni bruttura, e si mise a fabbricare caramelle. Stendeva il miele sulla teglia dei biscotti, dopo averla unta bene con un surrogato, aggiungendovi un po’ d’acqua millefiori. Faceva cuocere in forno e, quando lo strato era freddo, lo


27 tagliava in tanti quadratini, che poi sistemava nei sacchetti di carta. I bambini del vicinato andavano pazzi per le sue caramelle. Si specializzò e imparò anche a fare la frutta candita, i marron glacé, le trecce di zucchero caramellato. A Natale la sua bottega era piena zeppa. In prima fila c’erano le madri dei soldati, che volevano spedire ai figli un pacco con cui alleviare le loro tribolazioni. *** Il primo anno di guerra non mutò granché le abitudini e la mentalità. Poi si cominciarono a vedere donne alla guida dei tram, nelle biglietterie delle stazioni, negli uffici postali, nelle banche. Madame Chenier se ne gloriava. «L’ho sempre detto che il futuro è delle donne.» Amalia non pendeva più dalle sue labbra. Sapeva che il suo lavoro alla boutique era transitorio. Una volta sposata – con i debiti scongiuri sulla sorte di Guglielmo – avrebbe sfruttato solo per sé la sua abilità. D’altra parte, si era già accordata con la padrona affinché le subentrasse la sorella minore, che mostrava predisposizione per il cucito oltre che per la lettura. Magdalena prometteva di diventare una bellezza come Amalia. Tuttavia, all’epoca della disfatta di Caporetto, quando tutta l’Italia piangeva i suoi morti, Lenuccia si ammalò. Ebbe una febbriciattola insidiosa e persistente, che le fece gonfiare le gambe, le alterò i lineamenti del volto. Una malattia di cui nemmeno il dottore riuscì a capirne l’origine. Pronunciò qualche nome latino, scrisse una ricetta con la sua grafia incomprensibile; poi raccomandò a Giovanna di tenere lontane le altre figlie perché poteva essere contagioso. Giovanna raccomandò alle ragazze di mantenere il segreto, altrimenti nessun cliente si sarebbe fatto vivo. Ma le voci, all’epoca, si diffondevano in fretta. La febbre durò un mese intero. Nel frattempo erano successe tante cose. In Russia Lenin trionfava. Madame piangeva lo zar e la famiglia imperiale, come se fossero suoi parenti, non li avevano ancora giustiziati, ma ogni rivoluzione che si rispetti chiede la testa di un Re. Si sentiva parte della nobiltà in esilio, dispersa in Francia e in Germania. Scorreva rapida i giornali, nella speranza di una vittoria dell’Armata Bianca. Le sorti della sua patria adottiva le interessavano di meno. Amalia le ricordava che dalla Russia aveva ricevuto solo miseria. «E il mio principe?» si risentiva lei. «Il mio principe non te lo ricordi più?»


28 Gli italiani riguadagnavano terreno: le voci dal fronte erano consolanti. Guglielmo fece avere sue notizie: era stato ferito in modo leggero da una scheggia di granata, e presto sarebbe tornato in licenza. Tra tanti drammi, quello di Magdalena passò quasi inosservato. Quando si guardò allo specchio, comprese di non essere più uguale alla sorella. Le gambe si erano sgonfiate, ma apparivano molto rigide. I contorni del viso erano alterati in maniera indelebile: invece dell’ovale perfetto di prima, ora aveva le guance un po’ cascanti. «Se non sarò bella, riuscirò a farmi notare per l’eleganza» fu l’idea che le diede una certa rassegnazione. Anche Giovanna si accorse di quei mutamenti. Tuttavia si consolò al pensiero che, se Lucia aveva trovato un ammiratore, Lenuccia, che era sveglia, ne avrebbe trovati di più. *** A guerra quasi finita, quando ormai si profilava la vittoria, Magdalena superò brillantemente gli esami di licenza elementare. «È un peccato che la ragazza non voglia continuare gli studi» disse la maestra a Giovanna, con una punta di rammarico. «Si vedrà» rispose evasiva lei. In realtà, quello che mancava non era la voglia di studiare, bensì il denaro per pagare tasse scolastiche e libri. La guerra aveva prosciugato le finanze già scarse degli abitanti del vicolo. Una volta a casa, parlò con il cuore in mano alla figlia. «Io sono disposta a qualunque sacrificio per farti studiare, ma non posso chiedere lo stesso alle tue sorelle.» «Lavorerò» rispose con fermezza Magdalena. «Quando avrò risparmiato abbastanza, m’iscriverò alle medie. Intanto posso studiare per conto mio e dare da privatista gli esami d’ammissione.» Fu di parola. *** Era notte fonda. Magda – che, ormai cresciuta, rifiutava con ostinazione l’altro diminutivo – toccò le pezze di tessuto stese sul tavolo. Le aveva mandate madame Chenier in regalo: una per ogni sorella. La sua era di rasatello turchino. Accese il lume a petrolio con cautela, e cominciò a tagliare la stoffa senza modello, abbandonandosi alla sua ispirazione. All’alba il vestito era pronto. Lo misurò: le cadeva a pennello.


29 La Chenier restò senza fiato. «O sei un prodigio, o sei una bugiarda» azzardò, non appena ebbe recuperato le parole. «Protendo per la seconda ipotesi. È escluso che tu abbia fatto tutto da sola.» Poi si avvicinò per osservare meglio l’abito. Da un po’ di tempo aveva bisogno degli occhiali. «Le rifiniture lasciano a desiderare» le mostrò un orlo, però l’assunse su due piedi. Da quel momento, Magdalena prese il posto di Amalia, in procinto di sposarsi. *** Le nozze di Amalia furono celebrate alla Trinità. Guglielmo aveva lasciato l’Arma con grande dispiacere della fidanzata. Era sua intenzione gestire un piccolo commercio di vini, ereditato dal padre. Una folla si assiepava lungo la strada, per ammirare la sposa. Non rimase delusa, perché il vestito era principesco: strati e strati di tulle bianco con un tocco d’azzurro. Neppure Elena del Montenegro aveva avuto un abito come quello. Il rinfresco fu offerto al Gran Caffè, e anche questa fu una novità, perché di solito i matrimoni si festeggiavano in casa. La guerra aveva cambiato usi e costumi.


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CAPITOLO 9

Quando Magdalena compì tredici anni, s’innamorò perdutamente. «Chi stai guardando?» le chiese un giorno Lucia, che aspettava di compire gli anni per fidanzarsi in modo ufficiale con Antonino. «Nessuno» rispose lei, distogliendo lo sguardo. Si era innamorata del maggiore dei tre fratelli Mainardi, Carmine. L’aveva colpita perché, a differenza della gente del Sud, era biondo con gli occhi azzurri. Sembrava un attore del cinema. Erano orfani di madre, ed erano stati cresciuti da una zia ricca. Il padre si era risposato, mettendo al mondo altri figli, e la seconda moglie era stata così ambiziosa da spingerlo a un’impresa folle: aprire una salumeria di lusso in pieno centro, di quelle che si vedono nelle grandi città, con marmi per terra, commessi e commesse in divisa, la nuova signora Mainardi alla cassa, pettinata all’ultima moda, pronta a ricevere i complimenti dei clienti abituali. I fratelli facevano gli “elegantoni” a spese della zia, la quale, d’altronde, se lo poteva permettere, essendo vedova di un farmacista e senza figli suoi. Possedeva una palazzina intera, con la facciata di pietra bugnata, e aveva anche un vigneto fuori città. La farmacia era stata data in locazione, ma conservava il nome dell’antico proprietario. Tra il mensile del farmacista e le pigioni degli appartamenti, la vedova Mancini non se la passava male. Per i nipoti era zia Rosina; per gli altri la signora Rosa. Dei fratelli, il più giovane, Nicola, non voleva saperne di studiare. Marinava la scuola per giocare a calcio. Fu così che si ruppe un ginocchio, restando zoppo per il resto della vita. Il più serio era il secondo, Michele, che difatti più tardi entrò in Questura. Carmine, il primogenito, era il più scanzonato. Frequentava il “Salone Margherita” e corteggiava la sciantosa di turno. I tre fratelli si vedevano spesso passeggiare insieme, e venivano chiamati “I tre moschettieri”.


31 Anche Giovanna si accorse della direzione che prendevano gli sguardi di Magdalena. «Miri troppo in alto» l’ammonì. «Un Mainardi non sposerà mai una ragazza senza dote.» Ma il cuore di Magda era stato rapito per sempre. «O Carmine o la morte» decretò tra sé. *** Quando Amalia partì per Genova con il marito, ci fu grande commozione. Accadde subito dopo il matrimonio, giusto il tempo di cambiarsi dopo il rinfresco e prendere le valigie. Giovanna non smetteva di domandare se avesse dimenticato questa o quella cosa. Amalia rispondeva nervosa d’aver preso tutto. Era concentrata sul pensiero della vita che l’attendeva al Nord, già staccata dalla famiglia d’origine prima ancora che il capostazione fischiasse e il treno si mettesse in moto. Lucia invece si fidanzò a novembre, tra gli spari dei mortaretti con cui si saluta la festività d’Ognissanti. Niente di speciale per lei: solo qualche pasta secca annaffiata con il rosolio. Antonino non era un buon partito, anche se in seguito avrebbe fatto fortuna. Magda andava a lavorare ogni giorno alla boutique, e la sera studiava per prepararsi agli esami. «Finirai per diventare cieca» protestava sua madre. Ma parlava al muro: quando si metteva in testa un’idea, neanche la Vergine Maria in persona riusciva a dissuaderla. A Natale, alcuni parenti ricchi tornati dall’America avevano acquistato la masseria e la casa padronale. Prima che la notizia le arrivasse alle orecchie per mezzo dei braccianti, Giovanna ricevette una lettera. I parenti invitavano lei e le figlie in paese. Discusse con Filomena se fosse il caso d’accettare o no. «Perché no? Mangerete e berrete gratis per una settimana. In quanto al vostro negozio, può provvedere Maria.» Seguita dalle ragazze, riluttanti poiché i loro interessi erano focalizzati in città, si prepararono a partire. Portarono numerosi bagagli, perché Giovanna non voleva sfigurare: dopo essere partita da poverella, immaginava un ritorno in grande stile. Una figlia sposata a Genova, e un’altra fidanzata. La terza studiava e frequentava un corso di taglio e cucito.


32 Malgrado avesse lasciato il cuore in città, Magda assaporò la gioia di rivedere la sua casa. Erano cambiate molte cose: al posto dell’enorme focolare c’era adesso una cucina economica. Le pentole di rame, che brillavano come oro fuso, erano sparite dalla circolazione. Così pure la credenza a fiori. Gli americani, inoltre, avevano introdotto l’usanza d’addobbare un abete per Natale. Giovanna rimase perplessa di fronte all’albero imbrigliato. Non erano più significative le statuine del presepe? I pastori, colti di sorpresa dall’annuncio, la Madonnina con le mani giunte, in adorazione, San Giuseppe, il bue e l’asinello? E allo scoccare della mezzanotte il più piccolo della famiglia deponeva Gesù nella mangiatoia. Tutto questo doveva andar perduto? «Non state a pensarci, comare» la rassicurò il più giovane dei fratelli Losasso, che si faceva chiamare Dany, all’americana: il suo vero era Donato. Elena, la sorella, simpatizzò con le ragazze. Al contrario dei maschi, non era stata troppo contagiata dalle usanze straniere. In paese si trovava a suo agio, come un pulcino nell’uovo. Peccava un po’ in cucina, perché in America piacciono i cibi pronti, sandwich, bistecche e fagioli in scatola. Aveva portato con sé una grande bambola dai capelli rossi, vestita alla marinara, che somigliava moltissimo a Magda. Infatti gliela regalò come dono di commiato. *** La grande aspirazione di Magda, il traguardo a cui tendeva con tutte le sue forze, era la signorilità. Non soltanto per sentirsi degna del giovane Mainardi, ma proprio perché rappresentava la sua intima vocazione. Per prima cosa, si educò a parlare l’italiano in modo corretto, espungendo le espressioni dialettali dal suo vocabolario. Questo, tra l’altro, produsse un’ottima impressione sulle clienti di madame. Una le chiese persino se fosse toscana. Non era dolce di carattere, le asperità della vita l’avevano indurita. Quando le sue opinioni cozzavano contro quelle della russa, entrambe facevano scintille. Eppure l’apprendistato presso madame Chenier giovò molto al suo gusto. La convertì alla semplicità: meno fronzoli ci sono, più un vestito è elegante. Lo stesso vale per una casa, l’ostentazione è per i parvenu. Carmine Mainardi continuava a non accorgersi di lei. Il negozio di suo padre, con i marmi per terra e le commesse in divisa, era stato chiuso per


33 fallimento ma lui non se ne dava pena, perché aveva la ricca zia alle spalle. Don Matteo, il padre, aveva avuto la sfacciataggine di ricorrere a lei per un prestito, e quindi zia Rosina era andata su tutte le furie. «Ho provveduto ai figli di mia sorella perché erano sangue del mio sangue. Non sprecherò neanche un centesimo per i tuoi bastardi e per quella sanguisuga che ti sei scelto. Possa mia sorella maledirti dall’altro mondo!» La maledizione si era abbattuta su di lui con la velocità di un fulmine. Nessuno più gli aveva fatto credito. Era stato costretto a dichiarare fallimento, con una moglie e tre figli di secondo letto da mantenere. Infatti, oltre già citati Michele e Nicola, Carmine aveva due sorellastre e un fratellastro. Niente d’eccezionale, a quei tempi una famiglia numerosa non destava scalpore. Con l’aiuto di Dio, si arrivava anche a dieci o undici figli. Era un giorno solenne – una festa di precetto – quando Nicola litigò con la matrigna, e Matteo Mainardi lo cacciò di casa. Persino zia Rosina se la prese con lui. «Anche se è una puttana, tuo padre l’ha sposata, quindi le devi rispetto.» Nicola mise un po’ di roba in un borsone. Avrebbe trascorso qualche notte fuori, finché non fossero venuti a cercarlo. Si fermò alla prima insegna d’affittacamere, proprio vicino la casa di Magda, e comprò i taralli per cena da Giovanna. Poi salì una scala, e lì in cima lo accolse una vecchietta con gli occhi coperti da una lanugine bianca. Un’altra vedova, che affittava le stanze del suo appartamento per campare. Maria l’aiutava con i pensionanti, perché la vecchia era cieca. Passarono più giorni del previsto, prima che i fratelli scovassero Nicola. Gliene dissero di tutti i colori, ma lui non reagì. Si era chiuso in se stesso, non voleva neppure lasciare la pensione. Rispose che avrebbe trovato lavoro, tanto non era portato per gli studi; nel frattempo potevano dargli solo il necessario per vivere. Un giorno o l’altro sarebbe tornato dalla zia per baciarle le mani e ritirare la sua roba. «Gli hanno fatto una fattura» commentò incredula zia Rosina. «L’ho cresciuto con la mollica, e lui mi ringrazia così.» Il fatto è che Nicola era stato misteriosamente attratto dalla ragazzetta che gli serviva la colazione, Maria. Non si poteva certo definire una bellezza: mingherlina, scialba, con i lisci capelli color topo, gli occhi un po’ strabici. Tuttavia aveva modi così gentili da sembrare graziosa, e aveva conquistato il cuore di Nicola. ***


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I tempi stavano mutando, soprattutto dopo la guerra, e la città si manteneva al passo, cercando di modernizzarsi. L’ingresso al Gran Caffè era consentito alle signore in coppia, le donne si accorciavano i capelli, andavano al cinema e dal parrucchiere. In seguito a quello che era passato alla storia come “il Natale di sangue”, D’Annunzio si era ritirato al Vittoriale, a curarsi l’occhio cieco; e nuovi venti agitavano la patria. Scioperi al Nord, occupazione di latifondi al Sud. Scontento tra i reduci per la vittoria mutilata. Nessun Governo riusciva a tener testa alla situazione caotica, e dall’oggi al domani emerse un nuovo personaggio, che avrebbe guidato per un ventennio le sorti d’Italia. Proveniva dalle file dei socialisti, ma li aveva rinnegati per aderire al movimento irredentista. «Che ne pensate di questo Mussolini?» si chiedevano i cittadini, riunendosi come loro solito in piccoli assembramenti, in cui ognuno diceva la sua. Le donne lo adoravano per la sua prestanza fisica e la fermezza di carattere. Michele preferiva non immischiarsi in questioni politiche, mentre Carmine proclamava la propria fedeltà alle camicie azzurre, ai nazionalisti di D’Annunzio, agli eroici legionari di Fiume. Per conto suo, era stato dispensato dalla guerra, grazie a un certificato medico che lo dichiarava debole di cuore. Anche Rocco se l’era cavata per il rotto della cuffia. Era stato arruolato giusto il tempo necessario per le esercitazioni. Ora si preparava agli esami di maturità, con qualche annetto di ritardo. «Chissà se i preti lo nutrono a dovere» si tormentava Giovanna. Perciò gli spediva ogni settimana un pacco di biscotti con le uova e la glassa. I golosi biscotti di Pasqua. Era del tutto all’oscuro delle idee che gli ronzavano in testa: idee da avventuriero. Perché Rocco si proponeva di riscattare le fortune della famiglia. Non la masseria, che poteva restare dov’era, piuttosto era tentato dalle terre d’oltremare, le terre d’Africa, più promettenti per un giovanotto ambizioso e scaltro come lui. Avrebbe giocato la sorte nelle colonie, con o senza il consenso della madre. Non si vedeva nei panni di contadino, sporchi e cenciosi; ma ben vestito, proprietario di un hotel di lusso in Libia o in Eritrea. Un sigaro, un whisky, una partita a carte al termine della giornata.


35 A diciassette anni Magda – che aveva già conseguito la licenza media – superò gli esami d’ammissione alla scuola per maestre, ma la riforma Gentile mandò all’aria i suoi piani, introducendo lo studio del latino. Materia ostica per lei. «Pazienza, figliola! L’istruzione non è indispensabile a noi donne. Basta saper leggere, scrivere e far di conto. Guarda tua sorella Lucia, sta per sposarsi e il suo unico pensiero è avere tanti marmocchi» la confortò Giovanna. L’ambizione non apparteneva solo a Magda e Rocco, anche quell’anima semplice di Nino, il fidanzato di Lucia, concepiva progetti grandiosi. Chiamato a miglior vita suo padre, si mise d’impegno per ampliare la falegnameria e, soprattutto, dotarla di nuovi strumenti con i quali fabbricare prodotti da proporre in vendita: cornici, specchi, e persino mobili intagliati alla moda floreale. Finiva l’epoca delle riparazioni e cominciava l’era dell’artigianato. Nino non era al corrente che al Nord i mobili si producevano in serie.


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CAPITOLO 10

Ogni volta che Magda si scrutava allo specchio, notava con orgoglio solo gli occhi, di un bel nocciola con pagliuzze dorate, e la chioma fulva e folta, che la faceva spiccare tra la folla. Aveva il seno minuto e le spalle esili. Tra le clienti della boutique alcune si fasciavano il petto per appiattirlo ed essere al passo con la moda. Lei non aveva questo problema, ma doveva stare attenta a non ingrassare, soprattutto sui fianchi e sul sedere, dove si depositava l’adipe in eccesso. «Carmine si accorgerà mai che esisto?» si chiedeva, rispondendosi spesso di no. Secondo lei era meglio quando i matrimoni venivano combinati, così che le ragazze non si davano pensiero di apparire belle o brutte. Del resto, lei per dote aveva soltanto il suo talento e quel poco d’istruzione che era riuscita a procurarsi; le ricette di dolciumi di cui andava fiera sua madre, e nient’altro. Un cittadino di buona famiglia, d’estrazione sociale superiore alla sua, avrebbe mai potuto sposare una paesana? Si vergognava di quello che era, e del fatto che sua madre vendesse taralli. Eppure, da qualche tempo, il fratello più giovane di Carmine aveva iniziato a fare gli occhi dolci a Maria, che non era altro che una servetta. Sapeva bene che l’amica era innocente, per niente civetta, e ignorava gli artifici per accalappiare gli uomini. Spendeva buona parte del suo tempo in chiesa, a sferruzzare per i poveri. Di Filomena, invece, non c’era da fidarsi. Secondo Magda aveva infilato nel cuscino di Nicola una ciocca di capelli della figlia, magari recitandovi sopra un incantesimo pagano. Era una megera. Tuttavia, se non avesse temuto tanto il diavolo – quello con la coda e le corna, che saltava fuori dalle pagine dei fratelli Grimm e dalle storie ascoltate in paese – lei stessa avrebbe stretto un patto con lui, rinunciando alla sua anima pur di conquistare l’amore di Carmine. Magda ormai aveva quasi vent’anni e non poteva più vivere nel mondo delle illusioni, poiché sua madre glielo rimproverava di continuo.


37 Lucia aveva messo su famiglia. Le sue nozze non erano state sontuose come quelle di Amalia, si erano celebrate a San Gerardo, tra pochi intimi: amici e parenti dello sposo, dato che la famiglia Glielma non aveva conoscenze in città. Lucia diventò così la signora Ricciuti, e andò ad abitare in una casa umida, su un corso d’acqua, a cui si accedeva per mezzo d’un ponticello. Il marito le aveva promesso che si sarebbero trasferiti presto in un appartamento di nuova costruzione. Intanto rimase incinta del primo figlio. Soldi permettendo, ne avrebbero fatto un medico o un avvocato, perché la seconda generazione doveva progredire, anziché seguire le orme paterne. Rocco partì per le colonie, secondo la sua ferrea volontà. A nulla valsero i pianti di Giovanna. «Sei il mio unico maschio, la colonna della famiglia.» Anche Amalia divenne madre, ma non la rividero più dopo le nozze. Non che il viaggio da Genova fosse lungo o costoso, ma con i figli divenne più difficile. Loro si accontentarono delle lettere che arrivavano una volta al mese, con impeccabile regolarità. Giovanna non conobbe mai i nipotini, i quali, come aveva previsto, nacquero con i capelli rosso fiamma, né riabbracciò la sua primogenita. Almeno non su questa Terra. Giovanna rimase sola con Magda, l’unica figlia che le sembrava “strana”, sempre con la testa tra le nuvole, troppo occupata da frivolezze per diventare adulta. «Forse, senza volerlo, l’ho viziata» si rimproverava la donna. Faceva un inevitabile paragone tra la figlia e Maria, e le dispiaceva che persino una ragazza tanto scialba avesse trovato un giovanotto con intenzioni serie. Venne poi a sapere che Filomena aveva firmato un contratto per fargli aprire una tabaccheria. I latticini rendevano sempre bene, meglio dei taralli. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


Indice

INDICE

CAPITOLO 1 ..................................................................................... 3 CAPITOLO 2 ..................................................................................... 7 CAPITOLO 3 ................................................................................... 10 CAPITOLO 4 ................................................................................... 13 CAPITOLO 5 ................................................................................... 16 CAPITOLO 6 ................................................................................... 19 CAPITOLO 7 ................................................................................... 22 CAPITOLO 8 ................................................................................... 26 CAPITOLO 9 ................................................................................... 30 CAPITOLO 10 ................................................................................. 36 CAPITOLO 11 ................................................................................. 38 CAPITOLO 12 ................................................................................. 44 CAPITOLO 13 ................................................................................. 48 CAPITOLO 14 ................................................................................. 53 CAPITOLO 15 ................................................................................. 58 CAPITOLO 16 ................................................................................. 60 CAPITOLO 17 ................................................................................. 64 CAPITOLO 18 ................................................................................. 72 CAPITOLO 19 ................................................................................. 76


CAPITOLO 20 ................................................................................. 80 CAPITOLO 21 ................................................................................. 85 CAPITOLO 22 ................................................................................. 92 CAPITOLO 23 ................................................................................. 97 CAPITOLO 24 ............................................................................... 105 CAPITOLO 25 ............................................................................... 111 CAPITOLO 26 ............................................................................... 118 CAPITOLO 27 ............................................................................... 123 CAPITOLO 28 ............................................................................... 128 CAPITOLO 29 ............................................................................... 134 CAPITOLO 30 ............................................................................... 143 CAPITOLO 31 ............................................................................... 150 CAPITOLO 32 ............................................................................... 159 CAPITOLO 33 ............................................................................... 168 CAPITOLO 34 ............................................................................... 177 CAPITOLO 35 ............................................................................... 183


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Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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