Maestrale, Giuseppe Rosa

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GIUSEPPE ROSA

MAESTRALE

ZeroUnoUndici Edizioni


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MAESTRALE Copyright © 2019 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-349-9 Copertina: immagine Shutterstock.com

Proprietà letteraria riservata. L'opera è frutto dell'ingegno dell'autore. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone in vita o defunte è assolutamente casuale.


A Greta



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Cagliari, 1668 «Viva Dio!» «Sia gloria alla sua bontà!» «Il viceré è morto, viva la libertà!» «A morte i tiranni, viva la giustizia!». «Viva!». La carrozza correva per la campagna lasciando alle sue spalle nuvole di polvere che annebbiavano l'aria secca del tardo pomeriggio. La gente che era scesa per le strade urlava senza nessun ritegno la propria gioia per la morte del viceré. Per le campagne si sentivano i ritocchi delle campane a festa che annunciavano la caduta del tiranno e al passare della carrozza tutti si facevano ai lati della strada per manifestare il proprio odio rimasto per anni celato. La notizia si era sparsa più veloce del maestrale e come il vento irrompeva nei villaggi e nelle campagne ad agitare le genti. Il viceré era stato assassinato. L'odiato rappresentante della corona spagnola in Sardegna era stato ucciso a Cagliari durante la processione della madonna del Carmelo mentre, con la sua carrozza, passava per le vie del centro. Qualcuno, armato di archibugio, gli aveva sparato dal balcone di una casa che si affacciava proprio nella via in cui passava la processione, uccidendolo sul colpo. Ma la notizia, per quanto improvvisa, non arrivò inaspettata. Si potrebbe dire che tutti in Sardegna, eccetto gli iberici, sapevano che prima o poi sarebbe accaduto. Era solo questione di tempo.


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Fin da subito si pensò a un delitto commesso dietro commissione, su questo nessuno aveva dei dubbi. Gli uomini che volevano la sua morte erano tanti, soprattutto tra le fila dei nobili sardi. I motivi erano da ricercarsi indietro nel tempo, in un passato non molto lontano. Il viceré della Sardegna, il marchese Camarassa, era entrato in rotta di collisione con l'aristocrazia sarda quando, ricorrendo al potere della sua carica, aveva negato l'apertura del Parlamento sardo. Per quanto la Sardegna fosse schiacciata dal peso della corona spagnola dal 1479, ossia da quando il re d’Aragona, Ferdinando II, si era unito in matrimonio con Isabella di Castiglia, formando così il Regno di Spagna. La Sardegna, che apparteneva appunto del Regno di Aragona, era entrata a far parte dei territori spagnoli, ma così come era avvenuto durante il periodo aragonese, aveva conservato parte della sua autonomia di origine giudicale con il Parlamento sardo. Quest’organo di governo garantiva, seppur sotto il controllo della Spagna, un minimo di autonomia alla nobiltà locale permettendo di deliberare leggi in merito agli interessi dell’isola. Nel corso del tempo, però, il Parlamento era diventato inoperoso. I nobili sardi, oppressi dalle ingenti tasse della Corona, chiedevano di poter discutere dei donativi al sovrano spagnolo proprio nella sede del Parlamento. Il viceré Camarassa, per contro, si rifiutava di concedere loro questo, se pur minimo, privilegio. Il ventisette luglio del 1668, tutto il popolo sardo, influenzato dal quadro negativo con il quale i nobili locali dipingevano il viceré, aveva in odio Camarassa per aver negato alla Sardegna il diritto alla sua autonomia espressa attraverso la discussione degli Stamenti presso la sede del Parlamento. Per questo la sua morte venne accolta con giubilo. Donna Francesca Zatrillas, pur non avendo partecipato al delitto, era comunque in pericolo. Dopo l'uccisione del viceré, la città del capoluogo sardo era diventata infatti molto pericolosa per lei. Il suo amante, don Silvestro Aymerich, saputo dell'omicidio aveva prontamente ordinato a donna Francesca di scappare dalla città prima che le porte del capoluogo venissero chiuse e non vi fosse possibilità di fuga. Le aveva procurato una carrozza e delle guardie di scorta. Durante i preparativi della fuga, don Silvestro aveva donato a donna Francesca un piccolo forziere quale pegno del loro amore, con la promessa che si sarebbero rivisti da lì a cinque giorni nella città di Livorno.


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Tutti sapevano della loro relazione e i due amanti erano diventati ancora più famosi quando, qualche mese prima, il marchese di Laconi, marito di donna Francesca, era stato assassinato per avvelenamento. Il popolo pensò a loro due quali mandanti dell'assassinio. La nobiltà sarda no. Volle invece approfittare dell'uccisione per far girare voce che il mandante del delitto fosse l'odiato viceré Camarassa, in guerra ormai da tempo con i nobili dell'isola. Egli infatti era restio a concedere ulteriori benefici e privilegi all'aristocrazia sarda e l'assassinio del marchese poteva essere sfruttato per avvalorare la loro causa. L'episodio finì per far decadere i già compromessi rapporti tra il viceré e l'aristocrazia isolana. In risposta al suo atteggiamento da tiranno, la nobiltà isolana escogitò una strategia di discredito nei suoi confronti e la propaganda portò all'epilogo sperato: la morte del viceré. Appena appreso dell'attentato, donna Francesca Zatrillas capì che la sua vita ora era in forte pericolo. Per questo aveva fretta di raggiungere il castello del Montiferru, dove avrebbe soggiornato prima di imbarcarsi per Livorno dal vicino porto di Foghe. Sballottata dai sobbalzi della carrozza, sollecitava periodicamente i suoi uomini a fare il più presto possibile. All'interno della cabina, lei e la sua guardarobiera osservavano la campagna sfrecciare fuori dal finestrino. Gli occhi verde smeraldo di donna Francesca brillavano al riflesso del caldo sole di luglio e le sue mani stringevano forte il forziere che teneva poggiato sulle gambe. Non aveva avuto nemmeno il tempo di indossare un abito da viaggio, così ora l'elegante vestito turchese che aveva indossato per la processione si stava imbrattando di polvere al pari dell'elaborata acconciatura che raccoglieva i suoi capelli rossi in boccoli cascanti sulle spalle. Posava il suo sguardo sulla campagna polverosa che scorreva fuori dal finestrino, offrendo così il suo splendido profilo alla sua guardarobiera che le sedeva di fronte. Non sarebbe stato un viaggio facile, e lei lo sapeva. Doveva raggiungere quanto prima il castello del Montiferru dove avrebbe trovato riparo per qualche giorno, poi si sarebbe imbarcata e avrebbe lasciato l'isola. La strada da percorrere era ancora tanta e lei aveva la continua paura di incontrare una pattuglia di soldati spagnoli che l'avrebbero potuta riconoscere e arrestare.


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Subito dopo l'assassinio, infatti, i soldati spagnoli aveva chiuso le porte della città e dichiarato il coprifuoco. Lei era riuscita a fuggire grazie all'aiuto del suo amante, Don Silvestro Aymerich. Alto e slanciato, Don Silvestro fu notato fin dal loro primo incontro da donna Francesca tra il resto della nobiltà sarda. Mentre camminava nella sala del palazzo del viceré, donna Francesca aveva osato un secondo di troppo con il suo sguardo verso il nobile Aymerich al quale non era sfuggita quella curiosità. Fu così che nacque il loro amore. Amore che adesso veniva messo a dura prova con la fuga da Cagliari e la separazione dei due amanti. Quando la carrozza giunse nel marchesato di Oristano, un forte temporale si abbatté su di loro e non li abbandonò fino alla loro meta. Nonostante fosse estate inoltrata, la violenza della pioggia era tale da far rabbrividire di freddo la contessa. Grosse gocce d'acqua si scagliavano contro il terreno secco, arso dal caldo sole estivo e per questo non abituato ad assorbire tutta quell'acqua che veniva giù come non accadeva mai neanche in inverno, riducendo così ben presto la strada in un acquitrino ricco di pozzanghere. Se voleva mettersi in salvo, però, donna Francesca doveva assolutamente raggiungere la fortezza del Montiferru. Per questo, nonostante la pioggia, si affacciò fuori dal finestrino della sua carrozza e urlò al cocchiere di fare presto. «Non si può andare più veloci di così, Signora». «Frustate quei maledetti cavalli, allora». «Li stiamo già frustando, ma la strada è tutta una pozzanghera e ormai la luce è scarsa. Forse conviene fermarci e aspettare che passi questo temporale». «No! È un ordine, dovete proseguire, dobbiamo raggiungere il castello oggi stesso». Il cocchiere accennò un "Sissignora" che lasciava intendere tutta la sua contrarietà a quell'ordine, ma non poteva fare altrimenti. Dopo tre ore la carrozza si arrestò di colpo. Donna Francesca si sporse fuori dal portellino per capirne il motivo. «Signora, non si può procedere oltre». La carrozza si era fermata ai piedi del colle sulla cui sommità sovrastava il piccolo castello del Montiferru. Era una fortezza militare eretta cinque secoli prima a difesa del giudicato di Torres, poi passata al giudicato di Arborea in seguito alla conquista dei territori da parte di quest'ultima. Con


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l'arrivo degli Aragonesi, aveva continuato a svolgere la sua funzione di roccaforte del territorio costiero. Vi vivevano alcune guarnigioni di soldati che si occupavano prevalentemente della salvaguardia delle terre dalle incursioni dei pirati saraceni. Dal castello si vedeva infatti una larga fetta della costa occidentale dell'isola e insieme alle torri di avvistamento fatte costruire dagli spagnoli, si riusciva a monitorare un vasto tratto di mare. «I cavalli non ce la fanno a trainare la carrozza su quel pendio, dovete proseguire a piedi». Donna Francesca guardò il castello arroccato sopra al colle. La pioggia rendeva la sua struttura una vaga figura scura e ombrosa, distinguibile solo come un tozzo edificio in pietra con due grosse torri ai lati. Il tratto di strada che vi conduceva era fatto di sola roccia che l'acqua rendeva viscida e scivolosa, impossibile da trovare presa per le ruote della carrozza. «Va bene» disse, poi prese con sé il forziere e se lo mise sotto al mantello. Quando arrivò dentro al forte era fradicia e sudata. Per tutta la salita non aveva permesso a nessuno di prendere il forziere che teneva ben stretto. La sua guardarobiera l'aveva accompagnata per tutto il viaggio osservandola spesso accarezzare il prezioso scrigno posto sopra alle sue gambe e ora non si stupiva se la contessa non voleva allontanarsi da esso. Il comandante della guarnigione la accompagnò al suo alloggio. Il suo grado, infatti, gli consentiva di avere l'unica stanza del forte con un letto singolo e un camino. Appena appreso che la contessa di Laconi, donna Francesca Zatrillas, sarebbe stata ospite del castello per un giorno, fece riordinare il suo alloggio dai soldati. Era l'unica stanza del forte in cui la contessa avrebbe potuto trovare un po’ di intimità, ma non era di certo ciò a cui lei era abituata. Quando la nobildonna entrò nella piccola stanza non poté fare a meno di coprirsi le narici per il tanfo di sudore. Congedò immediatamente il militare e chiese alla sua guardarobiera di prepararle un po’ di acqua calda. Era totalmente fradicia, un misto di acqua e sudore, e un buon bagno caldo sarebbe stato l'ideale per rimettersi da quel lungo e faticoso viaggio. Maria Concas, la guardarobiera, uscì dalla stanza ma dovette rientrarvi subito per comunicare alla sua signora che per l'acqua calda bisognava aspettare, i militari non erano ancora riusciti a riaccendere il fuoco per via della pioggia. Donna Francesca si spazientì.


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«Va bene, va bene, lascia stare. Di’ a quegli zotici di non preoccuparsi. Aiutami a svestirmi». Quando si mise a letto sentiva ancora i brividi di freddo.


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Carcere di Parma, oggi. Gli occhi fissi sul muro. Ormai ne conosce ogni segno, ogni graffio, ogni parola. Graffiti di disperazione che raccontano le ingiustizie subite e la rabbia repressa. Dolore. Dolore dentro. Dolore fuori. Il dolore dentro è iniziato dodici anni prima, quando, per la prima volta, ha varcato il portone del carcere. Il dolore fuori è fresco di qualche ora, quando, nelle docce del carcere, è stato aggredito e pestato a sangue. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito. L'omertà è una vecchia compagna di viaggio su cui anche lui, qualche volta, ha fatto affidamento. Fuori piove. Dentro si piange. Nessuno si accorge di lui, eccetto Gennaro, il suo compagno di cella. I due sono insieme da tre anni, cioè dall'arrivo di Daniele al carcere di Parma. Daniele non ha mai voluto dire a nessuno i motivi del suo arresto perché anche lui fatica a crederlo. Prima di Parma è stato nel carcere di Lodi e di Nuoro. Anche lì ha preferito rimanere isolato, non legarsi con nessuno perché nessuno può essergli d'aiuto.


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Il suo dolore va gestito in solitudine. Anche la solitudine è una sua vecchia compagna di viaggio. Non che non abbia mai avuto amici, anzi, nel suo paese erano tante le persone che potevano contare su di lui e lo consideravano un amico fidato, sincero, di quelli disposti a tutto pur di non tradire un'amicizia. È che lui è un tipo schivo alle parole. Preferisce l'azione all'eloquio. È sempre stato solo con se stesso, con la sua coscienza, con la sua testa. Ha sempre preferito ragionare da solo piuttosto che condividere con altri i sui problemi. E questa peculiarità è emersa ancora di più da quando si trova in carcere. L'ambiente carcerario non è certo l'ideale per sfogarsi e confessarsi con qualcuno. Bisogna diffidare di tutti, essere scaltri e forti, resistere alle pressioni, sopravvivere ai soprusi. Eppure, anche in carcere, anche in un ambiente così duro bisogna avere una valvola di sfogo, si deve trovare un'intesa con la propria coscienza altrimenti diventa sempre più difficile andare avanti. Ma questa intesa è dura da trovare quando si sa di essere innocenti. Per lui, infatti, non c'è mai stata ragione per tutto quello che gli è accaduto. Non c'è mai stata una spiegazione plausibile alle ingiustizie di cui è stato vittima. Per questo ha deciso di piangere solo con se stesso. Per tal motivo ha rifiutato i colloqui con gli psicologi e le confidenze con i compagni di cella preferendo trascorrere il tempo dietro le sbarre isolandosi dal mondo, estraniandosi da tutto e da tutti, nella speranza che questo fosse sufficiente a sopravvivere. Ma adesso non basta più. Da quando è arrivato a Parma tutto è peggiorato. All'inizio era un carcere come gli altri, si viveva giorno per giorno ripetendo la stesse azioni, cercando di rispettare quotidianamente la stessa routine come intrappolati da una nebbia che tutto copre e tutto offusca così da non far ricordare il mondo al di là delle mura. Poi sono arrivati loro e la sua vita è cambiata. All'inizio Gianni e Claudio non sapevano chi fosse. Poi Claudio lo ha riconosciuto e da allora sono incominciati i guai. I due detenuti non lo hanno più lasciato in pace. Inizialmente erano solo minacce, poi sono diventati pestaggi, così come quello di quell'ultima sera.


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Lo avevano sorpreso nelle docce. Era da solo perché aveva deciso di evitare gli orari in cui tutti i detenuti sono soliti affollare le docce. Per chi deve colpire è più facile agire in mezzo alla confusione. Così aveva deciso di scendere nei locali verso le venti e trenta, sicuro di non trovarvi nessuno. Ma così non è stato. Gianni e Claudio erano già lì ad attenderlo, evidentemente avevano scoperto i suoi orari grazie a qualche soffiata. Il pestaggio si è svolto sotto l'acqua fredda. Non gli hanno dato nemmeno il tempo di urlare aiuto. Prima lo hanno colpito alle spalle con una spranga di ferro, poi hanno continuato sotto il getto d'acqua fredda per evitare di lasciare lividi sul corpo. Il lavoro è durato in tutto un quarto d'ora. Quando sono andati via, Daniele era rannicchiato sul piatto della doccia con il corpo dolorante. Pian piano è riuscito a rivestirsi e fare rientro in cella. Qui si è disteso sulla branda senza dire niente di quello che gli era capitato. Era però sicuro che il suo compagno di cella Gennaro avesse capito tutto, ma ormai aveva rinunciato da tempo a fare domande. E ora era lì, disteso sul letto a fissare il muro della parete opposta. A fatica si gira sul fianco e cerca di dormire. Dopo un'ora viene svegliato da un lamento. All'inizio non è certo di aver sentito bene, perciò dopo aver aperto gli occhi rimane immobile in attesa. Poi sente di nuovo il singhiozzo e si volta verso il letto di Gennaro. Questi è disteso immobile con gli occhi sbarrati e un braccio penzolante fuori da letto. Daniele lo guarda in silenzio senza chiedere niente, poi vede il sangue e capisce. La mano che sporge dal letto è imbrattata di un liquido scuro che cade gocciolante sul pavimento. Gennaro si è tagliato i polsi.


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Cuglieri, 1985 Il vento forte si era finalmente quietato. Qualche fronda degli alberi ancora si agitava, in ricordo del forte vento di maestrale che per tre giorni aveva tempestato da nord-ovest. La maggior parte delle piante del terreno di tziu Bachisiu erano cresciute sotto la forza del maestrale e nessuna si era mai arresa a quel vento impetuoso. Gli olivastri e i corbezzoli avevano piantato le loro forti radici nel terreno e così avevano tenuto banco alle sferzate del vento, altre, come le querce da sughero, si erano piegate con il loro tronco alla forza del maestrale, come a volerne riconoscere l'autorità, ma la loro chioma non aveva mai abbassato la china per far intendere che mai e poi mai si sarebbero arrese a esso. Ora le piante di tziu Bachisiu riposavano, sopravvissute ancora una volta ai tre giorni di maestrale. «Su maestrale sulada sempere a diese chispè». Il maestrale soffia sempre a giorni dispari, erano soliti ripetere gli anziani, perciò, quando al terzo giorno la sua forza non si era ancora affievolita, allora voleva dire che sarebbe durato altri due giorni almeno. I suoni dei campanacci si diffondevano nell'aria indicando la presenza del gregge. Tziu Bachisiu osservava le sue pecore seduto per terra con la schiena poggiata al tronco di una quercia. Aveva le gambe distese e incrociate l'una sull'altra. Tra le mani teneva il suo lungo bastone di olivastro che ormai, all'età di settantasei anni, serviva più da appoggio per le sue gambe anchilosate dall'artrite che come bastone da pastore. Poggiava il capo al


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tronco dell'albero e teneva il piccolo cappello di fustagno, su bonette, calato sulla fronte per riparare gli occhi dal gelido sole novembrino. I ragazzini lo osservavano dal loro nascondiglio. Parlavano tra di loro facendo attenzione a non farsi sentire né dal vecchio pastore né dal suo maremmano. Dovevano decidere chi tra loro sarebbe andato da lui. Nessuno se la sentiva di affrontare quel compito, e poi si sapeva che Grazianeddu era il più adatto. Lui aveva una parlata sicura, era bravo a conversare con gli adulti tenendo banco ai loro discorsi senza apparire infantile. Grazianeddu era il più grande della compagnia. Aveva un fisico asciutto e sovrastava in altezza tutti gli altri. I suoi occhi azzurri trasmettevano uno sguardo sicuro, da uomo fatto, e per questo gli adulti, quando parlavano con lui, pensavano sempre che fosse maggiorenne. Alla fine Grazianeddu cedette. Sarebbe andato lui a parlare con il pastore. Fece un largo giro e poi entrò nel terreno dove si trovava il gregge. Il maremmano si accorse subito della sua presenza e gli andò incontro abbaiando. Grazianeddu non mostrò alcun segno di paura ma accolse il minaccioso cane con una specie di fischio che lo fece quietare immediatamente. Tziu Bachisiu nel mentre aveva sollevato su bonette dalla fronte e osservava il ragazzo che si avvicinava. Grazianeddu attraversò il campo passando volutamente in mezzo al gregge. Ma mano che avanzava le pecore ruppero il loro gruppo compatto e si sparsero per tutto il pascolo. «Salude tziu Bachiusiu». «Salude a tie. Cosa fai da queste parti?». «Sto cercando funghi, autunnu mudregu». «Questa non è zona da antunnu mudregu, lo trovi più su, verso i monti. Qui esce solo feurrazzu e antunnu ruggiu». «Eh, va be’, era tanto per farmi un giro». «Ho capito. Tuo padre come sta? Si è rimesso?». «Sta bene, gli fa ancora un po’ male la gamba ma non come quando è caduto. I primi giorni stava davvero male. Ha detto che non si è accorto di nulla finché non ha sentito il cane abbaiare. Allora ha provato a correre verso le pecore perché aveva capito che c'era qualcuno, ma non ha visto il sasso ed è inciampato».


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«Eh, io lo so come vanno queste cose. Devono essere forestieri che vengono da noi per fregarsi qualche pecora. Quando avevo la tua età anch'io ho fatto qualche cazzata di questo tipo. Con gli amici andavamo nei paesi vicini e rubavamo una pecora. Poi la sera la macellavamo e organizzavamo uno spuntino a cui, alle volte, invitavamo anche il proprietario dell'animale. Lui non lo sapeva che si stava mangiando la sua pecora, e noi ridevamo alle sue spalle». Il pastore proseguì a raccontare di altre sue gesta giovanili. Nel mentre i ragazzini avevano catturato una delle pecore che si era allontanata dal gregge in seguito al passaggio di Grazianeddu. Quella sera l'avrebbero macellata e cucinata. Come tradizione, avrebbero cotto i gnocchetti sardi con il brodo, mentre la carne bollita, insaporita dalle patate e dalle cipolle, sarebbe stata servita a tavola in sa sippa, il grosso vassoio di sughero utilizzato per servire la carne. Tutta la compagnia si sarebbe ritrovata nel garage di Mario, il quale aveva tutto l'occorrente per cucinare la pecora, dal grosso pentolone in rame al fornello da campo. Avrebbero mangiato seduti al lungo tavolo che il padre aveva allestito in garage perché potesse servire in occasioni come quella. Al banchetto ovviamente avrebbero invitato anche tziu Bachisiu, giusto per rispettare le tradizioni.


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Guluris Nova, 1846 «Ohi Deus meu, ohi Deus meu, e como comente amos a faghere?». Già, come avrebbero fatto adesso, si chiedeva tia Luigina dopo aver appreso la notizia. Di certo quella mattina, dopo aver aperto la porta di casa, tutto si sarebbe aspettata eccetto di trovarsi davanti sua sorella Salvatorica che le portava notizia di quel triste evento. Don Bittanu era morto. Con il solo scialle nero sulle spalle, nonostante il freddo terribile di quei giorni invernali, tia Salvatorica non aveva perso un istante e, non appena appreso del lutto che aveva colpito il loro paese, Guluris Nova, un borgo di poche anime aggrappate a un colle con le loro misere case, si era subito recata a casa della sorella per informarla. «Cando?» aveva chiesto tia Luigina. «Custa notte» aveva risposto la sorella. «E comente?» aveva incalzato tia Luigina. «In su sonnu» aveva sentenziato Salvatorica. E questo era tutto. Tutto ciò che la sorella era riuscita a sapere dalle voci che circolavano. Don Bittanu Nepente era morto durante il sonno quell'ultima notte. Quando tia Salvatorica era uscita di casa per recarsi a s'istangu, l'unico tabaccaio del paese, per rifornirsi della sua scorta settimanale di tabacco da sniffo, aveva appreso la notizia direttamente da Tiu Giuanninu Loi, s'istangheri.


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Quest'ultimo, a sua volta, lo aveva saputo direttamente da tiu Innassi Botteri, il primo cliente della giornata. Don Bittanu era morto quella notte durante il sonno. Anche quella mattina di febbraio, tiu Innassi si era svegliato all'alba per recarsi alle greggi che pascolavano in un terreno a cinque chilometri dal paese. Statura media, barba più bianca che grigia a dare un po' di colore a quella testa altrimenti carente di peluria, due occhi color ghiaccio e un fisico asciutto, tiu Innassi era un cinquantino che tutti i giorni si svegliava all'alba per raggiungere il gregge. Con addosso il suo consueto vestito tradizionale nero e bianco, composto da berrita, il copricapo, su bentone, una camicia bianca di cotone con su zippone sopra, un giubetto nero simile a un gilet, sos cartzones, i tradizionali pantaloni bianchi di cotone con sopra sas ragas, dei pantaloncini neri e, infine, su gabbanu, un soprabito nero in orbace, avrebbe percorso la distanza in groppa a Gina, la sua asina da circa vent'anni. Prima di uscire dal paese, però, com’era sua abitudine, sarebbe passato da tiu Giuanninu Loi, s'istangheri, per acquistare sos zigarros, i sigari. Mentre l’asina Gina percorreva il tratto di strada davanti alla casa della famiglia Neppente, tiu Innassi aveva sentito qualcuno gemere da dentro l'abitazione. Si trattava di una palazzina posta proprio al centro del paese, di fronte alla piazza principale, con i balconi che si affacciavano su di essa e dai quali Don Bittanu, nelle sere d'estate, era solito prendere il fresco. Tiu Innassi aveva deciso di arrestare la svogliata andatura del suo somaro e, sempre restando in sella, aveva bussato al portone di casa. Gli aveva aperto tia Tittina, la governante di Don Bittanu. Reggeva in mano un fazzoletto e la sua chioma, solitamente raccolta in una crocchia sulla nuca, era ora invece scompigliata, come se avesse passato le ultime ora a tirarsi i capelli per la disperazione. Tiu Innassi non si scompose per quell'apparizione e, sempre restando in sella alla sua Gina, chiese alla governante: «Ita è?» «Mortu» disse tia Tittina. «E comente?» chiese tiu Innassi. «I su sonnu» rispose tia Tittina. «S'Inferru chi si l'accolzede! L'Inferno se lo prenda!» sentenziò tiu Innassi, e per rinforzare quel suo augurio, sputò per terra proprio sotto il muso di Gina. Quindi diede due colpi di scarponi al ventre della somara e si avviò verso la bottega di tiu Giuanninu Loi trotterellando. Quel giorno, invece dei soliti due zigarros, ne avrebbe acquistato quattro.


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Voleva festeggiare la morte Don Bittanu Nepente. Per economizzare con i suoi zigarros, tiu Innassi adoperava il metodo che gli aveva insegnato suo nonno: «Fumma a fogu aintro – gli aveva sempre ripetuto fin da piccolo, ossia da quando a dodici anni aveva iniziato a fumare – ghasi ti durana de prusu». Fuma con il fuoco dentro, così durano di più. E così faceva. Dopo aver acceso su zigarru, lo girava con il fuoco all'interno della bocca e qui lo faceva consumare lentamente aspirando il fumo passivo. Ogni tanto era costretto a toglierlo di bocca per sputare e far riposare la lingua che era costretto a tenere ritirata all'interno. Quel metodo gli consentiva però di far durare il doppio i suoi sigari e, inoltre, gli assicurava di non essere individuato al buio. Qualcuno diceva che quel modo di fumare era stato inventato dai ladri di bestiame che la notte, per poter comunque fumare i loro zigarros, avevano escogitato quel sistema. Per altri, invece, quella maniera di fumare era dovuta esclusivamente al suo tornaconto economico. Anche tiu Innassi era di questo avviso, ma per quel giorno non voleva preoccuparsi di economizzare con i suoi sigari. Dopo essere entrato in s'istangu, infatti, aveva ordinato quattro sigari al compiaciuto e, nel contempo, stupito tiu Giuanninu Loi. «E comente mai oe ne cheridese battero?» Come mai oggi volete quattro sigari? «Ca bi sunu bonas noasa». Perché ci sono buone notizie. «E ite ha suzzessu?» Cos'è successo? «Istanotte este mortu su beccu, in su sonnu». Questa notte è morto il caprone, nel sonno. Dette queste parole, tiu Innassi prese i suoi sigari e con aria di sfida ne mise subito uno in bocca e lo accese. Poi, anziché girarlo con il fuoco all'interno del cavo orale come era solito fare, diede una poderosa aspirata che fece diventare ardente il suo sigaro, quindi soffiò in aria una zaffata di fumo che fece calare la nebbia all'interno de s'istangu. Tiu Giuanninu aveva subito capito che su beccu, il caprone, era riferito a Don Bittanu. Questo era infatti l'usuale modo in cui tiu Innassi chiamava il suo datore di lavoro. Tiu Innassi era finito al servizio di tiu Bittanu per via di una legge, o per meglio dire, di un Reale Editto del Re di Sardegna. Da quando infatti un editto del Regno sardo emanato il 6 ottobre 1820 aveva autorizzato la chiusura dei terreni fino ad allora adoperati da tutti in quanto terre comunali. Gli unici a potersi permettere il gravoso costo della


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recinzione dei terreni erano stati i latifondisti dell'isola, che da tempi antichi praticavano il sistema feudale su quelle terre, un sistema che però era stato tenuto a bada fino ad allora grazie al diritto di ademprivio, ossia il diritto di pascolo e sfruttamento delle terre comuni da parte della popolazione. Una volta emanato l'editto nel 1820, detto per l'appunto Editto delle chiudende, i primi a venirne a conoscenza erano stati proprio gli antichi baroni che avevano trasformato quelle terre comuni in proprietà privata. Tra questi baroni si annoverava anche Don Bittanu, il quale, al pari dei suoi colleghi, si era accaparrato per sé i due terzi dei terreni di Guluris Nova e aveva preteso in seguito l'affitto per l'usufrutto di quelle terre. Dopo tale atto, tiu Innassi si era visto costretto a vendere il suo bestiame proprio a Don Bittanu, in quanto con i pochi soldi che ricava dalla vendita dei formaggi e degli agnelli, non riusciva a coprire i costi dell'affitto dei terreni. Così, al pari di tanti altri pastori del paese, aveva ricevuto la proposta dallo stesso Don Bittanu: lui avrebbe ceduto il suo bestiame a Don Bittanu come pagamento degli affitti arretrarti e inoltre sarebbe stato assunto a suo servizio come servo pastore. «Ti cumbenidi azzettare, puitte sighese a tribagliare e tenese s'inari siguru» gli aveva suggerito anche sua moglie. Già, in effetti avrebbe potuto continuare a lavorare e avere soldi sicuri in tasca, quelli che gli avrebbe passato mensilmente Don Bittanu. Ma tiu Innassi era riluttante a cedere. Fin da giovane aveva lavorato come pastore indipendente. Ora, se non fosse stato per i suoi figli piccoli, non avrebbe mai accettato quella proposta. Ma si vide costretto a farlo. Così, anche lui, come suo padre, era diventato un pastore al servizio di Don Bittanu. D'altronde, quella era stata la stessa scelta che avevano fatto anche gli altri pastori ancora liberi del paese i quali, trovatisi presto impossibilitati a pagare l'affitto delle terre ora di proprietà di Don Bittanu, si erano visti costretti ad accettare la stessa proposta che Don Bittanu aveva fatto a tiu Innassi. Tutto il paese, in un modo o nell'altro, dipendeva dall'anziano latifondista. Per questo quando quella mattina tia Luigina aveva appreso la notizia da sua sorella Salvatorica si era disperata. Anche suo marito era un servopastore a contratto con Don Bittanu Nepente, ora che il padrone era scomparso, che fine avrebbero fatto loro?


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Parma, oggi. «Pronto». «Ciao Zoe, sono Claudio». «Ehi, ciao, stavo giusto pensando di farti uno squillo». «Ah sì, allora ho fatto bene a chiamarti! Temevo di disturbare, immagino tu sia indaffarata». «Sì, in effetti è così, ma il tempo per una chiacchierata con te lo si trova sempre». «Allora, che mi dici? Com'è?». «Ma, non saprei, non mi sono ancora fatta un'idea chiara. Come puoi immaginare c'è un bel daffare». «Sì, capisco». «Ieri ho avuto l'incontro con il primario di reparto e il direttore dell'ospedale. Sono stati entrambi molto gentili con me e, devo dirti, hanno fatto in modo che mi sentissi a mio agio. La situazione è pressoché simile alle Molinette, carenza di personale e turni stressanti». «Ti avevo avvertito prima di accettare la loro proposta!». «Lo so Claudio, però, come ti ho già spiegato, dovevo cambiare, non potevo continuare quella vita. Il divorzio con Enzo è stato un brutto colpo, avevo bisogno di allontanarmi dalla città in cui ho vissuto il mio matrimonio. Non ce la facevo più a fare buon viso con tutti i nostri amici quando dentro, in realtà, avevo una gran voglia di mandare tutti a quel paese». «In effetti tuo marito è stato un vero e proprio stronzo!».


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«Puoi dirlo forte. Non avrei mai immaginato che fosse capace di tanto! Con le ragazzine, Claudio, ci pensi? Si faceva le alunne del suo corso! Un vero porco». «Già, porco lui e ipocrita la sua famiglia. Come potevano pretendere che tu lo perdonassi? Come se il fatto che tu non potessi avere figli lo autorizzasse a spassarsela con le studentesse della facoltà?». «Sai, Claudio, come ti ho raccontato in ufficio, il colpo più duro in realtà l'ho avuto da parte della madre: quando ha saputo che io ed Enzo stavamo per separarci è venuta a trovarmi a casa e mi ha trattata da miserabile, addossandomi le colpe del comportamento del figlio. D'altronde, mi ha detto, come potevo pretendere che mio marito mi rispettasse se non sono stata in grado di dargli un figlio. Senza un bambino la nostra unione era destinata al fallimento, era ovvio». «Le parole possono fare più male delle pallottole!». «Hai ragione, un vero e proprio colpo al cuore». «Va bene, non pensarci più. Piuttosto, qui ti salutano tutti, mi hanno chiesto di farmi portavoce da parte loro e di dirti in bocca al lupo». «Ringrazia tutti da parte mia e di loro che mi mancano. Qui a Parma devo lavorare da sola, non ho nessuno con cui potermi confrontare e questo sarà difficile per me che sono abituata ad affrontare i casi con i miei colleghi». «Ehi, non ti dimenticare che ci sono sempre io! Anche se mi trovo a Torino non vuol dire che non possiamo discutere insieme dei casi più interessanti!». «Sì, è vero, posso sempre contare sul mio amico e collega Claudio. Ti ringrazio per la chiamata e ti prego di salutare tutti quanti da parte mia. Dà un abbraccio a Carla e un bacione alla piccola Giulia». «Ti ringrazio anche da parte loro. Ah, sai, mi ero scordato di dirti che Giulia ti ha nominato l'altro giorno». «Davvero?». «Sì. Eravamo a tavola e Carla le stava imboccando la minestra. Poi, a sorpresa, è venuta fuori con il tuo nome: Zoe, Zoe. Io è Carla siamo rimasti basiti. Non so come mai, forse le è rimasto impresso nella memoria». «Che tenera, allora raddoppia i baci con lei da parte mia e dille che la zia Zoe la saluta e le vuole tanto bene. Ciao Claudio, a presto». «Ciao Zoe, un abbraccio».


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Cuglieri, 1989. Il palco sul qual si sarebbero esibiti i Tazenda era bello e pronto. Era un gruppo esordiente che quell'anno aveva partecipato alla trasmissione di Rai Uno “Gran Premio” condotta da Pippo Baudo e che con il suo brano “Carrasecare” aveva riscosso un gran successo, sia sull'isola che nel resto della nazione. Il comitato della Festa delle Grazie era riuscito a ottenere l'esibizione del gruppo per la festa. Avrebbero suonato sul palco che, lo stesso comitato, aveva costruito nel giro di un giorno, posizionandolo esattamente al centro dell'incrocio tra la casa del signor Fodde, quella del signor Sias e il bastione. Quest'ultimo monumento era quanto rimaneva in paese dell'architettura del periodo fascista. Collocato al centro della piazza, si ergeva imponente sul lato ovest della piazza, sovrastando di oltre tre metri la strada sottostante. Come da tradizione, il palco per la festa delle Grazie veniva eretto di fronte al bastione, all'incrocio delle due vie e spesso, i concertisti che vi salivano per esibirsi, erano impacciati per la singolare esposizione del palcoscenico che, di fatto, lasciava aperti tre fronti del palco, per cui la folla si assiepava ad assistere allo spettacolo su tre lati. Molto spesso chi doveva rivolgersi al pubblico doveva costantemente ruotare lo sguardo da una parte all'altra del palco, finendo per disorientarsi e impacciarsi. Grazianeddu e la sua compagnia si trovavano sotto l'albero della cuccagna, pronti per affrontarne la scalata. Cosparso di grasso ed eretto al centro del bastione, questi costituiva la principale attrazione della festa, visibile da ogni punto della piazza con le sue bandierine colorate e i premi appesi alla sua sommità. Era un'antica


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tradizione che con il passare degli anni non aveva perso il suo fascino, soprattutto per i giovani del paese. Fin da piccoli, infatti, per la festa delle Grazie, esattamente il sette settembre, si assisteva all'impresa degli scalatori dell'albero della cuccagna. Ad affrontare la scalata di solito erano i neo diciottenni che, con quell'azione, si consacravano agli occhi di tutti i compaesani come uomini maturi e forti. Quell'anno era il turno di Grazianeddu e della sua compagnia. Il lavoro non sarebbe stato semplice. Per prima cosa occorreva togliere dal lungo palo lo spesso strato di grasso di maiale che quelli del comitato avevano cosparso la sera prima. Per tutti i suoi venti metri di altezza, il palo luccicava al sole come un abbagliante spiedo di legno che attende di essere infilzato. Utilizzando dei pezzi di spago e della segatura, man mano che avrebbero affrontato la scalata, Grazianeddu e i suoi avrebbero eliminato il grasso dal palo. Poi avrebbero eretto una piramide umana alla base dell'albero, da questa avrebbero affrontato la scalata cospargendolo di segatura fin dove riuscivano ad arrivare. Infine, una volta esaurite le forze, prima di scendere giù aggrappati al palo, gli avrebbero avvolto attorno il pezzo di spago in modo da eliminare il grasso durante la discesa. La folla assiepata attorno a loro attendeva che il primo dei giovani scalatori arrivasse alla cima dell'albero e scegliesse il premio. Tutti avrebbero suggerito il regalo che lo scalatore avrebbe dovuto staccare per primo, ma si sapeva che una volta raggiunta l'ambita cima, tutti i premi in essa presenti spettavano di diritto a tutti gli scalatori. Ai lati della piazza Omar aveva allestito la sua bancarella di borsette di marchi griffati. Malgrado la sua laurea in ingegneria civile conseguita all'università di Dakar, non era riuscito a trovare un lavoro in Italia. Così, quello che era stato in principio un lavoro provvisorio era finito per diventare il suo lavoro stabile. Per sbaragliare la concorrenza dei colleghi aveva investito i suoi risparmi acquistando un tendone e delle bancarelle smontabili su cui esibire la merce. Si era specializzato nella vendita delle borsette all'ultima moda, acquistandole dal suo fornitore della zona Termini di Roma a prezzi irrisori. La signora Luciana stava per l'appunto adocchiando una di queste borse. Era in tutto e per tutto uguale a quella che aveva visto in vetrina qualche giorno prima a Oristano, quindi, pensò, avrebbe potuto risparmiare un po’ di quattrini acquistandola dal senegalese.


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Grazianeddu e i suoi, nel mentre, erano giunti a metà dell'albero. La birra che si erano sgolati prima di affrontare la scalata iniziava a far sentire i suoi effetti collaterali per cui, ogni sforzo di issarsi lungo il palo era accompagnato da un sonoro peto. Quelli di sotto, a ogni roboante meteora di Grazianeddu, si sganasciavano dalle risate commentando la sua impresa con frasi allusive alla spinta turbo di cui si serviva in quel momento il loro amico. Quando questi ridiscese a terra, fu il turno di Mario che, per imitare il suo amico, volle iniziare la sua scalata con una roboante scoreggia. «Tronos de culu, temporales de merda!» disse Grazianeddu rivolgendosi all'amico. E quasi a voler confermare la sua profezia, Mario emise una seconda flatulenza, ma qualcosa andò storto. Divenne subito pallido in viso e dopo essere ridisceso dall'albero corse via nel disperato tentativo di raggiungere il bagno di casa. Grazianeddu e i suoi si piegarono dal ridere e per un bel lasso di tempo non riuscirono a riprendere la scalata senza pensare al loro amico Mario. Dieci minuti dopo, ormai ubriaco, Grazianeddu decise che era giunto il momento di farla finita con quel lavoro. Riprese a scalare l'albero e questa volta, dopo una lunga lotta contro il grasso che ancora ricopriva la parte alta del palo, riuscì finalmente a raggiungere la cima. Tenendosi ben saldo con le braccia alla ruota di ferro a cui stavano appesi i regali, Grazianeddu si guardava intorno indeciso su quale prendere per primo. La folla urlava i suoi suggerimenti ma lui era intenzionato a fare di testa sua. Iniziò con lo staccare dall'albero tutte le lattine di birra che quelli del comitato vi avevano appeso e le lanciò verso gli amici di sotto. Poi, ne presa una per sé, l'aprì e la sorseggiò. Dovette sputare subito il contenuto che, dopo ore di esposizione al sole, era caldissimo. Stizzito per la cosa, afferrò la lattina e la scagliò giù da basso. Poi staccò un premio a caso e lo portò giù con sé. La signora Luciana voleva far scendere di altre diecimila lire il prezzo della borsetta, ma quel ragazzo non ne voleva proprio sentire. «L'ho vista ieri in un negozio» gli disse, «e costava quanto mi stai chiedendo tu». Non era vero, ma forse questa frase lo avrebbe convinto ad abbassare ancora il prezzo. Omar fece per rispondere ma qualcosa lo colpì in testa.


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Crollò a terra all'istante. La signora Luciana all'inizio non capì cosa fosse successo, poi guardò il giovane ambulante disteso per terra e vide che uno zampillo di sangue gli fuoriusciva dal cranio. Fu allora che iniziò a urlare.


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Castello di Montiferru, 1668 La febbre alta non la abbandonava. Da quando Donna Francesca Zatrillas era arrivata al castello aveva iniziato a stare male. La fortezza non era adatta ad accogliere una personalità importante come la sua, essendo priva di ogni genere di alloggio adatto a una signora del suo rango. La stanza del comandante delle guardie era un’ambiente angusto, con mura spesse e una piccola feritoia come unica apertura, senza possibilità di riciclo dell'aria. Durante il giorno la piccola stanza diventava afosa mentre durante la notte la fredda aria dei monti si faceva sentire fin dalle prime ore di oscurità. Donna Francesca era distesa nel piccolo letto che, insieme a un tavolino e a due sedie, costituiva lo spoglio mobilio della stanza. Era accudita dalla sua guardarobiera Maria Concas che, preoccupata per le sue condizioni, si prodigava nel farle bere infusi di erbe che aveva portato con sé in quel viaggio frettoloso. Purtroppo, proprio a causa della febbre, avrebbe dovuto rimandare l'imbarco nel vascello che l'attendeva al piccolo porto di Foghe, qualche chilometro a nord dalla fortezza. Ma ogni giorno che passava, il rischio che gli spagnoli la trovassero aumentava. Le accuse nei suoi confronti erano pesanti: complotto per l'assassinio del viceré Camarassa. La corona di Spagna, infatti, saputo dell'omicidio del suo rappresentante nell'isola, aveva ordinato che venissero condotti davanti a un tribunale tutti coloro che avevano fatto parte, in un modo o nell'altro, alle vicende che avevano portato alla morte del viceré. Donna Francesca Zatrillas, sospettata di aver fatto parte del complotto di uomini che avevano organizzato e messo a


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segno l'assassinio di suo marito il marchese di Laconi, venne altresì sospettata e accusata di aver preso parte anche al complotto che organizzò l'uccisione del viceré. Per questo doveva fuggire dal capoluogo sardo e per lo stesso motivo doveva abbandonare l'isola al più presto, ma le avverse condizioni del tempo incontrate durante la fuga le avevano impedito di imbarcarsi il giorno dopo la sua precipitosa partenza da Cagliari. La pioggia caduta durante il viaggio aveva infatti reso impraticabile il terreno per l'ultimo tratto che la portava all'interno del castello del Montiferru, così era stata costretta a fare quell'ultimo irto tratto di strada a piedi, inzuppandosi fino alle ossa e ricavandone un generale malessere fisico che l'aveva costretta a letto. Durante il delirio causato dalla febbre, donna Francesca chiedeva ossessivamente del suo forziere. Maria sapeva del suo contenuto e aveva sempre più timore che una delle guardie della fortezza lo scoprisse e lo sottraesse alla sua padrona. La nobildonna passava sempre più tempo in stato di incoscienza e ormai non era in grado di custodire il prezioso forziere. Maria temeva che durante una delle sue assenze dalla camera, una guardia potesse rubarlo. Fu per questo che quella sera lo prese dalle braccia della sua signora e lo portò con sé, fuori dalla fortezza.


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Guluris Nova, 1846 Cosa ne sarebbe stato di loro? Questa era la domanda che assillava tutti gli abitanti del paese. Cosa sarebbe accaduto ora che Don Bittanu era scomparso? Il vecchio caprone, diceva tiu Innassi, aveva solo una figlia, ma non si poteva certo pensare che sarebbe stata lei a gestire l'eredità del padre. Isabella aveva appena quindici anni e non era di certo adatta a governare l'eredità paterna, soprattutto perché sapevano tutti che la ragazza era affetta da un grave malanno: su male caduccu, l'epilessia. Le malelingue asserivano fosse dovuto alla consanguineità dei genitori. Come era spesso consuetudine, infatti, malgrado i divieti dei governatori e della Chiesa, spesso si preferiva trovar moglie tra il parentado che all'esterno del nucleo famigliare, quasi che si temesse una contaminazione. Così anche Don Bittanu e sua moglie Pasqualina si erano sposati nonostante fossero cugini. Quando la malattia di Isabella si manifestò per la prima volta, tutte le vecchie comari di Guluris Nova imputarono la causa allo stretto legame di sangue che correva tra i genitori della ragazza. Per via del suo male, perciò, Isabella era costretta a stare sempre controllata a vista, nel timore che durante un attacco epilettico si soffocasse con la lingua. Considerato il grave stato di salute della ragazza, quindi, sarebbe stato assai improbabile che a occuparsi delle proprietà di famiglia fosse toccato a lei. Sarebbe stato invece molto più probabile che a vantare diritti di legittimità di tutto quel ben di Dio, che tra terreni e rendite degli stessi c’era da far campare l’intero paese per anni, sarebbe stato suo nipote Angelo, unico


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figlio dell'unica sorella di Don Bittanu. Ovviamente dietro il consenso di donna Pasqualina, vedova di Don Bittanu. Quindi, si poteva supporre, i rapporti tra i pastori del paese e la famiglia Nepente sarebbero rimasti invariati: loro avrebbero continuato a occuparsi delle greggi dei Nepente e in cambio avrebbero continuato a ricevere la loro paga. O forse no! Non erano questi infatti i pensieri che correvano in testa a tiu Innassi. Per tutta la mattina aveva pensato e ripensato al modo in cui avrebbe potuto riottenere le sue greggi, ma non vi era riuscito. Aveva ipotizzato tutte possibilità finché alla fine gli arrivò l'illuminazione: bisognava agire di forza! «Ma chie?» «Comente chie? Noisi, ainu!». Come chi? Noi, asino! Aveva risposto tiu Innassi al suo collega tiu Basilio che non aveva capito. Gli aveva spiegato i suoi intenti quella stessa mattina dentro alla sua pinnetta, il capanno, davanti ai due bicchieri di vino che i due erano soliti bere dopo la prima mungitura. Tiu Basilio era il suo vicino di pascolo e spesso, quando i due si trovavano insieme, passavano del tempo rinchiusi dentro a sa pinnetta a bere vino. Dopo la mungitura del mattino, lasciavano le greggi nei terreni adiacenti e loro, tra una chiacchiera e l'altra, prestavano attenzione al suono dei campanacci così da capire se le pecore si allontanavano. «Nos doppimoso ischidare. Custa este sa olta ona». Ci dobbiamo svegliare, questa è la volta buona. «Ma puite? Non t'appo cumpresu?» Ma perché? Non ti ho capito? E lo sapeva che non lo avrebbe capito. Era circondato da un ammasso di asini, altro che pecore! Paziente, tiu Innassi rispiegò il suo piano, questa volta cercando di fare anche degli esempi, ma non voleva perdere molto tempo, rimanevano solo poche ore per poterlo attuare.


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Carcere di Parma, oggi. Sole. Sole a scaldare il corpo. Luce intensa e cristallina che abbaglia gli occhi e la mente, offuscando a momenti la realtà che lo circonda. Pensieri. Pensieri a tenere occupato il cervello con i motivi di tutte le sue disgrazie, chiedendosi se, tornando indietro, avrebbe ripetuto le stesse scelte. Seduto per terra, Daniele cerca di far trascorrere l'ora d'aria isolandosi dal mondo che lo circonda. I detenuti della casa di Reclusione sono tutti assiepati in cortile per inebriarsi del tiepido sole di febbraio. Tra di loro anche i suoi amici sardi. Alle volte trascorre l'ora d'aria con loro conversando in sardo per non farsi comprendere dal resto dei reclusi. Oggi, però, ha preferito restare solo. Appena giunto in cortile li ha salutati con un cenno della testa e poi è andato dritto a sedersi in un angolo. Il gruppo dei sardi lo ha osservato senza dire niente. Lo sanno tutti che ieri è stato pestato nei bagni dai nuovi arrivati. Vittorio gli ha parlato, offrendosi a nome di tutti di sistemare il conto con quei due, ma Daniele ha rifiutato. E ora è lì, con la testa al sole immerso nei suoi pensieri. «Credi che sia finita?». Claudio e Gianni si sono piazzati davanti a lui riportandolo nell'ombra.


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Daniele si tira su e guarda i suoi nemici senza aprire bocca. «Lo sai che quello di ieri era solo l'inizio, vero?» Silenzio. «Che fai, non parli?». «Parlo io per lui e vi dico di andarvene e lasciarlo in pace». Vittorio si è portato dietro ai due e ha sentenziato le sue parole anche per conto dei compaesani che si trovano alle sue spalle. «Voi che cazzo volete? Fatevi i cazzi vostri e levatevi dalle palle». «Perché non iniziate voi a levarvi dalle palle?». Gianni e Claudio hanno capito. Anche Daniele e i suoi amici hanno capito. Quel giorno ci sarà una rissa in cortile. Ci saranno corpi contusi e occhi neri, ci saranno costole rotte e labbra gonfie, ci saranno denti rotti e nasi gonfi. E poi sangue, tanto sangue. Il coltello sbucherà fuori dal nulla. Gianni lo aveva nascosto tra i calzini e dopo essere finito a terra in seguito a un pugno sferratogli da Daniele, lo estrarrà e gli si scaglierà contro. Daniele verrà colpito nel fianco, all'altezza dell'addome e subito cadrà a terra privo di sensi. Poi Vittorio, vendendo Daniele a terra in una pozza di sangue, affronterà Gianni tempestandolo di calci e pugni fino a farlo svenire. Le guardie interverranno solo dopo che il più è stato fatto. Milleetrecento euro al mese non sono abbastanza per beccarsi qualche pugno e rischiare di essere accoltellati. Meglio lasciarli prima sfogare, poi, quando ognuno ha ricevuto la sua parte, si può ripristinare l'ordine. Daniele è disteso a terra con un coltello conficcato nell'addome. Gianni è a terra con il naso rotto e un ematoma in testa. Claudio è riuscito a scappare. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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