Lettera da un uomo che non ha vissuto, Arsenio Siani

Page 1


In uscita il / /20 (1 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine PDU]R H LQL]LR DSULOH ( 99 euro)

AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.


ARSENIO SIANI

LETTERA DA UN UOMO CHE NON HA VISSUTO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ LETTERA DA UN UOMO CHE NON HA VISSUTO Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-451-9 Copertina: immagine di Leroy Skalstad da Pixabay Prima edizione Marzo 2021


A Sere, che non leggerà mai questo libro



5

PROLOGO

Dal blog di Arsenio Siani, scrittore. http://www.arseniosiani.it “Il lago al centro del mondo, o racconto sulla vita dimezzata” «La conosci quella del tizio senza gambe e senza un braccio, che dopo aver tentato il suicidio, decide di darsi una seconda opportunità e parte per un viaggio intorno al mondo?» «Sì, mi pare si chiamasse Paco Ezquievel. Era argentino, se ricordo bene…» La cassa di birra era sempre più vuota. Mattia e Piero svuotavano una lattina dopo l’altra, osservando le lenze delle loro canne da pesca, in attesa del fatidico momento in cui si sarebbero tese, rivelando che un pesce aveva abboccato. «A me risulta che fosse messicano, o panamense… insomma questo tipo è nato con una malformazione congenita che gli ha impedito lo sviluppo di quasi tutti gli arti. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in isolamento totale. Niente scuola, quel poco d’istruzione gliela fornì sua madre con lezioni in casa. Non ebbe amici, se non quelli di fantasia, i personaggi dei libri che leggeva e delle serie televisive che guardava avidamente. Immaginava storie, avventure, amori, emozioni. Tutto ciò che la vita gli aveva negato. Ehi, guarda là!»


6

Mattia interruppe il racconto perché aveva notato un’insolita pendenza della canna. Degli strattoni secchi ma decisi gli rivelarono che stava accadendo qualcosa sott’acqua. Probabilmente un pesce aveva iniziato a mangiare l’esca, forse aveva già abboccato. Era presto per dirlo. Rimasero in silenzio, immobili, in trepidante attesa. Adoravano quei secondi in cui l’aria sembrava riempirsi d’elettricità, quando la pelle vibrava come attraversata da un’energia che si scaricava nel corpo, partendo dalla radice dei capelli fino alle dita dei piedi. Non gli importava di pescare, l’unico motivo per cui si recavano a quel laghetto era di provare un’emozione che fermava il tempo, talmente densa da dilatare i secondi facendoli diventare ore. Anche i fumi dell’alcol svanivano, donandogli un rinnovato vigore e una lucidità che non potevano sperimentare neanche da sobri. Anche quella volta, come in altre occasioni, l’attesa si risolse in un nulla di fatto. Dopo alcuni secondi di calma assoluta e immobilità totale della canna, apparve chiaro a entrambi che il pesce doveva aver divorato l’esca senza abboccare. Senza neanche preoccuparsi di controllare l’amo per aggiungere un altro verme, Mattia afferrò un’altra birra e riprese il suo racconto. «A diciotto anni, raggiunta la maggiore età, Paco decise di suicidarsi. Quella vita a metà non poteva dargli soddisfazioni. Così un giorno, approfittando del fatto che fosse rimasto solo in casa, tentò di avvelenarsi. Versò della candeggina nel suo bicchiere, ma un istante prima di portarlo alle labbra la sua mano tremò, facendolo cadere in terra. In quell’istante ebbe come un’illuminazione. Decise che non era ancora giunto il


7

suo momento, la vita gli stava dicendo che aveva un compito da svolgere, così andò dal falegname del suo paese e si fece costruire due gambe di legno, poi fece i bagagli e partì. Da solo, potendo fare affidamento solo sul suo braccio, tra l’altro menomato dall’artrosi. Andò in Europa, girovagando tra le principali capitali europee, vivendo come artista di strada. Imparò a disegnare, divenendo famoso come l’artista monco. Con la sua unica mano faceva scivolare il pennello sulla tela, disegnando ritratti di una bellezza disarmante. In breve la sua fama crebbe, le persone facevano la fila lungo i marciapiedi per avere un disegno realizzato da lui. «Scrisse anche poesie e racconti, chiamati “Scritti randagi”, perché li realizzava sul momento e li regalava ai passanti. Ben presto questi scritti attirarono l’attenzione di un editore catalano, che propose un contratto a Paco. Il suo primo libro, una raccolta di racconti intitolata per l’appunto “Scritti randagi”, vendette quindicimila copie. Ancora meglio andò alla seconda pubblicazione, la sua autobiografia, che arrivò a venticinquemila copie vendute. «Nonostante il successo ottenuto, Paco continuò a viaggiare, spostandosi ininterrottamente da una città all’altra. Visitò Berlino, Praga, Copenaghen, Dublino, ma anche Palermo, Ajaccio e Siviglia…» «Io conosco un’altra versione della storia» disse Piero, interrompendo il racconto di Mattia. Aveva due occhi sottili e gonfi a causa della sbronza, e la fronte arrossata e calda. Il sole alto nel cielo picchiava forte, immerse il suo berretto nell’acqua melmosa del laghetto e se lo mise in testa per provare a rinfrescarla.


8

«Nella versione che mi hanno raccontato, Paco non aveva un solo braccio ma una sola gamba. Aveva imparato a dipingere con il piede, tenendo il pennello con l’alluce. Inoltre provò anche a suonare l’armonica a bocca, portandosela alle labbra con l’aiuto del piede…» Il cappello, già asciutto, emanava un fetore orribile e uno sciame di mosche aveva iniziato a ronzare sulla sua testa. Mattia, abbastanza brillo, riuscì a non portare eccessiva attenzione a questo dettaglio, limitandosi a raccomandare a Piero di lavarsi i capelli quella sera, appena arrivato a casa. «E poi, per quanto ne so io, Paco non è mai andato in Europa. Il suo viaggio è iniziato in Sudamerica per poi proseguire in Asia, tra India, Cina e Giappone» concluse Piero. «Stronzate» commentò Mattia, stritolando una lattina vuota e ruttando sonoramente «un tizio in quelle condizioni non avrebbe mai potuto viaggiare da solo.» «Che cazzo dici? Con una mano sola sì, con un piede solo no? Che differenza fa?» «Tantissima differenza. Innanzitutto uno che ha almeno una mano può pulirsi il culo da solo. Hai mai provato a cacare usando solo il piede? Sbottonarti i pantaloni, tirarli giù insieme alle mutande, srotolare la giusta quantità di carta igienica e pulirti? Per non parlare del bidè. Come fai a fartelo? In generale come fai a lavarti senza poter usare almeno una mano?» «Uno che ha imparato a disegnare con il piede può farci qualsiasi cosa…» «Ma non pulirsi il buco del culo.»


9

L’aria e i rumori della natura si arrestarono per qualche istante quando un magnifico storione, lungo almeno due metri, saltò fuori dall’acqua, al centro esatto del laghetto, ricadendo sulla superficie con un pesante schianto. Mattia e Piero trattennero il fiato, rapiti dalla bellezza di quella scena. Dopo qualche istante Mattia riprese a parlare. Stavolta le parole gli uscirono fredde e vuote, come se stesse perdendo interesse nel raccontare quella storia. «Comunque Paco trovò anche l’amore, o per meglio dire gli amori. Fin dall’infanzia capì di essere omosessuale, e ogni volta che si tratteneva in luogo intrecciava storie. Lasciava regolarmente un amante o un compagno dopo un breve periodo, quando decideva di lasciare il luogo in cui aveva soggiornato per qualche mese al fine di riprendere le sue avventure. «Alcuni di loro, dopo la sua scomparsa, sono stati intervistati, i giornalisti erano curiosi di sapere come si facesse ad amare uno storpio, e tutti i suoi ex fidanzati erano concordi nel dire che Paco aveva il dono naturale di rivelare agli altri la propria bellezza interiore. Tutti coloro che gli stavano accanto riuscivano a guardare oltre quel corpo deforme per scrutare l’immensa radiosità che celava dentro di sé. «Come tutte le storie di uomini straordinari, anche quella di Paco si concluse in modo plateale. La sua morte è avvolta dal mistero. Partì dal porto di Messina il 22 febbraio del 1974 a bordo di un piccolo Catamarano. Stanco di girare in Europa utilizzando treni, bus e aerei aveva deciso di muoversi, da quel momento in poi, esclusivamente via mare. Voleva fare una traversata in solitaria del Mediterraneo e dell’Oceano


10

Atlantico, fino ad arrivare al Capo di Buona Speranza. Da lì dopo una breve pausa, secondo i suoi programmi, avrebbe puntato verso le Isole Andamane. L’ultima tappa di quest’avventura era l’Oceania, in cui contava di arrivare entro la fine dell’estate di quello stesso anno. «L’ultimo contatto radio con la sua imbarcazione si ebbe quando era al largo delle coste del Senegal, circa quindici giorni dopo la sua partenza. Da quel momento in poi se ne sono perse le tracce, e non si sa che fine abbia fatto. Qualcuno crede che la sua barca si sia ribaltata a causa di una tempesta e che sia morto annegato, altri credono che abbia voluto far perdere le sue tracce perché stanco della notorietà che lo aveva investito. «Sbarcato sulle coste del Nord Africa, ha raggiunto il villaggio di qualche tribù e lì ha terminato i suoi giorni. Circa vent’anni dopo la sua scomparsa, una coppia di turisti tedeschi visitò un villaggio dell’entroterra angolano, dove i nativi gli narrarono strane leggende su un mezz’uomo venuto dal mare, dalla pelle bianca e i lunghi capelli neri, che visse in mezzo a loro per diverso tempo, prima di ripartire su una canoa per seguire il corso di un fiume.» «Che storia incredibile.» «Già.» «Non sembra vera.» «Forse non lo è. O forse sì. Magari lo è solo in parte. Mettiamo che a quest’uomo gli mancasse solo un braccio e la leggenda abbia ingigantito la sua vicenda personale…» Piero osservava una grossa carpa, vicino alla riva, che boccheggiava a pelo d’acqua. La guardò negli occhi,


11

ricevendone in cambio uno sguardo spento, tipico di ogni pesce. Provò un inspiegabile moto di delusione, nonostante sapesse bene che in quelle pupille fisse non potesse trovare nessuna risposta ai suoi quesiti. Si fissò la pancia che fuoriusciva dall’aderente maglietta arancione. «Sono ingrassato» disse infine, né preoccupato né infastidito. Sembrava solo voler attestare ciò che era, che forse aveva già accettato senza eccessivi rammarichi. «Dovresti bere di meno» suggerì Mattia. Le palpebre di entrambi si fecero pesanti, parvero assopirsi mentre una brezza fresca portava un po’ di refrigerio, allentando la morsa dei cocenti raggi del sole. «Com’è che abbiamo finito per parlare di Paco?» chiese Piero, ormai mezzo addormentato «non mi ricordo…» «Boh… mi sembrava una storia bella… di quelle che ti fanno sperare. Non importa a che punto sei della tua esistenza, e quali limiti devi affrontare, sei sempre in tempo per ripartire. Vera o falsa che sia, credo che il messaggio voglia essere questo…» Piero guardò l’ora. Erano le quattro del pomeriggio. «Tra un’ora vado via. Devo recuperare Diletta. Questo è il weekend in cui mi spetta vederla. Massimo per le sei devo essere a casa di sua madre, se non voglio che quella troia mi faccia storie.» «Come va con Loredana?» «Secondo te?» Piero si morse il labbro mentre si guardava le scarpe da ginnastica che stava indossando, regalo della sua ex moglie.


12

Avrebbe voluto togliersele e lanciarle via in un accesso di rabbia, ma un vociare lontano lo fece desistere dal suo intento. Un gruppo di ragazzi, probabilmente albanesi o rumeni, appostati sull’altra sponda del lago artificiale utilizzato per la pesca sportiva, iniziò a sbracciarsi per attirare la loro attenzione. Mattia e Piero si ridestarono. La canna di quest’ultimo era tutta piegata in avanti, sembrava sul punto di spezzarsi mentre la punta giungeva a sfiorare lo specchio d’acqua. Un attimo prima che il manico si staccasse dalla custodia in cui era infilata, Piero riuscì ad afferrarlo e iniziò a tirare. «Guarda come tira!» disse sbuffando «deve essere un bel bestione…» Iniziò a far girare lentamente il mulinello, dando di tanto in tanto dei forti strattoni, in modo da stancare il pesce. Quando emerse, i due notarono che si trattava di una grossa trota. Mattia gli diede una mano a catturarlo, infilando una piccola rete in acqua, infine lo tirarono su. Dopo averlo slamato, lo lasciarono saltellare sull’erba, indecisi sul da farsi. «Ributtiamolo in acqua» suggerì Mattia. «Nossignore» disse Piero «stasera Diletta mangerà pesce fresco.» Il regolamento della struttura stabiliva che i pescatori dovessero rigettare nel lago carpe e storioni ma non le trote, che invece potevano essere portate via. Conscio di ciò, Piero lo afferrò per la coda e provò a metterlo in un sacco ma gli scivolò di mano. Era la prima volta che riusciva a catturare un pesce e non sapeva come comportarsi, sebbene si recasse in quel luogo col suo amico da anni.


13

«Almeno uccidila, povera bestia. Sta soffrendo…» «Come si fa? Io non lo so.» «Hai deciso tu di tenerla. Cazzi tuoi.» «Dammi una mano.» «Scordatelo. Io non lo ammazzo.» Piero vide un palo di legno alle sue spalle, parte di una piccola capanna per gli attrezzi senza pareti, quattro semplici assi con una tettoia in paglia. Afferrò la trota a due mani per evitare che le scivolasse ancora, e iniziò a sbatterle la testa contro il legno. Il sangue dell’animale gli impregnò le mani, poi lo lasciò cadere in terra, ma questo continuava a muovere la coda. Afferrò di nuovo il pesce e lo sbatté con violenza un altro paio di volte, ma anche questo tentativo sembrò inutile. Le branchie continuavano a muoversi, segno che respirava ancora. «Cazzo! Perché non muori?» Piero continuò, con sempre meno forza. La pietà per l’animale gli aveva fatto perdere vigore e ormai il coraggio sembrava averlo lasciato del tutto. Mattia, dal conto suo, si era voltato, stringendo i pugni, con un conato di vomito che gli faceva serrare le mascelle. Sembrava sul punto di scoppiare a piangere. «Muori, cazzo! Muori! Perché non muori?» continuò Piero, con colpi sempre più flebili e inconsistenti. La povera bestia, ormai scorticata e ridotta a una massa molliccia di carne tritata in più punti, continuava ad agitarsi e a muovere la sua bocca. Mattia si voltò a guardare per un istante, e non poté fare a meno di pensare che stesse chiedendo pietà.


14

«Muori, muori! Ti prego! Muori!» urlava Piero, ormai in lacrime. In lontananza, intanto, il gruppo di stranieri osservava la scena. Qualcuno era sconvolto, altri ridevano. Intanto il sole si era abbassato, proiettando ombre su quel lembo di terra.


15

CAPITOLO 1

Non sono mai stato felice. Non saprei neanche descriverla la felicità. Lei invece sì, signor Siani? Ho provato tante volte a immaginarla, raffigurarla, eppure è rimasta per ogni giorno della mia esistenza una mera parola astratta, priva di significato. Sa cosa le dico? Che forse non è neanche mai esistita, e che magari è un’invenzione dell’uomo per fissare un traguardo irraggiungibile per i propri simili. Millenni fa qualche nostro antenato deve aver pensato: «La vita umana non ha senso, inventiamoci qualcosa che paia darglielo, così che gli esseri umani, in futuro, si tengano impegnati in una ricerca senza fine. Le loro giornate, in questo modo, saranno scandite da un ritmo innaturale, fasullo, che però darà un significato a quel vuoto girovagare, scandito dal ritmo dei respiri.» Nasciamo, cresciamo, invecchiamo, moriamo. Questa è l’innegabilità dell’esistenza. Ogni elemento che infiliamo tra queste quattro parole cerca di allungarne la distanza, ma la realtà è che tutto ciò avviene in un lasso di tempo brevissimo, e tra il primo e l’ultimo respiro di un uomo c’è solo il nulla, il desolante e tremendo nulla in cui siamo destinati a ripiombare. Le scrivo questo, signor Siani, perché sono giunto alla fine della mia vita e vorrei che qualcuno un giorno raccontasse la


16

mia storia. Sono sicuro che lei sia la persona giusta dopo aver letto il suo racconto “Il lago al centro del mondo”. Per puro caso sono capitato su un blog, dove era stata pubblicata quella storia, e sono rimasto folgorato. In quelle poche pagine lei ha narrato la mia vita. Non mi riferisco alla storia dello storpio Paco Ezquievel, né a quella dei due amici Piero e Mattia, che pescano da ubriachi in un lago. È stato qualcosa di più profondo, che ho letto tra le righe, a convincermi che quel suo racconto mi sia assolutamente vicino. La odio, perché avrei voluto scriverlo io. Lei ha rubato la mia storia e non glielo potrò mai perdonare. Se non avessi deciso di farla finita, probabilmente sarei venuto a cercarla per fare i conti con lei. Non sto scherzando, il mondo è un posto troppo piccolo per contenerci entrambi, e se non mi fossi convinto a uscire di scena, avrei provato a eliminarla per garantirmi il mio posto su questo pianeta. Forse rabbrividirà leggendo queste righe, ma le ripeto che non ha nulla da temere. Quando leggerà questa lettera, probabilmente sarò già morto. Le scrivo stando seduto alla mia scrivania, di fronte a me penzola un cappio legato alla trave del mio tetto. È pronto ad accogliermi, aspetta solo che infili la testa al suo interno e inizi ad agitare le gambe nel vuoto, prima che la perdita di fiato mi faccia scivolare nel mio eterno sonno. Il richiamo è grande, ogni secondo trascorso ancora su questa Terra è fonte d’immensa sofferenza per me, eppure mi sono ripromesso di portare fino in fondo questa lettera. È il mio


17

ultimo gesto, l’atto finale che sancisce la fine della mia insignificante esistenza. Decida lei se sentirsi onorato o disgustato del fatto che l’ultimo pensiero di un essere che si è autocondannato a morte sia rivolto a lei. Prima di narrarle la mia storia, è necessaria un’ulteriore precisazione. Si starà chiedendo il motivo di quella minaccia che le ho rivolto poco fa. Perché avrei dovuto ucciderla, dato che non ci conosciamo nemmeno, e le scrivo unicamente per aver letto un suo racconto trovato sul web? Forse, raccontandole la mia storia, è probabile che lei intuisca il motivo ma preferisco dirglielo esplicitamente, così da fugare ogni dubbio e andarmene con la consapevolezza di non aver lasciato nulla in sospeso. La felicità non esiste, ma la pace sì, almeno credo. Ebbene, come le dicevo, ora le spiegherò il motivo del mio odio nei suoi confronti. Il fatto è che lei, con quel racconto, mi ha letto nell’anima. Mi sembra già di sentirla, pronto a fornire un’obiezione che, me lo lasci dire fin da ora, è semplicemente stupida e inutile. Lei è già pronto a fornire una semplice argomentazione in sua difesa: noi non ci conosciamo! Non ci siamo mai incontrati, viviamo in città diverse, io a Zola Pedrosa, lei a Siena – l’ho letto nella sua biografia pubblicata sul blog – non sono mai stato nella città in cui vive, e probabilmente anche lei non è mai stato nella mia, un piccolo comune emiliano non molto distante da Bologna. Impossibile che ci siamo incontrati in gioventù, quando lei viveva a Salerno, sua città d’origine – anche questo l’ho letto nel blog – inutile dirle che non ho mai


18

messo piede nel Sud Italia. Ho viaggiato molto poco nella mia vita e quasi mai per diletto. In realtà non amo viaggiare. Quindi? Cosa c’entriamo l’uno con l’altro? Il fatto è che, signor Siani, che lei ci creda oppure no, le nostre esistenze si sono intersecate, erano due linee separate e parallele che pian piano hanno iniziato ad avvicinarsi fino a sovrapporsi e incrociarsi. Su un piano diverso della realtà, che va oltre a quello visibile e razionale, io e lei ci siamo scambiati qualcosa. Questo mio discorso la turba? La stupisce? Ho aperto questa lettera confessandole che non credo nella felicità, quindi potrebbe essere giunto alla conclusione che io sia un disilluso, tuttavia si sbaglia. Il fatto che sia convinto dell’insensatezza della vita, non vuol dire che non creda nella componente esoterica e misteriosa di essa. Non è tutto immanente, ci sono forze che governano l’universo e che trascendono la comprensione umana, le può chiamare destino, intervento divino, ognuno alimenta il proprio credo in quest’ambito, ciò che non cambia è la sostanza, ovvero che la nostra vita non è governata unicamente dal caso. Questa lettera non è frutto del caso. Il fatto che abbia trovato il suo racconto navigando su internet non è frutto del caso. Il nostro incontro non è stato frutto del caso. Il malessere che provo scrivendole queste righe, non è frutto del caso. Per questo avrei dovuto ucciderla, per eliminare ogni traccia di quelle forze che ci hanno spinto l’uno verso l’altro, forze che


19

impongono uno scontro, mosse dal bisogno di rimettere ordine in questa realtà in cui non possiamo coesistere entrambi. Uno dei due deve soccombere, perché stiamo vivendo entrambi la stessa esistenza, che in questo modo finisce per essere “a metà”. Come quella che stava sperimentando Paco Ezquievel all’inizio del suo racconto. Comincia a capire, signor Siani? Non deve ringraziarmi né sentirsi in colpa se ho deciso di uscire di scena lasciandole a disposizione tutto lo spazio. Si goda, se può, il tempo che le rimane, moltiplicato per due. Io non sapevo cosa farmene, roso com’ero dall’usura di un tempo che non mi è mai appartenuto. Nessuno di noi ha chiesto di nascere e per alcuni questa consapevolezza diventa un grido di rabbia, un’imprecazione contro l’ingiustizia del creato. È per questo che, infine, si decide di evadere, forzando le invisibili sbarre di questa prigione che taluni chiamano “quotidianità”. Forse a qualcuno questa fuga sembrerà un po’ plateale, in fondo basterebbe uscire dalla routine quotidiana e provare a cambiare stile di vita per lasciarsi alle spalle il malessere, no? Ebbene, io rispondo a questi biechi personaggi dal facile giudizio, che magari pensano di aver acquisito una parvenza di libertà iniziando a girovagare per il mondo, abbracciando uno stile di vita nomade e avventurosa, che non c’è via di scampo dall’illusione. Pensano di essere usciti dal carcere chiamato vita, quando in realtà non si sono neanche avvicinati al cancello. Prigionieri del cortile, in cui ci s’illude soltanto di essere più liberi, ci si muove in un grande spazio mortifero e agghiacciante, racchiuso in un perimetro delimitato da alte e insormontabili mura.


20

CAPITOLO 2

Mentre scrivevo mi sono leggermente assopito. La consapevolezza di questa gabbia mi annoia, e la mia reazione testimonia la fretta che ho di lasciare questo mondo. In ogni caso mi sono ripromesso di concludere il mio intento. Resisterò alla tentazione di non portare a termine il compito che mi sono prefissato di narrarle tutta la mia storia. Sto impiegando parecchio tempo a scrivere, procedo lentamente perché voglio essere sicuro che il lavoro sia svolto nel modo più efficace possibile. Voglio che lei capisca, signor Siani. Sarebbe l’unico e il primo, ed è giusto così, considerando il legame che ci unisce. A questo punto posso considerare terminata la mia premessa e procedere a raccontarle la mia storia. Spero di non averla annoiata, ma era doveroso aprire con queste precisazioni. Sono nato quarantasei anni fa a Zola Pedrosa e da lì non mi sono più mosso. I miei genitori erano due persone comuni, normali, semplici, e ciò costituiva la banalità colma di orrore che ha finito per scandire ogni attimo della mia infanzia prima, e del resto della mia vita poi. Una famiglia terribilmente noiosa, anonima, insignificante. Giornate tutte uguali tra loro, caratterizzate da una raccapricciante schematicità che dava la sensazione di essere imprigionati sempre nello stesso giorno. Questo tormentoso


21

senso di ripetitività è talmente forte in me che non so dirle se un determinato avvenimento sia avvenuto quando avevo quattro, otto, dieci o dodici anni. I ricordi si fondono nella mia mente per effetto di una fiamma ossidrica, che salda attimi che cercano di andare alla deriva nell’animo, così da costituire zattere di consapevolezza che fanno crescere, rendono maturi, e danno un senso di esperienza che fortifica la distinzione tra fasi della vita. Tutto questo, in me, non è mai avvenuto. Bambino mai cresciuto, o adulto precoce, questo non è rilevante. Ho avuto a disposizione un solo modello di vita, che ho replicato fino al mio ultimo giorno. Poteva cambiare il contesto, la situazione, ma il risultato era sempre lo stesso, con la mia mente impegnata a viaggiare tra linee temporali e spaziali ben definite e oleate, come binari di un treno costantemente attraversati da convogli che ripetono all’infinito la stessa tratta. Non ritenga esagerato ciò che le racconto, signor Siani. Aggiungerò un altro elemento che le renderà credibile la mia sensazione di alienazione: lei potrebbe obiettare che basterebbe far riferimento ai ricordi scolastici per capire se un dato evento fa parte di una certa età della vita, no? Ebbene, io le rispondo che non sono mai andato a scuola. In realtà per tutta la durata della mia infanzia, per lo Stato, io non sono mai esistito. I miei genitori non mi hanno mai registrato all’anagrafe, mia madre ha partorito in casa, vivevamo in una casetta isolata, edificata sulla cima di una collina. Mio padre era un taglialegna, mia madre casalinga. Trascorrevo tutto il giorno in casa con lei, aspettando che papà tornasse dai boschi. Ho ancora impressa nella mente l’immagine che segnava il momento del suo arrivo,


22

i passi pesanti che giungevano fino alla soglia, la porta che si spalancava rivelando, alla luce della penombra, la sua figura nerboruta, con una pesante ascia poggiata su di una spalla. Sorrideva a stento, con un’espressione distrutta – si alzava all’alba per lavorare – mi carezzava la testa, schioccava un bacio sulle labbra di mamma, poi si sedeva al tavolo, aspettando che gli venisse servita la zuppa o lo stufato. Spesso si addormentava a tavola, ancor prima di finire di mangiare. Mamma prendeva una coperta, gliela poggiava sulle spalle, poi tornava al suo posto e finiva il suo pasto. Andavo a letto e papà era ancora lì, presumo che vi rimanesse per tutta la notte. Quando riaprivo gli occhi era sparito, la giornata era già iniziata, portando con sé il bisogno di attesa che avrebbe condotto allo stesso istante, con la tavola imbandita, un pentolone sul fuoco, occhi opachi e tristi e braccia troppo stanche per intrecciarsi. Quello è stato il mio mondo per anni. Una collina fatta di silenzi, gesti meccanici, in cui non c’era tempo né spazio per affetto, effusioni, dialogo. La mamma non parlava mai, interrompeva costantemente le faccende domestiche per gettare uno sguardo oltre la finestra. Sebbene mancassero ancora diverse ore al suo ritorno, sembrava che s’immaginasse di vederlo spuntare da un momento all’altro. Sospirava, scrollava lievemente le spalle, poi riprendeva a stirare, a preparare il pranzo o rammendare un abito scucito. Io, al centro della stanza, facevo correre i miei giocattoli di legno sul pavimento. Facevo rumore, e tanto. Le ruote del trenino stridevano forte, le macchine si scontravano talvolta deflagrando in mille pezzi, lanciavo le biglie e le rincorrevo,


23

cercando di arrivare per primo, nonostante la posizione di svantaggio da cui partivo. Affondavo i passi, sbattevo la pianta dei piedi sulle assi, e lo facevo per tenere allenato l’udito. Temevo che quel silenzio, se no, mi avrebbe inghiottito, rendendomi sordo. Non le ho detto il motivo per cui i miei genitori hanno tenuto segreta la mia nascita. Il fatto è che il loro rapporto è stato sempre osteggiato dalle relative famiglie, mia madre era già sposata quando conobbe mio padre, ma non poté fare a meno di innamorarsi perdutamente di lui, al punto di accettare una fuga dal mondo e di condurre una vita isolata pur di portare avanti quella relazione non accettata da nessuno. La decisione definitiva la ebbero quando mia madre si accorse di essere incinta di me. Si dissero che mi avrebbero fatto crescere circondati dal loro amore, che avrebbero dimostrato all’umanità che un uomo e una donna innamorati, insieme al frutto della loro unione, non avrebbero avuto bisogno di quasi nulla per essere felici. Mio padre aveva già il suo lavoro di boscaiolo, si trattava solo di trovare il posto giusto in cui mettere radici. Le colline emiliane si rivelarono, secondo i loro calcoli, un rifugio ideale e in effetti così parve essere. Fino a quattordici anni non mi sono mosso dal luogo di nascita. Sia d’estate che d’inverno non mi era consentito di percorrere che pochi metri tra la vegetazione intorno casa. Una volta mi fu concesso di fare un bagno al ruscello che si trovava a meno di un chilometro dal recinto che circondava il nostro giardino. Ovviamente non andai da solo ma con mia madre. Si sedette su una grossa pietra e mi osservò sguazzare tra quei flutti ghiacciati, mentre urlavo per una misteriosa frenesia mista al


24

dolore causato dal tagliente effetto che aveva l’acqua sulla mia pelle. Sorrise, e credo che fu la prima volta che la vidi farlo. Le ripeto che non so dare un tempo a questi eventi ma credo che avessi circa sette anni. Come le dicevo, però, qualcosa accadde quando avevo quattordici anni. Sentii anch’io il bisogno di varcare i confini e di dare risposta alle domande che mi facevo quando osservavo l’orizzonte. Dovevo sapere cosa c’era laggiù, quanto grande fosse lo spazio che mi conteneva. Ovviamente dovetti scontrarmi con l’opposizione dei miei genitori, che volevano continuare a farmi vivere in quella gabbia dorata. Ma l’uomo è naturalmente portato alla ribellione, e non ha bisogno di un modello da imitare. Questo desiderio sorge spontaneo, mosso da fattori fisiologici. Non ero più un bambino, ma neanche un uomo. Non so cosa fossi, ma era abbastanza da spingermi a salpare. Dapprima tentai di capire come orientarmi, per darmi una meta. Iniziai così, di nascosto da mia madre, a recarmi sempre più lontano. Quando le distanze diventarono consistenti, giustificai la mia assenza con il fatto che volessi anch’io imparare a tagliare la legna per ereditare, un giorno, il lavoro di mio padre. Fu così, durante una di queste esplorazioni, che feci per la prima volta la conoscenza con il dolore. Non quello fisico ma uno più profondo, che ti fa mancare il respiro rendendoti incapace di capire se sei ancora in vita o stai sperimentando un’esperienza di premorte, che ha come meta il più atroce degli inferni. Giunsi in una radura dove un gruppo di taglialegna era all’opera. Era composto da quattro persone e tra loro non


25

riconobbi mio padre. Eppure doveva essere la squadra a cui apparteneva, ero sicuro che tra loro volteggiasse la sua presenza. I loro gesti, le movenze, addirittura gli sguardi che si lanciavano, avevano qualcosa di troppo familiare. Erano gli stessi che, meccanicamente, papà mostrava anche a noi la sera, quando rientrava a casa. Non ho memoria di un giorno di riposo o di vacanza per mio padre. Lavorava tantissimo, anche la domenica e nei giorni festivi. L’ho visto rientrare a casa con un febbrone da cavallo, andare a letto in preda ai brividi e il giorno dopo, quando mi svegliavo, non c’era. Malattie e influenze non erano una buona scusa per saltare un giorno di lavoro, ed è chiaro come una tale condotta di vita lo abbia portato a imparare a memoria i più semplici gesti da ripetere durante l’arco del giorno, a volte addirittura alla stessa ora. Era lì dunque, in mezzo a quelle persone. In quel momento era assente per qualche motivo ma ero sicuro che c’era stato fino a qualche istante prima. Non vedendolo arrivare, decisi di perlustrare la zona per cercarlo. Non so perché l’ho fatto, in realtà mi esponevo a un grave rischio, se mio padre mi avesse visto così lontano da casa, mi avrebbe sicuramente preso a calci. Tuttavia qualcosa in me mi spinse a credere che la sua assenza avesse qualcosa che non quadrava. Infatti, qualche istante più tardi, constatai che avevo ragione. Oltre radura, a pochi metri dal gruppetto, lo vidi, e non era solo. Una ragazza giovane era seminuda, davanti a lui, con la schiena poggiata al tronco di un albero. Teneva gli occhi chiusi e il viso rivolto verso l’alto con la bocca leggermente aperta, da cui usciva qualche rivolo di fumo a ritmo con i sospiri che potevo sentire anche dalla mia


26

posizione. Mio padre le era di fronte, con le braghe leggermente calate, e muoveva il bacino a stantuffo, mentre teneva le braccia tese in avanti, con le mani poggiate al tronco, sopra la testa della ragazza. Gli arti erano talmente tesi che sembrava stesse cercando di buttare giù l’albero a mani nude. L’aria risuonava di grugniti animaleschi e di versi che sembravano giungere direttamente dalla gola di quella ragazza, e l’amplesso terminò con un’eco d’estasi che risuonò per tutta la valle. Vidi mio padre coprirle la bocca con una mano, e dall’espressione degli occhi di lei compresi che era spaventata da se stessa per essersi lasciata andare in quel modo. Poi scivolarono entrambi lungo il tronco e si rannicchiarono intorno alle possenti radici dell’albero che fuoriuscivano in parte dalla terra. «Ti amo, Nicola» disse la ragazza, premendo una guancia contro il petto di mio padre. Seguì un silenzio tombale, la natura sembrò essersi fermata, potevo sentire il tamburellare in gola del mio cuore, in attesa del maturare degli eventi. Poi avvenne ciò che temevo. Mio padre rispose: «Anch’io» e, affondando le dita nei suoi boccoli bruni e sospirando, mormorò il suo nome: «Vanessa.» Poi si udì un vociare sempre più distinto, segno che qualcuno si stava avvicinando, e mio padre e Vanessa scattarono in piedi. Dopo qualche istante comparvero gli altri componenti del gruppo, tre uomini e una donna. Quest’ultima, una signora grassoccia, somigliava leggermente a Vanessa, forse era la sua sorella maggiore. Notai uno sguardo d’intesa tra le due mentre s’incamminavano verso un nuovo punto di raccolta della legna.


27

Non so dirle quanto tempo rimasi con il petto premuto sull’erba, singhiozzando. Forse un’ora, forse più. Poi scattai in piedi e gli corsi incontro, urlando come un pellerossa che brandisce un’ascia di guerra, volevo trovare mio padre e vomitargli tutto il mio odio, chiedergli come avesse potuto, dov’erano i propositi di costruire una famiglia felice insieme a mia madre, a cos’erano valsi quegli anni di sacrifici e isolamento, se il suo amore per noi si era sciolto come neve al sole. Tuttavia non lo trovai. Urlai, cercando di attirare la loro attenzione, ma fu tutto inutile. Dopo ore di ricerche crollai al suolo, esausto. Quando giunse sera rientrai a casa, dove fui accolto severamente da mia madre. Beccai anche qualche schiaffo, da cui non mi difesi. «Quando tuo padre tornerà, avrai il resto» mi disse. A quel punto scoppiai in lacrime. Mia madre dapprima si stupì per quella mia reazione poi, per niente impietosita, mi mandò a letto senza cena. Dalla mia camera potei udire tutto. Mi stesi sul letto a osservare le travi del soffitto, e intanto ascoltavo ogni rumore proveniente dal soggiorno. «Ti dico che devi parlare con lui» diceva mia madre. «Invece no. Lascia perdere» rispose mio padre «ormai è grande. Che faccia ciò che vuole.» «Cosa?» il tono indignato di mia madre mi fece venire la pelle d’oca «ti sembra così facile? Ti ricordo che nostro figlio esiste solo per noi, per la società non è neanche mai venuto al mondo. Dove dovrebbe andare? Che cosa dovrebbe fare?» «La nostra parte l’abbiamo fatta. Ora deciderà lui. Se vuole esplorare il mondo, che lo faccia pure.»


28

«Devi essere impazzito!» Udii un tonfo secco, probabilmente causato da una sedia che si era rovesciata sul pavimento. «Devo ricordarti come tutto è iniziato? E i nostri propositi?» Povera mamma. All’epoca non poteva certo immaginare che ci fosse in atto un cambiamento così grande in seno alla nostra famiglia. Aveva sacrificato la sua vita per inseguire un’utopia, la proposta di un uomo, che evidentemente aveva smesso di credere in quel sogno per andare dietro ad altre pulsioni, forse a rinnovati desideri. Mi assopii mentre le urla d’indignazione di mia madre continuavano a rimbombarmi nelle orecchie. Il mondo stava iniziando a cambiare. E ne avevo paura. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

PROLOGO ................................................................................ 5 CAPITOLO 1 .......................................................................... 15 CAPITOLO 2 .......................................................................... 20 CAPITOLO 3 .......................................................................... 29 CAPITOLO 4 .......................................................................... 37 CAPITOLO 5 .......................................................................... 44 CAPITOLO 6 .......................................................................... 47 CAPITOLO 7 .......................................................................... 52 CAPITOLO 8 .......................................................................... 59 CAPITOLO 9 .......................................................................... 65 CAPITOLO 10 ........................................................................ 72 CAPITOLO 11 ........................................................................ 97 CAPITOLO 12 ...................................................................... 103



AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.