Le regole di Mastro Cimonà, Daniele A. Cutrì

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DANIELE A. CUTRÌ

LE REGOLE DI MASTRO CIMONÀ

ZeroUnoUndici Edizioni


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LE REGOLE DI MASTRO CIMONÀ Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-540-0 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Marzo 2022


A Teresa, garante di tutte le mie incertezze

“Cade un petalo fugace Scorre un brivido feroce Stelle universali nelle iridi”



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PROLOGO

L’umanità ha sempre sperimentato poco la parte migliore della legge di Faraday. Il perché è presto detto: ha perso il gusto di applicarsi sulla legge dell’induzione elettromagnetica. In fin dei conti il nostro mondo è sempre stato quello conosciuto attraverso le esperienze fisiche e chimiche. Le induzioni, appunto. Nel campo della ricerca, com’è stato possibile che non suscitasse alcun interesse un piccolo, imberbe infante, al punto da lasciarlo appassire senza cure nelle braccia di un padre che, per quanta forza potesse sprigionare, non sarebbe mai potuto venire a capo di un peso specifico così schiacciante? Perché non esiste pietà per un’umanità che si rende prossima agli altri, che è fragile, indifesa e chiede aiuto? Perché si preferisce restare in un silenzio ossessivo, lancinante, traverso? L’induzione elettromagnetica non misura conflitti, non intacca la democrazia delle scelte: come ogni esperimento scientifico, essa mostra quello che succede, partendo da un punto determinato e conosciuto. Non mostra solo alcuni spettacoli, non illustra solo certi contesti, non lascia andare quella parte di esperimento che reputa, avesse mai una intelligenza, non interessante. Io, oggi e per sempre, rappresento proprio quella parte. E per essa colpirò. Ripetutamente, sorprendentemente e appassionatamente. Alla fine, sono certo che verrò applaudito, riceverò i ringraziamenti della gente comune, quelli che vivono soffrendo, e con dignità aspettano di morire dopo aver passato la vita a spaccarsi la schiena per raggiungere risultati per cui, senza pietà, sono stati derisi.


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È vero che la morte è un dolore, che infligge dolore. Soprattutto quando arriva come una mannaia, figlia di una giustizia che resta celata agli occhi di chi dovrebbe comprenderla. Ma è anche vero che solo così diventa giustizia. E ripaga. A questo servono le manomissioni.


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CAPITOLO 1

Non c’era voluto molto a decidere il tipo e la modalità di punizione che bisognava infliggersi. In questo, Dario Seriotti, era un maestro dai tempi delle medie, quando i suoi amici venivano bullizzati in bagno e subivano furti di merendine o panini, e lui s’impuntava a restare a digiuno per tutto il tempo, buttando nel cesso la sua, di merendina. Il motivo lo sapeva bene: non era stato in grado di difenderli. Già da allora aveva sviluppato un senso ancestrale di fastidio contro le ingiustizie. Ricordava bene le sue ultime “vittime”: un uomo che nascondeva la sua vera personalità, al quale non era riuscito a salvare la vita; una donna, affranta dalle sue bugie, spiaccicata sull’asfalto da un camioncino guidato da un ragazzone distratto. Era sufficiente: non sarebbe rimasto a Reggio Calabria un giorno in più. Il suo capo, il Questore Rovati, con uno spirito scaltro e parzialmente accondiscendente, non aveva mosso alcuna obiezione: il giorno successivo al suo rientro in servizio, dopo le ferie prolungate a cui lo aveva costretto, gli aveva fatto pervenire davanti alla scrivania una lettera personale, nella quale lo ringraziava per il lavoro svolto, per la sua preziosa collaborazione, per l’alto coraggio dimostrato in occasione delle sue ultime indagini. Gli aveva anche chiesto, informalmente, se volesse essere trasferito per sopravvenuta incompatibilità ambientale, e dove. Staccarsi sì, fuggire mai: così la richiesta di trasferimento al Commissariato di Gioia Tauro, cittadina di provincia seconda per numero di abitanti dopo Reggio Calabria, gli era parsa lo sconvolgimento più logico: mite nella distanza, siderale nell’impegno motivazionale. Il tempo di disdire l’effimero e vacuo che lo legava alla città dello Stretto, e in soli venti giorni avrebbe ricominciato dall’antica Metauria, la porzione di gioia che sta tra una palma e un rosa, sibilavano le ampollose leggende e le vetuste nenie del territorio, originando questa


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curiosa affermazione dal fatto che la città di Gioia Tauro, sorgesse appunto in mezzo, tra la città di Palmi e quella di Rosarno. Certo, non sembrava un posto così appassionante. Non da perderci il sonno. Soprattutto era lunghissima fino a Crotone. Anna, la donna affranta e spiaccicata, si trovava proprio lì, nella terrificante condizione di non morta e non viva, e sembrava canzonare, in completo immobilismo, i residui della sua vita in bianco e nero. La sera in cui aveva definitivamente risolto il suo ultimo caso, Seriotti aveva ricevuto un messaggio della sorella di Anna, Patrizia. La donna lo aveva informato della morte del funzionario dell’Agenzia delle Entrate, dottoressa Anna Longata, intrepida, coraggiosa e bellissima donna che si era rivelata decisiva nella risoluzione di quella maledetta indagine. La vita di Dario era rimbalzata nel nulla. Ma Anna non era mica morta. Il suo cuore aveva smesso di battere per tre interminabili minuti, mandando nel panico tutto il reparto di terapia intensiva di Reggio Calabria che l’aveva praticamente adottata, lei e sua sorella infermiera. Nessuno, tra loro, era pronto a vederla lasciare il mondo, e di sicuro non lo era lei che, dopo tre minuti di arresto cardiaco, aveva voluto riattaccarsi con forza a qualcosa. Dopo alcuni mesi di degenza, quel qualcosa era stato finalmente definito dal centro di avanguardia con sede a Crotone, l’Istituto S’Anna, eccellenza per le situazioni come la sua. Era finita nel reparto UGC, Unioni Gravi Cerebrolesioni, il suo era stato catalogato come il più classico tra i casi post traumatici. Nessuno, in quei corridoi, vantava rosee aspettative, ma nemmeno veniva visto di buon occhio l’approccio di considerarsi inermi, vacui, eterei. Anna permaneva lì, sotto la paziente e comprensiva guida dei medici e dei tecnici di riabilitazione. Dario vi si era recato un paio di volte, poi non ne aveva avuto più la forza. I familiari di Anna, gli avevano elegantemente fatto capire che non era il benvenuto. Il dolore muto e il desiderio di bere crescevano di pari passo. Aveva deciso di non metterci più piede, affidandosi, di tanto in tanto, a qualche messaggino sul cellulare di Patrizia, che replicava solo con delle emoticon di circostanza. Quante volte Dario aveva pensato al ruolo così stringente e identitario che, per quel nuovo modello culturale


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liquido, avevano le emoticon: un’espressione simbolica realizzata tramite determinate combinazioni di caratteri, con la quale un utente esprime il proprio stato d’animo negli SMS, nei messaggi di posta elettronica o mentre dialoga in rete con un altro utente. Anche la definizione di emoticon sembrava essa stessa un simbolo: il simbolo di una parola non detta, tradotta da una faccina che mostrava un’emozione non vissuta. Tutti gli davano la colpa. E se la dava anche lui. Anna Longata era in quel lettino, sepolta da mesi d’immobilità e con la morte accanto, perché era entrata nell’orbita umorale del mondo sconquassato di Dario Seriotti. Un mondo che non perdonava nessuno, che non concedeva possibilità. Sbrigati i moduli burocratici e le svariate firme per autorizzazioni e altre allegre amenità, Seriotti prese possesso del suo ufficio e convocò immediatamente tutti i sottoposti. Una riunione informale, un contest di benvenuto, più che altro per avere lucida chiarezza sui contorni di quello che sarebbe stato, nella sua personalissima idea, il posto dove “svecchiare e arrivare alla pensione”, immaginando perfino un orologio in regalo come si faceva nei distretti americani, serene notti all’insegna di innocui appostamenti, a sbrigare faccende di liti familiari, piccoli furti e vago ordine pubblico cittadino. Le questioni, quelle grosse, quelle di ‘ndrangheta, di droga, di omicidi e lesioni, all’ombra della sagoma appesantita di uno dei porti più grandi di Europa, non le avrebbe più neanche sfiorate per errore. Se ne sarebbero certamente occupate le squadre mobili. In quel Commissariato pullulavano fior di ispettori bravissimi a indagare, poliziotti che ancora respiravano Stato e vita, coraggiosi assertori dell’ordine pubblico e della protezione dei più deboli. Ci avrebbero pensato loro. Lui avrebbe fatto la parte della rappresentanza istituzionale. Li passò in rassegna, il suo animo cupo gli impediva d’illuminare la realtà in modo diverso, e si sforzò unicamente di cogliere le sfumature che gli sarebbero servite per ottenere sempre il meglio possibile da quegli uomini e da quelle donne. La sua dote di comando era l’inutile, sconclusionata virtù che gli era rimasta, dopo che Anna gli era passata attraverso come un caterpillar,


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radendo al suolo tutte le certezze che un uomo come lui, arrogante, ampollosamente vuoto e poi colposamente inebetito, potesse avere. Si percepì con una triste e misera certezza: avrebbe continuato a fare l’unica cosa che sapeva fare: il poliziotto. Non con lo stesso vigore di prima, Anna aveva segnato una sorta di spartiacque tra l’umanamente sopportabile e il passivo resistente. Freddy Mercury non faceva altro che ripeterlo, show must go on! Non poteva voltarsi indietro, lei viaggiava su altre strade, una distanza irraggiungibile. Aveva una nota di dolore nel cuore, e non sapeva se e quando si sarebbe cancellata, o se fosse una cosa con la quale avrebbe dovuto convivere.


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CAPITOLO 2

Ma perché non riesco a muovere nemmeno il mignolo destro, una volta mi riusciva così bene! Perché non ce la faccio a far uscire la voce, i pensieri dalla mia testa, perché tutto mi sembra così opprimente e pesante? Ogni cosa, anche aprire gli occhi, diamine aprire gli occhi! Niente, è maledettamente deprimente! Eppure questa spossatezza, questa stanchezza che tracima, mi piace. Rende tutto così soffice, così mellifluo, che aggettivo strano, mellifluo, chissà se mi ricordo dove l’ho sentito la prima volta… vediamo… uff, però… faccio anche fatica a mettere a fuoco… ah ecco, mi ricordo! Prima media, la professoressa di Educazione Tecnica, come si chiamava… oh mamma… ogni volta con ’sti nomi, che fatica… sì, Piera Grenzi, che simpatica che era! Mi disse: «Annina bella, quando fai le domande hai una voce così melliflua, sembra che canti!» Eh cara Prof, chissà se lo direbbe ancora se mi vedesse adesso, qui. Ma qui, esattamente, che posto è? Potrei essere in qualche letto, magari come nei TG dove ogni tanto escono i bollettini medici destabilizzanti, tipici di questo modo rocambolesco di fare informazione! Quelle robe dove si usano spesso le parole clinicamente e morta. E se fossi morta davvero? Ma no, non è possibile! Cioè, ma io davvero da morta potrei formulare pensieri con questa facilità, tipo immaginare un numero semplice, o complesso come Mel Gibson che chiede alla terapeuta donna di pensare un numero ‘da uno a un milione perché no!’; o quando scherzavo con i miei colleghi di Piacenza. I miei colleghi di Piacenza, ma guarda che ricordo che mi è venuto in mente, come si chiamava quello carino, il capo team, ah sì, Alberto, che figo! Occasione persa, avrei dovuto approfondire, mannaggia! Mi ricordo quando andavamo in verifica e andavamo in quel ristorantino carino, a mangiare i pisarei con i fasò e poi la pista ad grass, quel lardo di maiale delizioso.


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Come dicevano ogni volta che iniziavamo a mangiare? Ah sì, è ben grammo questo! Usavano grammo dappertutto, anche quando facevamo gli accertamenti: che bel grammo che hai portato Annina… Bah, piacentini, simpatici e folli, li adoravo… Mi chiamavano Annina, tutti mi chiamavano Annina. Ma lui no. Dario no. Che starà facendo adesso? Se fossi davvero sveglia, mi piacerebbe sapere come sta. Non posso dire che è il mio Dario, cioè mica potrei chiedere alla prima persona che dovessi incontrare, semmai riuscissi ad aprire queste palpebre, «Come sta il mio Dario?» no che non potrei, non ho fatto nemmeno in tempo a chiedergli se siamo fidanzati! Ma poi figurati! Sembra Mel Gibson in Arma Letale, e io sembro la ragazzetta che fa il pubblico e spera di fare una foto con il superpoliziotto figo e disperato! Certo, chissà, magari si sente in colpa perché sono qui, in questo nulla. Non riesco a decifrare in che parte del mondo sono. E se non fosse il mondo? Se fosse, che ne so, una Collina Silente, come il videogioco, un Silent Hill? Oppure l’angolo imperturbabile di una tomba? Anna devi affidarti a ciò che senti, accidenti, comincia dalle sensazioni corporali: hai freddo? No. Dovrei, ma non ne ho. Hai caldo? See, figurati, io non avrei mai caldo nemmeno in Florida, a 45 gradi Celsius. Perché non ho paura, se io ho sempre paura? Non provo rabbia, né dolore, non provo tenerezza? Niente di niente, sento solo un po’ di stanchezza, un senso di pesantezza dolce, e poi buio felice. Ecco come mi sento! Quando vai a letto, spegni la luce, ti abbandoni al sonno e dormi senza sognare. Perché non sogno se sono viva? Non c’è nessuno che possa suggerirmi come comportarmi in questa situazione? Qualcuno che mi dica qual è la mia vera condizione? Oh, adesso sì che provo rabbia! Fanno un sacco di film, e di libri, su questa condizione che uno assume quando si trova nel mio stato. Aveva una nota di dolore nel cuore, e non sapeva se e quando si sarebbe cancellata, o se fosse una cosa con la quale avrebbe dovuto convivere.


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Tre minuti. Mentre si attiva e si sviluppa la corteccia parietale e prefrontale che nessuno vede e percepisce, perché le aree sensoriali sono quasi completamente piatte.


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CAPITOLO 3

«Un turno pesante oggi, Capo?» la voce di Alessandra, caposala di Neurochirurgia del Policlinico Morelli di Reggio Calabria, echeggiò in tutta la sua profondità da contralto. «Non più del solito, signora Gaizza, solo che il primo intervento è stato davvero massacrante, comincio ad accusare cali fisici, dovrò decidermi a fare davvero palestra. O la camminata, mi sto appesantendo e infiacchendo troppo.» Luigi De Sandris, primario del reparto di Neurochirurgia, incontrastato fiore all’occhiello dell’Ospedale GOM del Meridione d’Italia, dominatore del palcoscenico della medicina italiana in fatto di micro chirurgia neurologica, aveva sempre scelto la strada della falsa umiltà, per regolare ogni suo rapporto sociale. Bastava mostrarsi appena autoironico, con una piccola spinta verso il falso convenevole di occasione, e tutti cadevano immediatamente ai suoi piedi. Un po’ perché era davvero un luminare nel suo lavoro, la sua passione per la medicina e per i casi clinici veramente complicati era una benedizione per tutti. Ma anche perché aveva avuto tutte le fortune del mondo: ricco di famiglia, cresciuto nella bambagia e nella campana di vetro tipica dell’alta borghesia degli anni Settanta, era ancora un uomo molto affascinante, magnificato da un corpo che mostrava molto meno dei suoi attuali cinquantadue anni, una voce baritonale naturalmente sexy, e un approccio carnalmente passionale con l’altro sesso, di cui restava profondo conoscitore e incredibile fruitore, oltre ogni limite dettato anche da un certo, medio, pudore. «Ah dottore, avessero tutti il suo fisico e la sua tempra, a quest’ora negli ospedali non morirebbe più nessuno, mi creda sulla parola!» La Gaizza non era da meno, era forse l’unica a potersi prendere certe confidenze, umorali e vezzose, con il mammasantissima del reparto.


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«Alessandra, lei mi fa arrossire e mi lusinga costantemente. Ma, a dire il vero, un po’ stanco mi sento, oggi. È stata una giornata pesante, come giustamente ha osservato prima.» L’improvvisa virata di atteggiamento era dovuta al fatto che il dottor De Sandris si fidava totalmente della signora Gaizza, alla quale certo poteva mostrare il suo appannamento e la sua spossatezza senza doversi preoccupare delle conseguenze. Si era instaurato tra loro due, il primario e la caposala, una certa intimità emotiva. Forse determinata dal fatto che lei poteva essere la madre, essendo molto vicina ai settant’anni, o una zia. De Sandris non amava parlare della sua famiglia, ma certo una come Alessandra Gaizza era rispettata come se ne facesse parte. «Vada a casa prof, abbiamo ancora bisogno di lei. E resti a Reggio, non si metta in strada per Melia, domani ha ancora turno. Riposi per settantadue ore e potrà tornare in villa.» Forse era stata troppo impertinente nell’impartire quello che sembrava il deciso monito di una madre, ma De Sandris non mostrò alcun segno di risentimento, e sorrise bonariamente. «D’accordo, maresciallo! Farò come dice, vedo una donna stasera, ceno e resto a dormire in hotel. O, se sono fortunato, trovo posto da lei. Mai sfidare la sorte!» Risero entrambi. Era stato un po’ maschilista, ma mamma Alessandra glielo perdonò, aveva ottenuto quello che voleva. E anche lui.


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CAPITOLO 4

Ti stai divertendo, vero? Il tuo ego si solletica come al solito! Sì, te la stai spassando. Cerca di sollazzarti bene, professore, perché tra un po’ toccherà a me. Non siamo tanto diversi in questo momento, me ne rendo conto: a te l’orgasmo che nasce da un piacere sessuale, a me quello spirituale, più profondo, più gravido di conseguenze. Mi tocca controllare bene però, l’abilità, la convinzione che tutto succederà esattamente come l’ho previsto sono incombenze severe, ma nobili. Eccoci qua, mia cara, lamentati adesso se vuoi, chiariscimi come ti hanno usata facendo scempio di te. Pochi hanno contezza di quanta potenza puoi sprigionare, di che inaccessibili vette possa raggiungere. Ecco come dovresti sentirti, inadeguata! Disillusa, inappagata. Ti comprano spendendo un’enormità, e poi sfruttano solo una piccola parte della tua ricchezza. Non è vita, la tua. Non sei nata per questo. Ma loro fanno così, sai? Nella loro natura di esseri mediocri, si accontentano: di come sono fatti, di quanto possono produrre, di quanta poca felicità riescono a generare, di quanto dolore riescono a sopportare. Ecco perché la mia missione è importante, capisci? Perché cambierà il mondo, e tu devi sentirti felice. Il tuo potenziale sarà utilizzato per come merita, e con un fine così nobile da farti scoppiare di felicità! Ora mostrati, amica mia: sei lunga 525 centimetri, larga 190, alta 149. Hai la capienza perfetta, sai? Potresti essere una bellissima familiare, se non costassi così tanto! So che puoi fare da 0 a 100 in quattro secondi virgola otto. Hai delle emissioni bassissime, 65 g/km. Sei un’ibrida perfetta, con 2996 cc di cilindrata, una coppia di 480 NM e sette marce in cambio sequenziale. Amica mia, con questa dotazione tu meriti di essere amata. Appena la strada si allargherà e inizierà la statale che poi s’inerpicherà su per la collina, il tuo stupido conducente crederà che in


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curva tu sia tutt’altro che impacciata. Il comfort sarà notevole, le tue superbe sospensioni ad aria filtrano a dovere ogni asperità, ogni giunzione, ogni fossa di strada. L’insonorizzazione e il rumore sommesso faranno il resto: non farà quasi caso al rotolamento dei grandi pneumatici. Sentendosi in totale sicurezza, picchierà sul pedale morbido di accelerazione, trovandosi a una velocità spropositata per quel tratto di strada, senza neppure rendersene conto. E comprenderà che è meglio sfruttare il cruise control dotato di frenata automatica per mantenere la distanza. Solo che per farlo, bisogna armeggiare con una delle quattro leve attorno al volante, utilizzandolo alla cieca, in quel gioioso clima da post scopata godereccia, unito a una certa quantità di alcol che non guasta mai. E calerà la mannaia. Sii felice, stai dando il tuo corpo e la tua anima a una speranza che ci vedrà vincitori, infine.


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CAPITOLO 5

Infine emise quello che sembrava essere il suo ultimo anelito. Come l’ultimo rantolo che ne sentenziava il decesso. In Calabria si diceva “a miglioria prima da morti” intendendo il flebile miglioramento che precedeva la fine della vita, biologica o tecnica che fosse. Non ne voleva sapere di partire. Il problema principale riguardava il motorino di avviamento che era completamente bloccato sul volano della macchina. Le nozioni di meccanica ed elettronica di Dario Seriotti si limitavano a una banale infarinatura, e tuttavia ricordava bene che se il motorino di accensione dell’autovettura, quello che scattava ogni volta che si giravano le chiavi nel quadro elettrico, faceva le bizze, era un preludio di possibili guai seri. Poteva trattarsi di un danno economico significativo, di diverse centinaia di euro. Per questo, e per una certa sua indolente pigrizia che trasferiva su ogni oggetto che gli appartenesse, immaginò che il motorino potesse essere solamente bloccato, anche se avrebbe dovuto, come minimo, sentire un clic girando la chiave nel quadro e le spie del cruscotto avrebbero dovuto attenuarsi. Ma né il clic, né le spie della Cinquecento volevano aiutarlo. Invece il motorino emetteva un complesso picchiettio; era desumibile che fosse l’elettromagnete a non funzionare, provocando la caduta di tensione che impediva al motorino di accendersi. Caduta di tensione che, permanendo il senso battente del rumore, doveva aver interessato tutto il circuito di alimentazione. La sostituzione era indubbiamente la soluzione più lineare: tuttavia, il suo animo rammendatore lo portò a un’indagine intra-commissariale: avrebbe chiesto il parere del migliore elettrauto e meccanico della zona. I funzionari, a cui sottopose il problema, finirono per stilare una lista di esperti elettrauti, qualcuno nominò persino i gommisti e i carrozzieri, e Seriotti comprese che tutti volevano fare bella figura, volevano dargli l’impressione che si poteva fidare di loro. Ma avevano finito per


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ampliargli il campo di ricerca, giacché “la lista” contava ora almeno venti nominativi. «Facciamo così ragazzi, altrimenti non ne usciamo» sentenziò il commissario, intimamente convinto che quello fosse un procedimento decisionale affidabile «voi mi scrivete, tutti, un solo nome in un biglietto. Io li confronto, e il soggetto che avrà il maggior numero d’indicazioni sarà quello che interrogherò. Sta bene?» «Sta benissimo, Dottore» rispose di getto Alfredo Giarlà, ispettore anziano che, sin dall’insediamento, era quello che aveva manifestato maggiore insofferenza rispetto alla presenza del Commissario. Votarono in nove, anche se non era essenziale che il numero fosse dispari, poiché a eventuale parità dei primi due si sarebbe proceduto a un secondo voto, quello sì da effettuare per numero dispari. Otto voti andarono a un nominativo, e solo la funzionaria Ines Tronchi votò per un gommista, che in effetti a tutti parve un voto senza senso considerato il problema della vettura di Seriotti. Solo molti giorni più tardi il Commissario avrebbe scoperto che la Tronchi aveva trascritto il nome del gommista Celesani perché amoreggiava con lui e, nell’animo intonso e virginale della poliziotta, non preferirlo sarebbe equivalso a un tradimento. Dall’inconsueta urna era venuto fuori il nome di un elettrauto anziano di Taurianova, che aveva una delle officine meccaniche ed elettriche più note del comprensorio. Si chiamava Vincenzo Cimonà, ma tutti lo conoscevano come Mastro Cecio. Seriotti fissò l’appuntamento per l’indomani mattina, lasciò la vettura davanti al Commissariato e andò a dormire in un locale vicino, che fungeva da foresteria per i funzionari pubblici che non risiedevano a Gioia Tauro. La macchina l’avrebbero portata direttamente in officina i dipendenti di Mastro Cecio, e lui si sarebbe fatto trovare lì, per capire, insieme a questa sorta di Mago, per come glielo avevano presentato tutti, che tipo di danno avrebbero dovuto rammendare sulla sua vecchia e nobile FIAT 500x.


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CAPITOLO 6

L’appuntamento era stato fissato per tempo, ma Patrizia si ritrovò ugualmente impreparata, mentalmente e fisicamente, davanti alla porta di entrata del reparto, fissando inebetita la scritta che campeggiava al centro della piccola stanzetta che ospitava i medici di turno: “Personale medico e paramedico”. Scoprì di avere paura. Quando Anna era stata ricoverata, i medici e i terapisti che la seguivano – tenuto debito conto del fatto che Patrizia veniva da altra regione – erano stati lapidari: schematici, precisi, essenziali e lapidari. «La signora Longata è una malata di lungo corso, stando alla sua cartella clinica. In questi casi, salvo che si verifichino condizioni straordinarie, di miglioramento o peggioramento, parliamo con i parenti una volta alla settimana, per aggiornarli con un report sulle condizioni. Nel suo caso, se vuole, possiamo anche fare una volta ogni due settimane.» Ma stavolta l’avevano chiamata loro. L’ultimo bollettino, per la verità ormai del tutto simile agli altri e riassumibile con un: «Niente di nuovo da segnalare, sua sorella resta sospesa qui in una condizione simile alla morte apparente.» Era avvenuto quattro giorni prima. Le avevano dato il tempo di prepararsi con cura, avrebbe affrontato tutta l’equipe che si occupava di Anna. Forse, c’erano delle novità importanti, o più probabilmente, delle decisioni dure da prendere. Patrizia si presentò da sola: i genitori non c’erano più da tempo, e lei non voleva intralci dal marito architetto e dai figli. Era la sorella maggiore, e toccava a lei decidere. Come un peso, un dovere, una responsabilità irrinunciabile, alla quale non poteva sottrarsi. Non appena varcò quella soglia, più psicologica che fisica, tutti le andarono incontro, con una deferenza che la destabilizzò: sapevano che Patrizia era caposala nell’Ospedale Civile di Cividale del Friuli, e per questo non le avevano mai riservato un trattamento freddo e distaccato. Tendevano a considerarla una di loro.


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Eppure nessuno, sbrigati i convenevoli saluti e i sorrisi di circostanza, parlò con lei. A parte il primario, che esordì con uno sbuffo devozionale che non piacque a Patrizia. Poi continuò: «L’abbiamo convocata con quest’urgenza perché dobbiamo segnalare un fatto importante, e perché è, forse, il momento in cui cominciamo, nostro malgrado, a centellinare gli sforzi verso una direzione temporale che potremmo, o dovremmo, definire, opportuna» fece una breve pausa prima di proseguire. «Innanzitutto, la buona notizia: sua sorella è passata dallo stato vegetativo a uno stato di minima responsività. Ed è successo proprio quando stavamo per arrivare al limite legislativo dello stato vegetativo medico. Pur essendo di natura traumatica, avremmo voluto comunque attendere il dodicesimo mese per rilevarlo come permanente, ma due giorni fa ci siamo accorti che esisteva attività cerebrale tale da giustificare il passaggio a una minima responsività. «Come lei sa, cara signora Patrizia, la minima responsività è quel particolare momento in cui alcune abilità si manifestano. Nel caso di Anna ne abbiamo individuate due: anche se non si sono evidenziate in modo chiarissimo, possiamo affermare che sua sorella ha mostrato sia una risposta non meccanica al dolore, sia l’inseguimento visivo.» Il primario fece una pausa, permettendo a Patrizia d’infilare una prima constatazione di sottecchi: «Professore, mi sta dicendo che mia sorella è sveglia e cosciente, anche se a tratti?» Mentre faceva quest’affermazione sotto forma di domanda, ebbe un sussulto al cuore che le rimbombò, piacevolmente doloroso, come il calcio di un feto in grembo. «Vorrei, signora, ma non si tratta esattamente di questo. Quello che abbiamo notato, con l’osservazione della paziente e dei macchinari che la controllano, è più uno stato da Sindrome di Locked-in, e immagino che sappia bene di cosa si tratta, purtroppo.» «È quella sindrome che rientra nei disordini di coscienza? Quella non facile da riconoscere, perché si confonde con altri stati di coscienza, giusto?» Patrizia si sorprese a ricordare quelle nozioni apprese in un corso serale sui traumi cerebrali gravi. «Direi di sì. È come se il paziente fosse intrappolato in un corpo che gli impedisce di muoversi e di parlare, a causa di una quadriplegia causata da un danno selettivo dei nuclei motori che genera una sorta di paralisi


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degli arti e dei muscoli della bocca, senza interferire sulla coscienza e sulle capacità cognitive. Come se Anna fosse in gabbia, dentro sé stessa, ma totalmente libera di formulare pensieri e, forse, di avvertire stati emozionali, ecco!» Una diagnosi talmente spiazzante che fu impossibile, per Patrizia, al solo accostamento empatico con la sorella, trattenere le lacrime, che scorsero via dalle sue guance con delicata dignità. «Secondo il GCS, il risultato del test di Anna è 4. Le abbiamo dato 2 soltanto sull’apertura degli occhi, anche se non è improbabile che si tratti di un riflesso involontario.» Il primario aveva concluso la prima parte, quella vagamente positiva. Ora veniva la parte più difficile. Patrizia si asciugò gli occhi e anticipò tutti: «Quanto avete deciso di attendere prima di ridarmela o di farmela portare in una struttura di lunga degenza?» Lo disse così, asciutta, schietta, quasi con il tono tipico dei medici, come se non si trattasse di sua sorella ma di una paziente qualsiasi, che andava trattata con tatto ma con distacco. Dentro era morta, già da tempo tutto quello che aveva a che fare con Anna era morto. «Se lei è d’accordo, ci siamo dati sei mesi da oggi, dopo aver parlato con lei. Se non esce dallo stato di Locked-in entro sei mesi, dovremmo convenire che è destinata a uno stato vegetativo permanente. Ma le assicuro che la monitoreremo notte e giorno, alla ricerca di qualunque spiraglio. Mi creda, signora Patrizia, lotteremo prima di arrenderci.» Patrizia annuì, e attese dal primario un gesto di congedo. Questi le tese la mano, la caposala le poggiò due dita con delicatezza sulla spalla. Uscì, pensando che il tempo per Anna era ormai scaduto, e che stavolta l’aveva persa per sempre.


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CAPITOLO 7

«Che ne dici, fuggiamo via da qui e ci rintaniamo dove posso mostrarti la mia splendida collezione di farfalle?» Giovanna, una quarantenne splendida, forse solo un po’ deteriorata dall’ansia botulinica tipica delle persone che credono di non invecchiare mai e da certe borse sotto gli occhi che ormai poteva benissimo usare come accessorio, non trattenne una risata, dapprima maliziosa e sexy, poi sguaiata e contornata dal tanto alcol che aveva deciso d’ingurgitare in quella irrequieta serata con il suo “dottorino”. «Ma certo, dottorino, sai che sono una luminare dell’entomologia, dove la tieni questa collezione?» La brillantezza e la capacità di essere anche lei rapace e ammaliante come l’uomo che le stava accanto, non l’aveva perduta. La serata volgeva al meglio anche per lei, che aveva bisogno di sesso, profumi, svago, e di un uomo che non le facesse troppe domande e, soprattutto, che uscisse fuori dal suo letto con la stessa rapidità con cui si accingeva a entrare. Lui pagò il conto, con un vezzo che non era necessario, ma a lei piacque comunque, e la fece sentire ancora più milfona di quanto già non apparisse. Salirono in macchina e andarono in hotel, da lui. O meglio, dove lui diceva di stare quando voleva starsene per i fatti suoi. Luigi rifinì la serata, da grande sciupa femmine quale si era sempre immaginato, seguendo un filo conduttore classico, da romantico decadente: fiori all’entrata, in un cesto profumato solo per lei; champagne di buona qualità dentro la camera, una suite da quasi mille euro a notte, che le sue conoscenze gli permettevano di avere per meno della metà; il canale della musica classica, di cui era convinto buongustaio, che scandiva, in rapida successione, una playlist scelta da lui stesso con accuratezza, che comprendeva le infallibili: La cavalcata delle Valchirie di Wagner; Nessun dorma, dalla Turandot di Puccini; Il lago dei cigni di Čajkovskij e la chiusura lasciata al teatrale, splendido, sempreverde Inno alla Gioia di Beethoven.


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Dopo l’orgasmo, come al solito, si sentiva sfatto, inutile, scioccamente usato, imprigionato nel nulla. E anche lei, dopo il sesso fine a sé stesso, non voleva altro che andare via. Perciò decise di non restare a dormire, e chiese di essere accompagnata a casa. Luigi si rivestì lentamente, ormai l’aria di festa e di conquista si era dissolta, lasciando il posto a una specie di goffa noia e urticante, meccanica pigrizia, che però non gli impedì di fare il suo dovere di maschio alfa, che riaccompagna le donne, dopo averne fatto uso, manco fossero una dose di droga o di farmaco. Giovanna ripensava a quel gentile incontro di qualche giorno prima, e al bonifico che vedeva sul suo conto. Un po’ si sentiva sporca, ma era stato così semplice avere quei soldi. Se ne dimenticò mentre la Mercedes, dopo averla lasciata davanti casa, scompariva agile e silenziosa nella notte. Luigi non sentiva più alcuna stanchezza, e tornare in centro, in hotel, non lo sconfinferava più di tanto, visto che gli interventi al Morelli erano programmati non prima delle dieci. Perché no? Perché non sentire l’ebbrezza di una bella cronoscalata con il suo Mercedes nuovo di zecca? Imboccò l’autostrada da Reggio Nord e inforcò per Scilla, lasciandosi guidare dalle luci della notte, bellissime, dello stretto di Messina, che risaltava, immaginifico e soave, sulla sua sinistra. Guidò con leggerezza fino allo svincolo, e poi prese per Melia, si sarebbe dovuto inerpicare per un paio di chilometri ancora, prima di raggiungere la villa. La strada provinciale SP107 era sempre stata un po’ pericolosa, ma non per lui che conosceva quei tratti a menadito, specie quelli che sembravano sgargiati i na iatta rraggiata1, come dicevano da quelle parti gli avventori giornalieri, o peggio muzzicati i nu ffamatu2. Solo in un tratto bisognava usare i freni, per evitare, dato il restringimento tortuoso della sede stradale, di finire in un costone della piccola collina che campeggiava sopra Scilla e Campo Calabro. Luigi ci arrivò comunque cauto, anche se allegro, e toccò i freni per tenere la macchina stabilmente ancorata al terreno. 1 2

Graffi di una gatta arrabbiata. Morsi di un affamato.


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Non se ne accorse nemmeno: le ruote non si bloccarono, e l’auto finì per accelerare, scivolando sul tratto crepato della strada. Impossibile evitare il costone. L’auto fermò la sua rovinosa discesa solo centotrentasette metri più in giù, completamente distrutta all’esterno dai colpi ricevuti durante la caduta. Luigi fu ritrovato fuori dall’abitacolo, forse era uscito vivo dall’impatto, nessuno poteva dirlo con certezza, viste le abrasioni, le ferite su tutto il corpo, le numerose ecchimosi e le fratture. Esanime, a una decina di metri dalla vettura. Curiosamente, aveva un’espressione placida, come di chi va incontro alla morte sorridendo. Un taglio evidente sotto l’occhio destro, a forma di lettera C, rendeva lo sguardo indecifrabile.


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CAPITOLO 8

Seriotti decise opportunamente di non radersi. In linea generale, modificare irritualmente le abitudini, dormire in camere in affitto, o peggio, in foresterie gestite da persone che non conosceva, lo irritava. Veniva fuori la sua personalità schizzinosa e malpensante, che lo faceva chiudere a riccio. Tuttavia, ciò che si poteva vedere da fuori, era solo una mistica evanescenza, una sorta di finta indolenza verso le cose del mondo. Uscì di buon mattino, in giro per il paese con Alfredo Natalino, il poliziotto giovane che gli faceva da autista. Si fermarono davanti a un bar di fronte al Comune, di cui si diceva un gran bene, per via di certi cornetti bi gusto, ripieni di marmellata e crema pasticcera, con un accostamento che solo in Calabria, terra di fritti strepitosi con olio d’oliva, di melanzane impastate in una parmigiana che avrebbe resuscitato i morti, aveva la sua ragione di essere. «E vediamo se sono davvero buoni come dicono, Natali’» bofonchiò Seriotti, scendendo dalla vettura con un misto di urto per l’ora fresca e golosa eccitazione. Aveva cominciato a chiamarlo Natali’ così, senza preavviso, sicché da quel momento non avrebbe più ricordato che il giovane all’anagrafe faceva Alfredo di nome. Per il Commissario sarebbe sempre stato il diminutivo di Natale. Era fatto così, se s’incaponiva su qualcosa erano cazzi, avrebbe detto suo padre. Consumarono con cupidigia e fremito il meraviglioso cornetto, servito con un caldo cappuccino da Adelina, graziosa e minuta come il suo nome. La routine del garbo continuò grazie al padre della giovane donna che, venendo fuori dal laboratorio dov’erano ammassati i piani da lavoro e i forni unitamente all’altro figliolo, strizzò l’occhio con un perentorio: «Salutamu i signori della legge!»


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Seriotti pensò che in quel paese le cose si sapessero anche prima di accadere. O, più probabilmente, che l’odore di sbirro non poteva sfuggire a un occhio attento e navigato come quel buon uomo. Tuttavia, nel suo spirito calabrese comunque devoto e riconoscente per il magnifico cornetto appena trangugiato, fece a sua volta l’occhiolino e un misurato cenno di saluto. Sapeva che sarebbe tornato presto e spesso in quel bar, ne era sinceramente incuriosito. Infine s’incamminarono per Taurianova, ma non dalla statale centoundici, no, avrebbero preso la provinciale per Rizziconi, e da lì proseguendo per il quadrivio “Bombino” rimettendosi in direzione Taurianova, sarebbero arrivati allo svincolo per Cittanova: riscendendo la circonvallazione per alcune centinaia di metri, avrebbero trovato, sulla loro sinistra, l’officina di Mastro Cecio, evitando il certo e increscioso traffico del paese. Alle 8:35 Dario Seriotti scese dalla Panda di servizio del Commissariato di Gioia Tauro, e s’incamminò verso una delle due grandi entrate dell’officina, che già pullulava di mezzi accomodati sui due ponti, altri in attesa, con il consueto starnazzo degli utenti occasionali, che sembrava ne sapessero più di Massimiliano Cordeschi, il miglior meccanico europeo di un contest tenuto nel 2007. La gente di Calabria era fatta così, tutti seguivano il famigerato motto proverbiale: “a pratica rrumpi a grammatica”: a che serviva studiare quando sul campo acquisivi le competenze necessarie? In realtà l’affermazione valeva per i mestieri, quasi mai per le professioni o per la politica, o la gestione. Ma per il calabrese vero, la pratica avrebbe sempre stravolto tutto. Era la pratica a renderti davvero ciò che eri, la pratica ti qualificava. Seriotti si guardò intorno: aveva visto tre meccanici, ma sembravano tutti molto giovani o, al massimo, della sua età. Mentre lui si era figurato Mastro Cecio come un uomo anziano, seduto su una seggiola accanto al ripiano da lavoro, a impartire ordini e lezioni dall’alto della sua esperienza e della sua solenne anzianità. A un tratto fu distratto da una voce profonda, che gli parve provenire dall’abitacolo


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di una Ford Fiesta, all’interno dell’officina: «Ninu, va pigghia na dudici e portami na batteria nova, ca provamu u spinterogenu!3» Dalla Ford emerse una testolina con dei capelli brizzolati, poi divenne un viso gioviale, giovanile, sbarbato, inamidato, gentile e con dei ferrei occhi color nocciola che si muovevano rapidi e incisivi. Una sessantina di anni al massimo, fascino alla Jean Paul Belmondo con le fattezze laterali del viso più pronunciate, più marcate, un vago ricordo di Marlon Brando negli “Ammutinati del Bounty”. Decisamente un bell’uomo, statura media, imbardato in una felpa che nulla aveva a che vedere con quella stagione. Andò incontro al Commissario senza dare la sensazione di averlo nemmeno guardato, ma con un sorriso contagioso e la mano protesa in un’ipotetica stretta. «Sono Vincenzo Cimonà, ma può chiamarmi Mastro Cecio, mi conoscono tutti così. Se ancora ho il colpo d’occhio giusto, lei dev’essere il Commissario nuovo, quello di Gioia Tauro, con il problema del motorino di accensione, giusto?» Il Commissario si presentò, ricambiando il sorriso: «Mi chiamo Dario Seriotti, molto piacere Mastro Cecio. La vedo indaffarata e non vorrei disturbarla più di tanto, ma sono affezionato alla mia 500x, mi hanno detto che lei è il migliore della zona.» «Commissario, i vuci fannu piaciri4, ma non so davvero dirle se sono il migliore. Mi piace il mio lavoro, e lo faccio al meglio che posso. Me patri mi ‘nsignau così5.» «A me bastano le voci per il momento, Mastro Cecio. Nel mio lavoro le voci sono importanti. Ma potiti sistemari prestu?6» Dario si sorprese a parlare il dialetto. Era diverso tempo che non lo faceva, ma quell’uomo gli ispirava una profonda e grata simpatia. Si avvicinarono alla sua auto, si sistemò in piedi, accanto a un piano di lavoro dove era aperta La Gazzetta del Sud del giorno, a pagina 5, cronaca calabrese. 3

«Nino, va’ a prendere una chiave numero dodici e portami una batteria nuova, così proviamo lo spinterogeno.» 4 Le dicerie fanno piacere. 5 Mio padre mi ha insegnato così. 6 Lo potete sistemare presto?


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Campeggiava la foto di un bell’uomo, che Seriotti mise a fuoco subito, si trattava del chirurgo Luigi De Sandris, eccellente neurologo del Riuniti. Fece appena in tempo a leggere “Tragico incidente” che fu di nuovo preso alla sprovvista da quella voce amichevole e gioiosa: «Stavo leggendo del povero dottore Disandris, sono rimasto di sasso, veramente nu bravu cristianu!7» Quando uno è sbirro dentro, la curiosità indagante quasi ti sfugge dal corpo: «Il Professor De Sandris era davvero un grande uomo, avete ragione Mastro Cecio. Lo conoscevate?» «Nentidimenu dottori Seriotti! Ci eravamo visti proprio una settimana fa, era venuto per il tagliando della Mercedes. Chi destinu amaru!» Concordò con lui e si mise a guardarlo mentre si affaccendava sulla 500x. Gli parve che usasse le mani come un’artista. Il genio in azione.

7

Il termine “cristiano” al Sud Italia è inteso come “persona”.


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CAPITOLO 9

Guardò distrattamente l’orologio, mentre si trovava seduto dentro l’officina di Mastro Cecio, circondato da un’atmosfera intima. A un certo punto, il Capo venne fuori dalla 500x con aria moderatamente soddisfatta. «Dottore l’ho sistemata, ma il problema di accensione rimane. Non appena potete spendere un po’ di soldi lo cambiamo ’sto motorino, siamo d’accordo? Non è cca potiti iri in giru comu a nu sciancatu, a Leggi avi a ssiri sempri a Leggi, soprattuttu cca i nui!8» Lasciò sfumare l’ultima sentenza esibendo ancora una volta la sua risata contagiosa e immediata, che finiva per impossessarsi di te come se, giocando a tressette, avessi appena cominciato a calare una napoletana sesta. Seriotti sorrise, salutò come un militare e fece cenno a Natali’ di prendere contatti con il figlio di Mastro Cecio per pagamento e fattura: scoprì ben presto che i due ragazzi avevano già concordato tutto. Contento di quella meritevole efficienza, il Commissario si avviò. Sul sedile dietro giaceva, intonsa e quasi immacolata, la copia della Gazzetta del Sud, ulteriore omaggio di Mastro Cecio. Decise di darci un’occhiata. Lo squillo del cellulare lo scosse dal torpore attivo nel quale era sprofondato leggendo il curriculum di Luigi De Sandris, a latere dell’articolo sul terribile incidente che gli era costato la vita. Riconobbe il numero, attese alcuni istanti e rispose: «Buongiorno Patrizia, come sta? E sua sorella? Tutto come al solito?» Tre domande, una sopra l’altra, quasi a rincorrersi e sovrapporsi. La prima celava l’imbarazzo, la seconda un sentimento non ben definito nemmeno per un uomo avvezzo a conoscere i meccanismi dell’emotività come Seriotti. La terza esprimeva ansia e 8

«Non è che potete andare in giro come un poveraccio. La legge dev’essere sempre legge. Soprattutto qui da noi.»


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preoccupazione, quasi a esorcizzare che ci potessero essere novità disastrose che, in qualche modo, riguardassero Anna. «Buongiorno Commissario, la ringrazio per la premura. Al momento non è cambiato granché: io mi sento sempre sospesa nel nulla. Anna è sempre a Crotone, e sta più o meno come prima, ma qualche novità c’è se le interessa.» Nella comunicazione non verbale, che via etere poteva tradursi nel tono, non fece nulla per alleggerire il senso di colpa di Seriotti: sapeva bene che il Commissario aveva cercato di salvarla, tuttavia giudicava ingiusto che lui fosse in giro ad arrestare malviventi, e sua sorella fosse ancorata, in regime di Locked-in, nel letto di una struttura speciale. Avrebbe voluto squarciargli il petto con il suo urlo di rabbia contro questa realtà. E Seriotti era sempre stato il bersaglio preferito su cui riversarla. A lui non parve vero che fosse informato di qualcosa. «Ogni novità che riguarda Anna m’interessa, signora Patrizia. Mi dica come e se posso aiutare» furono le prime parole che seppe mettere in fila mentre il cuore, risalendo in modo prossimale dall’antro in cui si trovava di solito, percorreva rapidamente esofago, faringe ed epiglottide, in questo preciso senso. Forse c’era ancora vita. Una possibilità, una speranza. «Anna non è stata dichiarata in stato vegetale perché a Crotone vogliono rispettare i tempi tecnici, quelli legali e via discorrendo. Sa, la vedono così giovane, non se la sentono. E mentre aspettano che succeda qualunque cosa, qualcosa succede: notano, osservando i macchinari che la controllano, che potrebbe essere in uno stato da sindrome di Lockedin, come fosse cosciente e avesse attività cerebrali complesse come le nostre, ma fosse in qualche modo intrappolata nel suo corpo, senza possibilità di azionare i meccanismi primari neurologici e cerebrali. La parte positiva di tutto questo è che i medici pensano che sottoponendola a tutti gli stimoli possibili, potrebbe avere una speranza di uscire da quello stato.» Patrizia sospirò, soffriva all’idea di andare avanti. «La parte negativa è, invece, il tempo. Con la sindrome di Locked-in, se non ci sono variazioni entro sei mesi, saranno costretti a dichiarare lo stato vegetale, e a quel punto sarà praticamente finita, almeno da un punto di vista clinico. Mi sono spiegata sufficientemente, Dario?»


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«Sì, Patrizia, è stata perfettamente chiara. Cosa vuole che faccia?» La determinazione, il coraggio, la capacità di andare oltre di un uomo, fin dove si può spingere? «Vorrei che tornasse a trovarla, più spesso che può. Anna provava dei sentimenti forti per lei, inutile girarci intorno. E, anche se lei è l’ultima persona con cui andrei a cena, e la ritengo responsabile di quello che le è successo, intuisco che anche lei è molto legato a mia sorella. Perciò venga, stia con lei quanto più possibile, le parli, le racconti quello che le succede, qualunque cosa le venga in mente per stimolare una reazione. Come faccio io, come fanno i suoi nipoti. Se la sente, Commissario?» Mentre il ronzio alle tempie si faceva più pronunciato, e le parole erano ancora sospese in aria, come fossilizzate in un ricordo futuro, Dario si sentì sollevato: finalmente qualcuno aveva chiamato le cose con il loro nome: quella colpa che gli avevano gettato addosso si era materializzata e, paradossalmente, era più facile da affrontare e contrastare. Infine, qualcuno aveva notato che anche lui era molto legato ad Anna! E che lei provava dei sentimenti forti per lui. Le parole quello significavano, così erano uscite dalla bocca, ormai erano storia. Anche se se le fosse rimangiate, Patrizia le aveva dette, e avevano un valore. Per sempre. Rispose quasi sillabando: «Mi dica i giorni in cui posso venire, e non ne perderò nemmeno uno. Patrizia, grazie di avermi reso partecipe, lo apprezzo molto.»


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CAPITOLO 10

«Domani parlerò io con questi dell’ANAS, e per la miseria mi sentiranno. Quale Madonna bisogna pregare per avere una maledetta autorizzazione a far passare un camion nella loro zona di cantiere?» Carlo Del Duca non aveva mai avuto bisogno di mandarle a dire, o di avere un atteggiamento dimesso o riconoscente per ottenere dei risultati. Era un tizio all’antica, nonostante i suoi cinquant’anni appena, ed era considerato uno dei venti migliori ingegneri civili industriali della penisola italica, quella che proprio nel periodo peggiore del cambiamento di clima e delle precipitazioni piovane, doveva fare tristemente i conti con l’indole cementizia a tutti i costi e il costruzionismo a tutto tondo, in barba a leggi e civiltà. In più, nessuno aveva pensato a una sorta di piano morale, ambientale e generazionale, che mettesse al riparo dal certo dissesto idrogeologico nel quale ogni meandro della terra di Dante era precipitato. In ogni caso, nessuno avrebbe fermato il suo ennesimo cantiere. Men che meno l’ANAS, l’Azienda Nazionale Autonoma delle Strade, che aveva nella sua mission principale “garantire la continuità territoriale del Paese attraverso la rete stradale e autostradale che gestiva. A tal fine progettando, costruendo e tutelando il patrimonio delle infrastrutture nazionali, attraverso il quale si contribuisce allo sviluppo del territorio e dell’economia” e che, per la realizzazione di questa mission, poteva contare su 6.800 dipendenti, trentotto sedi sul territorio nazionale e circa otto miliardi di euro da investire ogni anno. L’ANAS era, senza ombra di dubbio, il maggiore competitor della piccola Srl con cui l’ingegnere civile Carlo Del Duca ridava forza, vita e speranza alla territorialità dei comuni montani di tutta Italia. Guardò l’ora. Le 18:00 erano passate da qualche minuto. Chiamò le ultime squadre che stavano terminando l’ennesimo briefing sul progetto e le mandò a casa. Sapeva che avevano bisogno di riposare, era stata una giornata impegnativa. E, nonostante, la maggior parte di loro


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avrebbe dato un braccio per lui, andando ben oltre l’orario di lavoro, sentiva il bisogno di non spremerli più del necessario e averli pronti e decisi l’indomani, quando i nodi con l’ANAS sarebbero venuti al pettine. Del resto, era un uomo conosciuto per rigidità e durezza con i dipendenti, ma a tutti era anche noto che non stillava mai energie inutili ai suoi uomini, possedendone enorme stima personale. Alla fine, Carlo Del Duca, era considerato un Capo pretenzioso, ma allo stesso modo era molto benvoluto. Decise di telefonare, prima di passare dall’officina, sapeva che Mastro Cecio non lo avrebbe aspettato in eterno. «Buonasera, mi passate Mastro Cecio, sono Carlo Del Duca. Si aspetto, grazie!» Qualche secondo, la risata contagiosa lo sorprese piacevolmente: «Era ura u vi faciti sentìri, Ngegneri! Mi dassastu zzippatu cu dda questioni!9» Il miglior rimprovero che avesse mai sentito, fatto con genuina sincerità, ma anche con la benevolenza tipica di un padre, o di uno zio. Lo canzonò con gioia: «Mastro Cecio, non ho scusanti, avete ragione voi. Però vi ho telefonato prima di scendere, avete visto? Sentite, io scendo dalla montagna stasera, domani devo parlare con quelli dell’ANAS. Se potete, vi porto la macchina domani, come torno da Reggio. Anche se ve la dovete tenere qualche giorno, posso aspettare. Così ma risolviti, na vota pe tutti, Mastru!10» Attese con solenne impazienza i calcoli mentali di Cecio, che non tardarono ad arrivare: «Sentiti cca11 ingegner Del Duca, vi aspetto domani come tornate da Reggio. Poi pranziamo assieme, e la vediamo subito, così se riusciamo già la sera ve ne tornate al cantiere con la Jeep. Va bene?» A Del Duca sfuggì un sorriso di commozione, amava quell’uomo e quel suo modo di occuparsi di lui. 9

«Era ora che vi faceste sentire, ingegnere. Mi avete lasciato in sospeso con quella questione.» 10 Così la risolvete una volta per tutte, Mastro! 11 Il “cca” in dialetto significherebbe letteralmente “qui”, ma nella fattispecie si può tradurre semplicemente con “Statemi a sentire”.


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«Mastru Ceciu, siete la mia salvezza. Ndi vidimu domani, vi bbrazzu forti!12» Voleva che nelle sue parole trasparisse la forza di quell’abbraccio promesso, che era esattamente quello che avrebbe voluto fare. Se avesse potuto, avrebbe abbracciato Mastro Cecio per sempre. L’ingegner Carlo Del Duca, calabrese di nascita, ascolano di adozione, viaggiatore in lungo e in largo del mondo, sempre alla ricerca di nuovi cantieri e di nuove strade da realizzare, di nuovi spazi da catechizzare, di nuovi passaggi da creare, aveva nel suo cuore uno spazio giusto, piccolo e raso per gli affetti preziosi: ed era totalmente occupato da Vincenzo Cimonà, detto Mastro Cecio.

12

«Mastro Cecio, siete la mia salvezza. Ci vediamo domani, vi abbraccio forte!»


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CAPITOLO 11

«Cioè, Ngegneri, mi stai dicendu ca u megghiu mpiantu frenanti du mundu, supa a sta machina non mbali nu centesimu?13» Mastro Cecio lo svegliò dallo stato d’ipnosi apparente nel quale era sprofondato durante il viaggio di ritorno da Reggio Calabria, anche se alla fine aveva ottenuto un uso gratuito fino alla fine del mese dello spazio di cantiere di proprietà dell’ANAS, per terminare il suo di lavoro, uno snodo stradale tra i due mari calabresi, Tirreno e Ionio, che aveva un passaggio cruciale proprio a due chilometri dal cantiere ANAS, sulla parte terminale dello Zomaro, lato ionico, accidentato e tetro zoccolo di montagna degli Appennini calabresi, il cosiddetto Aspromonte. Stava ancora trangugiando un caffè amaro, quando i bonari improperi di Mastro Cecio lo assalirono. «Non ho detto questo, Mastro: dico solo che ho la sensazione, quando si sprigiona la parte finale dei 717 cavalli di questa malefica Cherokee, che l’impianto frenante non fa il lavoro come dovrebbe. Secondo me i dischi Brembo sono ovalizzati. E sottopongo questo quesito al vero Maestro, cioè a voi. Dissi na minchiata?14» Carlo adorava metterlo alla prova, ed era francamente stupito dalla competenza e dalla genialità di quel meccanico. A nessuno avrebbe mai fatto mettere le mani sulla sua Jeep Grand Cherokee Trackhawk. Solo Mastro Cecio avrebbe potuto. La risposta, torva e serafica, non si fece attendere, preceduta dalla bizzarra risata dell’anziano elettrauto: «Ngegneri dicisti na minchiata così grossa ca certi voti mi domandu comu ti fannu costruiri strati e ponti. Ora ti ssetti cca cu mmia e ti spiego perché è impossibile parlare di dischi

13

«Cioè, ingegnere, mi stai dicendo che il miglior impianto frenante del mondo, su questa macchina non vale un centesimo?» 14 Ho detto una minchiata?


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ovalizzati. Così ti caddìu a memoria e sta testa frisca!15» e giù altra risata, contagiosa e accattivante. Solo da lui, Del Duca avrebbe accettato di sentirsi dire testa frisca, epiteto che normalmente si attribuiva a chi non avesse il benché minimo slancio di responsabilità e di dovere. La spiegazione che seguì lo convinse totalmente. «Questa macchina ha un motore da veri smanettoni. Il V8 6.2 della Jeep Grand Cherokee Trackhawk adotta, di serie, una componentistica rinforzata che ha costretto la Jeep a intervenire anche sulla trasmissione automatica Torqueflite, a otto marce, la stessa che utilizzano le Grand Cherokee meno prestazionali. Per questo troviamo le ruote da venti pollici, gli ammortizzatori adattivi della Bilstein e l’impianto frenante più strepitoso mai concepito dalla Brembo, che si avvale di dischi ampi quaranta centimetri davanti e trentacinque centimetri dietro: in questo modo gli spazi di arresto sono di circa trentacinque metri per una frenata da cento chilometri orari. Cioè, in parole più comprensibili, stiamo parlando di un ciuccio d’impianto motore, ’na cosa spaventosa, capiscisti Ngegneri?» Carlo annuì, ammutolendo. Mastro Cecio continuò, occupandosi nello specifico dell’impianto frenante: «L’altra volta ho letto un articolo interessante, fatto circolare su internet proprio dalla Brembo, in merito al problema della, comu a chiami tu, ovalizzazione dei freni» si voltò verso un dipendente e chiese: «Marziano, portami ssu tablet ca ncià leggìri na cosa o Ngegneri…16» Il fido Marziano, devoto dipendente di Mastro Cecio da quindici anni, che doveva il suo nome a un nonno eccentrico, era già accanto a lui, con l’articolo a portata di click. “Perché non sono sorpreso che Mastro Cecio maneggi internet con la stessa comodità con cui maneggia una chiave diciotto?”, pensò Del Duca. 15

«Ingegnere hai detto una minchiata così grossa che certe volte mi chiedo come fanno a farti costruire strade e ponti. Ora ti siedi qui con me e ti spiego perché è impossibile parlare di dischi ovalizzati. Così ti rinfresco la memoria!» 16 «Marziano, portami il tablet che devo leggere una cosa all’ingegnere.»


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Cecio esitò, un po’ leggeva e un po’ spiegava, con tono fiabesco e vagamente pedagogico: «I dischi freno Brembo, sia quelli di primo impianto che quelli Aftermarket, sono certificati nel rispetto di tutti i più severi standard internazionali. Brembo controlla tutte le fasi del processo produttivo: progettazione, sviluppo, test, fusione, lavorazione, assemblaggio, distribuzione e assistenza. Il termine ovalizzato pur diventato di uso comune, è in realtà, dal punto di vista tecnico, profondamente sbagliato perché molto difficilmente un disco freno può assumere una forma ovale, o anche leggermente ovale. È più corretto parlare di deformazione termica, o assiale, nello specifico. E ora senti chi dinnu supa o problema da deformazione assiale17: gli effetti negativi di un’eccessiva dilatazione termica impattano maggiormente i dischi integrali rispetto a quelli flottanti. In questi ultimi la fascia frenante è libera di muoversi radialmente, grazie al collegamento con la campana mediante l’impiego di bussole in alluminio. Le prestazioni del sistema traggono, inoltre, vantaggio proprio dall’unione del mozzo del disco con la superficie frenante in ghisa speciale, attraverso boccole o bussole di fissaggio. In questo modo, i due componenti soggetti a stress termico possono dilatarsi in maniera elastica, impedendo la deformazione del disco e l’insorgere di criccature in caso di surriscaldamento» fece una breve pausa prima di continuare: «Questo sistema consente la libera dilatazione termica della fascia frenante eliminando o minimizzando le deformazioni laterali. Nei dischi integrali, invece, quando questi ultimi raggiungono altissime temperature, la fascia frenante non riesce a espandersi perché è un tutt’uno con la campana e quindi cerca una valvola di sfogo assialmente. Questo determina una deformazione assiale del disco che spesso difficilmente torna alla sua configurazione originaria una volta raffreddato. Tutto chiaro fin qui, Ngegneri?» «Sì, Capo. Cristallino. Ora scommetto che mi direte che la mia Grand Cherokee Trackhawk non ha dischi integrali vero?» rise, questa volta anticipando la benevola asserzione di Mastro Cecio, che rispose in modo inatteso. Voleva bene a Carlo, e non poté esimersi da fargli una reprimenda che andava oltre i suoi doveri professionali: «Molti credono 17

E ora ascolta cosa dicono sul problema della deformazione assiale.


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che basti rettificare il disco per risolvere il problema. In realtà la sola rettifica della fascia frenante in molti casi non produce alcun effetto se la deformazione termica ha provocato delle variazioni anche nella struttura del materiale. Perciò cambiare le pastiglie dei dischi non risolve il problema. La vera cosa che si può fare è porre maggiore attenzione al proprio stile di guida in alcune condizioni critiche. Certo, adesso guardiamo se i pistoncini scorrono liberi all’interno della pinza frenante: tuttavia con uno stile di guida meno a strattoni eviteremmo un sovraccarico all’impianto. Perciò, Ngegneri meu, prima di tutto avarrissu a guidari cu disciplina, ambeci u vi rrocculati nda nchianati e calati comu a nu cani pasturi. O no?18» La frase rimase sospesa, non necessitava di una risposta, a dire il vero. Carlo sapeva che aveva una guida particolarmente sovraesposta per i freni, per via della sua modalità nevrotica e veloce: riteneva infatti che andando velocemente nel tragitto, qualunque esso fosse, si risparmiava del tempo trascorso sull’autovettura, diminuendo così la possibilità di avere incidenti. Una cosa al limite di ogni logica. Una volta lo disse anche a Mastro Cecio, che per tutta risposta, portò le sue mani sul viso e si prese a schiaffi, giusto perché fosse chiaro cosa ne pensava di quella “teoria”. Era il tipico gesto calabrese, accompagnato da un focu meu, che chiariva quanto folle e bislacco fosse un atteggiamento. La macchina fu messa a punto, Carlo salutò tutti e andò via. La sua unica preoccupazione era finire il lavoro sul cantiere. Ma si raccomandò che sarebbe passato presto per fare le opportune valutazioni con Mastro Cecio. Quando la Cherokee rossa, da 125.000 euro, schizzò fuori dall’officina e riprese la statale, Mastro Cecio la guardò, con un misto di apprensione e di orgoglio: quel suo ragazzo ne aveva fatta di strada, e tanta ancora ne doveva fare!

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Quindi, ingegnere mio, prima di tutto si dovrebbe guidare con disciplina, invece di affrontare salite e discese come un cane pastore. O no?


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CAPITOLO 12

Non mi costerà alcuna fatica, quando tutto sarà in moto. Non mi costerà alcun sacrificio, quando ogni meccanismo sarà sincronizzato. Non respirerò più quell’aria torbida di secco, di sporco e di grottesco che respiravo mentre riducevano la tua vita a brandelli e tu, morto in un mare di squali, mangiavi gli unici pesci che potevi, noi. Adesso basta, è tempo di rimirare, di destarsi e godere, di spogliarsi di quell’abito logoro che per tanti anni ho portato addosso. Scegliendo con cura quale parte mostrare, quale nascondere e quale dipingere, affinché sembrasse diversa: quale amare, quale odiare, quale sopportare, quale seguire e quale ripudiare. Le mie parti sono tutte dentro di me, tutte dentro l’abito che porto, tutte dentro questa essenza, calibrate, grate, offese, vilipese. E tutte vive, nessuna è perita. Nonostante voi. Nonostante te. Non voglio più leggere ma devo, perché è questa la mia vera linfa, leggendo io ricordo, ricordando io trovo forza, trovando forza io respiro, respirando posso agire. Agendo farò giustizia. E la giustizia sarà come la mietitrice, che sola sa separare ciò che è buono da ciò che giusto, da ciò che deve comunque crescere, per non ostacolare la giustizia. Dio è in ognuno di noi, se ne ha veramente le doti, le fortune, le angosce, è il prescelto: solo al prescelto spetta il compito di guidare una grande opera, mai compresa davvero fino in fondo dai suoi simili. Perché non è essa stessa simile alla natura di noi mortali: risiede nell’immortalità, giace su un piano che non può essere rivelato. Rivivo adesso quegli attimi che hanno cambiato per sempre la storia del Salvatore: colui che è divenuto prescelto, mondandosi delle sozzure, esibendo la sua bruttezza, per cristallizzarla, potersi specchiare e, solo dopo, rinascere dall’alto. “Ennesimo caso di malasanità in Calabria: tra ritardi, inadempienze, referti poco chiari, il destino si è preso una vita che, forse, poteva


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essere salvata. Una concatenazione incredibile di sfortune, con un vezzo che nemmeno i migliori racconti di fantasia avrebbero potuto immaginare, ha portato alla morte di…” Devo rileggere bene il testo, e fare memoria di chi l’ha concepito. Mi ricorderà il punto al quale anelare, per rendere indimenticabile questa “concatenazione incredibile di sfortune”. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


CAPITOLO 39.......................................................................... 139 CAPITOLO 40.......................................................................... 141 CAPITOLO 41.......................................................................... 146 CAPITOLO 42.......................................................................... 148 CAPITOLO 43.......................................................................... 150 CAPITOLO 44.......................................................................... 155 CAPITOLO 45.......................................................................... 159 CAPITOLO 46.......................................................................... 162 CAPITOLO 47.......................................................................... 164 CAPITOLO 48.......................................................................... 166 CAPITOLO 49.......................................................................... 169 CAPITOLO 50.......................................................................... 172 CAPITOLO 51.......................................................................... 178 CAPITOLO 52.......................................................................... 181 CAPITOLO 53.......................................................................... 184 CAPITOLO 54.......................................................................... 188 CAPITOLO 55.......................................................................... 194 CAPITOLO 56.......................................................................... 198 EPILOGO ................................................................................. 201 NOTA DELL’AUTORE........................................................... 203 RINGRAZIAMENTI................................................................ 205



AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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