La scelta di Samir, Massimiliano Foschi

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MAX CROMAZ

LA SCELTA DI SAMIR

ZeroUnoUndici Edizioni


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LA SCELTA DI SAMIR Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-538-7 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Marzo 2022


Ai miei genitori, Gabriella e Andrea



PARTE PRIMA

“Ove c’è raziocinio c’è scelta, ove c’è scelta c’è libertà” Oriana Fallaci



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PROLOGO

«Vai vai vai!» Moussa si volta, trova gli occhi di Samir, seduto sul sedile del passeggero. Trova il suo sguardo spaventato. Poi guarda dietro, nel lunotto posteriore, alle spalle di Samir. Guarda la strada che scorre via velocissima. In mano stringe una Beretta 7,65 che gli ha venduto uno dei ragazzi di Marzouq. Duecento euro gli è costato quel ferrovecchio. “Tanto mica ci devi sparare per davvero.” Gli aveva detto quello, senza prenderlo troppo sul serio. Vede le luci blu dei lampeggianti della volante che li sta inseguendo. La bitonale della sirena si sente sempre più forte. Si stanno avvicinando. «Centrale, qui è la volante Barona. Li abbiamo davanti a noi. Via Ripamonti, si dirigono fuori città.» La voce di Fiorenza Occhipinti, che tutti chiamano Fiore, agente scelto della Squadra Volanti è carica di adrenalina. Gracchiare di statica dalla radio, poi la centrale operativa della Questura risponde. «Va bene volante Barona, non perdeteli. Stanno arrivando altri equipaggi di supporto. Prudenza mi raccomando, sono armati.» Prudenza, certo, ma intanto Valentino Cammarata, l’autista, accelera ancora di più. Il motore dell’Alfa 159 ruggisce a quattromila giri. «Vale rallenta, ci stiamo avvicinando troppo.» Fiorenza intanto ha estratto dalla fondina la Beretta 92 fs calibro 9 e la tiene appoggiata sulle gambe, colpo in canna e sicura inserita. Non è che non li vuole raggiungere, ma, quando è possibile, più si allontanano dal centro abitato meno probabilità ci sono che qualche innocente si trovi in mezzo a un tiro incrociato in caso di un eventuale conflitto a fuoco. «Cazzo Fadik accelera, più veloce vai più veloce o quelli ci beccano!»


8 La voce di Moussa è concitata. Anche lui fiuta la paura. Inizia a sentirne l’odore. Il supplemento di coraggio che gli ha dato la cocaina si sta trasformando in panico. In paranoia. Cerca di mantenere la calma, Moussa. In fondo quella merda che ha sniffato è soltanto chimica ripete a se stesso. Sì, va bene, chimica, però resta il fatto che gli sbirri stanno guadagnando terreno. Milano, via Ripamonti. L’arteria più lunga di tutta la città. Una linea retta di quasi sette chilometri fitta di incroci e semafori. Il Range Rover Evoque 2.0 turbodiesel da centottanta cavalli, rubato la sera prima, la attraversa come un missile. Centoquaranta all’ora. Fadik spinge sull’acceleratore. Guida come un pazzo. Supera altre macchine, brucia i rossi. Le mani sudate stringono il volante, lo sguardo fisso sulla strada. È concentrato. Ma non basta. La Barona, la volante che li ha intercettati poco dopo che sono usciti dalla sala corse, si sta avvicinando sempre di più. Doveva essere un colpo facile quello al ‘PointBet’, una sala scommesse gestita da cinesi. Gli incassi di fine giornata. Quasi quattromila euro per meno di due minuti di lavoro, tanto hanno impiegato Moussa e Samir a svuotare le casse dell’agenzia, mentre Fadik li aspettava in macchina con il motore acceso. Ma qualche stronzo è riuscito a dare l’allarme. Forse è stata quella puttana di cinese dietro al bancone a farlo scattare mentre loro prendevano i soldi. Fatto sta che un attimo dopo che erano schizzati via si sono ritrovati quella dannata volante attaccata al culo. E sicuramente ne stanno arrivando altre. Emilio Seghezzi è felice. Ha appena parlato con il suo capo. La sua domanda per subentrare al posto di dirigente dell’ufficio marketing, che era stato per anni appannaggio della signora Franchi, è stata approvata. La Franchi è andata in pensione da quasi due mesi e lui si è subito proposto per sostituirla. Sa bene che quel posto implica molte responsabilità ma significa anche un bell’aumento di stipendio. Le note di ‘Un’emozione da poco' di Anna Oxa lo accompagnano sulla strada del ritorno. Non vede l’ora di essere a casa Emilio per dare la bella notizia a sua moglie. Anche i bambini saranno contenti pensa, perché questa sera festeggeranno. Magari in quel bel ristorante di pesce di corso Lodi, perché no. È da un sacco di tempo che lui e sua moglie non si concedono una bella serata tutta per loro. Sì, pensa Emilio, glielo proporrà non appena arriverà a casa.


9 Non vede nemmeno arrivare il grosso SUV grigio metallizzato che all’altezza dell’incrocio con via Quaranta attraversa con il rosso pieno passando come un missile. Fadik vede troppo tardi la Dacia Sandero bianca di Emilio Seghezzi che sta transitando davanti a loro. «Attento Fadik!» Urla Moussa. Fadik frena d’istinto. Ma ha appena finito di piovere e l’asfalto è bagnato. Scivoloso. Le ruote del Range Rover slittano. Perdono aderenza. Le quasi due tonnellate del SUV fanno il resto. Fadik non può fare niente per evitare l’impatto. Prende in pieno nella fiancata la Dacia che viene letteralmente sbalzata sul lato opposto della strada. L’abitacolo si accartoccia intorno a un palo della luce. Emilio Seghezzi muore sul colpo. Anche Fadik muore subito, la testa sfracellata contro il tettuccio del Range Rover. Il pallone bianco dell’air bag è diventato rosso di sangue. Il SUV è inchiodato in mezzo all’incrocio, il muso completamente sfondato. Moussa e Samir invece riescono a uscire. Barcollano, sono intontiti dalla botta tremenda. Moussa sanguigna. Ha un profondo taglio in fronte. «Porca troia!» Grida Fiorenza mentre istintivamente punta i piedi contro pianale della volante. Davanti a loro la scena dell’incidente è devastante. Anche Cammarata, l’assistente capo alla guida impreca. Bestemmia in dialetto siciliano mentre inchioda sui freni e gioca con il volante di controsterzo per tenere l’Alfa sotto controllo e impedirle di sbandare. Moussa sente lo stridere di pneumatici che frenano. E il rumore della bitonale dietro di sé farsi vicino. Troppo vicino. È la volante, la Barona, che si è bloccata a pochi metri dal punto dell’incidente. Ha la vista annebbiata Moussa, il sangue dalla fronte gli cola negli occhi. Però riesce a vedere gli sbirri che sono scesi dalla pantera bianca e azzurra e vengono verso di loro correndo ad armi spianate. Quella più vicina a lui è una giovane poliziotta. Bionda, i capelli raccolti in una coda di cavallo. Sta correndo nella sua direzione. Arriva talmente vicina


10 a lui che riesce persino a vederne il colore degli occhi, di un azzurro chiaro che gli sembrano persino belli in quella situazione. «Butta la pistola stronzo! Buttala!» Gli intima Fiorenza mentre lo inquadra con la sua Beretta di ordinanza. La bella poliziotta gli sta gridando qualcosa. Moussa non riesce a capire, si pulisce il sangue dagli occhi con la manica della felpa. Poi punta la pistola verso la giovane agente e spara. Spara diversi colpi. Ma spara male, quasi a casaccio. Non è un tiratore esperto e quella 7,65 fa veramente schifo. Nessuno dei suoi proiettili va a segno. La poliziotta risponde al fuoco. Gambe divaricate alla larghezza delle spalle, ginocchia leggermente flesse, presa a due mani. Da manuale. E i suoi di colpi sì che vanno a segno. Moussa incassa tre pallottole, due al torace e una alla spalla sinistra. Fa una mezza giravolta su se stesso e poi va giù. Non grida nemmeno. Cade in silenzio, la faccia rivolta verso l’alto, verso il cielo plumbeo di Milano che incombe sopra di lui, sopraffatto dallo stupore più che dal dolore. Il sangue si allarga sotto di lui, si diluisce in una pozzanghera sull’asfalto fradicio di pioggia. L’ultima cosa che Moussa pensa prima di crepare sono quelle scarpe, un paio di Nike rosse firmate da quel famoso campione di basket, scarpe da trecento euro, che si sarebbe comprato con i soldi della rapina. Samir invece corre. Corre come non ha mai corso in vita sua. E ‘fanculo il dolore al ginocchio per la botta che ha preso. Il fatto di essere seduto dietro è stata la sua fortuna. Corre senza voltarsi, senza dar retta alla voce dell’altro poliziotto che gli grida di fermarsi. Sa di averlo dietro. “Col cazzo che mi fermo” pensa Samir. Non ci pensa nemmeno quando lo sente esplodere un colpo di pistola. Tanto quello spara in aria. Non siamo in Egitto qui, gli sbirri non sparano alle spalle a un uomo disarmato che sta scappando. E allora corre Samir, mentre in lontananza sente il suono di altre sirene che si avvicinano. Altre volanti stanno convergendo verso il luogo dell’incidente e della sparatoria. Deve nascondersi o lo prenderanno. Non gli resta molto tempo. Gira dietro un palazzo e vede il ragazzino sullo scooter, è fermo al semaforo. Con uno spintone lo butta a terra, gli prende il motorino, sale e parte a tutto gas. Appena in tempo per vedere con la coda dell’occhio lo sbirro che lo stava inseguendo comparire da dietro l’angolo dell’edificio.


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Una settimana dopo... Corpi in movimento sincrono. Braccia alzate, mani e dita che disegnano figure nell’aria satura di fumo. Ogni tipo di fumo. Tabacco, hashish, erba. Una coltre densa e quasi irrespirabile che si mischia all’odore di sudore e ormoni impazziti. Non sono semplici gesti. Quelle mani e quei corpi raccontano un linguaggio vero e proprio. È comunicazione non verbale. E non è per tutti. Solo i veri fratelli lo conoscono quel linguaggio e lo possono usare. Il ritmo dei bassi e della batteria è ripetitivo, quasi ossessivo. È la base. Cassa e rullante e metrica a quattro quarti, la barra. In una parola: è rap. Quartiere Corvetto, periferia sud est di Milano, zona multietnica ad alta densità abitativa e criminale. Il locale è pieno. Correzione: è molto più che pieno. È gremito, stipato di corpi sudati, pressati gli uni contro gli altri. Eppure in movimento, ognuno di quei corpi si muove al ritmo del beat e della metrica del rapper. Felpe extra large, cappellini con visiere, berretti di lana su canottiere utili per mettere in mostra muscoli lucidi e tatuati. Corpi e facce di ogni colore, con una netta prevalenza del nero e di pelli olivastre. C’è persino qualche bianco, qualche italiano. Sì perché il ‘Busta Garage’ è un posto per africani. Dall’Africa subsahariana a tutto il nord Africa, dall’Egitto al Maghreb. I bianchi, pochi, sono ammessi, seppur a malapena tollerati. I latinos però no. Quelli hanno i loro posti. È rap, certo, ma certi confini non possono essere valicati. Da entrambe le parti. E poi, per dirla tutta, i mangia-burritos non fanno vero rap, no fratello, quelli fanno hip-hop. Tutta un’altra storia. Busta Garage dunque, ed è veramente poco più che un garage. Un vecchio magazzino abbandonato, recuperato e riadattato. Per concerti e sfide tra MC, master of ceremonies. Ovvero rappers. Luci al neon raccattate chissà dove, qualche faretto puntato sul palco. Lì c’è la consolle del dj, con il giradischi e il controller. Tubature a vista al soffitto e muri scrostati di umidità. Niente sedie o divanetti,


12 nemmeno una zona bar. Si beve con quello che qualcuno porta dentro in frigo-bar portatili. Birra per lo più. Quando Samir arriva il concerto è già iniziato. Niente sfide questa sera, niente freestyle. Oggi sono tutti lì per sentire lui, arrivato direttamente da Parigi. Nigga 9-3. Uno dei rapper più importanti, più arrabbiati della scena rap francese. Nato e cresciuto a Seine Saint-Denis, forse la banlieue più pericolosa di tutta la capitale francese. 9-3 vuol dire 93esimo arrondissement, la sigla che identifica il distretto di Seine Saint-Denis appunto. Quanto a nigga, beh non c’è bisogno di molte spiegazioni, basta guardarlo. Nero come ebano, il cranio lucido come una palla da bowling, gli occhi come pietre di ossidiana, una sottile barbetta gli incornicia il mento. Sentirlo rappare dal vivo è un’esperienza quasi mistica dicono. Nigga 9-3 quando si esibisce sembra trascendere in uno stato di totale distacco dalla realtà. La vera forza di Nigga 9-3 è che non si limita a raccontare la rabbia delle periferie come fanno gli altri rapper. Lui quella rabbia te la trasmette, te la fa entrare dentro. Te la fa assimilare. ‘...yo...yo... altri due sbirri ammazzati e non c’è due senza tre/ fratello oggi sono incazzato/ fratello oggi voglio essere odiato/ guardo il mio Uzi ancora fumante, amico io vengo dal nove-tre ...yo...yo...’ E questa sera è lì, è venuto per loro. Ed è a loro che trasmette la sua rabbia. Corvetto, banlieue milanese. Almeno per una notte. E questa notte è una notte di rabbia. Due di loro sono morti. Moussa e Fadik. Due fratelli ammazzati dagli sbirri. Poco importa che stessero commettendo una rapina. Sono comunque vittime del sistema ingiusto, e della violenza della polizia. Polizia uguale nemico. Equazione semplice e brutale. E allora ben vengano l’estasi e la rabbia di Nigga 9-3. Il giusto canto funebre per due fratelli combattenti, due eroi che non si sono mai arresi. Samir si perde tra il pubblico ondeggiante, che accompagna con il corpo e con i gesti il flow, la metrica. Vede facce conosciute, scambia saluti. Mani che si incrociano in elaborati intrecci. Samir non è esattamente dell’umore giusto ma si lascia coinvolgere anche lui dal ritmo, dal beat, dalla barra cattiva del francese. Perché Samir c’era in quella maledetta rapina e sa come stanno davvero le cose. E sa bene che non c’è stato


13 nulla di eroico quel giorno. Ma questa è una notte di rabbia, è una notte da banlieue, quindi va bene così. Nigga 9-3 è lì per loro. Cerca con lo sguardo suo fratello Tariq. Lo vede, vicino al palco, gli occhi chiusi, perso nella sua estasi personale. È assieme ad altre persone, gli amici, i fratelli del quartiere. Anche Tariq è un rapper, ed è pure bravo. Samir lo ammira per questo. Il mese prossimo suo fratello sfiderà Baràk proprio qui, in un freestyle all’ultimo sangue fra MC. Ma Samir non cerca solo Tariq con gli occhi. Il suo sguardo è come un radar, scruta la folla, la scandaglia. In cerca di altre facce. Facce sconosciute, facce sbagliate, fuori posto. Facce da sbirri. Perché Samir lo sa, lo sa che lo stanno cercando. Perché lui è l’unico superstite. E ora è un latitante. E sa bene che è solo questione di tempo prima che lo trovino. Magari sono già qui, infiltrati fra il pubblico, appostati come alligatori in attesa della preda. Ma non individua facce da alligatori. O sono molto bravi a mimetizzarsi o non ci sono. Forse la sua è tutta suggestione frutto della sua immaginazione. Forse gli sbirri non sanno un cazzo invece, non sanno che c’era anche lui quel mercoledì in quella sala scommesse e poi su quella macchina che si è schiantata in via Ripamonti. Paranoia. “Sto diventando paranoico” pensa Samir mentre si fa largo fra i corpi sudati verso suo fratello. Va di fianco a lui, aspetta che il pezzo di Nigga finisca, aspetta che suo fratello maggiore apra gli occhi, che ritorni dall’estasi. «Fratellino! Cazzo allora ci sei.» Lo saluta Tariq abbracciandolo. Si è messo in tiro suo fratello per l’occasione. Abbigliamento di ordinanza per qualsiasi rapper che si rispetti. Pantaloni larghi stile baggy, maglietta rossa con il logo di un gorilla stilizzato che impugna un revolver fumante, scarpe slacciate. E poi tutto il corredo di anelli, collane e l’immancabile cappellino snap back con visiera piatta. Prove generali di costumi di scena per la sfida con Baràk. Samir invece non ha avuto nemmeno il tempo di cambiarsi, è arrivato direttamente dal lavoro così com’è. Il pubblico è in delirio. Grida, applausi, fischi di approvazione. Il chiasso è infernale, un vero tributo per il rapper di Parigi. Samir deve gridare per farsi sentire. «Credevo di non fare a tempo, quello stronzo di Marinelli mi ha fatto fare gli straordinari proprio stasera.» Tariq annuisce. Non ha alcuna importanza in questo momento. L’importante oggi è essere qui. Dà una pacca sulla spalla a suo fratello.


14 Samir saluta anche gli altri. Li conosce tutti, sono ragazzi del suo stesso quartiere e della stessa compagnia. Anche un paio di loro fanno rap, come Tariq, ma nessuno ha il talento di suo fratello. Samir non ci capisce molto ma è sicuro che prima o poi lui riuscirà a sfondare. Diventerà famoso. E ricco. Come Snoop Dogg o come 50 Cent o Eminem, il rapper bianco. Parlano tra loro, dicono di quanto spacca Nigga 9-3, dello stile dell’enfasi. Poi il rapper della banlieue ringrazia il pubblico e attacca con un altro pezzo. I corpi ricominciano a muoversi. Samir richiama l’attenzione di suo fratello, gli indica due tizi verso una zona al di sotto del palco alla loro destra. Entrambi alti e tarchiati, entrambi vestiti con completi costosi e sgargianti e con parecchio oro addosso, vistosamente esposto fra collane, Rolex e braccialetti. Due che non hanno alcuna intenzione di passare inosservati. «Ma quelli non sono i napoletani?» Tariq conferma. I fratelli Carmine e Gennaro La Rosa. Sono in compagnia di Marzouq Ghali, tunisino. Marzouq è il boss qui dentro, è lui che ha invitato Nigga 9-3, e i La Rosa sono suoi ospiti. Perché in fondo è lui che ci mette i soldi per tenere in piedi questo posto. È di fatto il finanziatore del Busta Garage che altrimenti chiuderebbe nel giro di una settimana. E poco importa che sia un locale abusivo e fuorilegge. Il Comune di Milano ha deciso comunque di chiudere un occhio su molte occupazioni sparse un po’ in tutta la città. ‘Pace sociale’ la chiamano in Giunta. Fatto sta che Marzouq Ghali mantiene la baracca. La trasferta milanese del rapper di Parigi per esempio l’ha pagata lui. E se questa sera ha deciso di invitare i fratelli La Rosa avrà i suoi motivi. In fondo qui lo sanno tutti che ogni grammo di eroina e cocaina che arriva al Corvetto ha il marchio ‘fratelli La Rosa’. E che Marzouq Ghali è il loro distributore unico al dettaglio sul territorio. Samir li osserva. Gesticolano i fratelli La Rosa, parlano tra loro e con Marzouq. Si vede lontano un miglio che non gliene frega niente del concerto a quelli. E comunque anche il tunisino non sembra particolarmente interessato a quello che succede sul palco. «Che ci fanno qui, quelli non capiscono un cazzo di rap. I napoletani ascoltano Gigi D’Alessio.» Tariq scrolla le spalle. «Chi se ne frega. Li avrà invitati Marzouq, forse devono parlare di affari.»


15 A Samir quella spiegazione non basta. «Se gli sbirri sanno che i La Rosa vengono qui chiuderanno questo posto in un batter d’occhio. Dove farai le tue sfide poi Tariq. Dovresti parlare con Ghali.» Tariq guarda suo fratello con un misto di stupore e incredulità. A volte Samir riesce a fare e dire cose che per lui sono del tutto incomprensibili, quasi che viva in una dimensione parallela alla realtà che lo circonda. «Parlare con Marzouq? E per dirgli cosa, chi può o chi non deve fare entrare nel suo locale? Davvero pensi questa stronzata Samir? E poi, credimi fratello, io posso sfidare chiunque ovunque. Anche in mezzo alla circonvallazione o in tangenziale se serve. E adesso stai zitto e impara. Nigga 9-3 è un’esperienza di vita.» Poi chiude di nuovo gli occhi Tariq mentre si immette nel flusso e nella metrica delle nuove barre. Ed è di nuovo estasi.


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Il display luminoso della sveglia inizia a lampeggiare, accompagnato da una suoneria che fatica a farsi strada nello stato di incoscienza di Samir. Hanno fatto tardi ieri lui e suo fratello. Prima il concerto di Nigga 9-3, poi le chiacchiere con gli amici sulle panchine giù in strada. Le canne che girano, passano fra le mani di tutti. Tante canne e tanta birra. La loro strada e le loro panchine. E comunque non erano state semplici chiacchiere quelle di ieri notte. Erano ancora tutti belli carichi, il rapper di Parigi ci era andato giù pesante, duro e puro come solo i veri ‘arrabbiati’ sanno esserlo. E loro lo erano arrabbiati. Proprio incazzati. Contro la polizia in primis, colpevole della morte dei loro due fratelli, Moussa e Fadik, contro il sistema, contro le leggi. Contro tutto e tutti. Dovevano riprendersi quelle strade, dicevano, le loro strade, fare casino, farsi sentire. Il beat del concerto nelle loro teste si era trasformato in tamburi di guerra. E allora giù a pianificare azioni e rappresaglie improbabili, a immaginare di occupare militarmente il territorio. Gli sbirri non dovevano più mettere piede nel quartiere. Alcuni di loro erano stati davvero nelle banlieue francesi e avevano visto con i propri occhi. Là, la polizia non poteva valicare i confini e quando lo faceva ci entrava in forze, con reparti speciali di teste di cuoio, come era successo recentemente proprio a Seine Saint Denis, il 9-3. Qualcuno più realista aveva proposto semplicemente di incendiare qualche auto in sosta, qualcun altro di spaccare qualche vetrina e arraffare qualcosa. Fare un po’ di casino insomma. Chiacchiere da panchine ad alto tasso alcolico e post concerto. Poi però era successa una cosa. Marzouq Ghali era passato davanti al muretto e alle panchine dove erano seduti. Gli era passato davanti a bordo del suo Hummer nero, un SUV da ottantamila euro e ottocento cavalli, grande come un monolocale e minaccioso come un bufalo africano. Un sogno proibito per ognuno di loro. Marzouq aveva rallentato fino a fermarsi, aveva abbassato il finestrino oscurato e li aveva guardati. Tutti, uno per uno. E aveva detto una cosa, una cosa sola.


17 «Niente casini questa notte, ragazzi. Non voglio sentire che fate qualche cazzata. Ci sono già abbastanza sbirri per strada nel quartiere e non ne voglio altri a rompere i coglioni. Intesi.» Intesi eccome. Nessuno aveva fiatato, nessuno aveva protestato. Se Marzouq Ghali ti dice di fare una cosa, tu la fai, punto e basta. E senza discutere. Oppure, come in questo caso, non fai nulla. A meno che tu non voglia passare il resto dei tuoi giorni su una sedia a rotelle a succhiare roba liquida da una cannuccia. E così era andata. Solo che fra canne, birre e quel fiume di stronzate avevano tirato le quattro di mattina, e ora quella maledetta sveglia che suona alle sette in punto... Samir la distruggerebbe volentieri, ma sa che non può. E comunque sarebbe inutile. Nel giro di cinque minuti verrebbe sua madre a svegliarlo. Mentre si alza e inizia a vestirsi guarda con una punta di invidia suo fratello che invece continua a russare beatamente. Tariq è disoccupato, niente sveglia per lui. Si lava e poi va in cucina, dove trova sua madre Salima, perennemente in sovrappeso ma mai in disordine, sempre avvolta nei suoi chador multicolori, indaffarata come ogni giorno e sua sorella Najat che sta facendo colazione. Suo padre Jawat non c’è, è già uscito. Lui va via molto presto la mattina. Lavora come manovale in un cantiere edile e si alza tutti i giorni alle cinque meno un quarto. Najat invece è una studentessa, all’ultimo anno del liceo linguistico. È giovane e carina sua sorella. Con quegli occhi allungati, mediorientali, tra il verde e il castano e quell’aria vagamente fragile ma in realtà testarda e cocciuta come un mulo. La mamma ha preparato l’aysh, il pane arabo e la purea di fave. Il profumo del cibo impregna la cucina ed è piacevole sentire quell’aroma anche se Samir ha ancora lo stomaco sottosopra con la mezza dozzina di birre da smaltire della sera precedente. Samir nota il piccolo cerotto trasparente sul polso sinistro di sua sorella. «E quello?» «È un unicorno.» Risponde lei distrattamente. «Hai fatto un tatuaggio! E papà come l’ha presa?» Lei sbuffa mentre aggiunge altri cereali allo yogurt. Colazione all’occidentale, niente roba egiziana. «Beh, puoi immaginare. Si è arrabbiato.» Samir scambia un’occhiata con sua madre. Anche lei disapprova questi atteggiamenti della figlia che considera troppo spregiudicati, sebbene


18 sia più tollerante di suo marito Jawat. Però non dice niente e continua a preparare la colazione per quando si sveglierà Tariq. «Come è stato il concerto ieri?» Chiede Najat. Samir fa spallucce, resta sul vago. «Bello, c’era questo rapper francese, davvero uno figo.» «Samir, ti prego, non parlare così, lo sai che non mi piace.» lo riprende Salima. Lei non vuole sentire parolacce, non vuole che i suoi figli si esprimano così. «Scusa ma’.» Najat lo guarda e sorride senza farsi notare dalla madre. Ha molta più intesa e complicità con lui che con Tariq. Forse per la minore differenza di età rispetto a Tariq che è il fratello maggiore, o forse perché lui è sempre così impegnato, preso dal suo rap, fatto sta che con Samir lei si sente molto più a suo agio, più in sintonia. Samir ricambia il sorriso complice. Ma è un sorriso forzato il suo. È più di una settimana ormai, da quel maledetto mercoledì pomeriggio che vive in uno stato di angoscia perenne. Nessuno in famiglia sospetta di niente e lui deve comportarsi come se niente fosse. Deve fare finta che tutto sia normale, che vada tutto bene, che nulla sia cambiato. Se sapessero la verità...Nemmeno suo fratello Tariq sa nulla. La sua immaginazione a volte gli gioca brutti scherzi. Lancia un’occhiata distratta alla porta di ingresso. Nella sua mente si materializza una scena: la porta sfondata a calci, uomini armati che entrano urlando. Un’irruzione della polizia. Sono venuti per lui, sono venuti a prenderlo. E lui, un attimo dopo è in ginocchio, con le mani dietro la schiena mentre viene ammanettato. Sua madre che piange, sua sorella in un angolo, spaventata, incredula, di fronte alla sua tazza mezza piena di yogurt e cereali rimasta sul tavolo. Proprio in quel momento Tariq si affaccia sulla porta della cucina. «Buongiorno.» Ma è una sorta di zombie. Anche i suoi occhi gonfi raccontano di una nottata di canne alcol e ore piccole. E poi lui non è abituato a svegliarsi così presto. Si trascina fino al tavolo, si siede, mentre sua madre gli serve immediatamente un caffè bollente. Samir lo guarda incuriosito. Conosce le abitudini di suo fratello. «Che ci fai già sveglio Tariq.» Quello sbadiglia ma non risponde. È sua madre Salima a rispondere per lui. «Oggi Tariq deve vedere una persona per un posto di lavoro.»


19 «Non sapevo che avessi trovato qualcosa, Tariq.» Dice Samir. Lui fa spallucce, come se si trattasse di una cosa di poca importanza. «Non è nulla di sicuro. Zarif ha detto che c’è uno che potrebbe avere bisogno di una persona nella sua pizzeria. Mi ci vedi a fare pizze Samir?» Ride Tariq, anche se sa bene che trovare un lavoro di questi tempi non è così facile. «E chi sarebbe questo Zarif?» «In realtà non l’ho mai incontrato, non è in città da molto, pare che sia un religioso. Awad lo conosce e gli ha parlato di me. Dicono che venga dal Belgio, o dalla Francia. Ne parlano bene, uno che da quando è arrivato si è sempre dato da fare nel quartiere per chi ha bisogno. Un vero mussulmano.» Samir guarda per un attimo suo fratello. Anche Najat lo sta guardando, dimenticando per un attimo i suoi cereali. L’anomalia è sentire uscire dalla bocca di Tariq l’espressione ‘vero mussulmano’. A lui della religione non gliene è mai importato molto, sebbene loro padre abbia da sempre cercato di educare i propri figli nella fede in Dio e nel rispetto del Corano. Detto poi da uno che la sera precedente ha fatto il pieno di alcol... Scuote la testa Samir. «Mai sentito. Non lo conosco.» «Lo so, nemmeno io, te l’ho detto, è uno nuovo, e poi non è del nostro quartiere. Zarif sta dalle parti di piazzale Selinunte. a San Siro. Anche la pizzeria dove dovrei andare a lavorare sta lì.» Risponde Tariq mentre osserva mezzo addormentato il fumo salire lento dalla tazza di caffè bollente che sua madre gli ha appena messo davanti. Salima serve in tavola una nuova porzione di purea di fave per Tariq. Non dice nulla, discreta come sempre. Suo figlio ormai è un uomo adulto e ha diritto di pensare e decidere con la propria testa e lei non ha alcuna autorità per interferire con i suoi pensieri o con le sue decisioni. Casomai questo spetta al loro padre, Jawat, fino a quando i figli resteranno sotto il tetto della casa paterna. Si limita a pensare Salima che forse, se davvero questo Zarif è un benefattore e la brava persona di cui si dice, Tariq potrebbe avere qualche opportunità. Un lavoro oggi, una famiglia domani, chissà. E perché no, magari un giorno anche lei potrebbe avere dei nipotini che scorrazzano per casa e le tirano il chador. E poi quella musica che canta, con tutte quelle frasi cariche di rabbia e odio non è che lei la capisca molto. E nemmeno le piace a dirla tutta.


20 Poi, inevitabilmente un pensiero le attraversa la testa, accompagnato da un brivido lungo la schiena: un’opportunità che forse Moussa e Fadik, gli amici di suo figlio non hanno mai avuto.


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Quando Samir esce di casa le strade sono già intasate di traffico e di gente. Milano si sveglia presto e si attiva subito. Tutti in pista per una nuova giornata di lavoro. Giusto il tempo di un caffè. O di una rapida prima colazione al bar. Qualcuno non può fare a meno del rito di cappuccio e brioche. Samir proprio non capisce come facciano i milanesi a bere quella roba, latte caldo schiumoso mischiato al caffè. Slega la bicicletta che tiene parcheggiata nel cortile del palazzo, una vecchia Graziella da donna mezzo arrugginita. Fa schifo ma è più che sufficiente per coprire i due chilometri che separano casa sua dal supermercato dove lavora. E poi almeno è sicuro che quel ferrovecchio non lo ruberà mai nessuno. Samir fa il magazziniere. A onor del vero sarebbe meglio dire che lì dentro fa un po’ di tutto oltre al magazziniere. Pulizie, sistemazione dei prodotti nelle corsie, smaltimento degli imballaggi. Se a qualche cliente sbadato cade a terra una bottiglia di conserva di pomodoro, indovinate chi chiamano per pulire? Samir, sempre Samir, il tuttofare. Turni di otto ore, mattino o pomeriggio, per milleduecento euro al mese, ferie pagate e malattia pure, anche se è meglio non ammalarsi troppo spesso, gli hanno detto chiaro e tondo. Niente male per uno senza neanche un titolo di studio, tutto sommato. Non è che non ci abbia provato a prendersi uno straccio di diploma. Qualche anno fa si era iscritto a un istituto tecnico per diventare meccanico, ma la voglia di studiare si era ben presto esaurita, sostituita dal perdere tempo sulle panchine di viale Omero, fra amici, birre, spinelli e tante cazzate. Un diploma? Ma poi per farci cosa. “Ehi Samir svegliati, sei un arabo del cazzo, chi ti credi di essere, Elon Musk? Certe porte per gente come noi resteranno sempre chiuse, anche se diventi un fottuto dottore. Ficcatelo in testa, bello” gli aveva detto una volta Fadik mentre parlavano delle opportunità che potevano dare lo studiare e il laurearsi in qualcosa. La verità era che dalle sue parti le uniche opportunità che lui e i suoi amici potevano concepire era fare soldi, possibilmente tanti e magari pure in fretta. Uno come Marzouq


22 Ghali era l’esempio di un uomo di successo nel loro immaginario. Altro che diploma. La compagnia certo, Moussa, Fadik, Hassan, Mahmoud, Awad e tanti altri e naturalmente suo fratello Tariq. Ci sono anche dei ragazzi italiani che bazzicano quelle stesse panchine, con alcuni di loro sono pure amici, Filippo, Gaetano, Mimmo, Roberto il rapper, ma il vero nucleo del gruppo è composto solo da loro, figli di immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti in Italia e italiani a tutti gli effetti... Tutti gli effetti un cazzo. Loro sono e sarebbero rimasti sempre arabi, magrebini, mussulmani. E poco cambia che sui documenti, sulle carte di identità o sui passaporti via sia scritto ‘nazionalità italiana’. Esistono regole che non sono scritte su nessun pezzo di carta, che nessuno ti dice ma che sono come solchi, confini reali e invalicabili, che senti addosso, sulla pelle. Questione di mentalità, di testa, di appartenenza. E non centra niente il colore della pelle o il razzismo. Quelle sono cazzate buone per giornalisti, politici, sociologi o intellettuali radical chic, tutta gente che non ha mai messo piede veramente in quartieri come il loro, che non ha mai respirato l’odore di quelle strade e di quelle case, gente che scrive per sentito dire, che blatera di accoglienza e opportunità dopo aver letto qualche libro o che predica l’integrazione dai loro bei salotti del centro di Milano. Un mare di stronzate insomma. Gli stessi che dicono di essere amici dei fratelli mussulmani il giorno dopo si schierano a favore e sostengono i diritti di finocchi e lesbiche. Cazzo, dalle mie parti i froci li prendiamo a bastonate, pensa Samir. E quanto al razzismo non c’è nessuno più razzista di noi, perché siamo noi che non vogliamo avere niente a che fare con gli italiani, con le loro chiese, le loro messe, le loro abitudini da degenerati, sottomessi alle loro donne e via dicendo. Dopotutto come puoi integrarti con un popolo che beve cappuccino e mangia brioches alla mattina. Esce dal portone del palazzo. Si guarda intorno un paio di volte. I suoi occhi non registrano niente di strano o di sospetto. Gente che va di fretta, molti guardano il cellulare anche mentre camminano. Qualcuno parla negli auricolari che a guardarli sembrano pazzoidi in compagnia dell’amico immaginario. La pensilina della fermata del tram 16 poco più avanti è gremita di persone in attesa. Anche lì molti cellulari accesi e cervelli spenti. In pochi parlano fra loro. Vede anche il solito pensionato, quello del terzo piano che, come tutte le mattine ha portato fuori il cane a pisciare. Sempre allo stesso orario, sempre nella stessa aiuola.


23 Insomma tutto regolare, niente sbirri appostati e pronti a saltargli addosso non appena lui avesse messo il naso fuori di casa. Stai diventando paranoico, dice a se stesso Samir. Se lo ripete continuamente. Certo, di cazzate ne ha fatte tante in vita sua, ma mai una così grossa. Una che è costata la vita a due dei suoi migliori amici e che a lui può costare la galera. Tanta galera. Però dentro la sua testa inizia a farsi strada l’idea che forse per questa volta l’ha sfangata davvero. Che dopo la sua fuga la polizia non abbia trovato nulla su di lui e mentre scappava nessuno sia stato in grado di riconoscerlo e identificarlo. Neanche il poliziotto che gli è corso dietro per un pezzo potrebbe identificarlo con assoluta certezza, perché non lo ha visto bene in faccia e lui non è un pregiudicato e quindi in Questura non esistono sue foto segnaletiche. Insomma la verità è che forse gli sbirri non hanno in mano un cazzo. Sforzarsi di pensare in modo positivo gli trasmette ottimismo, energia. Sale in bici e si immette nel traffico di via Polesine, in direzione di corso Lodi. Pedala forte, facendo lo slalom tra le auto già bloccate in colonna ai semafori. Il primo tratto è quello più trafficato, poi da viale Lucania svolta a destra in via Veneziano e da lì verso una serie di strade secondarie molto più tranquille e meno intasate di auto. È inizio estate, ma a quell’ora del mattino l’aria è frizzante e il caldo torrido di metà giornata non si fa ancora sentire. Samir se la gode quell’aria fresca sulla faccia mentre pedala. Ripromette a se stesso che se ne uscirà pulito da questa maledetta storia non si farà mai più coinvolgere in una stronzata del genere. E pensare che Moussa voleva solo comprarsi un paio di scarpe nuove con i soldi della rapina. Costose certo, scarpe di marca, griffate. Ma restavano comunque solo un cazzo di paio di scarpe. Non si può crepare per così poco. Salima finisce di sparecchiare e di mettere ordine in cucina. Saluta sua figlia Najat con un bacio sulla fronte mentre lei esce per andare a scuola. Le sue amiche la stanno già aspettando sotto casa, davanti alla fermata dell’autobus. Almeno lei e suo marito sono riusciti a convincerla a mettere lo hijab, il velo islamico quando esce di casa. Quella ragazza gli darà filo da torcere, pensa Salima ricordando la discussione della figlia con suo padre Jawat per la storia del tatuaggio. Più tardi uscirà anche lei per andare a fare la spesa. Oggi è giorno di mercato e se davvero Tariq riuscirà a ottenere quel lavoro come pizzaiolo, questa sera dovranno


24 festeggiare. Suo marito Jawat sarà d’accordo, anche se tornerà tardi e sfinito come tutte le sere dopo dodici ore di cantiere. Magari cucinerà le polpette di agnello da accompagnare con falafel e hawawshy, i panini cotti al forno e ripieni di carne macinata speziata, che ai ragazzi piacciono tanto. È felice Salima. Ripensa a venticinque anni prima, mentre si prepara per uscire anche lei e si allaccia sotto la gola lo hijab. A quando aveva raggiunto Jawat qui in Italia. Lui era partito un paio di anni prima dall’Egitto. A quel tempo nel loro paese le cose andavano male, l’economia non girava e la povertà aumentava sempre di più. Non c’erano servizi che funzionassero, ospedali, scuole, trasporti, niente. La corruzione dilagava e permeava ogni aspetto della vita pubblica, a iniziare dalla polizia, totalmente al servizio del regime. Nessuna speranza di un futuro decente nell’Egitto di Hosni Mubarak. Lei e Jawat si erano sposati da poco, ma lui non voleva che i suoi figli crescessero lì, in quella terra che era sì la loro terra, ma che era bruciata, violentata, saccheggiata da un regime brutale e spietato quanto ottuso, che non offriva nessuna prospettiva per i suoi giovani. Così, di comune accordo, lui era partito. Aveva raggiunto un suo zio che viveva in Italia già da alcuni anni e lavorava presso un piccolo hotel a Milano, dalle parti della stazione Centrale. Lo zio gli aveva trovato lavoro presso una ditta di pulizie. Jawat lavorava tanto e guadagnava poco, ma quel poco era sempre molto di più di quanto sarebbe riuscito a guadagnare in Egitto. Riusciva sempre a mandare dei soldi a fine mese a sua moglie Salima che era rimasta a in Egitto. Poi, dopo un paio di anni, dopo che Jawat era riuscito a stabilizzarsi e a prendere un piccolo bilocale in affitto tutto per sé, aveva fatto venire anche sua moglie in Italia, con un permesso di soggiorno temporaneo. La fortuna li aveva poi aiutati perché, grazie a una sanatoria per gli stranieri, il permesso da temporaneo si era trasformato in definitivo. Meno di un anno dopo era nato Tariq, il loro primogenito. Salima vede Tariq tornare dalla sua stanza. Si è lavato e vestito. Un paio di jeans nuovi e una camicia gialla a maniche corte. I capelli neri, lisci, pettinati all’indietro con il gel. «Sei bellissimo, figlio mio. Comportati bene e parla come ti abbiamo insegnato io e tuo padre e vedrai che avrai il lavoro. Ne sono certa, me lo sento.» L’indistruttibile ottimismo di Salima. Tariq fa una smorfia. È il suo modo per dire “certo mamma”, stai tranquilla. E poi sono raccomandato da una persona importante: Zarif’. Ma dalla sua bocca non esce una parola. Ormai ha ventitré anni Tariq, or-


25 mai è un uomo e non è opportuno che si lasci andare a sentimentalismi da adolescente. Saluta la madre con un gesto della mano ed esce anche lui di casa. Proprio in quel momento gli squilla il cellulare. È il suo amico Awad, lo sta aspettando in auto, una vecchia Ford Fiesta mezzo arrugginita, davanti al portone. È lui che conosce Zarif e lui che ha parlato a quell’uomo di Tariq come di una persona valida e affidabile. Quando Tariq aveva chiesto ad Awad come lo avesse conosciuto il suo amico si era limitato ad alzare le spalle e a dire “Certe cose succedono se Allah decide che debba essere così”. Fatto sta che sarà lui ad accompagnarlo. Perché da Zarif ci vai solo se ti ci porta qualcuno. «Sto arrivando» risponde Tariq. Poi scende le scale ed esce. Si è messo le cuffie Samir mentre pedala. Sta ascoltando Akhenaton, un rapper di Marsiglia, uno tosto. Il rap non ha una scuola. Il rap non si impara. Il rap o lo hai dentro o non lo hai. Punto. Suo fratello Tariq glielo ripete sempre. Al massimo l’unica scuola che puoi avere è ascoltare il rap degli altri, percepire le loro vibrazioni, assorbire il beat. E poi c’è la strada, si intende. Perché è da lì che nasce veramente il rap. Perché è la strada che ti insegna a stare al mondo, dove capisci quale è il tuo posto. E dove impari che se vuoi qualcosa te lo devi prendere, in un modo o nell’altro. Perché nessuno ti regalerà mai niente. Lui, Samir, il rap non ce l’ha dentro, ma suo fratello gli ha trasmesso la passione e adesso ascolta quasi solo quel genere. Americani, francesi, qualche tedesco di origine turca. Ci sono anche dei russi abbastanza cazzuti. Gli italiani invece sono ancora scarsi e comunque per lo più sono figli di immigrati come lui, non veri italiani i rapper di Milano, Roma, Torino. Le rime in quattro quarti del marsigliese picchiano duro nelle orecchie attraverso le cuffie. La bici di Samir morde la strada. Asfalto, pedali e versi cattivi. Si accorge solo all’ultimo momento della berlina grigia che gli taglia la strada e lo stringe contro il marciapiede. Fa una magia da equilibrista per non cadere a terra. Gioca di manubrio e di freni, ma alla fine resta su. Nemmeno il tempo di imprecare contro il guidatore della macchina che le porte della berlina sono già spalancate, tutte e quattro.


26 Quattro come gli occupanti dell’auto, che escono tutti assieme nello stesso istante. Tre uomini e una donna. La donna è quella scesa dal posto del conducente. Due di loro gli sono addosso prima che lui riesca anche solo a capire cosa stia succedendo, immobilizzandolo mentre è ancora in sella alla sua Graziella. Mani forti come tenaglie si chiudono sulle sue braccia, gliele torcono dietro la schiena. Samir vede le pistole nelle mani degli altri due, inclusa la donna. Le tengono basse, puntate verso terra, aderenti alle cosce. Niente esibizionismi alla Bruce Willis. Siamo a Milano dopotutto, non a Los Angeles. Ma il messaggio è lo stesso: niente cazzate o ti spariamo. Poi, uno dei quattro dice quello che è ovvio, quella fatidica frase che Samir ha immaginato di sentire ogni giorno e ogni notte da quel maledetto mercoledì pomeriggio. Dal giorno della rapina. «DIGOS. Sei in arresto. Stai buono e non fare resistenza.» E quello che sente subito dopo è il metallo delle manette che morde la carne dei polsi. A dire il vero Samir non se l’era immaginato proprio così. Voglio dire, succede tutto così in fretta, senza urla, senza porte sfondate a calci e armi spianate. Niente scene da baraccone. A lui sembra di vivere ogni singolo istante come se fosse il fotogramma di un film proiettato a velocità ridotta, come se il tempo abbia improvvisamente rallentato e i secondi si stiano dilatando. Gli sembra di stare a guardare un film in cui lui è il protagonista principale. In realtà, dal momento in cui lo hanno bloccato contro il marciapiede, lo hanno ammanettato e caricato di peso sulla loro macchina sarà passato forse un minuto o poco più. Non dice niente Samir, nemmeno una parola. Si ritrova seduto sul sedile posteriore in mezzo ai due che lo hanno bloccato, il terzo si siede davanti e la donna dai capelli corti si mette alla guida. Neanche loro parlano. Facce dure quelle degli sbirri, espressioni di pietra come menhir. Un colpo di acceleratore e la macchina schizza via, veloce ma senza sirena. Nemmeno il brivido di una sgommata. L’ultima cosa che pensa Samir, prima di precipitare nel pozzo nero del suo peggiore incubo, è che non gli hanno dato nemmeno il tempo di legare la bicicletta. Ma tanto quel ferrovecchio non se lo ruberà nessuno.


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A volte ci sono scenari che cambiano così repentinamente che si potrebbe pensare di essere stati teletrasportati, come succedeva in quei vecchi film di fantascienza. Ed è esattamente la sensazione che prova Tariq quando la macchina di Awad lascia piazzale Segesta e si immette in viale Mar Jonio, strada larga e tozza con i due sensi di marcia separati da un grosso spartitraffico di filari di alberi, panchine arrugginite ed erba spelacchiata. Sa già che la sensazione di essere improvvisamente catapultati in un altra zona di mondo aumenterà ancora quando dalla piazza si girerà a destra in via Tracia. In fondo alla strada si intravede già l’orco, la torre color rosso mattone della ex centrale termica A2A, che serviva per riscaldare gli edifici del quartiere. Lo chiamano così per via del murale alto quindici metri, la figura di un orco appunto, diviso in due metà, a rappresentare l’anima stessa del quartiere: la parte buona e la parte cattiva. Il bene e il male. Tariq la conosce bene questa anima e questa zona. È stato qui molte volte. Molti rapper vengono da qui, come Baràk, che lui sfiderà tra meno di un mese al Busta Garage. Eppure, ogni volta che ci torna non riesce a non provare quel senso di appartenenza a quel posto che è qualcosa di più di un semplice luogo fisico. Si potrebbe quasi definirlo uno stato d’animo. Entrano in piazzale Selinunte, fanno un mezzo giro intorno all’orco e poi la macchina svolta in via Tracia. Ed è veramente un altro mondo. Benvenuti a Milano, provincia di Marrakesh. Via Tracia, parallela di via Preneste, in mezzo via Micene, la loro destinazione. Strade ad angolo retto, delimitate da file di case Aler, parallelepipedi di quattro piani di un giallo itterico, che sembrano dinosauri abbattuti e corrosi dal tempo e dall’incuria. Dinosauri fossilizzati. Muri scrostati, recinzioni arrugginite o divelte. Tende da sole verdi si alternano ad antenne paraboliche bianche ancorate ai balconi, che sembrano orbite vuote di occhi morti, gli occhi dei dinosauri. Negozi multietnici


28 si alternano a macellerie halal, a bar frequentati quasi esclusivamente da clientela di origine araba. Non c’è una porzione di muro che non sia diventata una tela per graffiti, scritte o murales. Una scritta in particolare attira l’attenzione di Tariq mentre guarda fuori dal finestrino della macchina. È nuova, non c’era l’ultima volta che è stato qui: ‘no justice no deal'. Senza giustizia non ci sarà mai pace, questo il messaggio. E lo sa bene lui, che respira, che si alimenta di questa rabbia e questa ingiustizia. E che la racconta. A differenza di tanti suoi fratelli lui non rapina, ruba o spaccia. Le sue armi sono il rap e il senso di appartenenza con il gruppo degli amici. Forse, se ci fosse stata maggiore solidarietà Moussa e Fadik sarebbero ancora vivi, pensa mentre la macchina si ferma in via Micene davanti a un edificio basso incastrato in mezzo ai palazzi. Quattro vetrine emergono tra i muri colorati dei murales. Due sono chiuse da saracinesche, le altre due sono quelle di un piccolo minimarket di generi alimentari e prodotti arabi. Awad indica le vetrine del negozio. «È qui. Andiamo, ci sta aspettando.» Prende Tariq per un braccio. «Lascia parlare me.» Tariq annuisce, poi scendono ed entrano nel negozio. Dentro li accolgono aromi e profumi di spezie mischiati all’odore di muffa dei muri. Curcuma, cardamomo, zafferano, aglio, sesamo. Tutta la tradizione della cucina araba e mediorientale è riposta su quegli scaffali. Dietro al bancone, in fondo al negozio, c’è un uomo. È anziano, la lunga barba bianca gli arriva fin sotto il collo. Porta un kufi bianco, il tradizionale copricapo africano. «Salam aleikum.» Lo saluta Awad portandosi la mano al petto, alla bocca e alla fronte, secondo la tradizione mussulmana. «Aleikum salam, fratello.» Tariq non è un vero praticante e sebbene suo padre Jawat cerchi di trasmettere ai propri figli almeno le basi delle tradizioni mussulmane, a lui proprio non viene spontaneo salutare in quel modo. Si limita a rispondere con un cenno della testa, cercando però di esprimere il massimo della deferenza e del rispetto nei confronti di quell’uomo anziano e importante. Si rende però subito conto dell’equivoco quando il vecchio dice loro che Zarif li sta aspettando nel retro del negozio. Gli indica con la mano una porta coperta da una tenda colorata. Awad va avanti e Tariq lo segue. Al di là della tenda c’è quello che sembra un magazzino. Seduto dietro una vecchia scrivania di legno massiccio c’è un uomo. Lui è Zarif. Alle sue spalle, incorniciato su seta


29 grezza, un versetto del Corano: In verità Allah ha maledetto i miscredenti ed ha preparato per loro la Fiamma. [Sura 33;64] L’uomo alza appena lo sguardo dal grosso libro che sta compilando. Gli fa cenno di aspettare. E loro aspettano. In piedi, in silenzio, davanti alla sua scrivania. Tariq ne approfitta per guardarsi intorno. Su scaffali metallici, appoggiati a terra impilati gli uni sugli altri vede pacchi sigillati con sopra scritte in arabo e in inglese. Sono scatole di generi alimentari. Alcune hanno ancora attaccata l’etichetta della spedizione e del luogo di provenienza. Molte arrivano dall’Arabia Saudita e dal Qatar, alcune dal Belgio. Qualcuna anche dalla Francia e dall’Italia. «Aiuti. Generi di conforto per le famiglie del quartiere in difficoltà. La generosità dei fratelli mussulmani è tanto ampia quanto capillare.» Dice Zarif intuendo la curiosità del ragazzo. Poi si alza e va verso di loro. Si ferma di fronte a Tariq. Fissa i suoi occhi dentro quelli del ragazzo. «Ed è anche un dovere di ogni buon credente. Zakat, uno dei cinque pilastri dell’Islam. La carità ai bisognosi.» Tariq sostiene lo sguardo dell’uomo per alcuni secondi, poi, inevitabilmente, lo abbassa. Zarif è un uomo dotato di un fascino magnetico. Una dote naturale la sua, una virtù che Allah gli ha donato assieme alla sua profonda fede. Ha quarantacinque anni Zarif, di altezza e corporatura medie, i capelli brizzolati sotto una fronte ampia. Una folta barba sale e pepe gli arriva fin oltre le guance. Occhi neri come ossidiana, piccoli e profondi, incorniciati da occhiali dalla montatura sottile in acciaio. Il volto di un uomo di pensiero in una cornice di granito. Veste all’occidentale, indossa un abito spezzato di fresco lana da grandi magazzini sopra una camicia bianca con collo alla coreana. Ha una voce di tonalità bassa e penetrante Zarif. «Così tu sei Tariq. Awad mi ha parlato di te. Ha detto che sei un musicista. E che sei in cerca di un lavoro.» Tariq scambia un rapido sguardo con Awad. «Sì signor Zarif. Faccio rap. E ho bisogno di un lavoro. Sono disposto a fare qualsiasi cosa. Non ci sono problemi.» «Rap» dice Zarif annuendo «la musica del ghetto. Ne ho sentito parlare. Ci sono molti ragazzi come te in questo quartiere, sai. Io come vedi cerco di fare del bene alla mia gente. Non sono arrivato qui da molto e solo ora sto conoscendo tutte le molteplici problematiche che affliggono i nostri fratelli che vivono e lavorano in questa città, ma con la be-


30 nevolenza di Allah» indica verso il cielo con il dito indice della mano destra nel dirlo «offro tutto il mio aiuto, il sostegno materiale e il conforto spirituale a chi lo chiede, da umile servitore di Dio, quale sono.» Poi appoggia una mano sulla spalla del ragazzo. «Va bene Tariq, sei il benvenuto nella nostra umma. È una comunità ancora piccola ma molto attiva e se resterai con noi abbastanza a lungo ti renderai conto tu stesso che si sta espandendo molto rapidamente e c’è sempre bisogno di giovani come te. Dunque il lavoro è tuo, inizierai domani alla pizzeria di Ismail. Non è lontana da qui, Awad ti indicherà il posto esatto.» Detto questo li congeda con un semplice gesto della mano. Stanno per uscire quando Zarif li richiama. «Conoscevo Moussa. Un bravo ragazzo e un bravo mussulmano. Fino a quando non si è perso. Non ti perdere anche tu, Tariq.»


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Si dice che la percezione dello scorrere del tempo sia soggettiva. Ma quello che per qualcuno è solo un banale luogo comune, per Samir è reale quanto il fatto che le mele, quando si staccano dall’albero, cadano a terra. Semplicemente un dato di fatto oggettivo. Un altro dato di fatto è che non sa quanto tempo sia passato da quando lo hanno portato lì in quella stanza e ammanettato su una sedia di metallo lasciandolo da solo. Certo, prima quei due energumeni che lo hanno arrestato lo hanno sballottato un po’ per vari corridoi, lo hanno perquisito senza tanti complimenti, gli hanno sequestrato tutti gli oggetti personali inclusa la cintura dei pantaloni e le stringhe delle scarpe e poi lo hanno portato lì e ce lo hanno lasciato. Come dicevo, la percezione dello scorrere del tempo per lui è totalmente cambiata e i minuti, o forse le ore sembrano essersi dilatati in un intervallo indefinibile. Si guarda intorno Samir. Più che una stanza sarebbe giusto dire un grande stanzone rettangolare. Immagina che si tratti di un seminterrato, perché le uniche aperture, oltre alle due porte, una delle quali è quella da dove sono passati, sono delle bocche di lupo a ridosso dell’alto soffitto e dotate di sbarre dalle quali si intravede il livello del pavimento di quello che sembra essere un cortile interno. I muri sono color verde acido, riverniciati da poco perché si sente ancora l’odore di pittura fresca, ma l’umidità là dentro è tale che in molti punti la vernice si è già staccata lasciando trasparire ampie macchie di muffa. Sul pavimento di cemento grezzo, in alcune zone ci sono addirittura piccole pozze di acqua, probabilmente dovute a perdite dalle tubature che scorrono agganciate a vista sotto il soffitto. Oltre a quella dove è seduto lui ci sono un altro paio di sedie e un tavolo, anch’esso di metallo. Niente altro. Samir non è mai stato arrestato in vita sua prima d’ora ma, a dirla tutta non se la immaginava di certo così una stanza degli interrogatori. Ammesso che lo sia una stanza degli interrogatori. E che abbiano davvero intenzione di interrogarlo. Beh, almeno questo è quanto succede di solito nei film. Ma nei film, di solito succede anche che la prima cosa che


32 dicono quelli che vengono arrestati è “voglio il mio avvocato”. Ed è esattamente quello che ha intenzione di dire lui al primo stronzo che si sarebbe palesato da una di quelle due porte. Perché prima o poi dovrà pur arrivare qualcuno. Nel frattempo però la sua testa continua a produrre pensieri a ciclo continuo. Pensieri sempre più cupi, alimentati dalla sua immaginazione. Forse quell’attesa snervante che gli stanno facendo fare serve proprio a questo. Ad aumentare a dismisura le sue paranoie e le sue insicurezze, a demolire tutte le sue certezze. Ma sì, deve essere sicuramente così, è un sistema che usano gli sbirri per preparare il terreno all’interrogatorio. Non deve preoccuparsi ripete a se stesso Samir, è tutta una messa in scena, siamo in Italia cazzo, non in Egitto, e questo è uno Stato di diritto, qui la tortura non esiste. È un reato hanno detto. Però che pezzi di merda, ha la gola che sembra carta vetrata per la sete e poi deve pure pisciare e non vuole certo farsela addosso. Ci manca solo questo. Dopo un lasso di tempo che sembra infinito in cui Samir viene lasciato cuocere nel brodo dei suoi pensieri, finalmente uno stronzo si palesa. Anzi, addirittura due stronzi. Uno, il più giovane, alto, muscoloso, si mette alle sue spalle. Samir lo riconosce, è uno dei poliziotti che lo hanno arrestato. L’altro invece, che gli si piazza di fronte, non lo ha mai visto. Capelli bianchi folti e lunghi fino alle spalle e un paio di baffi a manubrio, altrettanto folti e altrettanto bianchi, che a Samir sembra quasi uno di quei personaggi di quel film fantasy, come si chiamava, ‘Il Signore degli Anelli’, sì ecco, gli ricorda il mago Gandalf. Ha gli occhi celesti, è molto abbronzato e indossa un abito elegante, un gessato grigio a righe azzurre che sembra cucito su misura per lui tanto gli sta bene addosso. Di sicuro un abito sartoriale, non quella roba da grandi magazzini. «Melis. Vicequestore Agostino Melis. DIGOS.» Ha un marcato accento sardo il vicequestore. «Samir Khattab, lo sai perché sei qui.» Samir non è del tutto sicuro che quella sia una vera domanda. Nel dubbio, meglio negare. «No, non lo so.» Melis ha una cartellina in mano. La appoggia sul tavolo. La apre. Dentro ci sono delle fotografie formato A5. Fotogrammi per essere più precisi. Istanti cristallizzati di momenti che Samir conosce bene, rimasti stampati nella sua mente come incisioni su pietra. E infatti pesano come pietre nella sua coscienza e nella sua memoria quei momenti.


33 Fotogramma 1: lui e Moussa dentro il ‘PointBet’, la sala scommesse. Moussa con la pistola in pugno. Lui invece mentre brandisce un taglierino verso una coppia di clienti terrorizzati. Fotogramma 2: la loro auto in fuga a tutta velocità in via Ripamonti. L’immagine è sgranata, difficile riconoscere gli occupanti all’interno. Fotogramma 3: l’incrocio fra via Ripamonti e via Quaranta. Due auto in mezzo all’incrocio. O meglio, due ammassi di lamiere contorte, quello in cui si sono trasformate le macchine dopo il terribile incidente. Moussa in questa immagine non si vede, doveva essere fuori dal campo visivo della telecamera di sorveglianza. In compenso si ha una visione parziale di Fadik, accasciato contro il volante, incastrato e senza vita. Samir si vede benissimo invece. È appena sceso dallo sportello posteriore di sinistra. I contorni del viso stravolti dall’impatto. Ma non sembra ferito, solo intontito. Fotogramma 4: un’altra telecamera, quella di una oreficeria. Lo ha inquadrato in via Foggia mentre scappa a piedi. Melis lo guarda. «Non avevate pensato alle telecamere vero? Non hai niente da dire testa di cazzo?» Samir ha iniziato a sudare fin dal primo fotogramma e no, alle telecamere proprio non ci avevano pensato, anche perché nessuno di loro tre si immaginava che sarebbe andato tutto a puttane in questo modo. Improvvisamente quello stanzone color verde acido appena riverniciato sembra essere diventato molto più piccolo e soffocante. Inizia a provare una sgradevole sensazione di claustrofobia. È come se quelle pareti si stiano progressivamente avvicinando, chiudendosi su di lui in una morsa senza scampo. Sente il sapore della bile risalire in gola. E no, non ha niente da dire Samir. Melis cambia immagine. Questa volta è una vera fotografia. C’è un volto nella foto. Un uomo sulla cinquantina, sguardo mite, leggermente stempiato. Porta un paio di occhiali da vista. Sembra sorridere al fotografo, uno di quei sorrisi un po’ forzati, vagamente imbarazzati di fronte all’obiettivo. Il vicequestore indica la foto con un dito. «Si chiamava Emilio Seghezzi. È l’uomo che avete ucciso. Lascia una moglie e due figli piccoli.» Melis si china verso di lui per guardarlo ben dritto negli occhi. «E adesso dimmi pezzo di merda, come ti senti a guardare questa foto. A sapere che due bambini piccoli non rivedranno più il loro padre per colpa di tre teste di cazzo come voi?» Questa sì che è una domanda. E allora la dice, la frase giusta, quella che si era preparato fin dall’inizio, la frase dei film.


34 «Voglio il mio avvocato.» La dice sì, ma la dice con un nodo allo stomaco che sembra che una mano invisibile lo stia soffocando da dentro. Melis sospira, arriccia la bocca in una smorfia che potrebbe persino essere buffa in un’altra occasione, annuisce lentamente con la testa. Poi, senza alcun preavviso, gli sferra un calcio violentissimo in mezzo alle gambe. Samir cade dalla sedia, ululando per il dolore ai testicoli. Non riesce nemmeno più a respirare per il colpo. E in quel preciso istante si rende conto che è tutto vero quello che sta succedendo, non è né un sogno né un film fantasy. È tutto fottutamente reale, e sta succedendo per davvero, e sta succedendo a lui. E che l’elegante vicequestore in gessato non è il mago Gandalf ma un cazzo di sbirro che gli farà sputare l’anima e il sangue. È ancora a terra con le lacrime agli occhi quando vede la porta in fondo alla stanza aprirsi. Vede un paio di scarpe con il tacco avvicinarsi verso di lui a passo deciso. Sopra i tacchi vede un paio di pantaloni neri. La donna indossa un tailleur sopra un camicetta color avorio. Nel frattempo un paio di mani robuste lo afferrano per le spalle e lo rimettono di peso seduto sulla sedia, sempre ammanettato. Le mani del gorilla che stava dietro di lui. Ora è la donna che gli sta di fronte. Samir la guarda meglio. Il dolore ai testicoli sta lentamente diventando più tollerabile. Sui quarant’anni, capelli rossi tagliati a caschetto con la frangetta, zigomi alti, labbra sottili. La pelle bianca crea un contrasto netto con gli occhi, di un verde smeraldo. Ha uno sguardo duro, deciso. Privo di emozioni. È molto alta e molto magra e il tailleur le calza a pennello. La donna si siede su una delle due sedie, appoggia mani sul tavolo. Samir nota le vene in rilievo sul dorso delle mani, le lunghe dita affusolate con le unghie curate e smaltate color avorio come la camicetta. Non porta la fede, nessun anello a nessun dito. «Vedo che il vicequestore Melis ti ha già esposto il suo punto di vista. Meglio, così non perderemo tempo.» Anche la voce è dura. Come gli occhi. «Adesso apri bene le orecchie e ascolta il mio punto di vista. Ascolta molto attentamente perché te lo dirò una volta sola.» Lo guarda dritto negli occhi mentre parla, come se lo volesse inchiodare con lo sguardo alle sue responsabilità. «Facendo un calcolo approssimativo della serie di reati di cui sarai accusato, non te la caverai con una condanna a meno di quindici, diciotto anni. Ad andare bene. Considerando che sei incen-


35 surato, anche con un patteggiamento ti farai almeno sette o otto anni effettivi di galera.» La donna smette di parlare, gli sorride. Un sorriso al cianuro. «E detto fra noi, uno stronzetto come te in prigione non resiste più di tre, massimo sei mesi. Probabilmente ti troveranno impiccato con delle lenzuola da qualche parte, magari in lavanderia o nella tua cella. Sai quanti detenuti si uccidono ogni anno negli istituti penitenziari italiani? Diventerai statistica. Solo un altro povero coglione che non aveva abbastanza palle per farcela.» Alza le spalle come se la cosa fosse del tutto ininfluente per lei. Poi la stoccata finale. «Perché vedi, ci vogliono le palle per fare il criminale, oppure essere molto stupidi. E tu non le hai ragazzo mio. Tu sei solo molto stupido e basta. Senza contare i problemi che causeresti alla tua famiglia.» Gli occhi rassegnati e spenti di Samir si accendono improvvisamente. Un guizzo di rabbia e di preoccupazione attraversa il suo sguardo. «La mia famiglia non centra niente. È solo colpa mia e solo io devo pagare. Loro lasciateli stare. Vi...prego.» La donna in tailleur fa un gesto con la mano, come se fosse una cosa del tutto ovvia. «Vedi Samir, non è così semplice. La famiglia di un rapinatore e assassino in casi come questo finisce sempre inevitabilmente per essere coinvolta. In un modo o nell’altro. Pensa solo all’effetto mediatico. I giornalisti sotto casa che fanno domande imbarazzanti sulla vita privata dei tuoi parenti. I titoli sui quotidiani, oppure vedere la tua faccia e il tuo nome in prima serata su tutti i telegiornali all’ora di cena. Per non parlare delle perquisizioni alla vostra abitazione, la vergogna e l’umiliazione per tuo padre e tua madre di vedere violata la loro casa da uomini in divisa che frugano fra le loro cose senza tanti complimenti. Mi risulta che tu vivi ancora in famiglia Samir, dico bene?» Il ragazzo annuisce. Improvvisamente sembra invecchiato di quindici o vent’anni. Le spalle incassate, la testa curva, lo sguardo basso. Le lacrime agli occhi. La voce è ridotta a un filo, quasi un sussurro. «Io non ho ucciso nessuno. È stato un incidente, e guidava Fadik.» La voce e lo sguardo della donna invece sono duri e taglienti come vetro. «Lo sappiamo chi guidava, ma tu comunque c’eri su quella macchina. Ed eri armato. Inoltre hai avuto una parte attiva nella rapina, più di Fadik che ha fatto solo da autista. Comunque a quanto ammonta la tua responsabilità in termini di anni di carcere non spetta a me stabilirlo. Ci penserà il giudice.» Fa una pausa. Studiata, lunga abbastanza da permettere al ragazzo di metabolizzare bene le sue parole. «A meno che, quelle immagini e il fascicolo che ti riguarda con tutte le prove a


36 tuo carico non arrivino mai sulla scrivania del pubblico ministero che segue le indagini.» Lo fissa negli occhi adesso la donna. Anche l’altro sbirro, il vicequestore Agostino Melis lo sta fissando. Il perfetto gioco delle parti: lo sbirro buono e quello cattivo. Anche se a Samir non sembra di vedere sbirri buoni in questa circostanza. Più che altro gli sembrano lo sbirro bastardo e quello meno bastardo. Però non è sicuro di avere capito bene le parole della poliziotta. «Non capisco...perché le prove non dovrebbero...» «Sto dicendo che le indagini sono ancora in corso e nulla di tutto questo è stato ancora messo a verbale come materiale probatorio, quindi tu non sei ancora formalmente indagato. Tecnicamente questo fermo non è mai avvenuto, e nemmeno questo colloquio. Mi spiego? In altre parole sei libero di andartene in qualsiasi momento. Detto questo dipende solo da te se queste prove arriveranno o meno a conoscenza del magistrato inquirente.» La donna accavalla le gambe con un gesto elegante mentre si appoggia allo schienale della sedia. Si accende una sigaretta. Ne offre una a Samir. Lui accetta, è ammanettato al bracciolo della sedia solo dal lato destro, la mano sinistra è libera. Mentre tira qualche boccata di fumo guarda sia la donna con la frangia sia il vicequestore. Sta valutando quello che lei gli ha appena detto. È sospettoso, da qualche parte deve esserci il trucco. «Dipende da me? E in che modo esattamente?» Agostino Melis interviene. «Secondo te perché non ci sono i colleghi della Mobile qui in questo momento ma io della DIGOS e la dottoressa? Dal punto di vista della competenza il tuo culo apparterrebbe a loro, e invece siamo noi due a occuparcene. Sei uno stronzo fortunato Samir Khattab, perché questo è un treno che passa una volta sola nella vita.» «Anche lei è della DIGOS? Non mi ha nemmeno detto il suo nome.» Chiede Samir alla donna. Lei sorride, stira appena quelle labbra sottili «Il mio nome non ha importanza. Diciamo che io e il vicequestore operiamo per il raggiungimento di un obiettivo comune, ovvero la sicurezza del Paese, ma in ambiti diversi. Vedi Samir, quello che sta cercando di dirti il dottor Melis è che per il nostro ordinamento giuridico l’accordo che ti stiamo proponendo è del tutto...» fa una breve pausa, come se stesse cercando la parola adatta «inconsueto, diciamo così. Ma a volte, per motivi di sicurezza nazionale o in caso di gravi minacce incombenti, in accordo con le varie parti, procedure di questo genere possono essere autorizza-


37 te dai vertici del Viminale o dai vari ministeri competenti. E questo è uno di quei casi.» Samir inizia a capire. Vogliono qualcosa da lui, anche se ancora non capisce di cosa si tratti. «E io cosa dovrei fare. Cosa volete in cambio.» La donna tira fuori un telefono da una tasca interna della giacca e lo appoggia sul tavolo. Lo spinge verso di lui. «Questo lo userai solo per comunicare con noi. È superfluo dire che nessuno oltre a te deve mettere le mani su questo cellulare. Mettici un codice di sblocco che conosci soltanto tu. Ti diremo di volta in volta cosa ci interessa sapere o chi dovrai tenere d’occhio o, nel caso ci fosse la necessità, dove e quando incontrarsi.» «In altre parole mi state chiedendo di diventare la vostra spia. È questo che volete in cambio.» C’è profondo disprezzo nella voce di Samir. Nella sua testa la parola giusta per definire questa cosa però è un’altra: infame. Uno che parla con gli sbirri, la peggior razza di traditore. La donna sfoggia un altro dei suoi sorrisi al veleno. «Spia, molto cinematografico come termine, noi preferiamo chiamarle ‘risorse’. Comunque il concetto è quello. E dopo la cazzata che hai combinato, al tuo posto non farei troppo lo schizzinoso. Ti svelo un segreto Samir. Anche il tuo amico Moussa era una nostra risorsa prima che impazzisse per mettersi a fare il rapinatore dilettante.» Samir resta a bocca aperta. Moussa, il duro e puro Moussa un traditore, un informatore della polizia. No, non ci crede, non Moussa. Lui odiava gli sbirri, non avrebbe mai accettato di fare la spia per loro. E poi era un vero fratello. Una volta lo aveva visto battersi da solo contro tre italiani che avevano mancato di rispetto a una delle sue sorelle. Non aveva esitato neanche un istante e non era arretrato di un centimetro nemmeno quando aveva iniziato a soccombere sotto i colpi dei tre. No, Moussa non poteva essere un traditore. Questa donna sta mentendo. «È falso, non ci credo.» «Invece è vero. E sai perché te lo sto dicendo Samir? Perché tu prenderai il suo posto.»


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6

L’uomo si ferma un istante a guardare la grande vetrata colorata sopra i tabelloni delle partenze e degli arrivi. Il sole è basso a quell’ora e la luce taglia le lastre policrome creando effetti davvero suggestivi. Sembra quasi di poter cogliere la presenza di Dio in quei giochi di luce, attraverso la danza dei colori. Forse è per questo motivo che i cristiani riempiono le loro cattedrali di vetrate colorate, pensa l’uomo mentre si avvia verso il binario da cui tra pochi minuti partirà il suo treno. Perché quella non è una cattedrale ma la stazione ferroviaria di Charleroi Sud, Belgio. L’uomo sale sul vagone, trova il suo posto prenotato. Sistema il grosso e pesante borsone di tela nell’apposito scomparto per i bagagli sopra i sedili. Si guarda intorno. Nel sedile di fianco al suo è seduto un uomo in giacca e cravatta intento a leggere un quotidiano finanziario e in quello di fronte un’anziana signora. Il resto dei passeggeri sono studenti, pendolari, qualche raro turista. Rivolge un sorriso gentile alla signora dai capelli bianchi mentre si siede al suo posto. L’uomo in giacca e cravatta invece è visibilmente infastidito dalla presenza del nuovo arrivato. Questo paese è invaso da arabi e africani ormai pensa, mentre legge le ultime quotazioni di borsa sul suo giornale. Per il viaggio ha deciso di indossare un giubbotto di pelle, jeans, scarpe da ginnastica e un berretto da baseball, sebbene si trovi a disagio con quel genere di abbigliamento tipicamente occidentale. Si è dovuto persino radere completamente e quella è stata la cosa peggiore per lui. Ma era necessario gli avevano detto. Dopotutto è molto probabile che lui rientri nelle cosiddette ‘Fiche S’, ovvero i soggetti ritenuti pericolosi e posti sotto sorveglianza da parte della polizia francese. Quindi l’imperativo categorico è mantenere un basso profilo, confondersi nell’anonimato degli altri viaggiatori. E per questo meglio vestirsi come uno di loro, all’occidentale. E quindi via anche quella lunga barba. Le barbe come la sua tendono ad attirare l’attenzione dei poliziotti di questi tempi.


39 In realtà c’è stato un tempo in cui anche lui era un occidentale, o meglio era diventato come loro, corrotto dalle loro abitudini blasfeme e offensive del Libro e del Profeta. Un tempo in cui si era perso, fra droga, alcol, donne e denaro. Poi però c’era stato l’incontro con quell’uomo illuminato, in Francia, in una delle galere degli infedeli. Forse Allah aveva voluto metterlo alla prova, facendolo prima smarrire per fargli comprendere meglio in seguito quale è il sentiero che porta al paradiso, mettendo quell’uomo santo e saggio sulla sua strada. Aveva ascoltato le sue parole. Aveva compreso i propri errori e capito quale è la retta Via. E alla fine aveva ritrovato se stesso. E aveva deciso di partire. Il convoglio si muove. Destinazione Bruxelles Centrale. Lì cambierà treno, lo aspetta la coincidenza del TGV diretto in Italia. A Milano. Lo stanno aspettando. Ismail e Awad si faranno trovare nell’atrio centrale della stazione, di fronte a Starbucks. Da lì proseguiranno in auto e finalmente incontrerà di nuovo quel grande uomo. La sua guida spirituale. L’imam guerriero. Colui che porterà il Jihad in Italia. L’uomo è alto, atletico. Ha capelli ricci, nerissimi. Come gli occhi che sono due cuspidi nere in continuo movimento. Quegli stessi occhi che ora vedono il verde intenso dei prati della pianura belga scorrere fuori dal finestrino, ma che se li chiude quel verde si trasforma nel giallo ocra della polvere delle strade e dei deserti siriani. Lì dove il Jihad è davvero vivo e presente, dove lui ha trovato la sua dimensione esistenziale e scoperto la sua vera natura di combattente. Dove ha purgato e purificato la sua anima insozzata dagli infedeli e dai loro costumi abietti. Ringrazierà per sempre Allah per aver scelto di partire. Ecco, se chiude gli occhi Ramadhani Mohammed Assadi, detto Reda, può vedere anche l’altro colore. Il rosso vivo del sangue dei nemici, mentre li sgozza, inginocchiati nella polvere, belanti come agnelli sacrificali, immersi nel loro piscio e nella puzza del loro terrore profondo della morte imminente. Ma la sua mano, la mano di Reda è ferma mentre con il coltello taglia quelle gole, recide quelle carotidi zampillanti. Da quando ha abbracciato il Jihad la sua mano non ha più esitato. Non ha più tremato. Reda rivolge un sorriso amichevole anche all’uomo di fianco a lui, infastidito dalla sua presenza, mentre immagina quel suo bel completo da sartoria inzupparsi di sangue mentre lui gli taglia la gola al grido di “Allah Akbar.”


40 Poi si rilassa e si gode il viaggio, cullato dal dondolio del vagone al ritmo confortante delle ruote che corrono sui binari. Ogni cosa a suo tempo. Inshallah.


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7

Il sole sta iniziando a tramontare e le prime ombre iniziano a diffondersi sul cantiere, fra le ruspe, i materiali accatastati e gli operai che raccolgono le loro cose. Jawat si lava accuratamente le mani. Toglie ogni residuo di calce e polvere di cemento. Quella polvere è così sottile che si infiltra ovunque, nei vestiti, nei pori della pelle, nella gola. Lui è abituato, la respira da una vita. Anche in Egitto faceva il muratore, come suo padre e suo nonno prima di lui. È un mestiere duro, faticoso, ci devi nascere dentro quel lavoro, imparare fin da piccolo a respirare quella polvere. Però Jawat non ha voluto che i suoi figli seguissero quella strada. Non è venuto in Italia per questo, per far respirare anche a loro cemento e fatica e sudore e spaccarsi la schiena sui ponteggi dieci, dodici ore al giorno. Va bene per lui, perché non ha avuto altre possibilità e malgrado tutto questo lavoro gli permette di vivere dignitosamente e di non far mancare nulla a sua moglie e ai suoi figli, ma loro devono avere la possibilità di scegliere il loro futuro. Loro un’alternative devono averla. Per esempio Samir lavora in un supermercato, non si sporca le mani e in estate hanno addirittura l’aria condizionata là dentro. E poi c’è Najat, la sua adorata bambina, che studia, ha ottimi voti e l’anno prossimo se tutto va bene andrà all’università, no dico, vi rendete conto, l’università! Ed è sicuro Jawat che un giorno, con l’aiuto di Dio sua figlia diventerà una persona istruita e importante, magari un medico. Sì, ecco, diventerà una brava dottoressa. E adesso anche il suo primogenito, Tariq ha finalmente trovato un impiego. Come pizzaiolo. Forse non è il massimo certo, ma è sempre qualcosa per iniziare, sempre meglio che stare tutto il giorno a non fare niente e continuare a sperare di fare successo con quella sua musica che non lo porterà da nessuna parte. E poi questi non sono tempi facili e un lavoro, un qualsiasi lavoro è da prendere al volo e tenerselo stretto. «Dai Jawat, muoviti che stasera c’è la partita.» Grida Giuseppe Mancuso, il caposquadra, dal furgone, un vecchio Ford Transit mezzo arrugginito che sputa fumo nero dal tubo di scappamento come una petroliera.


42 Gli altri sono già a bordo e stanno aspettando soltanto lui per partire. La ditta ha aperto questo cantiere a Casorate Primo, in provincia di Pavia, una serie di villette a schiera da consegnare entro la fine dell’estate. I tempi per rispettare la consegna sono stretti e i ritmi di lavoro massacranti. Dodici ore al giorno, a volte tredici. In più c’è il viaggio che fra andata e ritorno porta via altre due ore. Il furgone li riporterà a Milano, a piazzale Lotto, che è il punto di raccolta non solo per loro ma anche per tanti altri lavoratori a giornata. Da lì ognuno di loro proseguirà poi con i suoi mezzi fino a casa propria. Lotto è una piazza strategica da questo punto di vista. Oltre a passarvi numerosi autobus ci sono la fermata della metropolitana della linea rossa e le due linee del filobus che percorrono la circonvallazione in entrambe le direzioni. E tutte le mattine di tutti i giorni dell’anno lungo i suoi marciapiedi a partire dalle cinque, con le prime corse della 90 e 91 inizia a riversarsi una fauna di gente in cerca di lavoro, anche solo per una giornata o due. Braccia, manovalanza pura, carne fresca a gettone per i caporali che passano in rassegna, scelgono quelli che ritengono più adatti e li caricano sui loro furgoni parcheggiati nelle adiacenze della piazza. Jawat li vede schierati tutte le mattine. L’esercito dei disperati in vendita, con la loro fame e l’ansia di non essere scelti per la giornata. In confronto a loro lui si considera un privilegiato. Ha un lavoro fisso, un contratto in regola di tutto e con uno stipendio sicuro finché ci sono cantieri aperti . Addirittura gli pagano i fondi per la pensione. «Arrivo Giuseppe, eccomi.» Gli fa eco Jawat mentre raccoglie il suo zaino e corre verso il furgone. Fa caldo, l’odore dei corpi sudati dei suoi colleghi all’interno impregna l’abitacolo nonostante i finestrini abbassati, ma a Jawat quell’odore non dà fastidio. Ci è abituato e poi sa di fatica onesta. È l’odore che ha addosso anche lui e che gli permette di andare a testa alta, immigrato in terra di migranti. Però ultimamente le cose stanno cambiando. Tira una brutta aria. I recenti attentati commessi nel nome dell’Islam che hanno sconvolto tutta l’Europa hanno fatto calare un velo di sospetto e insofferenza crescente verso i mussulmani, verso quelli come lui. Se ne accorge dagli sguardi, da certe battute o frasi che sente in giro. Persino i suoi colleghi di lavoro che lo conoscono da molto tempo gli hanno chiesto quale è la sua posizione in merito ai fondamentalisti e ai terroristi. Come se il solo fatto di essere mussulmano lo mettesse in qualche modo sullo stesso piano di quei pazzi invasati che massacrano innocenti nelle strade, nelle stazioni o nei teatri di Francia, Spagna, Germania in nome di Allah.


43 Come se non bastasse, nel suo quartiere, dove la presenza di arabi e mussulmani è massiccia e in alcune zone addirittura maggioritaria rispetto agli italiani, serpeggia rabbia, voglia di ribellione. È un’aria malsana, pastosa, a volte elettrica. La puoi sentire addosso, la puoi annusare. La vedi negli occhi e negli sguardi dei giovani agli angoli delle strade, la senti nei loro discorsi. Suo figlio Tariq quella rabbia la racconta sotto forma di rime musicali. Rap, la musica del ghetto. Jawat non ascolta rap, però sa ascoltare la voce della strada, perché in fondo la strada la conosce anche lui e quindi può comprendere le origini, la matrice di quel disagio che ribolle e diventa rabbia. Quante volte in televisione ha sentito professori, intellettuali, giornalisti, politici provare a spiegare alla gente il perché di questa rabbia, di cosa significhi la banlieue, lo slum, il ghetto. Cercare di interpretare dal loro punto di vista le ragioni del disagio. Sono tutte chiacchiere, poco più che fuffa, buone solo per giustificare gli emolumenti per le loro apparizioni televisive. Nessuno di costoro ha mai capito veramente e mai capirà. Vivono troppo lontani dalla vita reale questi intellettuali da salotto. Il lavoro è il vero problema. Anzi, la mancanza di lavoro, che equivale a dire la mancanza di opportunità, il sentirsi perennemente esclusi, relegati ai margini di un sistema produttivo e consumistico che non fa sconti. ‘Consumo ergo sono’. Solo che se non hai un lavoro chi cazzo te li dà i soldi per consumare? E allora non stupitevi se poi le strade sono pieni di ladri, spacciatori, rapinatori. I ragazzi i soldi se li procurano così, facili e subito. Che altro devono fare. Solo che non può essere questa la soluzione, non è accettabile. Per questo Jawat ama l’odore della fatica. E per questo è felice che Tariq abbia trovato lavoro. Chissà, forse anche il suo rap adesso diventerà meno cattivo, meno arrabbiato. Quartiere Corvetto, ormai è sera. Scende alla fermata di Porto di Mare sulla linea gialla e si avvia verso casa a piedi quando sente una voce chiamare il suo nome. È una voce familiare, la riconosce subito. Jawat si volta. Sorride. È Osman al Mansur, l’imam della moschea di via dei Cinquecento, quella che frequenta lui. È in compagnia di Jamil, un bravo ragazzo, gran lavoratore. Studia nella scuola coranica adiacente alla moschea sotto la guida di Osman con la speranza di diventare a sua volta imam un giorno. Lo ha accompagnato a fare la spesa perché porta due pesanti borse piene di prodotti alimentari.


44 Jawat ricambia il saluto. «Aleikum salam, saggio Osman. Vedo con piacere che cammini meglio.» L’imam è anziano e recentemente ha avuto un problema a una gamba. Un’ischemia o qualcosa del genere hanno detto i medici. «Sì, ora che i dolori sono passati posso di nuovo camminare senza grossi problemi. Però non posso portare carichi. Meno male che c’è il fedele Jamil ad aiutare questo povero vecchio.» Batte la mano sulla spalla del ragazzo. Lui sorride, schivo, imbarazzato. Jawat conosceva suo padre prima che morisse in un incidente sull’autostrada che collega Il Cairo con Alessandria d’Egitto. La famiglia di Jamil era arrivata da poco in Italia e dopo la morte del padre erano vissuti grazie ai sostegni economici della comunità che ruotava intorno alla moschea di Osman. «Ma è la vecchiaia che esige il suo tributo Jawat. Ma dimmi di te. Ultimamente ti vedo poco. È da un po' che manchi alla preghiera del venerdì.» Jawat annuisce. «È vero Osman, purtroppo il lavoro assorbe quasi tutto il mio tempo. La sera finisco tardi e non riesco a venire in tempo alla moschea. Ti assicuro che mi mancano i tuoi khutba, i tuoi sermoni. A proposito Osman, ho sentito dire che forse chiuderanno la scuola.» Il vecchio imam sorride mestamente. Sa bene che Jawat è un buon mussulmano che non ha bisogno di giustificarsi e le sue assenze sono ampiamente motivate. «Sì, è vero, gira questa voce. Pare che l’assessore all’Educazione voglia chiudere la scuola con la scusa della inagibilità dovuta a scarse condizioni igieniche e sanitarie, secondo loro.» Scrolla le spalle come se la cosa non avesse molta importanza. «Se lo faranno davvero sarà un peccato ma questo non mi impedirà di continuare a insegnare. Con l’aiuto di Dio troveremo un altro posto. Ma dimmi invece, i tuoi figli stanno bene?» «Sì, grazie a Dio stanno tutti bene. Najat studia e diventa ogni giorno più bella. E adesso anche Tariq ha finalmente trovato un lavoro come pizzaiolo grazie a un suo amico che conosce una persona a San Siro dalle parti di piazzale Selinunte. Un benefattore che come te ha a cuore le sorti della comunità e dei fratelli mussulmani.» Osman conosce tutti a Milano, è qui da tanti anni. Per lo meno tutte le personalità di rilievo all’interno della comunità islamica. «Un benefattore...e sai come si chiama?»


45 Jawat scuote la testa. «Si chiama Zarif credo, ma io non lo conosco, non l’ho mai incontrato. Pare sia uno sheikh, un saggio. È da pochi mesi che è arrivato a Milano. Dicono che prima stesse in Belgio o in Francia, non ne sono sicuro. A ogni modo è stato un amico di Tariq a parlargli di lui e a fargli ottenere il lavoro.» Osman al Mansur aggrotta la fronte. Solo per un istante quando sente il nome dell’uomo, ma a Jawat non sfugge la sua reazione. «Tu lo conosci Osman?» «Sì, l’ho conosciuto alla Grande Moschea di Bruxelles durante in convegno fra imam alcuni anni fa. In effetti avevo sentito parlare di un religioso che era arrivato a Milano dal Belgio, ma non sapevo fosse lui.» La voce e lo sguardo di Osman si fanno improvvisamente seri. «È un imam?» Chiede Jawat. Il vecchio annuisce. «Sì, uno relativamente giovane. È un salafita, un radicale. Jawat» appoggia una mano sul braccio dell’uomo «in confidenza ti dico che è meglio se Tariq non stia troppo vicino a quell’uomo. Digli di non frequentare la sua moschea.» Jawat sembra disorientato dalla reazione del vecchio imam. «Non sapevo che avesse una moschea qui a Milano.» «Oh, se è per questo neanche io lo so. Ma sono sicuro che ne ha una. Le moschee non ufficiali nascono nel giro di una notte. E altrettanto rapidamente scompaiono. Si è fatto tardi, ti devo salutare adesso, Jawat.» Jawat resta lì, impalato, a guardare il vecchio Osman al Mansur allontanarsi assieme a Jamil. Con tutta una serie di domande nella testa. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

PARTE PRIMA ............................................................................ 5 PROLOGO ........................................................................... 7 1....................................................................................... 11 2....................................................................................... 16 3....................................................................................... 21 4....................................................................................... 27 5....................................................................................... 31 6....................................................................................... 38 7....................................................................................... 41 8....................................................................................... 46 9....................................................................................... 49 10..................................................................................... 55 11..................................................................................... 59 12..................................................................................... 63 13..................................................................................... 70 14..................................................................................... 75 15..................................................................................... 82 16..................................................................................... 86 17..................................................................................... 93 18..................................................................................... 98 19................................................................................... 105


PARTE SECONDA .................................................................. 111 20................................................................................... 113 21................................................................................... 133 22................................................................................... 148 23................................................................................... 156 24................................................................................... 161 25................................................................................... 164 26................................................................................... 172 27................................................................................... 180 28................................................................................... 187 29................................................................................... 191 30................................................................................... 195 31................................................................................... 200 32................................................................................... 206 EPILOGO ........................................................................ 211 RINGRAZIAMENTI....................................................................... 215 INDICE ....................................................................................... 217


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI

La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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