La panchina nascosta

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Disponibile anche: Libro: 15,50 euro (dal 27/1/12) e-book (download): 9,99 euro e-book su CD in libreria: 9,99 euro


GRAZIELLA CANAPEI

LA PANCHINA NASCOSTA

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LA PANCHINA NASCOSTA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2012 Graziella Canapei ISBN: 978-88-6307-411-6 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Gennaio 2012 da Fotoincisione Varesina Varese

La storia raccontata in questo romanzo, pur se ambientata in un carcere realmente esistente, è frutto di fantasia.


Sì, lo so che non lo leggeranno mai, ma voglio dedicare questo libro ai miei cani: Alfa, Beta, Dylan, Tosca, Orso, Minù e Lola, che ci ha lasciati.



PRIMA PARTE DIARIO DI ROSA



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1 marzo Ho ucciso mio padre quando avevo quattordici anni. All’epoca tutti pensarono a un incidente. Il tetto del pollaio gli era crollato addosso e una trave di castagno, tarlata e nera, per la verità neanche molto grossa, gli aveva fracassato il cranio. Mi ricordo che stavo appollaiata sull’albero di cachi, e quando la trave gli era caduta in testa avevo sentito un rumore insolito, simile a quello prodotto da una vecchia ghironda che avevamo in soffitta. Perché, in realtà, era stato un insieme di rumori e non un colpo secco come mi sarei aspettata. Assieme alla trave, sulla testa riccioluta e grigia del padre erano cadute tavelle, coppi, calcinacci, oltre a un lamierino arrugginito. Tutto questo materiale aveva come dire, cantato, anzi suonato, sul suo cranio e sulle ossa delle spalle. Ero a nemmeno un metro sopra di lui, su un ramo piuttosto sottile che temevo non avrebbe sorretto a lungo il mio peso. C’era un capriccioso vento primaverile; pochi secondi prima che tutto gli cadesse addosso, la leggera copertura di nubi s’era spostata nel cielo e la luna, quasi piena, aveva illuminato il pollaio e il vicino orto. Il cuore cominciò a battermi violentemente come se un cavallo trottasse sul mio petto. Sentivo lo scalpitio degli zoccoli nella fossetta alla base del collo e avevo la sensazione che qualcosa mi schiacciasse la gola. Sarebbe bastato che lui, finita la consueta operazione serale sulle galline, alzasse lo sguardo, e mi avrebbe scoperta. Ogni sera, sul tardi, il padre entrava in quello stanzino per animali con il pavimento di terra battuta, prendeva le galline per le ali e, una volta immobilizzatele, infilava il suo dito medio nella loro cloaca. Immaginavo spesso la sua unghia gialla, color nicotina, mentre si apriva un varco nella gallina. Mi sembrava una cosa brutale. Un giorno mio fratello chiese al padre se l’animale soffrisse a causa di quel controllo che chiamava operazione, e lui rispose che no, se dal culo poteva uscire l’uovo certo il suo dito, più sottile, non avrebbe fatto nemmeno il solletico alla gallina. Io non ne ero convinta. Lo scopo di quella pratica schifosa era di sentire, con la punta del dito, la presenza o meno dell’uovo dentro all’animale. Il padre eseguiva un


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controllo per sapere quante uova le galline avrebbero deposto l’indomani. Quando tornava in cucina enunciava il numero a mia madre. Siccome i miei genitori erano piuttosto poveri e di galline ne avevano poche, il numero di uova previste per il giorno successivo variava da sei a dieci. Se lui la sera avesse detto, per esempio, nove, e il giorno dopo ne avesse trovate solo otto nel cesto dietro al secchiaio, sarebbero stati guai per me e mia madre. Con mio fratello di solito non se la prendeva. Il furto di uova, a suo dire, era roba da donne. Se li bevono per tirarsi su quando sanguinano, diceva. Un paio di volte, in effetti, avevo visto mia madre forare con un ago da lana un uovo che poi s’era succhiato. Un giorno avevo voluto provare a berne uno anch’io. Non mi era piaciuto per niente, anzi avevo provato schifo perché a un certo punto mi era scivolata in bocca una cosa viscida e insapore che sembrava catarro. Anche quella volta il padre aveva fatto una sfuriata. «C’erano sette uova ieri sera nei culi delle galline e oggi ne trovo sei; ne manca uno!» aveva urlato. Mia madre vigliaccamente aveva detto: «È stata Rosa.» In quel momento l’odiai perché io, quando l’avevo vista bere le uova di nascosto, non avevo fatto la spia. Una o due volte ero stata picchiata al posto suo per quella che agli occhi del padre era una gravissima infrazione alle regole della famiglia, ossia le sue. Le uova, tolte le quattro che venivano consumate sode due volte la settimana e altre due usate per la pasta, venivano vendute o barattate dal padre. Cinque uova potevano essere scambiate con un pezzo di sapone da bucato o con un pacco di tortellini secchi presso il negozio di alimentari. Una volta il padre fece una sorta di contratto con un vicino di casa che non aveva pollame: una radiolina transistor in cambio di un uovo al giorno per un anno intero. Secondo me non era stato un buon affare, e anche il padre dovette essersene accorto dopo un po’, ma l’accordo ormai era fatto. Quell’anno era bisestile così ben trecentosessantasei uova finirono nella casa del vicino che sentiva ugualmente le notizie e la musica alla radio perché il padre teneva il volume molto alto e spesso anche le finestre aperte, per far sapere a tutti quelli che passavano


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davanti al cortile che lui possedeva una radio. Mia madre aveva commentato a bassa voce: «Mangiano le nostre uova ascoltando la nostra musica, che stronzata questa storia della radio!» Credo sia per tutte queste vicende che odio le uova al punto che da anni non mangio nemmeno le frittate dolci che tanto mi piacevano. Come al solito ho divagato e ho perso il filo del discorso. Dove ero rimasta? Ah sì, il tetto del pollaio era caduto in testa al padre. Lui aveva emesso un corto lamento, quasi più un sospiro che un lamento. Le galline aveva cominciato a sbattere le ali. Spaurite si scontravano l’una contro l’altra ma poi, lo ricordo bene, nel giro di pochi minuti si acquietarono. Del resto lo sanno tutti che le galline si appollaiano e non si muovono per nulla quando è buio. Quando si erano zittite, del padre si muovevano solo le mani, in un modo che pareva volesse grattare il terreno. La luce della luna mi permise di vedere le sue unghie sporche, piene di terra. In quel momento mi venne in mente una poesia di Leopardi che avevo studiato a scuola. Iniziava con: “Dolce e chiara è la notte e senza vento e quieta sopra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna e di lontan rivela serena ogni montagna.” Ecco, secondo me si trattava di una meravigliosa descrizione di una notte di luna chiara. Mi vergogno un poco a dirlo ma in quel momento, con il padre morto schiacciato sotto il tetto del pollaio, io pensai ai versi di quella poesia e mi sentii tranquilla, quasi felice. Il pollaio era un baracchino di circa un metro per due e mezzo con pareti cieche di comuni sassi neri legati con la calce, e vi si entrava per una porticina di vecchie assi inchiodate alla buona. Suppongo l’avesse costruito il nonno il quale doveva aver cercato di fare del suo meglio ma, non essendo muratore, il risultato che ottenne fu una costruzione da favelas. Del resto l’estetica era l’ultimo dei problemi trattandosi solamente di un ricovero notturno per pollame. Per comodità il tronco di castagno che sosteneva il tetto, la trave appunto, venne inserita solamente da un lato nel muro. L’altra estremità, autentico colpo di genio per velocizzare il lavoro di costruzione, venne appoggiata sulla biforcazione di un albero vicino, quello sul quale mi ero sistemata io quella notte.


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Avevo elaborato un piano e lavorato per settimane dopo che, casualmente, avevo notato che la trave non era ben conficcata nel muro. La calce e la povera sabbia di torrente usati come leganti, avevano perso la loro solidità e cominciavano a frantumarsi. Così io, tutti i giorni, finita la scuola, andavo ad aiutare quel processo di sgretolamento. Entravo senza farmi notare nel pollaio e con un vecchio cucchiaio di ottone grattavo i calcinacci proprio vicino a dove la trave andava ad infilarsi nel muro. Poi raccoglievo e buttavo lontano da casa tutto il materiale asportato, di modo che nessuno notasse nulla. Dopo qualche settimana la trave cominciò a ballare dentro al muro. Provai a scrollarla con tutte e due le mani: il lamierino vibrò e mi cadde addosso una nuvola di polvere mentre una decina di ragni di varie dimensioni fuggivano. Pensai che, se dal lato già libero, quello sull’albero, avessi tirato con tutta la forza che avevo, la trave sarebbe uscita dalla sua sede e patatrac, sarebbe caduta a terra di colpo. Come ho detto non era una trave molto grossa e il tetto era fatiscente. Calcolavo, comunque, che non servisse un gran peso per tramortire una persona. Naturalmente c’era la possibilità che il padre restasse solamente ferito, ma in quel caso avrei escogitato qualcos’altro. Mentre lavoravo a questo progetto riflettevo sul fatto che, nonostante avessi terrore del padre, inspiegabilmente, non temevo più di tanto di essere scoperta. Quella notte tutto andò secondo i miei piani. Dopo che il padre fu chino sulle galline tirai con tutta la forza che avevo la trave, che scivolò fuori dal muro cadendo di colpo. Il padre non fece nemmeno in tempo a girare la testa per vedere quanto stava accadendo sopra di lui. I cani abbaiarono. Io scesi in silenzio dall’albero e velocemente percorsi la distanza che separava il pollaio dalla casa, dove entrai dalla porta sul retro, quella che dava sul brolo. Poi salii in camera e mi misi a leggere uno stupido romanzetto che mi aveva prestato una mia compagna di scuola. In quegli anni mi piacevano i libri di Salgari ma non avevo la possibilità di acquistarli e in paese non c’era una biblioteca dove potessi chiederli in prestito. Ero riuscita a leggerne un paio solamente perché un cugino l’estate precedente era venuto in vacanza a casa dei miei e prima di andarsene me li aveva lasciati in regalo. Poi ero scesa in cucina, giusto in tempo per sentire mio fratello e mia madre gridare. Lei lo aveva mandato a vedere dove fosse andato a finire


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il padre. Lui era rientrato dicendo che il tetto del pollaio era crollato. Erano usciti entrambi con una torcia. Dall’ingresso, dietro alla porta con i vetri dove mi ero fermata per ascoltare, sentii altre grida e i cani ripresero ad abbaiare. La madre aveva chiamato i vicini. Due uomini avevano portato fuori dal pollaio il corpo impolverato del padre e lo avevano adagiato sull’erba. A quel punto ero uscita anch’io di casa. Il padre aveva una stranissima smorfia sulle labbra, quasi buffa, e un sottilissimo filo di sangue gli scendeva da un orecchio. Tutti pensarono a una disgrazia, anche i carabinieri che vennero il giorno dopo. Mi era andata bene.

3 marzo Mi costa riconoscerlo: sono una carcerata. Non perché mi vergogni, ma perché non mi sembra di vivere in un carcere. Qui, dove sono, è tutto così bello e tranquillo che non mi pesa nemmeno di essere rinchiusa. In fondo, che importanza ha non poter uscire? Non posso andare fino al mercato del pesce o alla spiaggia del Lido, ma lo posso immaginare, e per me è come se fosse vero. Ho letto che noi, umani intendo, percepiamo solo il cinque per cento di ciò che ci circonda o, meglio, secondo me, di ciò in cui siamo immersi. Quindi, di fatto, nessuno sa veramente cosa sia reale. Siamo ciechi e sordi anche quando vediamo e udiamo. Molti animali hanno per certi aspetti informazioni della realtà molto più precise di noi, che ci consideriamo esseri superiori. Anche animali solitamente catalogati come non particolarmente intelligenti percepiscono il mondo sensibile meglio di noi. La differenza fra gli umani e loro è che noi abbiamo anche una specie di sesto senso: la mente analitica. Ho letto un paio di libri su questo argomento. Uno di questi era di uno studioso buddista.


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Il buddismo insegna che i sensi non sono cinque ma sei, appunto. Oltre ai già noti udito, vista, olfatto, tatto e gusto, asserisce ci sia un senso chiamato mente; quindi la mente non sarebbe niente di stratosferico, ma solo una cosa materiale, sensoriale. Qui mi nasce però una perplessità, perché come la vista sta agli occhi e l’udito agli orecchi pensavo che la mente stesse al cervello; invece pare che i testi del canone buddista non siano di questa opinione. A questo punto del ragionamento di solito vado in confusione perché, allora, dove sarebbe collocata la mente? Se si tratta di una cosa materiale dovrebbe pure essere da qualche parte nel corpo! Credo non lo sappiano nemmeno i seguaci di Budda, dove sia. O forse, ed è più probabile, io non ho capito il concetto. Comunque qui mi piace. Ci vivo da quasi due anni e dovrò rimanerci per altri sedici. Sono stata condannata a diciotto anni però l’avvocato mi ha detto che, secondo lui, fra una decina sarò fuori. Lui credeva di avermi dato una bella notizia, invece quando penso al momento in cui dovrò lasciare questo posto provo paura. Qui è come essere in un utero caldo. Quando arrivai, per non entrare in contrasto con le altre donne, parlavo pochissimo cercando, per quanto possibile, di rendermi invisibile. Ma loro mi tormentavano ugualmente: mi spintonavano nei bagni, mi canzonavano e mi tiravano per i capelli. Così un giorno ho approfittato di una circostanza per non parlare più pensando che, forse, le altre donne dopo un po’ mi avrebbero lasciata in pace, credendomi handicappata. In realtà non si può mai sapere; ci sono persone che si divertono a tormentare quelli che hanno problemi e sono in condizione di inferiorità. Anche i bambini lo fanno, quando per esempio torturano piccoli animali. Ricordo di aver fatto qualche stupidaggine anch’io. Catturavo al volo le mosche, strappavo loro le ali e le mettevo in una scatolina metallica vuota, quella in cui il nonno durante l’inverno metteva le sue caramelle balsamiche. Quindi osservavo quella trasformazione da insetti dell’aria a terricoli. Non mi rendevo conto che stavo facendo del male alle mosche, semplicemente non pensavo che quegli insetti potessero provare dolore. Poi un giorno qualcuno a cui avevo orgogliosamente mostrato la scatolina mi disse: “Ma è come se qualcuno ti strappasse le braccia!” Rimasi allibita. Liberai subito nel portico quelle povere creature e piansi per la mia stupidità. Eppure io sono una persona che ama gli animali…


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Quindi in merito all’idea di non parlare più, non ero certissima che poi le altre detenute, credendomi handicappata, mi avrebbero lasciata tranquilla, poteva anche accadere il contrario… comunque alla fine decisi di provare. Non che fosse chissà che idea originale quella di fingere il mutismo. In realtà l’avevo visto fare in un film ambientato in un ospedale psichiatrico dove il finto muto era un pellerossa grande come un armadio. Credo che nel titolo del film ci fosse il nome di un uccello. In quel periodo già lavoravo all’orto. Un giorno decisi di pulire i vetri della serra. Nessuno me lo aveva chiesto anzi, forse, non spettava a nessuna di noi detenute farlo perché bisognava usare una di quelle scale allungabili. A pensarci meglio credo proprio che fosse vietato. Ero salita una decina di gradini. Con me avevo una spugna insaponata e uno strofinaccio. Avevo pulito quasi tutto quando, non so come, mi tagliai contro un vetro scheggiato. Fu una cosa rapidissima; il dolore e il fiotto di sangue che vidi uscire dalla ferita sul palmo della mano mi spaventarono e barcollai, la mano perse la presa sul piolo della scala e caddi malamente. Picchiai duro con la testa su di un muricciolo di cemento che delimita un sentiero che conduce all’aiuola delle erbe aromatiche. Svenni. Quando mi ripresi un’infermiera mi stava fasciando la mano, poi persi conoscenza di nuovo e mi svegliai in ospedale perché, ma questo lo seppi dopo, non si erano fidati a tenermi nell’infermeria del carcere, priva di conoscenza. L’ospedale è molto più attrezzato, è chiaro. Quando una infermiera mi chiese come mi sentissi io scossi la testa senza rispondere e così feci in seguito, ogni volta che medici e infermieri mi rivolgevano la parola. Quello mi sembrò il momento adatto per realizzare il mio progetto. Il giorno dopo la caduta, gesticolando, chiesi una penna e un pezzo di carta dove scrissi bello in grande e in stampatello: NON RIESCO A PARLARE. AIUTATEMI. Tenni così premuta la penna che forai la carta, mi pareva di averla scolpita quella frase. Il risultato di quella richiesta di aiuto fu che mi fecero prima una radiografia al cranio e poi una Tac. Verso sera un medico mi informò che non avevano trovato nulla di particolare ma che, in effetti, poteva anche darsi che un trauma cranico avesse conseguenze di quel tipo.


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“Una botta in testa può provocare di tutto; là dentro, nel cervello, ci sono i comandi per tutte le nostre attività, basta poco per mandarci fuori fase” mi spiegò. Mi finsi disperata. Le infermiere furono gentili e cercarono di consolarmi mentre il solito medico mi disse che a volte, con il passare del tempo, può accadere che eventuali ematomi, anche piccolissimi, si riassorbano e tutto rientri nella normalità. “Forse fra qualche tempo lei riuscirà a parlare di nuovo” concluse sorridendomi. Furono giorni di silenzio. I suoni venivano solo da fuori. Poi a un certo punto, calata com’ero nella mia parte di muta, cominciai a pensare di non poter parlare per davvero. In me si insinuarono dei dubbi e una notte volli verificare. Dopo che le luci furono spente mi tirai sulla testa il lenzuolo e, piano, perché nessuno mi udisse, provai a far uscire qualche suono dalla mia gola. Nulla. Allora mi assalì veramente la disperazione. Che cosa mi era successo? Le mie corde vocali non volevano saperne di vibrare, le sentivo bloccate, secche. Provai a pronunciare il mio nome: Rosa. Nulla. Pensai di essere diventata semplicemente afona. Dopo una decina di tentativi mi dovetti però arrendere. La gola mi faceva male e capivo che i miei sforzi non avrebbero fatto che irritarla di più, peggiorando la situazione. La mattina dopo scrissi su di un tovagliolo di carta un altro messaggio per il medico, pressoché identico al primo: NON RIESCO A PARLARE. MI AIUTI. Lui, un biondino con i primi capelli grigi sulle tempie, lo stetoscopio nel taschino e il naso un po’ rosso, mi mise una mano sulla spalla e mi disse: «Lo so, lo so. Come le ho già detto forse col tempo tutto si sistemerà. Oggi passerà a visitarla una logopedista che le potrà consigliare qualche utile esercizio» Il medico rimase pochissimo e appena se ne andò mi travolse l’angoscia. Allora guardai i gabbiani volare davanti alla finestra. Alcuni rondoni si tuffavano dal cornicione del palazzo in direzione della laguna. Cominciai a riflettere. Dovevo aver commesso una sorta di


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peccato, certamente era così. Dio mio, avevo fatto un gravissimo errore a fingermi muta. Intanto che ragionavo, con una mano, quella sana, perché l’altra era ancora fasciata a causa del taglio che mi ero procurata con il vetro della serra, mi massaggiavo un braccio. Spingevo con i polpastrelli contro i muscoli partendo dal gomito e verso il collo tenendo le dita unite, e mi toccavo una voglia rossa a forma di ciliegia vicina alla clavicola. Mia madre mi aveva spiegato che avevo quella macchia sulla pelle perché lei aveva desiderato ardentemente mangiare ciliegie mentre era incinta. Purtroppo, però, non era stagione e lei era rimasta con il suo desiderio insoddisfatto. Poi aveva fatto il grave errore, di cui più volte mi aveva chiesto scusa, di toccarsi quel punto vicino alla spalla e lì, proprio dove il suo dito aveva sfiorato la pelle, s’era impressa in modo indelebile la sua voglia di ciliegie. Ora questi particolari non hanno alcuna importanza, non so nemmeno perché mi siano tornati in mente. Continuavo a massaggiarmi il braccio dalla periferia verso il cuore sperando che un maggiore afflusso di sangue nel collo avrebbe favorito il ritorno della voce. Intanto era già venuta l’inserviente con il caffellatte, che lasciai nella scodella sul comodino, e il braccio che massaggiavo aveva cominciato a prudermi mentre l’altro, stanco, mi faceva male. Mi arresi, non serviva proprio a nulla il massaggio. A mezzogiorno l’inserviente portò via sbuffando la scodella del caffellatte che non avevo toccato e al suo posto appoggiò un piatto con della pasta al sugo. Sono penne all’arrabbiata, spiegò con un certo sussiego mentre io pensavo che non si trattava proprio di un cibo adatto agli ospedalizzati. Io detesto i cibi piccanti, però quella volta pensai che forse non sarebbe stata una brutta idea mangiare le penne all’arrabbiata. Avevo letto (la mia vita, come quella della maggior parte delle persone, è piena di cose lette) che il peperoncino ha proprietà disinfettanti, stimolanti e forse anche anticancro. A quanto dicono, i messicani, grandi consumatori di peperoncino, non si ammalano di cancro allo stomaco. Rammento che quando l’avevo letto ero rimasta sorpresa perché mi pareva dovesse essere caso mai il contrario, cioè che quel vegetale che brucia giù per la gola e le budella e che fra l’altro appartiene a una famiglia di erbe


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velenose, le solanacee, dovesse invece irritare l’intestino e quindi provocarlo, il cancro. Esperti e illustri medici comunque asserivano il contrario di quello che pensavo io e allora mi dissi che dovevano aver ragione loro, visto che erano etichettati come illustri. Mangiai le penne all’arrabbiata senza alcun appetito. Sono così fin da bambina, cioè se sono tesa o preoccupata non mangio nulla. Se poi sono depressa mi lascio quasi morire di fame. In realtà la pastasciutta non era molto piccante. Suonai il campanello e con dei cenni chiesi all’infermiera di portarmi dell’altro condimento, del peperoncino. Lei scrollò la testa e se ne andò. Alle quattordici abbassarono le tapparelle per il riposo pomeridiano. Io approfittai per alzarmi e andare senza essere vista al bagno che si trovava in un locale adiacente la camera. Veramente ero sorpresa che nessuno mi sorvegliasse. Avevo pensato che una guardia carceraria rimanesse fuori la stanza perché non scappassi. Non che ne avessi l’intenzione. Ma forse la guardia stazionava più avanti lungo il corridoio, comodamente seduta in poltroncina oltre la porta a vetri. Ad ogni modo io sono una di quelle detenute da cui non ci si aspettano tentativi di fuga. In carcere, già da allora, ero catalogata come remissiva. Il bagno aveva uno specchio sbilenco da cui traspariva della ruggine. Mi vidi strana; chi non può parlare ha il volto diverso dagli altri. Ho sempre pensato che le anomalie della mente si riflettono nel fisico. Ciò che abbiamo nell’anima si specchia nel corpo. In quel momento cominciava ad essermi evidente che non potevo parlare per un qualche difetto interiore. Comunque aprii la bocca per controllare che non ci fossero anche motivi come dire tecnici, fisici, per il mio handicap, tipo pezzi di cibo incastrati in gola. Vidi un’ugola rosea spiccare dietro la lingua bianca e patinosa a causa degli antibiotici. Dopo un lungo controllo durante il quale avevo aperto e chiuso la bocca più volte, fui sicura che niente era conficcato nella mia gola; del resto se così fosse stato non avrei potuto mangiare le penne all’arrabbiata senza provare dolore o fastidio. Oppure, deglutendo, la pastasciutta avrebbe spinto nell’esofago eventuali corpi estranei. Un’ipotesi che considerai fu che mentre cadevo dalla scala un pezzo di vetro della serra mi fosse entrato sparato in gola. Forse il vetro tagliente aveva reciso le corde vocali: zac, e addio voce. Dopo aver riflettuto


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però esclusi questa eventualità, decisamente troppo fantasiosa, anche perché non ricordavo di aver sentito sapore di sangue in bocca. Provai a parlare come fosse una cosa da nulla, normale proprio. Pensai a una frase semplice, con parole facili, tipo le prime che mi avevano insegnato a scuola. Quali erano state le mie prime parole? Se non ricordavo male la maestra aveva cominciato con le lettere dell’alfabeto, anzi veramente no; a dire il vero prima ci aveva fatto fare intere pagine di quelle che allora chiamavamo aste, cioè piccole linee verticali, perché cominciassimo a impratichirci collo sforzo di tenere la penna in mano. So che adesso i programmi didattici non prevedono le aste, nemmeno il primo anno di scuola elementare, neppure all’asilo, ma quando io ero bambina prima di scrivere l’alfabeto bisognava spuntare decine di pennini per imprimere sul quaderno dei corti segnetti che noi bambine paragonavamo a palizzate per formiche. Mi ero distratta, non si trattava di scrivere, bensì di parlare. Cercai di ricordare le prime parole che dissi a scuola, a voce alta perché la maestra sentisse, e in ordine alfabetico. Partii dalla lettera A: Asino, B: Birillo, C: Casa, D: Dado, E: Elefante, F: Fiore, G: Geranio (solo la mia maestra che amava i fiori aveva scelto questa parola per la lettera G; normalmente veniva usata la parola Gesso, più attinente alla scuola) I: Imbuto. Mi fermai a questa lettera, la I. Provai poi a sillabare la prima parola che iniziava con A, cioè Asino, A-si-no, poi quella con la B, Bi-ril-lo. Diedi un colpetto di tosse e poi proseguii nei miei tentativi con Ca-sa e Da-do. Tutto fu inutile. Allora piansi seduta sul bidè finché qualcuno bussò alla porta del bagno. Quella sera stessa, dopo aver trascorso un pomeriggio di ragionamenti con il lenzuolo tirato fin sopra i capelli per evitare i raggi del sole, arrivai ad una tragica conclusione: avevo finto di non poter parlare e siccome su queste cose non si scherza, Dio che i sensi li ha dati, mi aveva punita. Mi dovevo rassegnare, non era poi così terribile; a ben pensarci, se avessi deciso di fingermi cieca e poi lo fossi diventata veramente, sarebbe stato molto peggio. Il giorno successivo venne a vedermi la logopedista, una cicciona con i capelli unti. Mi disse che non poteva insegnare a parlare a chi non era in grado di farlo neanche parzialmente. Poi venne anche uno psichiatra


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il quale sentenziò che, non essendoci cause riscontrabili, doveva trattarsi di una forma, certo non frequente, di isteria. La voce mi sarebbe tornata, forse, quando qualcosa, un evento o una persona, avesse smosso dentro di me la leva che me l’aveva fatta sparire; il pulsante era il medesimo. Le sue ultime parole furono: “Adesso lei è in off”. Venni dimessa e riportata alla Giudecca.

5 marzo La Direzione è stata informata immediatamente dai medici dell’ospedale della mia situazione e nel giro di pochissimo tutti al carcere hanno saputo che ero diventata muta. Non ci sono segreti in carcere. Qui le notizie volano con una velocità incredibile; mi è capitato di constatare che gli altri conoscevano cose che mi riguardavano e che dovevo essere la sola a sapere. Ho capito che lo sapevano dagli sguardi. C’era una grande variabilità di occhiate; quelle compassionevoli, quelle piene di scherno, quelle stupite, e poi altre sfumature di sentimenti umani mescolati. La donna più anziana del carcere, quella che mi aveva più volte tirata per i capelli con gusto, aveva lo sguardo di scherno, se la rideva. Appena rientrata mi era venuto un diavolo di mal di testa e avevo chiesto un’aspirina. Dopo una mezz’ora il cerchio che mi premeva attorno alla testa e che immaginavo come la corona di spine di Cristo era sparito, mi sentivo un’altra. Ero di nuovo a casa. Veramente non sono del tutto rassegnata al fatto di non riuscire a parlare e in questi giorni ho fatto molti tentativi, perlopiù davanti a uno specchio rettangolare, di quelli del tipo che gli uomini usano per farsi la barba. Lo specchio fa parte dell’arredamento scarno della mia cella. Sono ridicola quando gonfio le guance e tengo le labbra a forma di culo di cane. Sembro un pesce rosso che boccheggia a pelo d’acqua. So che queste smorfie sono assurde ma mi consolano perché almeno sto facendo qualcosa. Prima di addormentarmi fisso il soffitto e mi esploro la base del collo alla ricerca di un pulsante che premuto adeguatamente ridia voce alla mia anima.


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24 marzo Sono trascorse alcune settimane e ho cominciato a mettermi il cuore in pace, anche perché ho constatato che essere muta comporta notevoli vantaggi. Primo: la Direzione mi lascia girare nell’orto a mio piacimento e la sera se voglio posso rientrare un po’ dopo le altre. Secondo: sto diventando la confidente di quasi tutte le detenute, le quali, certe che non posso riferire nulla, mi si avvicinano per parlarmi. Ho notato che a volte nascono addirittura delle piccole discussioni per stabilire chi possa starmi accanto durante i lavori all’aria aperta. Il motivo della concessione di maggior libertà da parte della Direzione non l’ho però capito, ma penso che temano che io chieda un risarcimento per i danni subiti. Ma questa è solo una supposizione. Mi sono invece evidentissime le ragioni per cui le mie compagne desiderano chiacchierare. Una di queste è che mi si è formata una sorta di aura luminosa attorno, come quelle dei santi. Me la sento proprio. Ho scritto su un foglietto di poter avere una bandana o almeno un foulard per potermi coprire gli orecchi perché in questa primavera ventosa, lavorando fuori a capo scoperto, mi capita che mi viene il mal di testa. Questo problema di mal di testa è iniziato dopo l’incidente che ho avuto. La Direzione mi ha comperato un foulard molto piccolo, azzurro cielo, con il bordino cucito a mano e le frange dorate. Alle detenute di solito non è concesso tenere fazzoletti. Il motivo è semplice: temono che li si usi per impiccarsi. Per la stessa ragione i lacci delle scarpe devono essere corti. Per questo il mio fazzoletto è così piccolo che riesco a malapena ad annodarlo sulla nuca. Ora lo indosso sempre, anche quando non tira aria, perché trovo che sia bellissimo. Questo foulard mi ha dato l’aria della zingara.


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27 marzo Qui alla Giudecca c’è una suora che si occupa di varie cose. Non lo avrei immaginato prima di entrarci, ma in carcere si celebrano anche battesimi e matrimoni. Per l’assistenza spirituale c’è anche un membro dei Testimoni di Geova che viene due o tre volte la settimana. Lui si definisce Anziano, non perché sia vecchio ma perché è così che chiamano quelli che rivestono un ruolo importante all’interno delle Congregazioni. Sei una specie di Vescovo, gli ha detto un giorno Natasha, una mia compagna di cella, ma lui ha risposto che non è così perché gli Anziani non sono a capo ma a servizio della Congregazione. Se una detenuta volesse confidare le sue pene a qualcuno o semplicemente parlare, la suora e l’Anziano sarebbero disponibili. Dopo l’incidente, però, sono diventata io la confidente di molte, a cominciare dalle donne che condividono la mia cella. Io ascolto, sorrido, scrollo la testa, faccio gesti con le mani, accarezzo loro i capelli e a volte asciugo le lacrime. Credo che la suora sia un po’ invidiosa delle confidenze che ricevo. Dopo che sono diventata muta la Direzione ha ritenuto opportuno spostare in un’altra cella una detenuta perennemente in collera che mi aveva presa di mira, nel senso che sfogava su di me tutta la sua rabbia. Devo dire che la Direzione mette molta attenzione nell’assegnazione delle celle, cercando di capire se c’è compatibilità fra le persone. Di solito chi è dentro per reati gravi è temuto dalle compagne e a volte anche dal personale del carcere, ma non è stato così nel mio caso, sicuramente perché me lo si legge nel volto che sono una debole, e inoltre non sono una tossica. Tutti hanno paura delle tossicodipendenti, sono le più pericolose, capaci di qualunque azione. Di solito arrivano disintossicate e, in teoria, non dovrebbero aver problemi, ma la dipendenza psicologia le attanaglia. La dipendenza psicologica è peggiore di quella fisica. A mio parere è quasi impossibile superarla. La mia compagna Natasha me ne ha parlato a lungo. Al posto di quella sempre arrabbiata è venuta una biondina, neanche trentenne, col culo grosso e un sorriso stupido da cavalla. La mia è una cella da sei persone. Sono fortunata perché altre celle sono da otto o nove. È una stanza per non fumatrici, con due bagni e un angolo cottura. Nel bagno c’è lavandino, bidet, wc e una doccia rifatta da poco. Molte detenute mi invidiano la cella. In effetti non è male.


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Gran parte del giorno siamo tutte libere di girare per gli spazi comuni; c’è una stanza con un calcetto e un tavolo da ping-pong, una stanza con computer, fotocopiatrice e TV a schermo gigante. Poi c’è un laboratorio di ceramica che è stato ristrutturato perché il soffitto era crollato, fortunatamente in un momento in cui dentro non c’era nessuno. Una detenuta mi ha spiegato che qui dove adesso c’è il carcere una volta c’era un convento, molto tempo fa però. Allora ho capito il perché dei giardini interni e del chiostro con il porticato. All’interno del carcere c’è anche una sartoria dove vengono eseguite riparazioni, adattamenti di abiti e dove, su ordinazione, vengono creati modelli originali. Molte detenute vi lavorano. Anch’io per alcuni mesi ho fatto una specie di apprendistato in sartoria ma poi ho chiesto di poter lavorare nell’orto. Mi piace l’orto. Lavorare la terra mantiene l’uomo collegato alla sua natura ultima, qualunque essa sia. È un’attività concreta, dove devi attendere per vedere i risultati del tuo lavoro, e quindi impari la pazienza. Le sorveglianti hanno visto che ero brava, così nel giro di poco tempo sono stata nominata responsabile di una parte dell’orto. Del resto io quei lavori li facevo già, ho dovuto solo riprenderli dal pozzo della mia memoria. Molte volte da bambina ho aiutato mia madre nella semina della cicoria, oppure toglievo le erbacce. Qualche volta i miei genitori mi affidavano il compito di zappare il mais o le patate. Ecco, questo è il mio curriculum.

29 marzo In biblioteca, tempo fa, ho preso un libro sulla coltivazione degli ortaggi che mi è stato molto utile. L’orto è molto grande e a lavorarci siamo in molte. Mi pare siano più di seimila metri quadrati, ma quello che trovo più straordinario è come l’hanno chiamato: Orto delle Meraviglie. Potevano scegliere un nome migliore? Non credo. Gli ortaggi, in bella mostra su di un banchetto, vengono venduti davanti al carcere, una volta alla settimana. All’interno del carcere c’è anche un


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laboratorio di cosmetica gestito da una cooperativa sociale. Alcune detenute lavorano fuori dal carcere e rientrano solo la sera per dormire. Io sono veramente contenta del mio lavoro all’orto e non mi sento per nulla interessata alla vita che scorre negli altri luoghi del mondo. Quello che succede fuori mi mette paura. Qui, fra finocchi, (crescono molto bene a motivo del terreno sabbioso) carote, pomodori e lattughe varie, mi sento tranquilla. Ogni tanto, quando è stagione, mangio un pomodoro, così, appena raccolto. Le prime volte i pomodori sconditi mi sembravano insipidi ma poi ci ho fatto l’abitudine e ora li trovo deliziosi. Ho appreso che i pomodori, da un punto di vista botanico sono frutti, anzi, ad essere precisi, sono bacche perché hanno i semi immersi nella polpa. Frutti, botanicamente parlando, sono anche melanzane e peperoni. In primavera coltiviamo anche le fragole e visto che ci è consentito ci prepariamo delle macedonie squisite che poi consumiamo in cella. Paragonata alla vita che facevo prima questa è un vero paradiso.

1 aprile La psichiatra del carcere è ripassata a vedermi. È una tipa con le tette enormi. Oggi si era raccolta i capelli in una coda di cavallo. Mi ha chiesto come mi sentissi e se avessi cominciato a parlare. Io le ho fatto un sorriso sincero che voleva dire che andava abbastanza bene. Portavo come di consueto il foulard azzurro avvolto attorno alla testa. Lei mi ha detto che mi stava bene, ma io ho provato dispiacere perché capivo che lo trovava ridicolo, quel fazzoletto color cielo. È stata lei a darmi l’agenda su cui sto scrivendo. È successo dopo l’incidente che mi ha zittita. Si tratta di un’agenda di una compagnia di assicurazioni. Deve essere una di quelle che danno in omaggio ai clienti. È vecchia di due anni ma siccome nessuno ci ha mai scritto sopra si può dire che è nuova. In quell’occasione la psichiatra mi ha suggerito di tenere un diario. Scrivici le tue impressioni, mi ha detto. Così ho iniziato a tenere questo diario. Di solito scrivo la sera prima di dormire ma a volte anche all’alba, prima che ci alziamo. Non accendo la luce. Aspetto che la luminosità del giorno filtri dalle finestre. In una notte insonne,


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successiva a quella visita, ho preso la decisione di utilizzare l’agenda anche per parlare delle mie compagne.

3 aprile NATASHA Natasha viene dall’est Europa e come molte altre donne è arrivata in Italia clandestinamente e con mezzi di fortuna. Un tizio che lei aveva visto sì e no due volte ma che era cugino del padre l’aveva aiutata, nel senso che l’aveva nascosta fra casse di merci su di un camion. La sua famiglia aveva dovuto pagare per il viaggio una somma che a me quando me l’ha raccontato è sembrata ridicola, ma suppongo che nel paese da dove proviene non lo fosse. A casa, oltre ai genitori, ha lasciato un figlio di dieci anni e un marito molto più vecchio di lei, alcolizzato. «Sai, Rosa» mi ha detto un giorno mentre toglievamo le erbacce dall’orto «di solito mandavo un po’ di denaro a casa, ogni due o tre mesi, ma adesso che sono qui non so come faranno.» Poi si era sbattuta la polvere dai pantaloni con entrambe le mani in un gesto che le era consueto e ho visto che aveva gli occhi lucidi come smalto. In Italia aveva avuto un altro figlio da un uomo sposato di cui si era fidata, nel senso che, dietro sua richiesta, non aveva usato il profilattico. Ti aiuto a procurarti il permesso di soggiorno, niente più clandestinità, le aveva promesso, ma poi appena il ventre le si era gonfiato l’aveva lasciata al suo destino. All’inizio l’accento di Natasha mi risultava sgradevole, forse perché non mi sono mai stati simpatici quelli dell’est Europa. Ho sempre pensato che quando non sono zingari sono criminali. Per questo la sua pronuncia mi irritava. Natasha non riesce a pronunciare le doppie e i suoni che escono dalla sua gola sono sempre scuri, cupi, anche quando non è né nervosa né depressa. Il cugino del padre l’aveva prostituita da subito. Pochi giorni dopo essere arrivata in Italia era già sulla strada accanto alla stazione degli


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autobus. Dopo che era rimasta incinta si era rifiutata di uscire la sera e il parente l’aveva picchiata. È brutto essere penetrata da un estraneo quando porti un figlio in pancia, gli aveva detto, ma lui le aveva tirato un manrovescio che l’aveva fatta cadere. Non capisci nulla, a molti uomini le donne gravide piacciono perché gli ricordano la mamma, aveva replicato. Solo all’ottavo mese di gravidanza l’aveva lasciata tranquilla. Natasha però era senza un centesimo perché il parente si era sempre tenuto tutti i soldi, e allora per guadagnare qualcosa era diventata corriere della droga, ma l’avevano beccata presto. Natasha ha cominciato a chiacchierare con me un giorno mentre stavamo stendendo il bucato in cortile. Era una giornata fresca e dalla laguna arrivava odore di alghe. Ricordo che mi chiese se poteva parlarmi. Io annuii con la testa mentre fissavo con le mollette gli asciugamani bagnati. Poi ci siamo sedute su di una panchina di pietra coperta di licheni. È stato allora che mi ha suggerito di comunicare scrivendo. S’era portata sotto la camicia un quadernetto a righe, di quelli che si usano alle scuole elementari, e una biro rossa. Quando vuoi dire qualcosa scrivi, mi disse. In quel periodo era la seconda volta che qualcuno mi regalava qualcosa per scrivere. Così cominciarono le nostre conversazioni. «Da quanto sei qui?» mi chiese con tono interessato. “Due anni.” «È tantissimo! Non hai nostalgia di casa?» “Non ho casa, non ho nessuno. Ma non eri tu a voler parlare con me?” «Sì, scusami, è che non mi sento bene.» “Vai in infermeria.” «Non so cosa dire. Non mi sento bene, ma non so dire cosa ho, in realtà non sento dolore da nessuna parte.» “Cosa volevi dirmi?” «Non importa, magari te ne parlo domani, ciao.» Natasha si era allontanata velocemente. Io non avevo nemmeno fatto a tempo a scriverle la risposta. Quando finii di scrivere lei era già davanti all’ingresso dei locali comuni, e una sorvegliante ci guardava. Era quella puttana della Marialuigia. Sempre gli occhi addosso, sempre battute sarcastiche e stupidi sorrisetti. Le altre sorveglianti sono diverse, qualcuna la definirei affettuosa, ma lei è una vera stronza. È venuta a passi svelti verso di me.


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«Cosa stai scrivendo? Non è l’agenda che ti ha dato la dottoressa.» Io ho scrollato la testa. «Fammi vedere, dai.» Mi ha tolto di mano il quaderno. «Chi è che dovrebbe andare in infermeria?» Mi sono ripresa il quaderno. “Natasha non si sente bene.” «Perché, credi che io stia bene per caso? Nessuno sta bene qui.» Poi se ne è tornata al suo posto, a osservarci. Quella notte in cella ho riflettuto sulle sue parole e a malincuore ho dovuto darle ragione. Qui siamo tutte in bilico fra salute e malattia. Poi ho provato alcune volte a parlare; lo faccio tutte le notti.

4 aprile NATASHA Stamattina Natasha ha fatto finta di non vedermi e non ha nemmeno accennato a un saluto. Ho pensato che si vergognasse per avermi detto che aveva bisogno di parlare, così le ho scritto un messaggio sul quaderno: “Vieni oggi alla panchina.” Lei ha annuito infilandosi le mani in tasca. Alle tre del pomeriggio ci siamo sedute vicine. La panchina era al sole e dopo un poco avevamo caldo, ma almeno eravamo comode. Natasha si fissava le mani. «Non mi piace il corso di taglio che mi fanno fare.» “Tutto qua il problema? Fregatene, tanto fra poco il corso termina.” «Ho pensato di approfittare del corso per farti una piccola borsa di tela, così ci puoi mettere il quaderno per le conversazioni. Ho un pezzo di stoffa inutilizzato, però è color vino.» “Sarebbe perfetto.” «Allora te la vado a fare subito. Ciao, ci vediamo dopo.»


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Si è allontanata e io ho provato un sentimento di delusione perché avrei desiderato che mi parlasse ancora. Stasera Natasha mi ha fatto il suo dono. In effetti è veramente utile avere un posto dove tenere penna e quaderno; le tasche dei pantaloni sono troppo piccole per infilare questi oggetti e sotto agli abiti è scomodo. Alla busta di tela Natasha ha applicato - dopo aver avuto l’autorizzazione - due spaghi con i quali posso fissarmela attorno alla vita. Il risultato del suo lavoro lascia molto a desiderare per quanto riguarda l’estetica. È uscita una schifezza, una via di mezzo fra un marsupio e un sacco da mendicante. Per quello che dovrà servire però va benissimo, e ho apprezzato tanto la sua gentilezza. Chiamerò la borsetta di tela: sac, alla francese.

6 aprile Riflettevo stanotte sul fatto che riesco a capire gli altri meglio di quanto non riesca a capire me stessa. Forse dipende dal fatto che degli altri vedo anche tutto l’esterno, il corpo intendo, volto compreso. Nessuno vede il proprio volto, escluso quando ci si specchia, per esempio per pettinarsi. Normalmente ognuno parla senza vedere la propria bocca che si muove. Questa impossibilità a vederci ci toglie gran parte della possibilità di comprenderci. Quando guardiamo gli altri, meglio se li osserviamo con attenzione, vediamo trasparire molte cose, soprattutto le emozioni, ma anche lo stato di salute, insomma cose che non possiamo notare in noi stessi. Prima di diventare muta non avevo mai pensato a questo. Sui volti delle mie compagne vedo tutto: irritazione, noia, depressione, ma anche nevralgie e cicli mestruali. L’unica cosa che non sono riuscita a leggere ultimamente è il desiderio di Natasha. So che c’è qualcosa che vorrebbe ma non ho capito cosa e al momento lei non me ne parla. Ho pensato al volto di mia madre, ma avevo difficoltà a ricostruirlo mentalmente. Ho cercato fra le mie cose ma non ho trovato nessuna foto di lei. Ho solo una foto di mia sorella maggiore, deceduta quando io avevo otto anni e lei undici. Mia madre aveva due rughe profonde, verticali, agli angoli della bocca. Non riesco a interpretarle.


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Chissà se gli altri possono leggermi in faccia i desideri.

9 aprile NATASHA Oggi Natasha mi ha parlato del figlio avuto in Italia. “Dove si trova?” le ho scritto. «In una casa famiglia. Non ti ho raccontato che è la seconda volta che vengo in prigione. La prima volta il bambino era piccolo ed è potuto stare con me in cella ma ora, passati i tre anni di età, non può rimanere. Non lo vedo da quattro mesi.» Natasha teneva la bocca serrata e io avvertivo il suo dolore. Natasha un mese fa ha chiesto alla Direzione di poter uscire con il banchetto degli ortaggi e le è stato concesso, così domani, sabato, farà la sua esperienza di venditrice di verdura biologica. È contenta. Mi ha chiesto: «Credi che dovrei portarmi un golfino?» Io le ho scritto di no, non dovrebbe far freddo. Stamattina si è alzata prima del solito, cosa inutile perché le celle non vengono mai aperte prima delle sette e trenta. Alla fine il golfino l’ha preso e se lo è annodato in vita. Io ho passato la mattinata all’orto pensando a lei, fuori le mura. Alle dodici e un quarto era già rientrata. Sul suo volto è passato qualcosa, ma troppo in fretta perché io potessi comprendere di cosa si trattasse. Non era una nuvola, niente di triste intendo, ma nemmeno il calore del sole. Non vedo l’ora che venga il prossimo sabato, ha detto. Non pensarci, altrimenti il tempo sembrerà non passare mai, le ho scritto. Ho pensato di nuovo al volto di mia madre.


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16 aprile NATASHA È di nuovo sabato. Natasha era pronta, vestita e pettinata, in piedi davanti alle sbarre. Clack, la porta si è aperta e lei è uscita ancheggiando. Ha la tendenza a ingrassare e penso che glielo devo scrivere. Anche il volto e le braccia sono pieni ma il sedere è la parte del corpo dove più si nota l’accumulo di grasso. È facile ingrassare qui. Non c’è molta attività fisica e i pasti sono regolari. Comunque stamattina era bella. Da questa seconda uscita è tornata allegra e con molta voglia di raccontare. «Abbiamo venduto tutto quello che avevamo» mi ha annunciato come se si fosse trattato di una prodezza «ho sentito che la prossima settimana dobbiamo portare più roba, soprattutto lattuga. Una signora si è complimentata con me. Mi ha detto che la nostra lattuga è più bella di quella che vendono al negozio. Ha voluto anche un mazzetto di prezzemolo. Gliel’ho messo nel sacchettino senza farglielo pagare, però l’agente se n’è accorta e mi ha rimproverata. Tante storie per un po’ di prezzemolo!» Io ho tolto il quaderno dalla sac. “Ha ragione, coltivarlo costa fatica.” Natasha ha fatto spallucce. Poi mi ha parlato nuovamente del figlio più piccolo. Come tutte le straniere teme l’affidamento del bambino come la peste perché non comprende la differenza fra affidamento e adozione. Teme che il figlio le sia tolto per sempre. Il bambino lo sente ogni tanto al telefono. La chiamano in direzione e una sorvegliante le passa la cornetta. Mi ha raccontato che di solito è lei sola a parlare, il figlio rimane zitto per la maggior parte del tempo e questo la sconforta al punto che preferirebbe non sentirlo per niente. Pare che i suoi genitori in Romania si siano resi disponibili a tenere il bambino; può darsi quindi che verrà affidato a loro. Ho messo a dimora i cavoli per fine estate. Sono del tipo a novanta giorni, significa che, in condizioni di tempo ottimali, dopo tre mesi si possono consumare.


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19 aprile MIRIAM Miriam è dentro per furto e resistenza a pubblico ufficiale. In pratica quando è stata scoperta a rubare in un negozio ha rotto il setto nasale a un vigile urbano che tentava di fermarla tenendola per un braccio. Lo ha steso con un colpo inferto con il taglio della mano. Una mossa alla Bruce Lee, insomma. Ma non mi risulta che abbia mai praticato le arti marziali. Quel colpo deve esserle venuto così, per caso. Magari non intendeva neanche fargli così male, al vigile. Dorme nel letto accanto al mio e arrossisce ogni volta che la guardo. Fisicamente è l’opposto di Natasha. Ha i capelli scuri, credo tinti anche se, nonostante la promiscuità, non l’ho mai vista armeggiare con i flaconi delle tinture. Il suo corpo è un po’ come un albero che si sta seccando. I rami, cioè le sue braccia, sono lunghi e non sembrano inserirsi sul tronco alla medesima altezza. Il braccio destro si innesta nel torace un po’ più in basso rispetto al sinistro, dandole quando cammina una andatura sbilenca da scimmia. È una cosa stranissima. Una sera in televisione ho visto un documentario sui babbuini. Un leone aveva sbranato un cucciolo e la madre, una femmina di babbuino non più giovane, girava in tondo, disperata. Come sempre mi accade quella sofferenza animale mi aveva intristita, ma non avevo potuto fare a meno di ridere perché l’andatura della scimmia mi aveva ricordato Miriam. È venuta vicino al mio letto una notte, a luci spente. Io stavo facendo i consueti sforzi per sillabare. Veramente è diventato una specie di rito, come dire le preghiere. Non credo che tornerò a parlare, ma mi pare doveroso tentarci almeno pochi minuti prima di dormire. Miriam si è seduta sul letto. «Sei sveglia? Posso parlarti?» mi ha chiesto in un sussurro. Siccome non potevo scrivere le ho toccato il braccio destro, da primate. «Il direttore mi ha chiesto di fare sesso in cambio di agevolazioni.» In quel momento pensai che dovevo essermi sbagliata; non poteva essere Miriam la donna che mi stava parlando. Con l’oscurità dovevo essermi confusa. Doveva trattarsi dell’altra, quella più carina del quinto letto. Il direttore non poteva voler fare sesso con Miriam. Sapevamo


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tutte che era un arrapato, ma Miriam era la donna meno attraente che conoscessi. Quando la persona china su di me riprese a parlare i miei dubbi però si dissolsero e lentamente svanì anche lo stupore. Conoscevo quella voce: si trattava proprio di Miriam. Ho intravisto i suoi polsi scheletrici mentre si abbassava ancora verso di me, poi mi ha detto: «Oggi mi ha chiesto se voglio il beneficio del lavoro esterno, in cambio dovrei essere molto gentile nei suoi confronti.» Cominciai a sentirmi irritata. Non capivo perché stesse dicendo quelle cose a me. Da quando è nella mia cella, che lei sicuramente considera sua ma che invece è mia perché ci sto da più tempo, mi ha rivolto la parola al massimo tre volte, con l’atteggiamento di chi a parlarti ti fa un favore. Le confidenze che mi stava facendo mi mettevano a disagio, sia perché provenivano da lei, cioè da una persona con cui non comunicavo, sia per la natura di quanto andava dicendo. Miriam ha proseguito: «Prima che uscissi dall’ufficio mi ha strizzato una tetta.» Poi è rimasta qualche minuto in silenzio. Io le ho toccato di nuovo il braccio con l’intenzione di comunicarle qualcosa del tipo “ti capisco ma ora va a dormire”. Miriam deve aver interpretato il gesto in modo diverso; la mia stretta al braccio dovette sembrarle un invito a proseguire nel racconto. «Mi aspetta domani pomeriggio. Mi ha detto di farmi un bidet caldo e di lavarmi i denti.» Ho avvertito una leggera tachicardia. Se avessi avuto il quaderno avrei scritto “porco”. «Non ho ancora deciso cosa fare. Lui non mi piace ma forse potrebbe non essere così schifoso e ad essere gentile otterrei qualche vantaggio, così mi ha promesso. Mi piacerebbe sapere cosa faresti tu. Ti ho osservata, sei una che ha le sue idee.» Il mio disagio aumentava. Nel letto accanto Natasha si è mossa. Quella del quarto letto ha fatto un peto rumoroso che ha avuto l’effetto di scuotermi da una sorta di blocco emozionale. Allora ho dato una spinta a Miriam. Questa volta lei ha compreso perché si è alzata ed è tornata al suo letto. Dopo non sono riuscita a prendere sonno. La suora era già passata altrimenti mi sarei fatta dare un tranquillante. Il fatto è che non mi piace sentir parlare di sesso. Ho un pessimo rapporto con questa umana


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attività. Trovo sgradevole e ridicola una coppia che copula. Al solo pensiero dei movimenti pelvici dell’uomo durante l’atto sessuale mi viene la nausea e lo stomaco mi si contrae. La penetrazione per me è violenza anche quando la donna è d’accordo. La donna semplicemente non sa di venir violentata. All’uomo il sesso serve a svuotare e rilassare i testicoli. Dal canto suo la donna col sesso cerca di legare a sé l’uomo. Entrambi sono spinti da un bisogno animalesco: il maschio preda seguendo l’istinto della riproduzione, e la femmina accetta la violenza purché il compagno la protegga poi dagli altri. In fondo è meglio che a violentarla sia uno solo. Comincio a sentire caos nella testa. Per calmarmi provo a recitare una preghiera che mi è stata insegnata da bambina. Lo faccio meccanicamente, come se si trattasse di un mantra. È strano, ma non ho mai sentito il bisogno di pregare per riavere la voce, eppure penso che Dio abbia come dire lo zampino in tutte le cose che accadono. Albeggia.

20 aprile La mia psichiatra dice che devo scrivere per mettere ordine nella testa, così nei momenti di confusione apro questa agenda che mi ha donato e butto giù delle considerazioni, degli appunti. All’inizio credevo di dover poi mostrare tutto alla dottoressa, tanto che ero piuttosto preoccupata che vedesse quello che avevo scritto il primo di marzo, in merito alla morte di mio padre. Avevo pensato di strappare quelle pagine e di nasconderle o distruggerle, però continuavo a dimenticarmi di farlo. Comunque adesso è passato un po’ di tempo da quell’incontrovisita e penso che l’agenda non me la chiederà più. Evidentemente la terapia è tutta nello scrivere. Ho diviso l’agenda a metà. Uso i fogli dei giorni da gennaio a giugno per raccontare le mie vicende personali, e quelli da luglio a dicembre per scrivere delle compagne. Al momento nel primo semestre c’è ben


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poco. Poi, naturalmente scrivo sul quaderno per i dialoghi che mi ha dato Natasha e che porto con me tutto il giorno dentro la sac. Le donne sembrano invidiose del mio fazzoletto e mi fanno delle battutine. Mentre trapiantavo le melanzane dal semenzaio ai vasetti, una che conosco solo di vista mi ha detto: «Ma che cazzo ci fai col fazzoletto in testa? Sembri una contadina della pianura padana.» Io l’ho guardata ma non ho avuto voglia di prendere penna e quaderno. Se l’avessi fatto avrei scritto con orgoglio: “Ma io sono una contadina! Tu invece sei solo una carcerata.”

21 aprile MIRIAM Miriam è tornata da me. Stanotte ho visto un’ombra avvicinarsi e poi ho sentito un profumo di patchouli. Non me ne intendo di profumi ma l’ho riconosciuto perché era molto di moda anni fa, quando ero fuori. S’è stesa di fianco sul mio letto e ha allungato il braccio da scimpanzé fino a toccarmi una spalla, in una sorta di abbraccio morbido. «Devo parlarti, sono in ansia» mi ha soffiato in un orecchio. Io avrei voluto che andasse via. Presentivo che volesse raccontarmi dell’incontro col Direttore. «Ho fatto come mi ha chiesto, intendo il bidet e i denti lavati. Non lo sapevo ma dietro all’ufficio c’è una minuscola stanza con un materasso sul pavimento. Mi ha chiesto di spogliarmi.» Sudavo, così le ho messo una mano sulla bocca per farla tacere ma lei me l’ha baciata e ha continuato a parlare. Non potevo gridare e non riuscivo ad allontanarla perché mi stringeva. Non volevo sentire. «Mi ha strizzato le tette come l’altra volta, poi è sceso con le mani e con due dita mi ha penetrato. Ha voluto che gli sbottonassi i pantaloni, mi ha detto di voltarmi e per fortuna ha fatto in fretta. Prima di girarmi ho fatto in tempo a vedere che il suo cazzo è storto.» Il cazzo storto? Che cosa vuole dire? In che senso storto? Mi sono concentrata su quel particolare del racconto per non sentire gli altri dettagli dell’amplesso. Miriam parlava ma io non l’ascoltavo più. Ero


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riuscita a visualizzare un cazzo storto e rimanevo concentrata su quell’immagine che per me non era assolutamente erotica. Concentrarmi su di un carciofo sarebbe stata la stessa cosa. Miriam mi accarezzava i capelli, forse piangeva, mi sussurrava altre cose che non sentivo. Poi ha allentato la stretta e, finalmente, mi ha lasciata sola. Alla suora avevo chiesto una compressa di ansiolitico. L’ho buttata giù senz’acqua. Credo sia passata un’ora. La pastiglia tarda a fare il suo effetto rilassante e siccome non riesco a dormire penso a cosa ci trovi il Direttore in Miriam. Ho una intuizione. Credo che gli piaccia perché la considera una creatura inferiore, così non prova vergogna mentre ne approfitta. Con una donna bella o intelligente non sarebbe a suo agio. Miriam si sottomette, è una preda facile insomma. Nonostante questo il Direttore ha voluto che Miriam non lo vedesse in faccia mentre godeva. Forse gli è rimasto un briciolo di pudore. Io mi vergognerei molto ad abusare di una disgraziata. Devo assolutamente dormire.

25 aprile NATASHA Credo che Natasha si droghi. È troppo allegra, addirittura fischietta. Oggi sulla panchina le ho chiesto, tramite il quaderno dei dialoghi, se ha mai usato droghe finché faceva da corriere. È arrossita violentemente. Ha risposto che sì, diventava quasi inevitabile farlo, gliela offrivano per motivarla. Non ha specificato cosa prendesse ma ho pensato alla cocaina perché ha detto che si sentiva molto attiva, anzi precisamente ha detto che ogni volta che si drogava diventava più intelligente. Le idee le prendevano forma con velocità straordinaria ed era più immediata nelle risposte e nei giudizi. È stata una domenica senza sole e sulla panchina si stava bene. C’era un volto nuovo in cortile. Natasha mi ha informata che si tratta di una marocchina che ha rubato, non sapeva cosa.


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A un certo punto qualcuno aveva gridato “Occhio, occhio”. Era arrivata una palla verde a strisce gialle. Natasha era scattata in piedi e l’aveva bloccata con un piede prima che cadesse nella vasca dei pesci rossi. Poi con le mani l’ha buttata verso due nere che facevano un gioco che non conosco. Per afferrare la palla Natasha si era allungata così ho visto, fra la maglietta e i pantaloni, un segno scuro sulla pelle. Le ho scritto: “Ti sei fatta male alla schiena? Hai un segno.” Mi ha risposto che è stata una cinghiata del cugino del padre, purtroppo era rimasta la cicatrice. Improvvisamente era uscito il sole e l’aria era diventa calda. Avevo voglia di bere qualcosa. L’ho scritto sul quaderno. Natasha si è alzata e ha preso una bottiglietta di acqua fredda. Ne ho bevuta solo metà e poi gliel’ho passata. Allora, dopo che il liquido gelato ci era sceso lungo lo stomaco, lei ha cominciato a parlare. «Quando vado a vendere la verdura viene un giovane con un tatuaggio sulla mano, fra l’indice e il pollice. Ho capito che è stato anche lui in carcere proprio dal tatuaggio. Sono cinque puntini neri, è tipico.» Io l’ho interrotta: “Cinque puntini? Non capisco.” Lei mi ha guardata ridendo. «Come? Sei in carcere da tanto e non sai la storia del tatuaggio! Ci sono quattro punti che delimitano un quadrato e un quinto che sta nel mezzo. I quattro punti esterni rappresentano la cella e quello nel centro è il carcerato, in pratica sei tu.» Io mi sono stretta nelle spalle pensando che non era proprio un’idea originale, lei l’ha capito e mi ha detto: «È un linguaggio simbolico di merda.» Ho notato che aveva pronunciato perfettamente l’ultima parola, quasi senza accento straniero. Ma probabilmente sono io che mi sto abituando e non noto più il timbro che gira sempre attorno alla lettera E. Inoltre Natasha dice spesso merda, di conseguenza si è impratichita con la pronuncia. Poi ha detto: «Sabato scorso mentre gli davo il sacchetto con la verdura mi ha messo un bigliettino in mano dove stava scritto che se volevo qualcosa di forte, di antidepressivo, me l’avrebbe portato. Ieri mi ha lasciato cadere in mano una capsula, di quelle da antibiotico, solo che dentro al posto della medicina c’era qualcos’altro.» “L’operatrice non si è accorta di nulla?”


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«No, era impegnata a parlare con una turista, si complimentava per il suo cappellino di paglia, che a me invece pareva ridicolo perché la faceva sembrare un uccello.» Natasha non era riuscita a pronunciare le doppie e uccello era diventato “ucelo”. A quel punto mi sono alzata per andarmene. Lei mi ha seguito. Quando siamo state lontane, verso il muro di cinta, mi ha detto che la polvere le fa bene e quasi non pensa più ai figli. Mi chiedo ora quale sia il motivo per cui uno sconosciuto le ha dato quella roba. Forse sperava di farsi una cliente? Una detenuta che lavora qualche soldo può averlo. Ma forse si trattava semplicemente di un gesto di generosità da parte di un ex detenuto, ammesso che la simbologia dei puntini tatuati sia vera. Mi sento come svuotata. Non mi piacciono le domeniche così come non mi piacciono le feste varie, tipo Natale. Preferisco i giorni normali dove ho un compito ben preciso da svolgere. Fortunatamente, occupandomi dell’orto posso far qualcosa anche la domenica, per esempio annaffiare. Natasha mi ha lasciata sola quando ha visto che mi dirigevo verso l’orto. Sono entrata nella serra delle erbe odorose e ho preso l’innaffiatoio. Prima di versare l’acqua ho controllato il terreno con un dito per sentire se la terra fosse asciutta. Non bisogna esagerare con l’acqua. Troppo acqua fa marcire tutto e proliferare le muffe. Mi sono stesa per terra fra i cassoni che usiamo come semenzai. In serra ho visto il vetro rotto dove mi sono tagliata. Nessuno ha pensato di sostituirlo. Mi sono soffiata sulla mano dove mi è rimasta una sottile cicatrice. Dio mio, come è stata dolorosa questa domenica.

26 aprile MIRIAM Stanotte qualcuno mi ha afferrata per un braccio. Istintivamente mi sono divincolata ma Miriam mi ha sussurrato all’orecchio: «Sono io, non aver paura. Mi è successa una cosa tremenda.» Speravo ardentemente di sognare ma ero già completamente sveglia.


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«Ti prego, fammi stare qui. Mi sento meglio vicino a te.» Qualcosa mi si è sciolto dentro. Quel “mi sento meglio vicino a te” mi ricordava qualcosa, una frase che qualcuno, ma non ricordo chi, mi diceva molto tempo fa. Miriam mi accarezzava il volto parlando piano e sentivo nascere dentro di me un sentimento di compassione. Lentamente ho spostato un braccio e gliel’ho passato attorno alle spalle e lei allora si è rannicchiata contro il mio petto. Aveva un odore di pollo nei capelli perché oggi ha lavorato in cucina. Succede anche a me; l’odore del cibo mi si fissa addosso ogni volta che faccio il servizio di cucina. Non era sgradevole, però. Mi ha abbracciata ed è rimasta in silenzio. Siccome non l’allontanavo in fondo è come se l’avessi abbracciata anch’io. «Mi ha picchiata con la cinghia dei pantaloni.» Mi sono irrigidita per la paura. Non volevo che cominciasse a raccontare. Le ho posto un dito sulle labbra per zittirla. Lei lo ha succhiato per qualche secondo. «È così che ho dovuto fare a lui… alla fine ha detto che non ero stata abbastanza brava e meritavo una punizione, così ho dovuto mettermi a carponi mentre si toglieva la cinghia. Ha smesso solo quando non riuscivo più a soffocare le grida. Forse temeva che qualcuno sentisse. Per il dolore ho orinato sul materasso. Mentre mi vestivo se ne è accorto e ha detto che sono una lurida scrofa e che le agevolazioni me le potevo sognare.» Miriam ha pianto, non so se per le umiliazioni subite o per i benefici che non avrà. Quella creatura rannicchiata sul mio petto mi ricordava un gatto che avevo da bambina. Un vicino si era lamentato perché l’animale gli aveva rovesciato la gabbia col canarino. Così mio zio aveva attirato il micio con una ciotola di latte appena munto e gli aveva sparato mentre leccava il liquido tiepido. Il gatto era riuscito a evitare in parte i pallettoni schizzando veloce oltre l’aia. Due giorni dopo avevo sentito dei miagolii e lo avevo trovato nascosto dietro a un sacco di segatura. Quando lo chiamai mise fuori il muso dal suo nascondiglio. I suoi occhi erano pieni di paura e si leccava una gamba. Vidi con sgomento che la fucilata gli aveva tranciato una zampa e soffriva in modo orribile. Non ho mai scordato i suoi lamenti. Il giorno dopo lo trovai sotto la falciatrice, irrigidito dalla morte. Era da molto che non pensavo all’episodio del gatto.


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Poi Miriam si è calmata. L’ho spinta perché se ne andasse, ma dolcemente. Ha avuto un ultimo sussulto nelle spalle e io mi sono ritrovata sola con l’odore di pollo sul cuscino.

27 aprile SEBASTIANA Di fianco all’altare, nella chiesa dove andavo da ragazza, c’era un dipinto piuttosto grande, credo olio su tela. Raffigurava un giovane seminudo con il corpo trafitto da frecce. Sotto, una targhetta d’ottone recava il titolo dell’opera: “Il martirio di San Sebastiano”. Ogni volta che incontro Sebastiana mi torna in mente quel dipinto. Mi pare strano quel nome al femminile: Sebastiana. È l’unica donna che conosco a portarlo. Di solito la incontro nel refettorio o in cortile. Non è giovane, direi che deve avere almeno quarantacinque anni. Non conosco il motivo per cui è qui e non mi interessa saperlo. È gentile perché sorride spesso e a tutti. Ha i capelli grigi e siccome li tiene lunghi mi ricorda una strega dei cartoni animati. Di solito è ben pettinata ma alcune volte l’ho vista uscire dalla sartoria con i capelli arruffati come se avesse litigato. È stato grazie ai pesci rossi della vasca che ci siamo conosciute meglio. Li guardavo boccheggiare a pelo d’acqua un pomeriggio, durante il riposo pomeridiano che mi concedo prima di riprendere i lavori dell’orto. Il movimento delle loro bocche era uguale al mio quando cerco di parlare. Io ai pesci di solito gli butto delle briciole che tengo in tasca e loro gli si gettano sopra con ingordigia. Rifletto sul fatto che a noi umani il galateo vieterebbe simili dimostrazioni di appetito. Mia madre mi ordinava di rifiutare qualunque cosa mi venisse offerta da parenti o vicini di casa. Solamente nel caso qualcuno avesse insistito avrei potuto accettare e, comunque, avrei dovuto fingere indifferenza. Non far capire agli altri che hai fame altrimenti penseranno che a casa nostra non si mangia a sufficienza, mi diceva. Ricordo ancora oggi una fetta di


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torta al cioccolato che non assaggiai. Doveva essere buonissima, ma la mia compagna di scuola purtroppo non insistette e io rimasi a deglutire la saliva, senza darlo a vedere, mentre lei mangiava la sua porzione. Credo che certe regole di bon ton andrebbero cambiate. Non avevo sentito Sebastiana sopraggiungere alle mie spalle. Una fetta di cracker è volata in aria ed è atterrata sulla superficie dell’acqua. Il più grosso dei pesci, uno a macchie chiare, ha afferrato con la bocca il pezzo di cracker tentando di ingoiarlo. Facevano tenerezza i suoi sforzi per sminuzzare quel pane salato. Sebastiana ha preso dal pacchettino di cellophane un’altra fetta, ma questa volta prima di gettarla ai pesci l’ha sbriciolata con le dita. Quando si è chinata i suoi capelli lunghi da maga hanno toccato il pelo dell’acqua. Che brutta che sono, ha detto specchiandosi. Io ho sorriso scrollando la testa e lei si è allontanata. Qui succede sempre così. Nessuna si sofferma più di qualche minuto per parlare. È tutto un muoversi a scatti, qui. Le carcerate gironzolano, dicono una o due frasi, e poi si allontanano per i fatti loro. Non che mi interessi molto la conversazione, anzi visto che non posso rispondere non si può neanche parlare di conversazione, ma mi piacerebbe che i discorsi non fossero lasciati a metà. Talvolta mi avvicinano per svuotarmi addosso le loro ansie e appena terminato se ne vanno, riprendendo i loro percorsi. Questa storia di essere diventata la confidente di molte comincia a non piacermi. I problemi degli altri a volte mi appesantiscono. È come se andassero a moltiplicare i miei. Sarebbe stato meglio se fossi diventata sorda anziché muta.

30 aprile Oggi in cortile mi sono accertata che non ci fosse nessuno nelle vicinanze prima di tentare nuovamente di parlare, ma dalla mia gola usciva solo aria. L’unico risultato è stato che dopo una decina di tentativi mi è salito un rutto col sapore della peperonata che avevo mangiato a pranzo. A quel punto mi sono stesa su di una panchina e ho dormito. Mi ha svegliata una foglia che mi era caduta in faccia. Era salito il vento. Il foulard si era sciolto e volava per aria assieme a petali di


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margherite. Pochi passi più in là Sebastiana l’ha afferrato al volo e poi me lo ha messo in mano. “Il tuo meraviglioso fazzoletto azzurro” ha detto. Il tono non era ironico e l’espressione del volto era seria. Ho ficcato il foulard in tasca e siamo corse a ripararci nella serra delle erbe odorose perché cominciava a piovere. «Sai, io non credo che tu sia diventata muta, per conto mio fingi» mi ha detto senza guardarmi. Ho preso il quaderno dalla sac notando con sollievo che non si era bagnato. La tela robusta l’aveva protetto dai goccioloni d’acqua. Il tessuto umido aveva rilasciato un po’ del suo color vino sulla copertina, ma le pagine erano intatte. L’ho aperto e ho scritto. “Non è come pensi tu.” «Non è possibile! Mia madre faceva l’infermiera e spesso in casa parlava di malattie varie. Non può essere che una cade, prende un colpetto alla testa, niente di grave fra l’altro, e poi diventa muta. A meno che non si tratti di una pazza… e allora magari la mente blocca tutto. Di cecità isterica ricordo di aver sentito parlare, però.» Allora io ho confessato. “Pensavo di fingere ma poi non sono più riuscita a parlare per davvero.” «Cosa? Ma hai provato? Ti sei sforzata?» mi ha chiesto guardando i rivoli d’acqua sui vetri. “Sì, tutti i giorni.” «Davvero non stai fingendo?» Lei mi ha osservata e io dovevo avere un’espressione seria perché ha detto: «Che cavolo di storia, mai sentita una cosa del genere. Deve proprio trattarsi di un mutismo isterico. La psichiatra ti ha visitata? Non ti hanno dato una cura? Io non penso che tu sia matta.» Il suo interessamento mi ha commossa fino alle lacrime. Allora, nel disagio crescente che provavo, mi sono comportata anch’io come tutte. Di scatto le ho girato le spalle e mi sono allontanata sotto la pioggia.


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3 maggio La mistica legge buddista del karma consiste nel credere che a qualunque azione segue un effetto o, si potrebbe anche dire, che qualunque effetto è il risultato di un’azione, esattamente come accade nel mondo fenomenico. La conseguenza di questa legge, che io trovo sensata, è che ciascuno può determinare almeno in parte il proprio destino, ponendo alcune cause piuttosto che altre. Il risultato (effetto) della conversazione (causa) con Sebastiana, è stato che oggi ho domandato di poter vedere la psichiatra. Ho allungato un bigliettino di richiesta alla sorvegliante della zona mensa. Lei si è stretta nelle spalle e ha aperto le braccia nella posizione che assume il prete quando benedice le ostie. È una tipa che mi sta abbastanza simpatica, di poche parole ma concreta. Nell’orto è il momento di tagliare le coste. Si chiamano verdure da taglio proprio per questo. Ho un falcetto non molto adatto, minimo dovrebbe essere affilato, ma la direzione è contraria perché teme che ci feriamo o, peggio, che venga usato in caso di risse. Da quando sono qui mi è capitato di vederne un paio. Tutte e due le volte la miccia era stata accesa dalle marocchine. Per conto mio, assieme alle algerine, sono le più attaccabrighe. Si strappano i vestiti da dosso e si tirano per i capelli. A proposito di algerine, una di loro mi ha raccontato che nel suo paese, dove le donne devono stare in casa completamente sottomesse ai mariti o ai padri, non è infrequente che si mettano d’accordo e, tutte assieme, ammazzino il tiranno. Lo aveva fatto anche sua nonna. S’era fatta aiutare dalle sue tre sorelle venute a farle visita. In pratica avevano fatto ubriacare suo nonno con un alcoolico che avevano portato in dono e dopo gli avevano tenuta la testa nella tinozza per il bucato. Era talmente ubriaco che non era stato in grado di opporre resistenza e nel giro di neanche dieci minuti era morto. Quando era giunta, la polizia non aveva rilevato nulla di sospetto, perché le donne l’avevano adagiato per bene sul letto dopo avergli asciugato la testa. Sua nonna aveva raccontato che il marito dopo mangiato si era coricato senza alzarsi più. Il poliziotto aveva probabilmente nutrito qualche sospetto ma gli sguardi delle quattro donne attorno al letto del morto l’avevano fatto desistere dall’idea di aprire un’indagine. In fondo non erano fatti suoi. Quando le donne decidono di sbarazzarsi di un uomo devono avere i loro buoni motivi. A


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suo modo era stato molto femminista. Insomma le nord africane non si lasciano metter sotto facilmente. La prima rissa cui ho assistito è partita all’improvviso, con l’energia di un temporale estivo. Stavo infilando una collanina di perline di vetro quando ho sentito delle grida acutissime provenire da fuori. Dimenticavo, le nord africane gridano come galline a cui stiano torcendo il collo. Mi ricordo che per lo spavento mi erano scivolate di mano le perline che rotolando sul pavimento avevano prodotto un rumore simile a uno scroscio di pioggia leggera. Nel cortile c’era un groviglio di donne. Tre si rotolavano sul selciato come morse da tarantole. Altre detenute stavano loro sopra. Braccia e gambe turbinavano nell’aria estiva. Le guardie penitenziarie sono intervenute immediatamente. Prima hanno usato i fischietti per intimare alle donne di smettere, poi, fatto rarissimo, sono passate ai manganelli. Il bilancio è stato di sei detenute in infermeria con contusioni e morsi vari. Ad essere ferita più seriamente era stata una marocchina: un taglio profondo sul sopracciglio, dovuto probabilmente allo sfregamento contro la cinghia metallica di un orologio da polso. Non si è mai saputo il motivo del litigio ma è probabile che tutto fosse partito da una qualunque offesa verbale. Alcune straniere usano dare della puttana a chiunque gli stia davanti e non gli sia simpatica. La seconda rissa è scoppiata di recente e per poco non venivo coinvolta. In refettorio una detenuta è inciampata e, banalmente, il cibo che aveva nel piatto ha sporcato la maglietta di un’altra. Una cosa da niente. Per conto mio non l’aveva fatto apposta, ma quella che era stata sporcata si è inviperita e ha cominciato a urlare. Son volate bestemmie e piatti. Questi ultimi per fortuna sono riuscita a evitarli. La tizia con la maglietta sporca ha piantato la forchetta nel dorso della mano di una ragazza del sud che aveva tentato di difendere quella che era inciampata. Sono uscita velocemente in cortile e visto che ormai avevo quasi finito di mangiare non sono rientrata nemmeno quando il tafferuglio era cessato. Sono liti stupide, scatenate dalla noia e dal nervosismo.


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5 maggio Inaspettatamente oggi è arrivata la psichiatra. Era successo solo l’altro ieri che avevo chiesto di poterla incontrare. Non portava la coda di cavallo ma aveva i capelli lavati di fresco che le cadevano sulle spalle piene. «Hai chiesto di vedermi, Rosa» mi ha detto con un tono che non si capiva se era una domanda o una affermazione. Ho tirato fuori velocemente il quaderno e la penna. «Vedo che ti sei organizzata bene. Non è l’agenda che ti ho dato io, però.» “La sua agenda la uso per le riflessioni, questo quaderno è per comunicare.” Non avevo ancora finito di scrivere che già era alle mie spalle. Mi spiava come un giocatore di carte. Volevo spiegarle il motivo per cui l’avevo fatta venire, ma lei proseguiva per la sua strada. «Non ti senti bene? Come va con il problema della voce? Fai degli esercizi come ti ha insegnato la logopedista?» chiedeva a ruota libera. Poi ha aggiunto: «Mi sembri dimagrita.» Provavo un po’ di frustrazione perché ognuna delle domande comportava un grosso sforzo di concentrazione per me. Inoltre non sapeva che la logopedista non mi aveva prescritto nulla! Non ho risposto per niente e ho cominciato invece a scrivere le cose che mi premeva dirle. “Ho sentito parlare di mutismo di origine isterica. Crede che si tratti del mio problema? Vorrei una medicina che mi guarisse.” Ha letto con attenzione ed è rimasta pensierosa. Mi ha sorriso come per darmi coraggio e alla fine ha risposto: «Non esistono farmaci per queste malattie. Se vuoi possiamo provare con degli antidepressivi. So che li hai già usati in passato. Non sono certa che funzionino, per il problema della voce intendo, però ti farebbero sentire meno triste.» Mi sembrava così sincera che ho rinunciato all’idea di scrivere “Ma che razza di dottoressa sei!”. Ho scritto invece: “Grazie, vorrei provare.” «Allora dirò alla suora di darti l’antidepressivo. Cominciamo da domani, inutile aspettare. Verrò a trovarti fra una settimana e mi dirai


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se la medicina ti crea qualche disturbo. Tieni presente che potresti sentire la gola secca i primi giorni, ma poi passa. Se hai problemi particolari fammelo sapere.» Se ne è andata lasciando una scia di profumo che dev’essere di ottima qualità, un misto di gelsomino, melissa e timo. Penso che è una buona donna, la dottoressa. Una persona con un odore così buono non può essere cattiva. Domani cominceranno a darmi la pastiglia. Stasera sto pensando che in fondo non mi importa molto di non poter parlare, mi secca di più il fatto che sforzandomi mi si irrita la gola. Basterebbe che lasciassi perdere ma sarebbe come rinunciare per sempre.

9 maggio NATASHA C’è qualcosa che non mi quadra nella storia del giovane con i puntini tatuati sul dorso della mano che ogni sabato passa droga a Natasha, mentre lei gli allunga il sacchetto con la verdura. Perché mai dovrebbe farlo? Quando Natasha me l’ha raccontato ho pensato a un gesto di “solidarietà” da parte di un ex detenuto. Pensavo a una cosa una tantum e invece il fatto continua a ripetersi. Natasha è elettrizzata già dal venerdì sera. Finalmente è sabato, dice pettinandosi e camminando per la cella con passo leggero. Non so come usi la polverina dentro alla capsula da antibiotico, forse la sniffa o forse la lecca. Se glielo chiedessi me lo direbbe, ma preferisco non sapere. So solamente che con la polvere fa tre dosi, che equivale a dire che per tre mezze giornate è felice. Questo è quello che mi ha detto. Purtroppo è di nuovo domenica. Oggi desidero evitare nel modo più assoluto che le detenute vengano a parlarmi con la scusa che sono comprensiva e che mantengo i loro segreti. Questa storia dei segreti! Devono aver scordato che so scrivere e potrei, volendo, rendere pubbliche le loro confidenze, per esempio mettendo tutto su di un


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foglio e affiggendolo nella bacheca degli avvisi o nei punti di maggiore passaggio, per esempio in sala TV. Certo, rischierei di essere picchiata alla prima occasione buona… Dalla finestra della cella ho visto che in giro ci sono poche detenute; ma è normale perché la domenica è giorno di visite. Viene qualcuno anche gli altri giorni ma non come di domenica. Io non ho di questi fastidi perché visite non ne ricevo. Era già da un po’ che avevo adocchiato una panchina di pietra coperta in gran parte dalla vegetazione. Si trova in una zona ombrosa non lontano dall’edificio principale, dietro all’angolo riservato agli spazi comuni. Ho vagabondato una decina di minuti in cortile fingendo di passeggiare senza meta, mentre tenevo d’occhio le poche detenute che facevano la siesta all’ombra. Quando sono stata certa di non essere osservata sono corsa dietro all’angolo e mi sono infilata in un cespuglio fiorito di ligustri. Per qualche minuto sono rimasta stordita dal profumo. Attratti dalla fragranza api e bombici sostavano sui fiori. Un’ape sembrava intenzionata a pungermi ma per fortuna dopo pochi istanti ha smesso di girarmi attorno e ha ripreso il suo lavoro di raccoglitrice di nettare. Ho letto che in presenza di api è consigliabile stare immobili. Non so se sia vero, ma oggi ha funzionato. La panchina era a pochi metri. L’ho raggiunta gattoni e mi ci sono stesa sopra temendo che se mi fossi messa seduta dal cortile mi avrebbero vista. La pietra era piuttosto fredda, ma nella calura del pomeriggio è stato un refrigerio per la mia schiena sudata. Mentre stavo stesa pensavo a Natasha. C’era anche un altro particolare che non mi tornava, e cioè che le operatrici penitenziarie non si accorgessero di quel passaggio di roba dalle mani dell’uomo a quelle di Natasha. È anche vero che appena sono fuori dal muro di cinta le operatrici sono più rilassate e amano chiacchierare con i passanti… di solito, però, così mi è stato riferito perché io non esco mai, sono abbastanza attente: un occhio sulle donne e un altro sulla strada. Può anche darsi che Natasha sia stata semplicemente fortunata. Finora. Cosa succederebbe se venisse scoperta? Di sicuro, come primissima cosa, non le concederebbero più di uscire e poi forse scatterebbero altre restrizioni. Di cosa accadrebbe al ragazzo che le dà la roba proprio non mi importa. Uno che passa droga a una detenuta accanto a delle guardie penitenziarie è certamente scemo e quando uno è scemo non ci si può far nulla.


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La panchina è un buon posto perché ho la possibilità di essere invisibile. Poi ho controllato sull’orologio per capire quanto sarei potuta ancora rimanere. Sentivo sonnolenza, forse a causa degli antidepressivi. A parte la voglia di dormire, mi sento esattamente come prima. Ad un certo punto un minuscolo uccello si è posato su di un ramo a pochi centimetri da me. Era un cinciallegra. Sono rimasta immobile e dopo pochi istanti mi è ripassata accanto. Allora ho visto che fra il fogliame c’era un nido. Mentre sbirciavo mi sentivo una bambina. Dentro c’erano quattro uccelletti con i becchi spalancati. Avevano pochissime piume, non erano precisamente belli, ma mi hanno commosso. Ultimamente piango per nulla. Ho fatto appena in tempo a stendermi sulla panchina prima che la femmina di cinciallegra tornasse con qualcosa nel becco. Dopo un poco mi sono addormenta di brutto. Ho sognato Natasha. È stato un sogno carico di ansie dove non riuscivo a camminare perché sentivo le gambe di piombo. Mi capita a volte di fare sogni di quel tipo. Vorrei fuggire ma non riesco a muovermi. Con le mani mi afferro le cosce e cerco di spingerle, come se dovessi gettare un oggetto davanti a me. I tentativi sono sempre inutili e anche dolorosi perché il mio corpo sembra aver messo radici. Natasha nel sogno mi inveiva contro ridendo sguaiatamente ma io non mi sentivo offesa, ero solo infastidita a motivo dell’immobilità. Poi ho sentito una voce e mi sono svegliata. La panchina era completamente all’ombra. Dovevo aver dormito molto. Ho guardato l’orologio con trepidazione, temendo fosse tardi, ma per fortuna non era così. La voce che avevo sentivo, però, era reale. Un uomo mi è passato accanto senza vedermi. Doveva essere uscito dalle stanze della direzione e borbottava fra sé. Non era uno che conosco. Quando si è allontanato lo ho osservato da dietro, era un biondo, magro e leggermente claudicante. Mi è dispiaciuto molto dover tornare in cortile perché avevo progettato di cercare di parlare, lì fra i rami degli alberi, con gli uccelletti come soli testimoni.


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11 maggio MIRIAM La povera Miriam non si è ancora ripresa dal dolore di essere stata umiliata. Tremava tutta l’altra notte quando è venuta a cercare conforto nel mio letto. «Devo andare da lui domani» mi ha detto. Io ho pensato a che cosa volesse ancora quel porco da lei. Ho deciso che scriverò qualcosa a Miriam, domani mattina però, appena la luce sarà sufficiente. Un suggerimento voglio darglielo; credo di averne il diritto visto che condivido le sue ansie. Stranamente ho scordato subito gran parte delle cose che mi ha raccontato. Era come se le sue parole evaporassero nel caldo umido delle lenzuola. Mi è rimasto chiaro solo il suo stato d’animo carico di vergogna e disagio. L’ultima frase che mi ha bisbigliato è stata: «Si diverte a tormentarmi perché gli faccio schifo.» Deve essere proprio così, sono stata d’accordo con lei. Alle cinque un leggero mal di denti mi ha svegliata. Fuori era già chiaro. Ho svuotato la vescica e immediatamente ho preso il quaderno dei dialoghi. Ho scritto per Miriam: “Strappagli i coglioni. Non lo dirà a nessuno perché dovrebbe spiegare perché era con te con i pantaloni abbassati. Quando te ne vai digli che se ti tocca ancora racconterai tutto ai Testimoni di Geova e alla suora. Non rischierà di finire in mezzo a uno scandalo. È un cacasotto.” Allora, dopo averlo messo per iscritto mi sono sentita sollevata. Non so se Miriam mi ascolterà, ma io almeno avrò fatto il mio dovere. Non conosco il Direttore più di tanto. Mi ha parlato solo una volta, due anni fa, quando sono arrivata. Mi fece una paternale come in certi film americani sul genere Fuga da Alcatraz. Se ti comporti bene ti troverai come a casa tua (spero di no, pensai io) devi seguire le regole perché qui siamo come una grande famiglia dove ognuno ha un ruolo (ma che cazzo di famiglia, pensai io) comportati bene perché è nel tuo interesse farlo (io fui d’accordo e pensai che avrei fatto il possibile). «Non dici niente?» chiese infine. Io risposi: «Grazie Direttore, farò del mio meglio.» Dovette essere molto soddisfatto della mia risposta perché prese da un cestino una caramella e me la offrì. Una caramella all’anice.


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Dopo che Miriam è venuta nel mio letto, ogni volta che lo vedo avverto sulla lingua un gusto di finocchio, e siccome quel giorno di due anni fa poi mi venne la nausea, forse per la tensione, mi accade di provare una sensazione simile anche ora, come se qualcosa mi risalisse lungo l’esofago, una sgradevole impressione di reflusso gastrico. Verso le sei e mezza Miriam è andata in bagno. Mentre stava per rimettersi a letto le ho fatto un cenno con la mano. Lei ha creduto che le stessi dando il buongiorno e mi ha restituito il saluto. Poi ha capito che la stavo chiamando e si è avvicinata. Le ho mostrato quello che avevo scritto. Per alcuni secondi è rimasta seria fissando la pagina, poi è scoppiata a ridere, ma si è messa subito una mano sulla bocca per non farsi sentire. Dopo il caffellatte ci siamo perse di vista. Io sono andata all’orto mentre lei si dirigeva verso la cucina. Alle undici ho pensato a lei. La immaginavo mentre camminava verso la fossa del leone. Una scimmia contro un leone. Intanto i piselli sono pronti per essere raccolti. Una parte viene consumata da noi carcerate e dal personale di sorveglianza, il resto viene venduto al mercato. Ho aperto un baccello e mi sono messa in bocca i piselli. Non mi piacciono ma ho provato a vedere se mi cessava il reflusso all’anice che avevo cominciato a sentire. Non mi era mai capitato prima di provare quella sensazione al solo pensiero del direttore, intendo senza averlo neanche visto. Ho letto che in Grecia durante la prima guerra mondiale i soldati per sfamarsi rubavano i piselli dagli orti. Oggi a pranzo Miriam non c’era. L’ho aspettata per tutto il tempo continuando a fissare l’ingresso. Ho conservato per lei, dentro alla sac, una mela e un pezzo di pane. Sebastiana era seduta accanto a me e credo abbia notato che quasi non mangiavo. Poi le ho chiesto, tramite il quaderno, se per caso avesse visto Miriam. Lei si è fatta spallucce e mi ha risposto che non è la custode di nessuno. Poi si è scusata, ma era solo per mantenere un buon rapporto con me, che sono il suo confessore. A un certo punto un ciuffo dei suoi capelli le è andato a finire nella minestra di verdura. Lei li ha sgocciolati e asciugati con un tovagliolo di carta. Ho provato un leggero schifo ma in fondo si trattava della sua


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minestra. Ero preoccupata per Miriam e Sebastiana mi infastidiva, così ho messo il pane e la mela nella sac e sono andata al bagno. Dalle vetrate guardavo verso il cortile aggrappandomi alla speranza di vederla seduta su di una panchina. Forse, mi dicevo, non ha avuto appetito ma ora sarà contenta che le ho conservato qualcosa del mio pranzo. Era un pensiero immensamente stupido perché anche se non abbiamo fame dobbiamo stare in refettorio negli orari dei pasti. Tutte le panchine erano deserte. Nel cielo si intrecciavano i voli delle rondini. Alle due del pomeriggio ero già nell’orto. È strano ma nessuna delle operatrici penitenziarie fa mai caso a me che giro indisturbata nell’orto a qualunque ora. Questo atteggiamento è iniziato dopo l’incidente occorsomi anche se, veramente, anche prima mi davano non più di qualche occhiata. Ho cercato di rendermi invisibile ai loro occhi per essere lasciata in pace e mi sembra di esserci riuscita. La sorveglianza comunque esiste e non potrei scappare, ammesso che mi interessasse.

12 maggio Oggi per passare il tempo ho messo delle canne di bambù a sostegno delle giovani piante di melanzana. Prima conficco nel terreno le canne e poi con uno spago lego le piantine a quei tutori. La notte era piovuto forte e il terreno in superficie era ancora leggermente umido. Visto che c’ero ho strappato anche le erbacce che cominciavano a crescere dappertutto. I primi fiori di melanzana erano sbocciati. Prevedo che questa sarà una buona stagione per l’orto. Quando mi sentivo accaldata mi sedevo all’ombra dell’alloro e con lo sguardo cercavo in lontananza, nella speranza di scorgere Miriam. Che cosa le avrà fatto il leone? E lei, che avrà fatto? Mi chiedevo. Avevo paura che avesse seguito il mio consiglio. Nel pomeriggio ho cercato con un certo affanno la pagina del quaderno dei dialoghi dove ho scritto di strappare le palle al Direttore e tutte quelle altre cose e appena l’ho trovata l’ho tolta dal quaderno, proprio come uso fare con le erbe infestanti. Poi ne ho fatto piccolissimi pezzetti che ho seppellito nel terreno appena ho ripreso il lavoro. Mi aveva assalito il dubbio di poter


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essere redarguita per i suggerimenti dati a Miriam. Sarebbe stata considerata una istigazione a delinquere? Potevo essere perseguita per quello? E in che modo? L’eventualità che mi allunghino la pena non mi preoccupa minimamente: io voglio stare in carcere. Mi dispiacerebbe solo se mi trasferissero, chi si occuperebbe dell’orto? Era arrivata l’ora di cena e di Miriam non c’era traccia. Ho preso coraggio e ho scritto sul quaderno per i dialoghi “Non ho visto Miriam oggi”, poi l’ho mostrato a una delle vigilatrici. Mi ha guardata come fossi una mosca sulla bistecca. «Non si è sentita bene, è in infermeria» mi ha risposto. Io le ho scritto: “Posso andare a trovarla? Ho tenuto una mela e del pane per lei.” «Guarda che non la facciamo morire di fame» mi ha detto ridacchiando. Poi ha aggiunto: «Preoccupati per te stessa e torna a sederti.» Ho mangiato di malavoglia una scodella di zuppa di pomodori. Non era una specialità, pur se frutto del mio lavoro nell’orto. Se in cucina ci fosse stata Miriam sicuramente la cena sarebbe stata migliore.

12 maggio SEBASTIANA È venuta come una folata di vento e con la stessa rapidità se ne è andata. Ho cominciato a studiare il flauto, mi ha detto gettando rapide occhiate in giro. Allora mi sono guardata attorno anch’io. C’erano solo le due giovani amiche negre a una ventina di passi da noi. Stavano discutendo animatamente per qualcosa e non ci guardavano. Allora Sebastiana si è presa da sotto la camicia blu Cina uno strumento di plastica. Si trattava di un flauto dolce, diritto, color crema. Ha voluto che lo prendessi in mano. Soffiaci dentro, può aiutarti a parlare, mi ha detto guardandomi negli occhi. Poteva aiutarmi a parlare? Era assurdo quello che mi stava dicendo, ma per gioco ho annuito con la testa. Aspetta che ti faccio


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vedere, ha continuato. Si è ripresa il flauto e mi ha mostrato che dovevo tenere tutte le dita su dei buchini posti in fila. La sua bocca si è chiusa poi attorno a una sorta di becco con un foro centrale. Mi ha detto: «Non è necessario chiudere i buchi con le dita, intendo dire che potresti soffiare anche se sono aperti, ma chiudendo o aprendo i fori il suono cambia e puoi farci delle canzoni. Adesso comincio, tu osservami.» Io non riuscivo a staccare gli occhi da lei e quando ha cominciato a soffiare sono rimasta così sorpresa dalla dolcezza di quanto usciva dal cilindro di plastica che ho aperto la bocca. Sebastiana mi ha suonato una canzoncina di Natale che conosco. Mi è sembrata brava, così le ho scritto in fretta senza quasi staccare lo sguardo dal flauto: “Sei molto brava.” «Conosco solo questa canzone. L’ho imparata a scuola durante le lezioni di musica, ma non so nemmeno che note sto facendo. Ho memorizzato le posizioni e basta. Però adesso vorrei dedicarmi a imparare sul serio, così ho pensato di chiedere in prestito un metodo, cioè un libro che ti spiega le note e tutto il resto» mi ha risposto mentre il suono continuava a vibrare nell’aria. È stato come se mi fosse stata aperta una porta su di un mondo che non conoscevo. “Piacerebbe anche a me” ho scritto e sottolineato in fretta. Lei mi ha guardato seria. «Per prima cosa devi avere lo strumento. Hai qualche soldo per comperarne uno?» Mi sono scrollata nelle spalle perché non so nulla di soldi. So che lavoro e che guadagno qualcosa, ma di soldi non ne ho, non li ho mai voluti. Due anni fa, appena arrivata, un’operatrice mi ha spiegato che se non li volevo, i soldi sarebbero stati tenuti su di un conto, da parte, per quando avessi avuto qualche necessità o per quando uscivo. L’unica cosa che ho chiesto di avere è stato un foulard che, devo dirlo, hanno provveduto subito a comperarmi e a darmi assieme a quattro banconote da dieci euro l’una. Nel caso avessi voglia di una bibita o di un gelato, mi ha precisato in quell’occasione l’operatrice. I quaranta euro li conservo in camera, nascosti fra la biancheria nel comodino. Non è precisamente un buon nascondiglio, anzi è il primo posto dove le mie compagne andrebbero a rovistare, ma non mi preoccupo perché non c’è


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nulla che mi interessa comperare, e l’unica cosa che prendo fuori pasto è acqua di rubinetto. Improvvisamente, però, mi sentivo interessata a quel denaro. Sarebbe stato sufficiente per un flauto? Sebastiana mi ha letto nel pensiero. «Non costano molto questi strumenti. Penso non più di venti euro.» Ho fatto sì con la testa. “Li ho.” «Be’, allora è perfetto. Domani chiedo per te di fare questo acquisto. Fino ad allora tieni il mio e soffiaci dentro, io credo davvero che possa aiutarti a smuovere le corde vocali.» Mi ha posato fra le mani il cilindro con i buchi e si è allontanata, proprio come una folata di vento, lasciandomi avvolta da una polvere di emozioni. Mi sono sentita così felice. Non so da quanto tempo non mi accadeva. Le due negrette mi guardavano, così mi sono allontanata verso le serre stringendo fra le mani il flauto, come si trattasse di una bacchetta magica. Per far scaturire la magia dovevo solo soffiarci dentro. Ha cominciato però a sorgermi un dubbio: ci sarei riuscita? Forse è una cosa per pochi, la musica. Così piombai nella tristezza. Il mio io, il supervisore, quello che osserva i miei turbamenti, meditava su come fossi passata da uno stato d’animo di felicità a uno di tristezza, nel giro di pochi istanti. Non era cambiato nulla in quei minuti, mentre mi dirigevo alle serre. Nessun fatto esterno era intervenuto, nessuno mi aveva rimproverata e non mi era tornato il mal di denti, nonostante questo la felicità era svanita, dissolta dal dubbio di non riuscire a realizzare quanto desideravo. Evidentemente la felicità è uno stato mentale. Dovrei cercare di imparare a riconoscere i meccanismi che mi portano ad esser lieta, magari sviluppando una tecnica per poi mantenerli. Credo sia possibile. In fondo dovrebbe essere come sintonizzarsi su di un canale radio e poi non muovere più la manopola. L’unico problema potrebbe venire dai sogni. Talvolta mi lasciano un segno e al mattino mi alzo nervosa. Ma forse, una volta capito come, non dovrebbe essere troppo difficile ritrovare il segnale della felicità. Aveva ragione la dottoressa: scrivere mi schiarisce le idee. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...


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