La meccanica dell'inganno, Vincenzo Padovano

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VINCENZO PADOVANO

LA MECCANICA DELL’INGANNO

ZeroUnoUndici Edizioni


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LA MECCANICA DELL’INGANNO Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-445-8 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Febbraio 2021


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Naomi correva. Correva in maniera sgraziata per via del terreno accidentato e dei piedi scalzi. Correva per raggiungere la strada che attraversava la foresta, fermare una macchina, un camion, un autobus, un qualunque tipo di veicolo e chiedere aiuto. Ma soprattutto correva per allontanarsi dalla casa dove lui aveva massacrato tutte le ragazze e dove c’erano ancora i corpi di quelle di cui non si era disfatto. Corpi sui quali lei aveva giaciuto, sporcandosi del loro sangue e impregnandosi del loro odore di morte. Naomi correva e sentiva freddo. Era una gelida mattina d’inverno, il sottobosco era punteggiato di cumuli di neve sporca e le chiome degli alti sempreverdi lasciavano filtrare solo qualche stiracchiato raggio di sole. E poi lei indossava solo la sottoveste di seta bianca simile a quelle che lui aveva infilato a tutte le ragazze prima di ammanettarle al letto della camera padronale e cominciare a torturarle. Naomi correva e avvertiva una grande varietà di dolori. Era scalza e la sottoveste le arrivava alle ginocchia. Rami caduti e pietre appuntite le si conficcavano nelle piante dei piedi, e cespugli spinosi le graffiavano le gambe. E poi c’era il dolore alle dita della mano destra, già gonfie come salsicciotti dopo che lui gliele aveva spezzate. E poi ancora c’era il collo, con il suo dolore bruciante nei punti in cui lui, nel tentativo di strozzarla, aveva esercitato più pressione. Naomi correva e sperava. Sperava di raggiungere la strada asfaltata prima di svenire per il dolore, per il freddo o per tutti e due e diventare la colazione di un branco di cinghiali attirati dall’odore del sangue che le imbrattava la sottoveste, le cosce e le braccia. Sperava di sopravvivere perché doveva parlare con i poliziotti. Sperava di poterli aiutare a localizzare la casa in cui lui portava le sue prede dopo averle adescate e drogate. Sperava di porre fine all’orrore che andava avanti ormai da cinque mesi. Sperava di interrompere quella spirale di sangue senza fine. Naomi correva quando udì il borbottio di un motore in lontananza. Senza fermarsi, guardò in avanti. Fra i tronchi, quasi fosse un miraggio irraggiungibile, vide un furgone bianco che procedeva veloce.


4 Anche se dal punto in cui lei si trovava non poteva dirlo con certezza, pareva proprio che il mezzo si stesse muovendo sull’asfalto. Non sarebbe mai riuscita a fermarlo. Ma la meta non era lontana. Un altro piccolo sforzo, pensò. E accelerò l’andatura, cercando il più possibile di vedere dove metteva i piedi, ma continuando a non preoccuparsi per il dolore delle trafitture. Qualche minuto più tardi intravide la strada: gonfia, crepata e sconnessa, ma promessa di incontro con esseri umani che potevano soccorrerla. Si accorse all’ultimo momento del dislivello tra il sottobosco e il manto stradale. Fece un volo di un'ottantina di centimetri e cadde in ginocchio sull’asfalto. Altro dolore. Si rialzò gemendo e si portò al centro della carreggiata. Si guardò intorno. Nemmeno l’ombra di un segnale stradale. Scelse una direzione a caso e cominciò a camminare a passo spedito, senza più correre. Pur avendo il fiatone, non prese mai in considerazione l’idea di riposarsi in attesa del sopraggiungere di un veicolo. In estate, la foresta brulicava di turisti che fuggivano dal caldo delle spiagge o dei paesi circostanti, ma in quel periodo dell’anno poteva trascorrere anche un’ora prima del passaggio di un mezzo. E fermarsi per tanto tempo avrebbe significato rischiare l’assideramento, mentre lei doveva sopravvivere a ogni costo, se non per se stessa, almeno per la sua missione: fermare il mostro una volta e per sempre. Il verso stridulo di un uccello che non sarebbe mai stata in grado di identificare la indusse ad alzare lo sguardo. I rami degli alberi più vicini alla strada si intrecciavano sopra di lei a formare una tettoia naturale e frusciante, oltre la quale la luce del sole baluginava sotto forma di minuscole stelle occhieggianti. Naomi tirò un profondo respiro e andò avanti, imperterrita. Un quarto d’ora più tardi le parve sentire il rumore di un’auto. Dopo qualche altro secondo, dalla curva davanti a lei sbucò una Ford nera. Naomi alzò le braccia al cielo come un soldato che esce dalla trincea e si arrende al nemico dopo aver finito i colpi. La vettura rallentò fino a fermarsi sul ciglio della carreggiata, a una decina di metri di distanza da lei. Naomi vide uno spilungone biondo uscire dall’abitacolo. Lo sentì chiederle cosa le fosse successo. Gli rispose con un rantolo che nemmeno lei sarebbe riuscita a decifrare. Poi le gambe le si trasformarono in gelatina e cadde in ginocchio. Il conducente della Ford cominciò a correrle incontro. Prima che potesse raggiungerla, Naomi stramazzò faccia a terra. Batté la fronte contro l’asfalto e chiuse gli occhi.


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·2

Mercoledì 5 febbraio. L’espressione di terrore e sofferenza scolpita sul volto della ragazza non era la parte peggiore. Non lo era nemmeno il sangue che come una seconda pelle le ricopriva il corpo nudo dalla punta dei piedi fin sotto il mento, lasciando scoperto il viso, come se l’assassino l’avesse ripulito per non celare l’orrore che vi era dipinto e destabilizzare al massimo chiunque avrebbe ritrovato il cadavere. No, a destare maggior raccapriccio, come sempre, era l’ammasso di viscere che pareva essere eruttato dalla pancia squarciata della vittima come lava da un vulcano. Anche se era la terza volta che si trovava davanti a uno scempio del genere, il vicequestore aggiunto Marco Minischetti non poté fare a meno di inorridire e di provare una rabbia squassante nei confronti dell’autore ancora senza volto di quell’orrore. L’aria del primo mattino era gelida e pareva impedire agli odori invernali del bosco di diffondersi. Si faceva persino fatica a respirarla, quell’aria. Al di sopra degli spogli alberi circostanti il cielo era terso. Come la traiettoria di tiro utile di un cecchino appostato a est, una delle lame di luce che non si infrangevano contro i tronchi investiva in pieno la ragazza stesa a terra, quasi a voler sottolineare che la protagonista di quel macabro spettacolo era lei. Minischetti, intabarrato in un cappotto troppo leggero per quelle temperature, se ne stava in piedi dietro il nastro a bande oblique rosse e bianche che delimitava la scena del ritrovamento. Intorno a lui, c’era una moltitudine di agenti in divisa che, se non si fossero trovati in un luogo tanto sperduto, avrebbero avuto il compito di tenere lontani curiosi e giornalisti. A qualche metro di distanza, sconvolto, le mani nei capelli e un cane dalla razza indefinibile fra i piedi, sostava un vecchio magro e sciatto con addosso un giaccone mimetico. Doveva trattarsi dell’uomo che un’ora prima aveva rinvenuto il corpo e chiamato il pronto intervento. All’interno dell’area circoscritta, si affaccendava un gruppo di uomini in tuta di tyvek integrale.


6 Per la maggior parte erano operatori della Scientifica alla ricerca di indizi che presumibilmente non avrebbero mai trovato, non per incompetenza, bensì per la meticolosità con la quale il killer bonificava le zone in cui abbandonava le sue vittime. Al di là del nastro, c’erano poi altri due individui, anch’essi in tuta: il medico legale, ancora chino sul cadavere, e l’ispettore Di Niro, impalato al centro della scena con un tablet fra le mani, che a differenza di quelle di tutti gli altri non erano coperte da guanti. A un suo cenno, l’ispettore gli si avvicinò. Il cappuccio della tuta gli copriva la pelata ma, non arrivando fin sulla faccia, non era in grado di nascondere l’alopecia totale che lo privava di ciglia e sopracciglia, così come di qualsiasi altro pelo. «È la…Palumbo, vero?» gli chiese Minischetti, pensando di essersi salvato all’ultimo. Nella sua mente si era formata un’altra domanda: È la numero tre, vero? Per fortuna, alla fine era riuscito ad aggiustare il tiro e a pronunciare il cognome della giovane donna assassinata, seppur anteponendogli l’articolo determinativo tipico dei verbali. Se non lo avesse fatto, se non avesse pronunciato quel cognome, non sarebbe mai riuscito a perdonarselo. A perdonarsi il fatto di essersi riferito a lei in maniera tanto impersonale: la numero tre. Di Niro annuì e Minischetti occhieggiò il cadavere che, con la testa girata nella loro direzione, pareva accusarli con lo sguardo di non aver fatto nulla per liberarla dalle grinfie del pazzo che l’aveva rapita due mesi prima e trucidata dopo chissà quante sevizie. «Che dice il medico?» Il coroner non era lontano e, sentendosi chiamare in causa, alzò un braccio. Nonostante ciò, non distolse nemmeno per un istante l’attenzione dal corpo accanto al quale era accoccolato. Avrebbe lasciato che a rispondere per lui fosse l’ispettore, cui peraltro era rivolta la domanda. Di Niro scorse lo schermo del tablet. «Probabilmente è morta tre giorni fa. Come le altre due, neanche lei pare essere stata violentata, anche se ovviamente è necessaria l’autopsia per poterlo affermare con certezza. Anche a lei sono state spezzate tutte le dita delle mani e strappate tutte le unghie di mani e piedi. Anche lei presenta segni di costrizione intorno a polsi e caviglie e striature intorno al collo. Tuttavia, neanche lei pare morta per soffocamento, il che vuol dire che era viva quando è stata pugnalata all’addome.» L’ispettore si voltò per un attimo a guardare la piccola radura al centro della quale campeggiava il corpo. «E come si può ben vedere, non è qui che è stata uccisa, altrimenti ci sarebbe sangue dappertutto.»


7 Minischetti inspirò ed espirò dolorosamente, congelandosi i polmoni. Indicando il vecchio con il giaccone mimetico, disse: «È lui che l’ha trovata?» «Esatto» confermò Di Niro. «Giovanni Riondino. Allevatore in pensione. Né moglie né figli. Dice di abitare in una masseria qui vicino da quando è nato. In questura lo inquadreremo meglio, ma sembra non aver nulla a che fare con questa storia. Ogni mattina, a detta sua, fa una passeggiata nel bosco per schiarire la mente.» Con pollice e mignolo della mano che non stringeva il tablet, Di Niro mimò una bottiglia, dando a intendere che per lui il vecchio se ne andava in giro di primo mattino per smaltire i postumi della sbronza della sera prima. «È così che ha rinvenuto il corpo. Dice di non averlo toccato e sostiene che nemmeno il suo cane l’ha fatto. È inoltre sicuro che ieri mattina qui non ci fosse niente, il che suffraga la circostanza che la vittima sia stata uccisa altrove.» Minischetti tornò a posare lo sguardo sul corpo martoriato della ragazza, notando la patina di brina opalescente che lo ricopriva. «Proprio così» fece Di Niro, come leggendogli nel pensiero. «A questo punto dobbiamo presumere che l’abbia portata qui ieri sera o stanotte.» «Tracce? Indizi?» Di Niro scosse il capo. «Poco, forse niente.» Sebbene quelle parole non fossero molto incoraggianti, Minischetti sentì nascere in sé una piccola speranza. Sui luoghi dei ritrovamenti delle prime due ragazze, la Scientifica non aveva trovato nulla. Pertanto, poco forse niente rappresentava qualcosa di molto meno negativo. Di Niro usò il mento per indicare il sentiero sterrato, lungo all’incirca trecento metri e fiancheggiato a destra e a sinistra da due strisce di nastro, che confluiva nel piccolo spiazzo in cui era stato abbandonato il cadavere e che all’altra estremità sfociava nella strada asfaltata che attraversava il bosco. «Non sappiamo se l’assassino sia arrivato fin qui in macchina o se abbia portato il corpo in braccio dopo aver parcheggiato sulla statale» disse l’ispettore. «Quello che è certo è che ha spazzato questo tratturo a dovere, di certo servendosi di una scopa. È per questo che abbiamo delimitato il percorso.» Minischetti annuì. Giunto sul posto, un agente gli aveva fatto segno di lasciare l’auto sulla statale, dietro a tutti gli altri mezzi già presenti. Poi gli aveva detto di inoltrarsi nella vegetazione a piedi, facendo attenzione a non camminare sul viottolo che correva in mezzo alle due lunghe strisce di nastro, perché la Scientifica contava di trovarci qualcosa.


8 «Tuttavia» continuò Di Niro, «pare che questa volta non sia stato accorto come al solito.» Minischetti si accorse di aver smesso di respirare. Si impose di riprendere a farlo. Non voleva che l’ispettore facesse caso a quanto lui trepidasse nell’attesa di sapere se veramente fosse stato trovato qualcosa di concreto su cui lavorare. Non era professionale mostrarsi tanto emotivamente coinvolto e non era professionale nemmeno sottolineare il fatto che, dopo il rapimento di cinque adolescenti e il ritrovamento dei corpi delle prime tre, per fermare la mano dell’assassino fosse necessario confidare in un suo errore e non nelle capacità investigative degli inquirenti. «In pratica, a metà del tragitto c’è la traccia di uno pneumatico. Larghezza 215. Scanalature ben delineate.» Di Niro accennò con il capo agli uomini della Scientifica. «L’hanno fotografata e sono certi di riuscire a risalire a marca e modello della gomma. Ma quante auto montano pneumatici simili? E siamo sicuri che si tratti di una ruota del mezzo usato dall’assassino? Come detto, al momento non possiamo nemmeno escludere che sia arrivato qui a piedi dopo aver parcheggiato sulla strada asfaltata.» Troppo poco, maledizione. Minischetti riuscì a non lasciarsi sfuggire un’imprecazione. Riuscì a trattenersi, ma non fu capace di nascondere la propria delusione. Di Niro, stringendosi nelle spalle, disse che gli dispiaceva. «Non è mica colpa tua» osservò Minischetti. Poi, da dietro un cerro, comparve il dottor Lamanna, il sostituto procuratore titolare delle indagini sui rapimenti e sugli omicidi acclarati. Il magistrato li raggiunse trafelato. Ancor prima di far loro un cenno di saluto, guardò verso il cadavere e si fece il segno della croce. «Mio Dio!» esclamò, sul viso una profonda contrizione. Poi, passandosi una mano fra i capelli folti ma canuti, aggiunse: «Speriamo che sia un falso allarme». Al che Minischetti trasecolò, notando pure il brivido che attraversò il corpo dell’ispettore dall’altra parte del nastro. «Di cosa stai parlando?» domandò. Erano anni che dava del tu al magistrato. «A quale allarme ti riferisci?» Lamanna sbiancò in volto. «Ancora non lo sapete?» disse strabuzzando gli occhi. «Stanotte, ai carabinieri di Monte, è stata denunciata la scomparsa di un’altra ragazza, un’adolescente di diciannove anni. Pensavo che la questura fosse già stata informata, ma a quanto pare, una volta tanto, la notizia è arrivata prima in procura.» Minischetti trasse un profondo respiro e pregò che si trattasse di un allontanamento volontario e che la giovane fosse ritrovata sana e salva al più presto. Lo fece aggrappandosi alla speranza che l’assassino non avesse


9 cambiato le sue abitudini, considerato che fino ad allora, fra un rapimento e l’altro, era sempre intercorso circa un mese, e l’ultima ragazza che si presumeva essere stata sequestrata era sparita da meno di quarantotto ore. «Come si chiama?» «Chi?» domandò Lamanna. «La ragazza scomparsa, chi altrimenti?» Il sostituto procuratore sospirò. «Lombardi» rispose. «Si chiama Naomi Lombardi».


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·3

Il suo soccorritore cercò di girarla sulla schiena, ma non ci riuscì. Ci riprovò dopo qualche secondo. Questa volta Naomi ci mise del suo e l’operazione riuscì perfettamente. Forse credendola svenuta, l’uomo le rifilò due piccoli schiaffi sulla guancia sinistra. «Ci sei?» le chiese con voce tremante. «Mi senti?» Naomi riaprì gli occhi. Alto, magro e dinoccolato, il suo soccorritore torreggiava su di lei. Indossava un liso giaccone blu e pantaloni dello stesso colore e nelle stesse condizioni di usura. Ai piedi calzava scarpe un bel po' sformate. Aveva entrambe le mani nei capelli biondi ed era il ritratto della disperazione. Forse si stava già pentendo di essersi fermato per aiutarla. Forse stava addirittura maledicendosi per aver preso la decisione di alzarsi dal letto, quella mattina. Passando dalla posizione prona a quella supina, la sottoveste le si era arrotolata intorno alla vita, scoprendole le pudende. Naomi se ne rese conto nello stesso momento del suo soccorritore. Questi, arrossendo, si affrettò a piegarsi su di lei e a riportarle l’orlo dell’indumento all’altezza delle ginocchia. Poi, raddrizzandosi, le chiese cosa le fosse successo. Lei alzò il braccio destro, per mostrargli le dita spezzate, due delle quali (indice e medio) erano innaturalmente piegate sul dorso della mano. «Ospedale» supplicò in un sussurro. «Subito, la prego.» L’uomo imprecò sottovoce e le domandò se fosse in grado di mettersi in piedi, lasciando intendere che lui non sarebbe mai riuscito a tirarla su di peso. Lei non rispose e, producendosi in uno sforzo eroico, si rialzò puntellandosi sull’asfalto con la mano sana e facendo attenzione a non sbatacchiare troppo l’altra. Premuroso, l’uomo si preoccupò di prenderla sottobraccio e di condurla verso la sua auto. A ogni passo, si lanciava uno sguardo alle spalle, forse sperando nell’arrivo di un altro veicolo con il cui conducente condividere la disgrazia che gli era capitata.


11 Raggiunta la macchina, il soccorritore le chiese dove desiderasse sedersi. Poiché lei non espresse alcuna preferenza, lui le aprì lo sportello posteriore sinistro. Poi, mettendole una mano sul capo per evitare che battesse la testa contro la cappotta, la guidò nell’abitacolo. All’interno del mezzo, Naomi venne accolta dal tepore del riscaldamento e dalle ultime notizie sul traffico borbottate dall’autoradio. Avvertendo un’improvvisa sensazione di benessere, non poté fare a meno di ringraziare di cuore il suo salvatore non appena egli si fu posizionato dietro al volante. «Grazie. Grazie per essersi fermato. Grazie per tutto quello che sta facendo» gli disse con un filo di voce. «Che Dio la benedica» aggiunse dopo un attimo, distendendosi sul sedile e richiudendo gli occhi. All’accensione del motore, la radio tacque per un momento. Quando riprese a funzionare, l’uomo la spense del tutto. Naomi lo ringraziò anche per quello. Forse osservandola grazie allo specchietto retrovisore interno, lui le chiese di nuovo cosa le fosse successo. Naomi non aveva neanche la forza di accennare alla sua disavventura, e comunque sapeva che non c’era alcun bisogno di farlo. «Sono Naomi Lombardi. Sono riuscita a scappare» le bastò dire. Al che il soccorritore bestemmiò e cominciò a fare inversione, manovrando il manubrio con frenesia. Naomi sospirò. Erano cinque giorni ormai che il suo nome era salito agli onori della cronaca nazionale, aggiungendosi a quelli delle altre cinque ragazze rapite e massacrate dal mostro. Erano cinque giorni ormai che per lei si pregava, si organizzavano fiaccolate e ci si scagliava contro le forze dell’ordine, accusandole di essere incapaci di fermare quella strage. Erano cinque giorni ormai che tutti, parenti, amici, ma anche semplici conoscenti e addirittura estranei, piangevano per lei, disperando di rivederla viva. Fatta quest’ultima considerazione, Naomi sentì un sorriso affiorarle sulle labbra, il primo da quando tutta quella faccenda era cominciata. Tuttavia, si impose di non entusiasmarsi troppo. Fino a quando l’assassino non fosse stato fermato, non avrebbe mai potuto tornare a gioire in maniera piena e genuina come una volta. Semplicemente non ne sarebbe stata capace. «Ti porto al pronto soccorso di Casa Sollievo» le annunciò il soccorritore, agitato. «Ci vorrà poco più di mezz’ora. Ce la fai a resistere?» Sempre sdraiata e con le palpebre chiuse, Naomi grugnì una risposta affermativa. Qualche secondo più tardi, udì l’uomo imprecare ancora una volta e scagliare qualcosa sul sedile anteriore per il passeggero.


12 «Il telefonino non prende» le spiegò lui. «Non appena ci sarà campo, allerterò i carabinieri e l’ospedale. Poi chiamerò i tuoi genitori. Avete un fisso? Ricordi i numeri dei loro cellulari?» Bisbigliando, Naomi gli disse che non voleva che sua madre e suo padre la vedessero in quelle condizioni. «Li farò contattare dall’ospedale non appena mi avranno rimessa in sesto» promise. «Sicura?» «Sicura.» Seguì qualche attimo di silenzio. Poi il soccorritore tornò a parlare e lo fece in maniera molto meno concitata, con l’evidente intenzione di stemperare un tantino la tensione. «E la scuola» soggiunse. «Quasi mi dimenticavo di avvertirla. Sono un professore di lettere, sai? Credo proprio che oggi nelle mie classi si festeggerà la mia assenza.» Naomi non replicò nulla perché, pur apprezzando il tentativo di sdrammatizzare un po', al momento aveva ben altro a cui pensare. Nel contempo, lunga e distesa com’era, cominciò a ingaggiare una lotta contro tutte quelle forze che a ogni curva tentavano di farla cadere nello spazio tra i sedili anteriori e quello di dietro. Una ventina di minuti più tardi, accaddero tre cose, basandosi sulle quali Naomi intuì che erano usciti dalla foresta: il percorso divenne più rettilineo; l’irraggiamento solare all’interno dell’auto divenne costante; il professore poté fare le telefonate preventivate. Con enorme sorpresa di Naomi, l’uomo chiamò subito la scuola. Disse al suo primo interlocutore di passargli la segreteria. Dopo qualche secondo, asserì che aveva avuto un imprevisto pazzesco e che pertanto necessitava di un giorno di permesso. Trattandosi di un evento non prevedibile, non avrebbe mai potuto avvisare in anticipo. L’indomani avrebbe comunque spiegato tutto al dirigente. E no, non aveva avuto un incidente, anche se il contrattempo era avvenuto mentre stava raggiungendo l’istituto. Chi poteva sostituirlo? E che ne sapeva lui: non aveva mica fra le mani l’elenco dei docenti a disposizione per le supplenze. Fu quindi il turno dei carabinieri del paese verso il quale si stavano dirigendo. «Pronto… ehm… sono il professor Pandiscia…» esordì quando ebbe risposta. Quindi si identificò meglio, raccontò cosa gli era capitato e svelò chi fosse il suo passeggero. «Arriveremo fra una decina di minuti… Ok, ci vediamo in ospedale» concluse. L’ultima telefonata fu al pronto soccorso.


13 Disse di essere il professor Pandiscia e che stava trasportando Naomi Lombardi. Chi era Naomi Lombardi? Ma non li leggevano i giornali? No? E allora voleva dire che non vedevano nemmeno i notiziari, non navigavano in Internet, non erano su nessun social, non… Esatto, quella Naomi Lombardi! L’aveva trovata a vagare lungo la strada che attraversava la foresta. Certo che era viva! Certo che aveva avvertito i carabinieri! Quando sarebbero arrivati? Loro, fra una decina di minuti. I carabinieri, si auspicava prima. In che condizioni era la ragazza? Brutte. Anzi, pessime. Aveva le dita della mano destra spezzate, era seminuda e teneva sempre gli occhi chiusi, anche se non pareva del tutto incosciente. Se era disidratata? Lui non era un medico, comunque non gli pareva. Ferite con fuoriuscite di sangue? A quel punto Naomi riaprì gli occhi. Il professore la stava osservando servendosi dello specchietto interno. «Mio Dio! Prima non ci avevo fatto caso. Indossa una specie di sottana e solo adesso mi sono accorto che è macchiata di sangue» disse il docente al telefono, con orrore. «Non è mio» bisbigliò Naomi con una vocetta debole debole. «Il sangue, intendo.» Rabbrividendo vistosamente, il professore riferì all’operatore quello che gli era stato appena detto. Naomi riabbassò le palpebre e udì il resto della telefonata, che si protrasse fino a quando la Ford non passò sotto la sbarra che regolava l’accesso al pronto soccorso dell’ospedale del Santo.


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«Hai dormito almeno un po'?» gli chiese sua moglie Eleonora, distesa accanto a lui sotto le coperte, risvegliandosi come sempre un quarto d’ora prima del suono della sveglia e vedendo o percependo che lui era già desto. Il vicequestore Marco Minischetti avrebbe dato un braccio per poterle rispondere di sì senza mentirle. Aveva cominciato a riposare male dal giorno in cui era stato chiaro che avevano a che fare con un rapitore e assassino seriale. In un primo momento, aveva avuto difficoltà ad addormentarsi, ma una volta che ci riusciva dormiva fino al mattino. Poi aveva cominciato a risvegliarsi sempre prima. E da un paio di giorni, il periodo di veglia notturna era diventato totale. «Neanche un secondo» replicò, rimanendo immobile con le mani intrecciate sotto la nuca, a fissare la parte di soffitto appena visibile nell’oscurità della stanza. «Niente di niente.» «Bravo. Continua così» lo rimbeccò Eleonora, stizzita. «Continua così e fra qualche giorno ti costringeranno a metterti in malattia perché non potrai più essere utile a nessuno.» Minischetti torse il capo verso di lei, che giaceva sul fianco destro, girata verso di lui, il viso seminascosto dal piumone e la parte scoperta, dalla metà del naso in su, a mala pena visibile a causa del buio. Ciononostante, lui riusciva a intuire chiaramente lo sguardo di rimprovero con cui lei lo stava osservando. «Sembra che tu me ne faccia una colpa» le fece notare. Per tutta risposta, Eleonora si girò dall’altra parte. «Certo che te ne faccio una colpa, caro mio. Esattamente come l’altra volta e la volta prima ancora.» Sua moglie si riferiva alle altre due circostanze che in passato, prima che il serial killer cominciasse a mietere vittime, gli avevano causato seri problemi di insonnia. Nel primo caso, la colpa era stata di un lupo solitario, un siriano radicalizzatosi sul web dopo l’arrivo in Italia, che aveva accoltellato in pieno centro una professoressa madre di famiglia, uccidendola, e un’adolescente che aveva marinato la scuola, ferendola gravemente. Nel secondo, il responsabile era stato un cittadino italiano di origine egiziana che predicava


15 la jihad nel centro culturale di cui era titolare e che si impadroniva delle zakat dei fedeli che frequentavano l’annessa moschea con l’intenzione di utilizzare il danaro per finanziare il terrorismo. «Lo sai qual è il punto, Eleonora. Te l’ho già spiegato. Ricordi?» Il punto era che perdeva letteralmente il sonno quando lui e i suoi uomini avevano a che fare con casi che non si inquadravano nelle ordinarie attività criminali dei clan che si spartivano il territorio dal promontorio al subappennino, passando per la pianura di sollevamento che si estendeva tra il golfo e i monti. Ciò che lo rendeva insonne non era tanto il doversi confrontare con qualcosa di insolito quanto la rabbia che gli provocava l’ingiustizia della situazione. Quella di competenza della questura era una zona spirituale e stupenda sotto tutti i punti di vista. Conventi e santuari, santi, arcangeli e madonne attiravano devoti da ogni parte del mondo. Baie mozzafiato, mare cristallino e altre bellezze naturali e paesaggistiche facevano lo stesso con turisti di svariate nazionalità. Ciononostante, la malavita organizzata spadroneggiava senza che nessuno riuscisse a porvi rimedio. Senza che loro (forze dell’ordine e procura) riuscissero a porvi rimedio. Era pertanto profondamente ingiusto che gli onesti, religiosi e accoglienti abitanti dei sessantuno paesi della provincia, oltre a subire estorsioni, minacce e altre angherie, e a cercare di non finire ammazzati per errore nel corso di regolamenti di conti e agguati, dovessero preoccuparsi anche di fondamentalisti sunniti che ordivano trame di morte rincorrendo ideologie folli o di un assassino seriale che rapiva e massacrava ragazzine per il solo gusto di farlo. «Sì, lo so qual è il punto» disse Eleonora, in tono polemico. «Ti rode quando ad ammazzare la gente non sono i sicari della Società, ma fanatici religiosi o psicopatici sanguinari. Ma devi convincerti che non ti pagano solo per fronteggiare la mafia. Pertanto, o ti fai trasferire alla DIA, o trovi in te stesso la forza di non trasformarti in uno zombie morto di sonno ogniqualvolta non hai a che fare con la criminalità organizzata, o ti convinci a prendere qualcosa che ti aiuti a riposare.» A quel punto Eleonora cambiò registro: dal fargli la paternale, passò a cercare di farlo ragionare. «Sai qual è la cosa più ingiusta e orrenda che ci sia sulla faccia della terra?» gli chiese. Lui soffiò aria dalle narici rumorosamente. «Quale?» Eleonora si rigirò sul fianco destro.


16 «I tumori in età pediatrica» disse. «Sono la cosa più nefasta e atroce che possa esserci. Ogniqualvolta diagnostico un cancro a un bambino, mi sento destabilizzata. È sempre così, nonostante siano vent’anni che lavoro in quel maledetto reparto. Mi viene da piangere e capisco che, se non reagisco, potrei cadere in un baratro di depressione dal quale, poi, non sarei più in grado di riemergere. E sai cosa mi dà la forza di oppormi alla disperazione? La consapevolezza che se andassi in tilt non potrei più aiutare nessuno. Non potrei più aiutare né quel bambino né la sua famiglia. Tu dovresti sforzarti di fare esattamente lo stesso. Devi reagire pensando che altrimenti non saresti più una risorsa e finiresti col fare il gioco del criminale a cui stai dando la caccia. Sono stata abbastanza chiara?» Lui inspirò. Sua moglie era una brava oncologa, ma forse non era in grado di cogliere la differenza fra il lavoro del medico e quello del poliziotto. In entrambi i campi si ha spesso a che fare con la morte e con le minacce alla vita o all’integrità psicofisica di una persona. Il discrimine è che i medici non hanno alcuna responsabilità nell’insorgere di una malattia, così come, a meno di non incorrere in un errore di diagnosi o di cura, non hanno motivo di addossarsi la colpa della morte di un paziente affetto da un male incurabile. Se invece un poliziotto non riesce a fermare un assassino seriale, un sicario o uno stupratore, a meno di non essere del tutto menefreghista, finisce sempre con l’attribuirsi la colpa per quel che capita a tutte le vittime successive alla prima. E finisce col perdere il sonno quando a colpire è un tipo di criminale verso il quale non ha ancora fatto il callo. Se avesse dormito almeno un po’, forse avrebbe avuto la forza di esporre quella teoria a sua moglie. Poiché aveva passato la notte in bianco e lo aspettava un’altra giornata sfiancante, si limitò ad assicurarle che era stata chiarissima e che quella sera avrebbe preso un sonnifero. Nell’oscurità, Eleonora cercò a tentoni il suo volto e prese ad accarezzarglielo. Doveva essere arrivato il momento dell’incoraggiamento, perché disse: «Vedrai che oggi succederà qualcosa di positivo. Me lo sento». Eleonora era fondamentalmente una scienziata, ciononostante dava molto credito a sensazioni e premonizioni. A volte, in condizioni di forte stress, arrivava addirittura a essere un tantino superstiziosa. «Che dice l’esperto di Roma?» si informò. «Vi è d’aiuto?» Eleonora si riferiva a uno psicologo in forza all’UACV, l’Unità di Analisi del Crimine Violento, che da un paio di settimane si era aggregato alla squadra antimostro. «Macché» replicò lui. «Finora non ha fatto altro che propinarci lezioncine scontate sulle diverse tipologie di serial killer esistenti e su quali potrebbero essere i tratti della personalità dell’assassino. Quando parla, sembra che stia


17 sostenendo un esame universitario… e non arriva mai ad alcuna conclusione utile. Si chiama profilazione criminale, ma secondo me sono tutte ciance.» Eleonora ridacchiò. «Il mio poliziotto giurassico non sembra molto entusiasta dei moderni metodi di investigazione» ironizzò. «Mi sbaglio?» «Assolutamente no» fece lui. «Al posto di quel tizio, avrei preferito ricevere qualche uomo in più da mettere in strada. Più siamo là fuori più aumentano le probabilità di vedere o sentire qualcosa.» Eleonora gli si avvicinò di qualche centimetro, arrivando a sfiorarlo con il seno. «E la traccia che avete rinvenuto sul luogo del ritrovamento dell’ultimo corpo?» domandò. «Non ha portato a niente?» Minischetti afferrò la mano che lo accarezzava e la baciò. Poi se la portò sul petto. «È l’impronta di uno pneumatico» disse dopo una specie di pernacchia, dando a intendere che quello che avevano trovato era ben poca cosa. «I ragazzi della Scientifica sono sicuri che si tratta di un Continental Crosscontact Lx2, un tipo di gomma ideale per SUV e fuoristrada. Ma i veicoli che possono montare una ruota del genere sono troppi per permetterci di fare ipotesi serie sul modello d’auto in uso all’assassino. Il tutto ammesso e non concesso che sia per davvero l’impronta di uno pneumatico del suo mezzo. Potrebbe aver lasciato in vista quell’indizio per depistarci. Magari lui ha un’utilitaria e, non cancellando quell’orma, vuole farci credere di aver ben altro tipo di veicolo.» Rise con amarezza. «Come si suol dire, mia cara, la polizia brancola nel buio.» Detto questo, cominciò a massaggiarsi il torace con la mano della consorte. Fu allora che un cane cominciò ad abbaiare sul comodino alla sua destra. Era la sveglia impostata sul telefonino. Lui allungò un braccio per spegnerla ed Eleonora gli stampò un bacio sulla guancia, per poi riprendersi la mano e mettersi seduta sul bordo del letto. «Comunque, ti ripeto, ho la forte sensazione che oggi accadrà qualcosa di positivo» disse lei. «Perciò mettiti in piedi, fatti una bella doccia corroborante, scolati una caffettiera e vai a prenderlo, quel bastardo.» Commosso dall’ottimismo di sua moglie, il vicequestore Marco Minischetti disse: «Amen!» Quindi si alzò e si fece il segno della croce, confidando nei poteri di quel gesto. Sperando che fosse almeno in grado di far avverare il presentimento di Eleonora.


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·5

Notte tra martedì 4 e mercoledì 5 febbraio. Quella mattina, dopo aver trovato il posto ideale dove scaricare il terzo cadavere, l’assassino, che ormai pensava a sé quasi esclusivamente con quel termine, aveva legato un nastro rosso intorno al tronco di un albero ai margini della carreggiata. Lo aveva fatto per segnalare a se stesso dove svoltare quando di notte sarebbe tornato nel bosco con il corpo nel bagagliaio. Adesso era notte. I fari della Jeep Wrangler illuminarono il nastro e lui, azionando la freccia benché non ci fosse alcun altro veicolo in vista, invase la corsia opposta e si infilò nel tratturo che l’avrebbe portato alla radura. Sullo sterrato, il vecchio fuoristrada cigolava, ondeggiava e beccheggiava. Non sembrava affatto creato per quel tipo di terreno. Anzi, più che un’auto, pareva una barchetta sballottata dai marosi. A un certo punto, l’assassino si chiese addirittura se non si sarebbe spezzata in un due o più parti. Se fosse successo, ci sarebbe stato da ridere. A quanti serial killer era capitato che l’auto si rompesse proprio mentre stavano per disfarsi di un corpo? Lui non avrebbe saputo darsi una risposta certa perché non era un esperto di assassini seriali, pur essendo entrato a far parte della categoria in prima persona ormai da qualche mese, ma non credeva che esistessero o fossero mai esistiti assassini tanto sfigati. Molti di loro alla fine venivano catturati o uccisi dalle forze dell’ordine, ma per molto tempo, almeno a leggere le loro biografie o a stare a quello che si vedeva nei film, riuscivano a farla franca aiutati dalla fortuna. D’altronde, se c’era una cosa che aveva imparato da quando aveva cominciato a uccidere era che la buona sorte, oltre che per gli audaci, aveva una particolare predilezione anche per i malvagi. Lui ne era un esempio vivente. Aveva adescato tutte le ragazze in luoghi pubblici affollati, ma fino a quel momento non era venuto fuori nessun testimone che si ricordasse di averlo visto in compagnia di una delle vittime, men che meno che fosse in grado di fornire alla polizia una sua descrizione. Per ovviare alla videosorveglianza interna ai locali nei quali aveva operato, gli era bastato indossare un cappellino dei Toronto Raptors: mai che fosse incappato in una telecamera posizionata in modo da riprenderlo in viso; mai che la sua faccia si fosse riflessa in uno specchio o su una superficie lucida per poi essere immortalata in uno dei filmati che gli investigatori avevano


19 acquisito. Per fare in modo che non esistessero immagini della sua auto o di lui che vi saliva a bordo insieme a una vittima, aveva sempre fatto attenzione a parcheggiare lontano dai posti in cui andava a caccia, in punti non video-sorvegliati: mai che avesse commesso un errore, non accorgendosi della presenza di una videocamera. E che dire del suo covo? Mai che i vecchi proprietari, che ora vivevano in Germania, mandassero qualcuno a controllare che la loro casa in Italia non fosse stata occupata da zingari o immigrati clandestini. Mai che i carabinieri forestali decidessero di ispezionare quella dimora abbandonata per sincerarsi che non fosse diventata ritrovo di spacciatori, tossici e prostitute. Fatte queste considerazioni e accantonate di conseguenza le preoccupazioni per la tenuta del fuoristrada, l’assassino cominciò a fischiettare le note di O Fortuna dei Carmina Burana. Lo fece fino a quando non arrivò a destinazione. Si fermò al centro dello spiazzo e spense il motore, lasciando i fari accesi. Tirò il freno a mano e scese. La notte era buia, silenziosa e fredda. Anzi freddissima, lì nel bel mezzo del bosco. Sentendo il gelo raggiungergli le ossa nonostante il giaccone pesante che aveva addosso, l’assassino si portò sul retro della vettura non producendo altro rumore che un debole fruscio. Facendo attenzione a non farlo stridere troppo, aprì il portabagagli. Nel chiarore della lampadina di cortesia, Martina Palumbo lo guardò ghignando dall’interno dell’involucro di plastica trasparente nel quale era stata avvolta per impedire che le sue viscere insozzassero le pareti del baule. Completamente nuda e bianca, la ragazza sembrava un’enorme larva in un enorme bozzolo. Una larva ancora bellissima, pensò l’assassino. Al pari di una farfalla, nonostante gli effetti deturpativi della morte violenta che aveva fatto. L’assassino sorrise, ricordando i bei momenti che aveva passato con lei. L’aveva rapita all’inizio di dicembre. Durante i primi giorni di prigionia, lei aveva dovuto condividere lo sgabuzzino in cui lui l’aveva rinchiusa con il cadavere di Maria Ruggieri, vale a dire la numero due. L’atrocità della situazione l’aveva terrorizzata a dovere, proprio come piaceva a lui. Poi, qualche settimana dopo aver smaltito Maria, quando le aveva fatto conoscere Giovanna Di Maio, ovverosia la numero quattro, lei aveva capito che non mancava molto alla sua morte, e questo le aveva infuso altra paura. Quando infine l’aveva ritenuta degna di indossare la sottoveste e di andare a letto, Martina si era ormai trasformata in un esserino spaventato da tutto che tremava, piangeva e si pisciava sotto in continuazione. Quel giorno, dopo che lui l’aveva liberata e messa al guinzaglio, lei aveva salutato Giovanna,


20 vale a dire l’ultima amica della sua vita, una ragazza con la quale era stata incatenata gomito a gomito per un mese. E fra le lacrime, le aveva assicurato che si sarebbero riviste in Paradiso. Ma Giovanna, con grande sorpresa e piacere dell’assassino, le aveva detto di non fare la sciocca. Possibile che non avesse capito che Dio e Paradiso altro non erano che frottole inventate proprio per permettere a persone spacciate come loro di tenersi aggrappate a una falsa speranza? Possibile che non avesse imparato nulla dalla sua esperienza? Quelle parole avevano annichilito Martina come nemmeno l’orrore a cui era stata sottoposta fino a quel momento era riuscito a fare. Si era fatta condurre in camera e ammanettare al letto senza dire una parola. Aveva sopportato la frattura delle dita e i soffocamenti, gemendo sommessamente. Aveva ascoltato i suoi racconti inorridendo, anche se non più di tanto. Ma quando lui aveva cacciato fuori il coltello, lei era uscita all’improvviso dallo stato di relativa catatonia in cui versava ed erano cominciate le urla. Urla forti e stridule, che lo avevano inebriato più di quelle emanate dalla numero uno e dalla numero due. Urla rese ancor più disperate dalla raggiunta consapevolezza dell’inesistenza di una vita ultraterrena governata da un’entità infinitamente buona. Rendendosi conto che ripensare alla storia della Palumbo gli aveva fatto venire l’acquolina in bocca e lo aveva fatto cadere un po' in bambola, l’assassino si ridestò e tornò a concentrarsi sulla faccenda che aveva da sbrigare: disfarsi di una ragazza che gli aveva dato tante soddisfazioni, ma che ormai altro non era che un sacco di carne e ossa da buttare. Tirò fuori il corpo lentamente, afferrandolo per le gambe, attento a non far fuoriuscire dall’imballaggio quanto di liquido o semiliquido ancora scaturiva dall’addome dilaniato. Dopo averlo deposto sul terreno, lo liberò sprigionando miasmi di morte. Appallottolò il telo trasparente e lo infilò nella grossa busta nera per l’immondizia che fino ad allora era stata nascosta nel baule, sotto le spoglie mortali della ragazza. Consapevole che il tempo stringeva, ripose in tutta fretta la busta nel portabagagli, fra una sorta di casco da minatore con torcia incorporata e una scopa con il manico telescopico in quel momento ritratto. Dopo aver dato un’ultima occhiata a quello che rimaneva di una splendida diciannovenne ormai relegata per l’eternità a quell’età piena di sogni e aspettative, l’assassino chiuse il portabagagli e tornò dietro al volante. Riacceso il motore, manovrò nel piccolo spazio privo di alberi, curandosi di non investire il cadavere. Quindi imboccò il sentiero che lo aveva portato fin là e lo percorse in senso contrario. Tornato sulla strada, arrestò la Jeep a ridosso del margine sinistro della carreggiata e la spense, lasciando però in funzione i fari e accendendo l’hazard per evitare che un improbabile veicolo


21 in transito a quell’ora di notte lungo quella statale poco battuta anche in pieno giorno centrasse il fuoristrada. Riaperto il portabagagli, indossò il casco dopo aver acceso la torcia frontale e afferrò la scopa, allungandone il manico. Dopodiché, tornò a piedi alla radura. Una volta a destinazione, camminando all’indietro, prese a cancellare le orme delle sue scarpe e quelle delle gomme della Jeep. A metà dello sterrato, smise di spazzare, arretrando di mezzo metro e lasciando sul terreno un’impronta di pneumatico di pari lunghezza. Chiedendosi se la polizia avrebbe rinvenuto quell’indizio e domandandosi cosa ne avrebbero pensato il vicequestore Minischetti e quel profiler che si era da poco unito alla squadra antimostro, riprese a lavorare di scopa fino al punto in cui la stradina sfociava sull’asfalto. «E anche questa è fatta» disse poi, contento del suo operato. Quindi strappò il nastro rosso dal tronco intorno al quale lo aveva legato, risalì in macchina, mise in moto e ripartì.


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·6

Il professore parcheggiò davanti all’ingresso del pronto soccorso, di fianco a una guardiola con dentro una guardia giurata che continuava a fargli segno che lì non si poteva parcheggiare. Non curandosene, il professore saltò fuori dall’auto senza dire una parola e si fiondò all’interno dell’ospedale attraverso una porta a due ante scorrevoli, che al suo passaggio si aprirono allontanandosi l’una dall’altra, cigolando. Circa un minuto più tardi, vennero fuori un’infermiera e due suoi colleghi maschi, uno dei quali spingendo una barella. Tutti e tre si appropinquarono alla Fiesta quasi correndo. La donna, che pareva una ragazzina dal volto gentile e dallo sguardo professionale, aprì la portiera, si protese verso di lei e le chiese se fosse in grado di muoversi. Naomi, che dopo essere stata distesa sul sedile per tutto il percorso si era appena messa seduta, si limitò ad annuire e uscì dal mezzo. Prima ancora che uno dei tre infermieri glielo chiedesse, si coricò sulla barella, ricevendo un “brava, sì” dalla donna. Quest’ultima, tenendole una mano sulla spalla, forse nella convinzione che quel contatto potesse tranquillizzarla, cominciò a camminarle accanto mentre il lettino veniva sospinto verso l’entrata della struttura ospedaliera. Varcata la porta automatica, si ritrovarono tutti in uno stanzone stipato di umanità gemente e piangente che, seduta o in piedi, attendeva che qualcuno ascoltasse le ragioni della propria sofferenza e tentasse di farle scomparire o quantomeno di alleviarle. Naomi sperò con tutta se stessa che non ci fosse molto da aspettare. Come leggendole nel pensiero, l’infermiera dal viso gentile si affrettò a rassicurala, dicendole che lei non avrebbe dovuto fare alcuna fila. Innescato dalle parole della collega, il barelliere aumentò l’andatura e indirizzò la lettiga verso un’altra porta, che si spalancò un attimo prima del loro passaggio. Da quel momento in poi, lungo uno stretto corridoio, nel campo visivo di Naomi comparvero un’infinità di facce, tutte appartenenti a personale ospedaliero. Alcune si limitavano a guardarla preoccupate, mentre altre le chiedevano cosa le fosse successo o dove sentisse dolore, senza ricevere


23 risposta e scomparendo non appena l’infermiera gentile (Che Dio la benedica!) diceva loro di non stare troppo addosso alla paziente. Introdotta in una stanza piena di attrezzature mediche, quella che era diventata ormai la sua infermiera preferita le disse di stare serena, perché era in buone mani. Il dottor Di Iorio l’avrebbe visitata presto e, una volta chiarito il quadro clinico, l’avrebbe rimessa a nuovo in un battibaleno, a cominciare dalle dita spezzate. Naomi stillò una lacrima di gratitudine. «Grazie» mormorò poi. Sorridendole benevolmente, l’infermiera le accarezzò i capelli. In quello stesso momento, nella stanza fece la sua comparsa un ometto basso e calvo, dall’aspetto amichevole, che andò a posizionarsi lungo il lato sinistro della barella. Esordì facendo dello spirito. «Non ti do la mano, visto come è conciata la tua, ma mi presento lo stesso. Dottor Di Iorio, al suo servizio, signorina.» Naomi abbozzò un sorriso. Il medico cominciò a spiegarle come avrebbe proceduto, ma lei lo bloccò subito, afferrandolo per il camice con la mano buona e venendo bersagliata dalle occhiate sorprese dell’infermiera, del barelliere ai piedi del letto e dell’altro infermiere che era andato ad accoglierla all’entrata ma che fino a quel momento non aveva avuto nessuna funzione. Strattonato con virulenza, il medico per poco non le cadde addosso. «Dottore» gli disse lei, accorgendosi solo allora di quanto rauca fosse la sua voce a causa del tentativo di strozzamento. «Dottore» ripeté cercando di schiarirsi un po' le corde vocali, ma non riuscendoci più di tanto. «Deve esaudirmi due desideri, la prego.» L’uomo si liberò con delicatezza dalla presa e le assicurò che avrebbe fatto tutto quanto era in suo potere per accontentarla. «Sa chi sono?» gli chiese lei. «Sa che sono Naomi Lombardi?» Come a volersi scusare per non averle fatto subito presente di essere al corrente della sua identità, il dottor Di Iorio si affrettò a confermarle di sapere perfettamente chi fosse. «L’uomo che l’ha portata fin qua, il professore Pandiscia, ci ha chiamati ancor prima del vostro arrivo. Inoltre, ci ho appena parlato di persona. Adesso è fuori che…» Naomi lo interruppe di nuovo. «Dottore, veniamo ai desideri.» Di Iorio sorrise. «Mi dica.» «Prima di visitarmi, mi deve far palare con qualcuno che si occupa del mostro. Ho cose molto importanti e… urgenti da riferire.»


24 Adombrandosi un tantino, il medico espresse il parere di procedere prima con le cure, snocciolandole tutta una serie di valide ragioni per le quali era consigliabile agire in quel modo. Ma Naomi non ne volle sapere. «No, dottore. Devo prima parlare con qualcuno delle forze dell’ordine. Qualcuno della squadra antimostro. Preferibilmente con quel vicequestore che esce in televisione. È di fondamentale importanza che lo faccia subito. Non c’è tempo da perdere, mi creda.» Il medico la guardò in silenzio per qualche secondo, alla fine cedette. «E va bene» acconsentì, quindi fece un cenno all’indirizzo dell’infermiere maschio che fino a quel momento non aveva fatto niente. «Vai tu?» gli chiese. L’altro annuì e uscì dalla stanza in silenzio. «Secondo desiderio?» Lei tornò ad afferrargli il camice. «Non chiami i miei genitori prima di avermi reso un tantino più presentabile.» In seguito a quella richiesta, l’infermiera gentile, il barelliere e il dottor Di Iorio scoppiarono a ridere. «Affare fatto» si accordò quest’ultimo, in tono affabile. «Nient’altro?» Naomi non ebbe il tempo di replicare, perché in quel momento entrarono due carabinieri in divisa. Il più grasso dei due si presentò pomposamente come il maresciallo Racioppa del locale comando stazione della Benemerita. Poi si mise a scrutarla con attenzione e crescente meraviglia, come se lei fosse un animale raro o addirittura fantastico. Naomi, dal canto suo, presumeva che il militare stesse mentalmente confrontando il volto della ragazza che aveva davanti con quello che c’era sulla foto segnaletica della sesta presunta preda del mostro. Che lo stesse facendo per accertarsi di non avere a che fare con una mitomane in vena di uno scherzo parecchio elaborato. «Signorina, mi è stato riferito che ha informazioni urgenti da comunicare» disse il maresciallo quando forse si convinse della sua identità. «La prego di parlare liberamente. Mi scuso di non averla raggiunta prima, ma ero impegnato a conferire con l’uomo che l’ha soccorsa, il professor Pandiscia Antonio.» Naomi per poco non si fece scappare una risata per il modo di parlare artefatto e antiquato del maresciallo. Per fortuna, si trattenne. «Non ci siamo capiti» disse socchiudendo gli occhi. «Devo parlare con qualcuno che si occupa direttamente del mostro. Poiché non credo che oggi sarò in grado di ripetere quello che ho da dire più di una volta, poiché non


25 voglio correre il rischio che qualcosa di quello che ho da dire venga omesso o raccontato male mentre viene riferito a chi poi dovrà intervenire, e poiché si tratta di una questione di vita o di morte, ho veramente bisogno di parlare con quel tizio che ho visto in tv, il vicequestore Minischelli, o come cavolo si chiama.» «Minischetti» la corresse il maresciallo, niente affatto offeso che lei non volesse conferire con lui. «È con il dottor Minischetti che vuole parlare, signorina?» Naomi sospirò, sciorinando esasperazione. «È quello che ho detto» confermò. Il maresciallo la fissò raggiante. Adesso dava addirittura l’impressione di essere ben felice di venire esautorato dalla faccenda. «L’ho già contattata» asserì. «La questura, intendo. Credo proprio che il vicequestore sarà qui a momenti, insieme al dottor Lamanna della procura. Adesso richiamo e sollecito. Ma ci sono alcune domande che devo comunque sottoporle.» «Mi dica» concesse Naomi, mostrandosi rassegnata. «Ma faccia presto.» Il maresciallo si sbrigò come gli era stato detto di fare. «Prima domanda: conosce o saprebbe riconoscere chi l’ha rapita e tenuta prigioniera? Seconda: come è riuscita a fuggire? Terza: sarebbe in grado di guidarci al luogo dal quale è riuscita a fuggire?» «Uno: se lo rivedessi, saprei identificarlo e quindi sarei in grado anche di descriverlo; ma nient’altro. Non so nulla di lui, tranne il nome che lui stesso mi ha dato: Enzo. Ma sono certa che sia falso. Due: mi sono finta morta. Tre: si tratta di una villetta nel bel mezzo della foresta e sì, credo di potervi dare un’idea di dove si trova.» Il carabiniere si mostrò soddisfatto delle risposte, sorridendole con benevolenza. «C’è qualcos’altro che posso fare per lei?» le chiese poi. Naomi non rispose e i due carabinieri uscirono dalla stanza in buon ordine. A quel punto, il dottor Di Iorio si rifece sotto. «Posso darle del tu, signorina?» Lei gli assicurò che poteva farlo senza problemi. «E se qualcun altro mi chiama signorina mi metto a strillare» aggiunse. Dopo una risata collettiva, il medico le domandò: «Che ne dici se nell’attesa procediamo con i primi soccorsi, visto e considerato che siamo in un pronto soccorso?». Naomi rise di nuovo, contagiando la sua infermiera preferita, il barelliere e il medico stesso.


26 «E sia!» approvò. «Ma, dottore, a questo punto devo confessarle di avere un altro desiderio.» «Spara» fece Di Iorio, esuberante. Naomi lo fissò negli occhi, con un’espressione improvvisamente grave. «Anche se dovrà farmi male» disse, «mi deve promettere che non mi verrà somministrato alcun tipo di anestetico. Voglio essere perfettamente lucida quando arriverà il vicequestore.» I tre presenti la guardarono con un misto di ammirazione e compassione. «E sia!» le fece il verso il dottor Di Iorio. Dopodiché cominciò a visitarla.


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·7

Chi sei? Seduto dietro la scrivania del suo ufficio, il vicequestore Minischetti fece quella domanda silenziosa all’immagine che campeggiava sullo schermo del portatile che aveva davanti. Si trattava del fotogramma estratto dal sistema di videosorveglianza della discoteca Kokò in cui si vedeva Maria Ruggieri, la numero due, ballare con l’uomo che l’avrebbe uccisa. I due erano al centro di una pista gremita di persone, al di sotto della telecamera che li aveva ripresi: lei era di spalle; lui, come negli altri due filmati in cui compariva, aveva il volto nascosto dalla visiera di un cappellino dei Toronto Raptors. Chi diavolo sei? Si presumeva che fosse un ragazzo o un giovane uomo dai diciotto ai trent’anni, alto un metro e ottanta per un'ottantina di chili. Robusto. All’apparenza in buona salute. Impossibile dire di che colore avesse i capelli. Di certo li portava corti, perché nemmeno un ciuffo spuntava da sotto il berretto. Osservando i suoi movimenti, si poteva ipotizzare che fosse molto sicuro di sé. Considerando che rimorchiava facilmente, si poteva dedurre che, oltre a un bel fisico, avesse anche una faccia attraente e modi di fare piacevoli. Di certo era anche molto, ma molto fortunato. Il profiler dell’UACV dipingeva l’assassino come un soggetto freddo, calcolatore e dotato di un’intelligenza superiore. Una sorta di genio del male, insomma. Per Minischetti, invece, altro non doveva essere che un ragazzotto pervertito, forse anche impotente, che abbinava un tantino di accortezza a un culo grande come una casa. E questo anche se, in barba al noto principio di Locard, fino ad allora era riuscito a non contaminare neanche minimamente i corpi che aveva abbandonato e i luoghi in cui li aveva scaricati. Fino al giorno in cui era andato via di casa per frequentare l’università, Marco Minischetti non aveva mai creduto nella buona sorte. Sua madre e suo padre lo avevano cresciuto ripetendogli spesso che al massimo bisognava stare attenti alla sfortuna, mentre per ottenere qualcosa


28 che si desiderava o di cui si aveva bisogno era sempre e solo necessario fare affidamento sulle proprie forze e capacità. Tuttavia, quando era uscito dal bozzolo protettivo in cui i suoi premurosi genitori lo avevano avvolto fin dal giorno della sua nascita, affrontando la vita reale che c’era al di fuori di esso, Minischetti aveva capito che le cose erano un po' diverse da come gli erano state sempre presentate. Certo, al mondo esistevano gli artefici del proprio destino, persone che dovevano penare, ingegnarsi e lavorare duramente per raggiungere i propri obiettivi. Ma c’erano anche coloro che, assistiti dalla fortuna, riuscivano in tutto senza il minimo sforzo. Il killer doveva appartenere a quest’ultima categoria. Aveva abbordato tutte e sei le sue vittime in locali affollati come quello che si vedeva nel fermo immagine che lui stava contemplando in quel momento. Ma fino ad allora nessuno era stato in grado di fornire un suo identikit. Nessuno aveva fornito di lui una pur vaga descrizione. E tutte le ragazze che erano insieme alle prede al momento della loro scomparsa avevano invariabilmente testimoniato di aver perso di vista la propria amica un attimo prima che questa svanisse nel nulla. Nessuna di loro l’aveva scorta mentre si appartava con uno sconosciuto. Nessuna di loro l’aveva vista andar via insieme a un individuo con un dannato berrettino ben calcato sulla testa. Solo in quel momento, Minischetti si rese conto di quanto fosse arrivato a odiare quell’animale e di quanto si fosse assottigliato il necessario distacco con cui avrebbe dovuto affrontare il caso. Di certo il suo non era un atteggiamento professionale, ma proprio non vedeva l’ora di scoprire l’identità del killer e di potergli mettere le mani addosso. Di avere l’occasione di fargli del male. Abbassando lo schermo del laptop, si accorse anche di essere scosso da un tremito furibondo e finì per concludere che sua moglie aveva ragione da vendere: doveva dormire di più e riportare tutta la questione nella giusta prospettiva, altrimenti non sarebbe più stato di aiuto a nessuno, favorendo così l’essere abominevole che anelava tanto a catturare. Giurando a se stesso di prendere qualcosa che lo aiutasse a riposare e traendo un profondo respiro nel tentativo di riacquistare un minimo di controllo, Minischetti aprì la cartelletta rossa che giaceva accanto al computer e ne tirò fuori i fogli che vi erano contenuti. Dopo essersi stropicciato un po' gli occhi, cominciò a leggere il canovaccio del discorso che, di lì a tre quarti d’ora, avrebbe pronunciato nel corso di una conferenza stampa, dopo l’intervento del questore e prima delle inevitabili e subdole domande dei poco gentili e per nulla comprensivi rappresentanti del quarto potere.


29 Stava apportando qualche correzione allo scritto, quando qualcuno bussò alla porta. Una frazione di secondo più tardi, Di Niro entrò prima che gli venisse concesso il permesso di farlo. Armato del tablet da cui di rado si separava, l’ispettore si fece avanti ad ampie falcate e si fermò al centro della stanza. L’alopecia di cui soffriva gli conferiva l’aspetto di un austero preside scolastico d’altri tempi. Sempre calmo e misurato, in quel momento Di Niro pareva parecchio agitato. Minischetti lo squadrò da capo a piedi. «È successo qualcosa, vero? Te lo leggo negli occhi.» Di Niro si passò una mano sulla pelata. «Si tratta dell’ultima ragazza» disse con voce malferma. «Naomi Lombardi.» Il tono usato dall’ispettore non prometteva nulla di buono, ma per un istante Minischetti si ritrovò a sperare che la Lombardi fosse tornata a casa dopo una fuga volontaria. Di lei si era persa ogni traccia sei giorni prima, la sera di martedì 4 febbraio, quasi in concomitanza con l’abbandono del corpo della Palumbo, ritrovato il mattino seguente. Dopo aver litigato furiosamente con il proprio fidanzato a un tavolo del Re Manfredi, un ristorantino sul mare, la Lombardi aveva chiamato un’amica e l’aveva raggiunta in una discoteca poco lontana per farsi dare un passaggio in paese alla fine della serata, visto che il suo ragazzo l’aveva scaricata ed era lui ad avere la macchina. A un certo punto, l’amica l’aveva persa di vista, proprio come era successo a tutte le altre. Ciononostante, da quando aveva appreso dell’accesa discussione tra Naomi e il suo moroso, Minischetti si era aggrappato alla speranza che la ragazza fosse scappata in preda a pene d’amor perduto. «È riemersa dalla foresta» disse Di Niro abbassando il capo, mortificato. Mentre la sua illusione si infrangeva contro la realtà dei fatti, Minischetti sentì il cuore perdere un paio di colpi. Nel contempo, corrugò la fronte. Strano, pensò. Fino ad allora il killer aveva rilasciato i corpi di tre ragazze seguendo l’ordine cronologico con cui le aveva rapite. Il cadavere della prima era riaffiorato da un laghetto nella foresta. Quello della seconda era stato rinvenuto da una prostituta in un casolare abbandonato dell’Opera Nazionale Combattenti, ai margini della Statale 89 garganica. Il terzo era stato scoperto solo cinque giorni prima da un vecchio in una radura nel cuore di Bosco Quarto.


30 A questo punto era possibile supporre che fosse successo qualcosa che aveva scombinato i piani del mostro, costringendolo a liberarsi della Lombardi prima della numero quattro e della numero cinque. «Hai già le coordinate precise del luogo in cui è stata trovata?» Di Niro scosse la testa con vigore. «Forse mi sono espresso male» disse. «La ragazza è viva. Siamo stati avvertiti dai carabinieri già un’ora fa, ma adesso abbiamo la certezza che si tratta di lei. Secondo quanto riporta il maresciallo dei carabinieri che ci ha contattati, pare che la Lombardi si sia finta morta, riuscendo così a fuggire da una villetta ubicata da qualche parte nel folto della foresta.» Minischetti si alzò. «Mio Dio!» «Prima di svenire, la ragazza è riuscita a fermare un’auto» continuò l’ispettore. «Il conducente l’ha portata in ospedale priva di sensi. Al risveglio ha chiesto di parlare subito con qualcuno che indaga sul mostro. Pare che voglia parlare proprio con lei, dottore.» «Quale ospedale?» proruppe Minischetti. All’improvviso si sentiva sveglio e reattivo. «In che ospedale si trova la ragazza?» «Casa Sollievo» lo informò Di Niro. «Hai già avvisato il dottor Lamanna?» «Certo. Mi sono permesso di chiamarlo venendo qui.» «Hai fatto benissimo. Cosa ha detto?» «Arriverà a minuti.» Scoprendo di aver una gran fretta, Minischetti sperò che il sostituto procuratore Guglielmo Lamanna non avesse parlato a vanvera e pertanto fosse già per strada o quantomeno stesse uscendo proprio in quel momento dal parcheggio della procura. Poi si chiese se a lampeggianti accesi e sirene spiegate sarebbero riusciti a coprire in meno di mezz’ora i quaranta chilometri che li dividevano dalla possibile soluzione del caso.


31

·8

«Adesso voglio che vi calmiate e mi lasciate concentrare.» Sua madre le stava seduta accanto su una seggiola bianca e non faceva altro che accarezzarle il viso, piangendo a dirotto. I singhiozzi di suo padre, in piedi al centro della camera, erano più sommessi, ma a Naomi pareva invecchiato di almeno una ventina d’anni da quando l’aveva visto l’ultima volta, sei giorni prima. Lei era commossa per il bene che le dimostravano e si dispiaceva per il dolore che aveva provocato loro, ma ciò di cui aveva meno bisogno in quel momento era un’altra vagonata di emozioni forti. Doveva tenere la mente sgombra e non doveva assolutamente farsi contagiare dal turbamento dei suoi genitori, se non voleva correre il rischio di sbagliare o omettere qualcosa adesso che avrebbe parlato con il poliziotto a capo della squadra antimostro. Sforzandosi di assecondarla, sua madre si abbandonò contro lo schienale e si asciugò gli occhi con un braccio. Suo padre, invece, per farle sentire la propria vicinanza, le tastò affettuosamente un piede attraverso la trapunta che la copriva dal collo in giù. «Grazie» disse lei, guardando prima l’una poi l’altro. «Vi voglio tanto bene. Sappiatelo.» Queste parole scatenarono un’altra crisi di pianto in sua madre. Per aiutarla a quietarsi, Naomi le parlò dolcemente, ricordandole che quella terribile disavventura era finita. «Non è più il tempo delle lacrime» le disse. «Dovresti essere contenta di come è andata. Adesso devo solo fare in modo che quello che è successo a me e, peggio ancora, alle ragazze che non ce l’hanno fatta, non accada mai più. Poi potremo tornarcene a casa e dimenticare per sempre questa brutta storia.» Asciugandosi ancora una volta la faccia, sua madre annuì. «Certo che sono contenta» affermò. «È come se tu fossi nata un’altra volta. Il fatto è che…» Guardò suo marito. «Il fatto è che avevamo perso ogni speranza. E a un certo punto abbiamo fatto una specie di patto.» «Marisa!» quasi urlò suo padre. «Smettila, ti prego.»


32 Naomi guardò sua madre, prendendo atto che lei stava invece fissando suo marito con un’intensità che non le aveva mai visto negli occhi. «Voglio dirglielo, Marco. Mi sembra giusto che sappia.» L’uomo dissentì. «Non credo sia necessario e comunque non è il momento. È appena venuta fuori da un’esperienza che definire traumatica sarebbe poco. È stressata e stanca. Ciononostante, tra non molto sarà sottoposta a una specie di interrogatorio che di certo le causerà altra ansia. Il tutto dopo essersi fatta visitare e medicare senza nemmeno prendere un misero antidolorifico.» Suo padre le chiese conferma. «Vero, Naomi?» Lei annuì. Oltre a metterle a posto le dita, il dottor Di Iorio le aveva fatto disinfettare i graffi alle gambe, le ferite ai piedi e le striature intorno al collo. Inoltre, le aveva fatto fare un prelievo, l’aveva fatta orinare in una provetta e l’aveva fatta sottoporre a svariati altri tipi di esami strumentali e visite specialistiche. Il tutto, senza alcun sedativo. Il tutto, comunque e per fortuna, per concludere che stava abbastanza bene. Non aveva avuto nemmeno bisogno di una flebo di soluzione fisiologica, considerato che non era neanche disidratata. «Deve saperlo» si incaponì sua madre. «Deve capire quello che proviamo per lei. Deve comprendere ciò che lei rappresenta per noi.» Suo marito alzò le braccia e le fece ricadere subito dopo, in un gesto di rassegnazione. «Se vuoi dirglielo, fallo pure. Ma perché tutta questa urgenza? Non puoi almeno aspettare fino a quando non sarà finito tutto?» Incuriosita anche se al momento aveva altro di cui preoccuparsi, Naomi si mise a osservare sua madre con un’evidente espressione interrogativa. «Abbiamo fatto un patto» riprese la donna, abbassando il capo e palesando il fatto che non aveva alcuna intenzione di seguire il suggerimento di suo marito. «Ci siamo detti che il giorno in cui ci sarebbe stato comunicato il ritrovamento del tuo corpo, ci saremmo uniti a te in…» La voce le si ruppe un paio di volte. «In…In cielo» concluse la povera donna. E Naomi sentì la propria bocca spalancarsi come un forno. «Vuoi dire che…?» L’enormità delle parole che stava per pronunciare non le permise di concludere la frase. Vide sua madre annuire con forza. «Sì, Naomi. Avevamo deciso di suicidarci. Senza di te, la nostra vita non avrebbe più avuto alcun senso. Senza di te, ci saremmo trasformati in due ombre prive di uno scopo, prive di qualsiasi stimolo vitale. Tu sei tutto per noi. Perdendoti, avremmo perso tutto, e non ci sarebbe stata più alcuna ragione per continuare a trascinarci su questa terra.»


33 «Papà…» Naomi spostò lo sguardo su suo padre, che le confermò tutto annuendo e prendendo a gemere come fino ad allora non aveva mai fatto. «È vero, bambina mia. Avevamo deciso di farlo con la doppietta che abbiamo in campagna. Avevamo progettato di spararci in bocca. Prima tua madre, poi io.» Naomi si portò la mano sana alla fronte. «Gesù!» Altro che emozioni forti, rifletté. Chiudendo gli occhi, un brivido le attraversò tutto il corpo. I suoi genitori non avrebbero potuto scegliere un momento peggiore per farle quelle agghiaccianti confidenze. «Ma ora, come dici tu, è finita» disse sua madre, con il chiaro scopo di stemperare la drammaticità della sua precedente rivelazione. «Ma devi promettermi una cosa, figlia mia.» Naomi riaprì gli occhi, temendo un po' di sentire quello che la sua genitrice voleva che lei le promettesse. «Cosa?» Sua madre tirò su col naso un’infinità di volte, prima di rispondere. «Devi promettermi che non ti azzarderai a morire prima di noi» disse. «Abbiamo capito che non potremmo mai sopportarlo. Mai. In nessun modo. Per nessuna ragione.» Dio Santo! Per caso era uno scherzo? E meno male che aveva chiesto di potersi concentrare. Schiacciata dal peso di quello che aveva appena sentito, Naomi altro non poté fare che rifugiarsi nel buio creato dalle sue palpebre abbassate e pregò che il vicequestore arrivasse al più presto.


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·9

Di Niro fermò la berlina con il lampeggiante acceso dietro a una Ford nera posteggiata accanto a una guardiola, all’interno della quale una guardia giurata si ostinava a fare segno che lì non si poteva parcheggiare. Spento il motore e tirato il freno a mano, l’ispettore afferrò il tablet che si trovava sul cruscotto e scese. Minischetti e Lamanna lo imitarono subito: il primo sbucando dal sedile anteriore per il passeggero, il secondo da dietro. Quasi nello stesso momento, furono raggiunti da una pantera della Mobile con a bordo due agenti in divisa, uno dei quali, l’autista, non badando minimamente all’uomo nella garitta e al suo dito indice che oscillava a destra e a sinistra, piazzò la vettura alle spalle della berlina. «Voi rimanete qui» ordinò Minischetti ai due poliziotti un attimo prima che potessero scendere dall’auto. «Andiamo» disse poi all’ispettore e al magistrato. Di Niro e Lamanna gli si accodarono e lo seguirono nel pronto soccorso, dove furono accolti da un individuo pingue in giacca e cravatta che, a ogni stretta di mano, continuava a qualificarsi come dottor Domenico Curli, presidente della fondazione proprietaria dell’ospedale. «Vicequestore Marco Minischetti.» «Sostituto procuratore, dottor Guglielmo Lamanna.» «Ispettore Alberto Di Niro.» Fatte le presentazioni sotto gli sguardi curiosi dei pazienti che affollavano la sala d’aspetto in attesa di essere aggiustati, il direttore li guidò lungo un corridoio, fin dentro a un piccolo ambulatorio in cui c’erano uno spilungone malvestito, un uomo basso e calvo in camice, un maresciallo dei carabinieri grassoccio. Mentre per i tre appena giunti era facile intuire chi fossero i tre già presenti nella stanza, per questi ultimi era indispensabile fare la conoscenza dei nuovi arrivati se volevano stabilire con certezza chi fosse chi, tanto più che né Minischetti né l’ispettore Di Niro erano in divisa, e anche se il primo, suo malgrado, era diventato ormai un volto noto. «Vicequestore Marco Minischetti.» «Sostituto procuratore, dottor Guglielmo Lamanna.»


35 «Ispettore Alberto Di Niro.» «Professore Antonio Pandiscia.» «Dottor Di Iorio.» «Maresciallo Racioppa.» Seguirono strette di mano incrociate. L’unico che non partecipò ai convenevoli fu il dottor Curli. Minischetti notò che il padrone di casa aveva fatto portare sedie a sufficienza per tutti, ma tacitamente si decise di non servirsene e di rimanere in piedi. Per mezzo di sguardi e movimenti appena accennati, il vicequestore e il sostituto procuratore Lamanna si accordarono su chi dovesse condurre le danze. La spuntò Minischetti. «Bene» esordì. «Mi perdonerete se sarò un po' troppo incalzante, ma a quanto mi è dato di capire, la ragazza potrebbe avere informazioni cruciali da comunicarci e vorrei…vorremmo sentirla al più presto. Tuttavia, prima, avremmo bisogno di un veloce quadro della situazione.» Nessuno ebbe qualcosa da aggiungere o da obiettare. «Vorrei sentire prima il maresciallo» disse allora Minischetti, ricevendo una silente approvazione da Lamanna.. «Maresciallo.» Sentendosi chiamare in causa, il militare dell’Arma si impettì. «Stamane, verso le sette e mezza, il centralino del locale comando stazione riceveva una telefonata dal professore Antonio Pandiscia qui presente, durante la quale egli informava di aver caricato in macchina una ragazza che sosteneva di essere Naomi Lombardi. Il professore precisava che stava portando la giovane presso questo pronto soccorso e l’operatore gli assicurava che al loro arrivo avrebbero trovato sul posto personale dell’Arma. Accompagnato dal brigadiere Lorenzin, dopo aver prontamente avvertito la questura, mi facevo carico di venire qui in prima persona. Arrivato, avevo il tempo di interloquire sommariamente con il professor Pandiscia e di parlare con la Lombardi, la quale esprimeva da subito la ferma volontà di conferire con qualcuno che si occupava direttamente del caso del mostro. Questo richiedeva, prevedendo di non aver la forza di ripetere il proprio racconto due volte e temendo che, riferendo ad altri quello che aveva da dire, non tutto sarebbe stato correttamente riportato a coloro che avevano la titolarità delle indagini. Nel corso del breve colloquio, mi accertavo che si trattasse per davvero della Lombardi e le sottoponevo alcune domande. La ragazza rispondeva dicendo che sarebbe stata in grado di identificare e descrivere il suo rapitore, ma di non sapere nient’altro di lui, tranne il nome, Enzo, a lei fornito dallo stesso soggetto. Sosteneva inoltre di


36 essere scappata da una villetta ubicata nella foresta, luogo che a suo dire potrebbe aiutarci a localizzare. Subito dopo, richiamavo la questura e venivo messo in contatto proprio con il qui presente ispettore Di Niro, al quale assicuravo che non si aveva a che fare con una mitomane e al quale ribadivo la necessità che il dottor Minischetti, a cui pure la Lombardi aveva fatto esplicito riferimento, venisse qui al più presto. Inoltre, mi preoccupavo di preservare in maniera opportuna la sottoveste che la ragazza indossava al suo arrivo presso codesto ospedale.» Con una mano sulla bocca per celare un sorriso incoercibile innescato dalla parlata da verbale del carabiniere e scoprendosi di umore positivo, Minischetti disse: «Bene». Poi, avvertendo in ogni cellula del proprio corpo la velocità con cui trascorreva il tempo, fece un cenno verso Di Iorio e gli diede la parola: «Dottore». L’ometto si strinse nelle spalle. «Che dire?» cominciò. «La ragazza è arrivata qui con addosso solo l’indumento a cui ha fatto appena riferimento il maresciallo. Presentava tutte le dita della mano destra fratturate. Lei dice che le sono state rotte ieri, io dico più di recente, ma non posso esserne certo. Comunque sia, presentava anche graffi a piedi e gambe compatibili con una corsa nel sottobosco ed escoriazioni intorno al collo compatibili con il riferito tentativo di strozzamento. Per il resto, a parte qualche ecchimosi, le sue condizioni generali erano e sono abbastanza buone. Non è stata violentata, non appare denutrita e nemmeno minimamente disidratata. Le analisi del sangue e quelle delle urine sono ok. La sottana che indossava è sporca di sangue coagulato che lei sostiene non appartenerle. E non vi è motivo di dubitare che sia così, considerato che non presenta ferite sanguinanti o che abbiano sanguinato di recente.» Il dottore assunse un’espressione raggiante. «Conclusioni: le è andata di lusso. E ne sono contento. Mi piace. È una dura. Ha detto che prima di farsi curare voleva parlare con voi inquirenti. Poi, quando ci siamo accordati per rimetterla a posto in attesa del vostro arrivo, ha espresso il desiderio che non le venisse somministrato alcun tipo di sedativo per essere lucida nel momento di rendere la propria testimonianza.» «Grazie, dottore» disse Minischetti, già euforico da quando aveva saputo che Naomi Lombardi era viva e caricandosi ancora di più in seguito al resoconto del medico. «Sono certo che avrà cura di stilare un referto dettagliato sulle condizioni iniziali della ragazza e sugli interventi medici di cui ha avuto bisogno.» «Non mancherò» assicurò Di Iorio. «Ora veniamo a lei, professore.» L’uomo alto e magro si grattò la testa.


37 «Niente» disse. «Mi trovavo sulla provinciale 144 e stavo attraversando la foresta come faccio cinque giorni a settimana per raggiungere l’istituto scolastico in cui insegno, quando davanti a me si è parata la ragazza, seminuda. Ha alzato le mani ed è caduta in ginocchio. Io sono sceso dall’auto per vedere cosa le fosse successo e lei è stramazzata faccia a terra. L’ho girata di schiena e le ho chiesto se mi sentisse, visto che pareva svenuta. Lei mi ha risposto di avere urgente bisogno di un ospedale. Quindi si è alzata e io l’ho accompagnata alla macchina. Ho deciso di portarla qui perché è l’ospedale più attrezzato, in zona. Quando mi ha detto di essere Naomi Lombardi, quella Naomi Lombardi, ho telefonato ai carabinieri e all’ospedale. O meglio, ho tentato di farlo una prima volta, ma non c’era campo. Pertanto ho dovuto attendere fino a quando non siamo venuti fuori dalla foresta. Se mi avesse dato un numero da chiamare, avrei contattato anche i suoi genitori o qualche altro suo familiare, ma lei mi ha scongiurato di non farlo: non voleva farsi vedere dai suoi in quelle condizioni. Mi ha quindi rassicurato che avrebbe fatto chiamare sua madre e suo padre dopo che i dottori l’avessero resa più presentabile… o qualcosa del genere, adesso non ricordo le sue parole precise. Ah, e la scuola» proruppe dopo una piccola pausa. «Ho chiamato anche la scuola per riferire che oggi non mi avrebbero visto. Anzi, ho chiamato prima la scuola, poi i carabinieri e infine l’ospedale.» Minischetti ebbe l’impressione che il professore si aspettasse un rimprovero per aver dato la priorità al suo posto di lavoro. Per assicurargli che non aveva fatto nulla di male, gli disse che si era comportato benissimo. «Solo una cosa mi preme chiederle» soggiunse. «Mi dica» fece il professore. «Sarebbe in grado di indicare su una mappa il punto preciso in cui si è imbattuto nella ragazza?» Il professore rispose sicuro di sé. «Credo proprio di sì. Anzi, ne sono certo.» «Ottimo» esclamò Minischetti. «Allora la lascio un attimo in compagna dell’ispettore Di Niro e del suo tablet. E per oggi non prenda altri impegni, perché appena finiremo di sentire la ragazza, avremo bisogno di raccogliere le sue dichiarazioni in un verbale che dovrà firmarci.» Guardò Di Iorio. «Questo vale anche per lei, dottore.» Il medico assicurò che non c’erano problemi. Minischetti pose allora la sua attenzione sul dottor Curli. «Sarebbe così gentile da portarci da lei?» Non vedeva l’ora di poterle parlare. «Prego» fece il direttore della fondazione. «Seguitemi, le abbiamo riservato un’intera stanza al piano di sopra» aggiunse avviandosi verso la porta.


38 Mentre il maresciallo Racioppa e Lamanna si mettevano sulla scia del dottor Curli, Minischetti prese in disparte Di Niro prima che questi potesse avvicinarsi a Pandiscia e gli parlò in un orecchio. «Quando capisci dove il professore ha incontrato la Lombardi, allerta il NOCS, manda sul posto un paio di pattuglie e ordina agli agenti di fermare e identificare gli occupanti di tutti i veicoli in transito. Quando ne sapremo di più del luogo in cui è stata segregata, dobbiamo poter cominciare subito le ricerche. E voglio che sia qualcuno dei nostri a trovare la dannata villetta e a farvi irruzione. Intesi?» «Intesi.» Date queste disposizioni, Minischetti raggiunse gli altri tre in corridoio e, insieme a loro, si avviò verso la stanza in cui era ricoverata la sesta vittima del mostro.


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«Ci sono i suoi genitori, insieme a lei» disse il dottor Curli un momento prima di aprire la porta della stanza in cui si trovava Naomi. «Sono arrivati una mezz’oretta fa.» Minischetti gli fece segno di aver capito e il direttore spalancò la porta, facendosi da parte. Il primo a entrare fu Lamanna. Minischetti lo seguì a ruota e si affrettò a posare gli occhi sul viso della ragazza, che fino ad allora aveva visto solo in foto, scoprendo di avere una paura fottuta quanto irrazionale di vedere una faccia diversa da quella che aveva in memoria, la faccia di un'impostora che si era spacciata per Naomi Lombardi solo per fare uno scherzo cretino da raccontare sui social. Quando si accertò che semidistesa su uno dei due letti presenti, coperta da una trapunta all’apparenza non molto pesante, c’era proprio la Lombardi, il vicequestore cacciò fuori il fiato che nemmeno si era accorto di star trattenendo. Di contro, ebbe l’impressione che la ragazza lo scrutasse a sua volta con attenzione, come per assicurarsi che fosse proprio lui il capo della squadra antimostro che aveva visto tante volte in tv, prima di essere rapita. Anche lei a un certo punto espirò, come a voler sottolineare di essere contenta di trovarsi finalmente al cospetto dell’uomo con cui voleva parlare. Seduta alla destra del letto, c’era la madre della giovane, una casalinga di quarantacinque anni che ne dimostrava almeno dieci di più. Minischetti non sapeva se apparisse più vecchia di quanto sosteneva la sua carta d’identità per quello che aveva passato di recente o per ragioni indipendenti. Comunque fosse, negli ultimi cinque giorni, Minischetti l’aveva incontrata due volte, e in entrambe le occasioni le era sembrata meno affranta, stanca e giù di corda di quanto non lo fosse ora che aveva potuto riabbracciare la figlia. In piedi, al centro della stanza, stazionava il signor Lombardi, un negoziante di elettronica alto e panciuto che però, dall’ultima volta che era stato in questura con sua moglie, sembrava dimagrito di almeno cinque chili. Anche lui pareva più abbattuto adesso di quando la sua unigenita era ancora nelle mani del mostro.


40 L’uomo si avvicinò ai nuovi arrivati, mentre la donna rimase seduta, fulminandoli tutti con un’espressione piena di sdegno. In pensiero, Minischetti si disse che se la meritavano, quell’occhiataccia. Lui soprattutto. Era normale che la signora Marisa ce l’avesse a morte con le forze dell’ordine. Nessuna madre sarebbe stata bendisposta verso persone che nulla avevano fatto per impedire che la propria figlia fosse rapita dopo che la stessa sorte era toccata ad altre cinque povere ragazze. Quando il signor Lombardi salutò Minischetti e Lamanna dando loro la mano e chiamandoli per cognome, il direttore Curli capì che si conoscevano già e abortì qualunque manovra di presentazione avesse in mente di cominciare. «Vuole parlare con lei» rimarcò il signor Marco Lombardi, rivolgendosi a Minischetti con le lacrime agli occhi. «Dice che ha circostanze importanti da riferire.» Minischetti gli diede una pacca sulla spalla, sorridendogli benevolo. Poi lo superò e si avvicinò ai piedi del letto. Davanti a lui vedeva un miracolo. Un miracolo dalle sembianze di una diciannovenne carina, con i capelli biondi e lunghi, un po' sporchi e arruffati. Vedeva una ragazza ancora viva che lui aveva già dato per scontato di incontrare solo da morta, solo dopo che qualcuno l’avesse ritrovata nuda e con le budella di fuori come tutte le altre. «Naomi» disse solo, guardandola con intensità negli occhi verdi. Per un attimo pensò che avrebbe finito per abbracciarla, baciarla e ringraziarla di non essersi fatta uccidere. Poi, però, la signora Marisa si alzò e, forse dando fondo alle ultime forze che aveva in corpo, sbottò: «Ma che cazzo! Non potete tornare più tardi? Non vedete come è conciata?» Era livida di rabbia, e secondo Minischetti ne aveva tutte le ragioni. «Mamma!» le disse solo sua figlia, e la donna tornò a sedersi, calmandosi di botto, come se avesse appena ricevuto una suggestione inculcatale nel corso di una seduta di ipnosi. «Mamma, devo parlare con loro. Adesso. Non posso aspettare. Mi pare di avertelo già detto.» La donna non replicò e, perso ogni interesse per gli incapaci che le stavano attorno, si mise a contemplare in silenzio l’amata figliola. Anche Minischetti lo fece. Anche lui si rimise in devota contemplazione della ragazza, prendendo atto che quanto aveva affermato il dottor Di Iorio era proprio vero: Naomi pareva stare molto bene, date le circostanze. Non sembrava affatto reduce dall’esperienza spaventosa che aveva vissuto. «Allora, te la senti di rispondere a qualche domanda?» Vide Naomi sforzarsi di sorridere.


41 «È proprio il motivo per il quale vi ho fatto venire fin qua» disse. «Ottimo» intervenne Lamanna, in tono sbrigativo. «Facciamo le cose per bene, allora. Procederemo ex articolo 362 del codice di procedura penale. Nel senso che sarò io, in qualità di pubblico ministero, ad assumere le informazioni che lei, signorina, vorrà darci. A questo proposito, devo farle presente che, in quanto persona offesa in evidente condizione di particolare vulnerabilità, può avvalersi dell’ausilio di un esperto di…» «Dottore» lo bloccò Naomi, quasi contrariata. «Non mi serve l’aiuto di niente e nessuno. Voglio solo che ci sbrighiamo. Ogni secondo che passa potrebbe fare la differenza, mi creda.» Proprio in quel momento arrivò Di Niro. Nemmeno lui ebbe bisogno di presentarsi ai genitori di Naomi. Anche lui osservò la ragazza come se fosse un alieno caduto sulla terra. Poi lanciò un cenno di intesa a Minischetti per fargli capire che aveva fatto tutto quello che gli era stato chiesto di fare. «Ispettore, si sieda e verbalizzi con quel tablet, che non c’è tempo da perdere» disse Lamanna. Ora, più che avere premura di escutere Naomi, il magistrato sembrava incazzato con lei per come lo aveva rimbeccato poco prima. «Un attimo» interloquì Minischetti. Quindi si rivolse ai coniugi Lombardi. «Forse è meglio se uscite.» Minischetti strinse i denti, aspettandosi un’altra sfuriata dalla signora Marisa. Tuttavia, l’unica reazione arrivò dal signor Lombardi. «Posso chiedere perché?» domandò l’uomo. Minischetti glielo spiegò: «Non vorrei che tacesse qualcosa per non dirla in vostra presenza». Muovendosi come a disagio nel letto, Naomi assicurò che i suoi genitori non erano un problema: lei non avrebbe taciuto niente, sia che loro fossero rimasti nella camera sia che fossero usciti. Minischetti stava per controbattere, quando in maniera del tutto inattesa la signora Lombardi si alzò, si avvicinò a suo marito, lo prese sottobraccio e cominciò a trascinarlo verso la porta, incurante delle deboli proteste di lui. «Lasciamo che nostra figlia risolva il caso, Marco. Perché da soli, questi deficienti, non ci riuscirebbero neanche in un milione di anni.» Questo disse la donna, quindi uscì dalla camera portandosi dietro il consorte e sbattendosi la porta alle spalle. Minischetti incrociò lo sguardo degli altri uomini presenti nella stanza, come per chiedere loro un commento su quanto era appena accaduto. Ne ricevette in cambio alzate di spalle, sospiri e occhi al cielo, gesti perlopiù in combinazione binaria fra essi, ma presenti tutti e tre nella replica di Lamanna.


42 «Qualche altra richiesta, dottor Minischetti?» gli domandò il magistrato. «Dubbi? Precisazioni? Le ricordo che abbiamo tutti una gran fretta.» Minischetti sapeva che quella punzecchiatura non era diretta a lui, bensì alla ragazza. Sperava solo che la giovane non se ne accorgesse o quantomeno che la cosa non la indisponesse. Per fortuna, Naomi pareva tranquilla. Almeno, al netto del fatto che sembrava scalpitare per poter parlare. «Io vado» annunciò in quell’istante il dottor Curli, forse intuendo di essere di troppo. «Se avete bisogno di me, sono nel mio ufficio.» Indicò il soffitto. «Terzo piano.» «Eccellente» fece Lamanna non appena il direttore ebbe tolto il disturbo. Quindi si rigirò verso la ragazza e afferrò con entrambe le mani la pediera in acciaio del letto, stringendola con forza come se fosse la barra di sicurezza di una giostra pericolosa. Mentre Di Niro prendeva posto sulla sedia fino a quel momento occupata dalla signora Lombardi, il magistrato cominciò a subissare Naomi di domande e notizie preliminari, come le definì lui. «Sono a beneficio della regolarità del verbale» puntualizzò a un certo punto, sempre un tantino stizzito. Esternando un pizzico di esasperazione, Naomi rispondeva comunque con precisione. Osservando Di Niro battere con furia i polpastrelli di entrambi gli indici sullo schermo del tablet che teneva in grembo, Minischetti si estraniò, ma solo per un attimo, ricordandosi della previsione di sua moglie. «Comunque, ti ripeto, ho la forte sensazione che oggi accadrà qualcosa di positivo» aveva detto Eleonora. «Perciò mettiti in piedi, fatti una bella doccia corroborante, scolati una caffettiera e vai a prenderlo, quel bastardo.» Adesso, in pensiero, lui le rispose esattamente come qualche ora prima. Amen.


43

·11

Impiccati! Naomi rivolse quel pensiero poco gentile all’uomo in giacca e cravatta aggrappato alla sponda inferiore del letto, il sostituto procuratore Lamanna. In un primo momento, il magistrato aveva dato la genuina impressione di aver premura di sentire quello che lei aveva da dire. Ora, invece, pareva solo alquanto irritato per come lei gli aveva risposto quando lui l’aveva avvertita che poteva farsi assistere da un esperto di qualche tipo. «Non mi serve l’aiuto di niente e nessuno. Voglio solo che ci sbrighiamo. Ogni secondo che passa potrebbe fare la differenza, mi creda» aveva detto lei, e il sostituto procuratore aveva cominciato a odiarla. O almeno era questo che pensava lei, anche se in fin dei conti non poteva fregargliene di meno. Quando finalmente le domande e le notizie preliminari a beneficio della correttezza del verbale si esaurirono, l’uomo cominciò con tutta una serie di insulsaggini legali, sempre a beneficio dello stramaledetto verbale che il tizio senza nemmeno un capello stava scrivendo sul tablet che teneva in bilico sulle ginocchia. Quando anche questo preambolo ebbe fine, Lamanna si voltò verso il vicequestore, che pareva la persona più assennata di tutte. Più assennata del magistrato e del pelato, ma anche del carabiniere grassone con la parlata affettata, che se ne stava in disparte in religioso silenzio. «Credo che prima di chiederle di raccontare cosa le è accaduto, sia indifferibile capire fino a che punto può aiutarci a identificare il responsabile del suo rapimento e a localizzare il luogo da cui, come riferito dal maresciallo Racioppa qui presente, pare che lei sia scappata.» Il pubblico ministero parlava con lei, ma aveva gli occhi fissi sul vicequestore. E questo atteggiamento, scoprì Naomi, la innervosiva molto. E poi che diamine voleva dire “il luogo da cui pare che lei sia scappata”? Quell’essere permaloso stava forse dubitando di lei? Naomi realizzò un’altra cosa: se il magistrato la odiava, adesso anche lei odiava lui. «Non mi crede, dottor Lamanna?» Naomi decise di mettere subito sul piatto la questione, a scanso di equivoci. «È questo che mi vuol far capire?»


44 Il sostituto procuratore si girò verso di lei come un tornado. I suoi occhi parevano lanciare fiamme. Tuttavia, prima che potesse dire qualcosa, Minischetti si prodigò in un provvidenziale intervento da paciere. «No, Naomi, il dottor Lamanna non intendeva affatto questo. A proposito, posso darti del tu?» Naomi glielo concesse, assentendo impercettibilmente con il capo. In quel frangente era impegnata a interpretare la reazione del magistrato alle parole del poliziotto. Fu così che capì quanto fossero fondati i suoi sospetti. Il sorriso beffardo che il procuratore aveva ora stampato in faccia non lasciava spazio a dubbi. Stava a significare che lui non le credeva, o quantomeno non avrebbe preso subito per oro colato tutto quello che lei avrebbe detto. E insistendo con quell’espressione sardonica, ostinandosi a non sostituirla con una più accondiscendente, il magistrato voleva che tutto questo le fosse ben chiaro. «E cosa intendeva, il dottor Lamanna?» Naomi fece quella domanda senza distogliere l’attenzione dal procuratore. Voleva veicolargli il messaggio che non era una stupida e che non era una ragazzina facile da intimorire: aveva inteso che lui, chissà perché, era determinato a non darle credito (almeno non subito e non in maniera incondizionata), ma non sarebbe arretrata davanti a quell’atteggiamento. E questo per due ragioni: era una tosta e, soprattutto, aveva dalla sua parte la forza della verità. «Devi sapere, Naomi, che nei tribunali, durante i processi, o nelle questure, durante le indagini, non diamo niente per certo fino a quando non reperiamo prove incontrovertibili» argomentò Minischetti, dando l’incontrovertibile impressione di arrampicarsi sugli specchi. «Anche quando un fatto ci viene presentato dal più credibile dei testimoni, lo prediamo sempre con le pinze, almeno fino a quando non abbiamo un’ulteriore conferma della sua veridicità. Non so se mi sono spiegato.» Naomi apprezzò il tentativo del vicequestore, ma poiché anche lui doveva avere ben chiaro che lei non era una decerebrata di diciannove anni qualunque, in tono provocatorio e sempre con gli occhi puntati su Lamanna, disse: «Ah, capisco. Allora deve trattarsi di deformazione professionale o qualcosa del genere.» Guardò Minischetti. «È così, vero?» Naomi capì di essersi spiegata anche con il vicequestore quando questi, grattandosi la testa, mostrò imbarazzo per aver trattato da bambina una giovane donna con gli attributi, intelligente e difficile da abbindolare. «Eh, sì, una cosa del genere» le fece eco il poliziotto. «Una cosa del genere» ripeté subito dopo, cambiando registro e acquisendo una certa durezza, come se adesso volesse consigliarle di abbassare la cresta, senza prendersi


45 gioco di quello che lui aveva detto per giustificare il procuratore, perché era così che ci si comportava nell’ipocrita mondo degli adulti. «Ok» lo compiacque Naomi, addolcendo l’espressione. «Andiamo avanti» aggiunse. Ma Lamanna non smussò la propria smorfia. Non lo fece nemmeno quando, con lo sguardo, Minischetti lo implorò di cambiare atteggiamento per il quieto vivere. «Sai qual è il problema?» domandò il magistrato a Naomi. «Il problema è che questa tua premura mi incuriosisce un po'.» Naomi si chiese chi avesse autorizzato il magistrato a darle del tu e cominciò a temere che il termine incuriosire fosse la traduzione in avvocatesco politicamente corretto di insospettire. Nonostante ciò, questa volta decise di non replicare. Per il momento, almeno. Se il magistrato voleva fare la parte del bambino scontroso o quella del poliziotto cattivo come negli interrogatori dei film, che facesse pure. Prima o poi si sarebbe stancato. A lei interessava solo che avesse assimilato il concetto che quella mocciosa poco più che maggiorenne che aveva davanti era in grado di tenergli testa ogni volta che le fosse saltato in mente di farlo. «Voglio dire» continuò Lamanna, mentre Minischetti cercava in tutti i modi di richiamare la sua attenzione per farlo tacere, «una persona della tua età, dopo aver passato quello che ha passato, penserebbe prima a se stessa e poi alle indagini. E invece tu hai insistito per parlare con noi prima ancora di farti prestare soccorso. E non hai voluto che ti somministrassero antidolorifici per non correre il rischio di confonderti al momento di testimoniare. Capisci ora perché sono un po' sospettoso? Secondo te, faccio male a esserlo? Esprimi pure la tua opinione, signorina. Aiutami a mettere da parte questo mio… come definirlo?… pregiudizio. Prego.» Naomi avrebbe voluto rinfacciargli che a suo avviso la stava trattando con diffidenza per il modo un po' brusco con cui lei gli aveva risposto poco prima, ma questa parte se la tenne per sé. Cionondimeno, disse: «Certo che fa male a essere sospettoso, dottor Lamanna». Poi addolcì il tono. «Fa male perché c’è un grave e preciso motivo per cui ho chiesto di incontrarvi subito.» Usò il mento per accennare al maresciallo. «Non so se vi ha spiegato perché non ho voluto riferire a lui, preferendo aspettare il vicequestore Minischetti» Serrò le palpebre e ne spremette fuori un paio di lacrime. «Adesso un po' me ne pento. Forse ho fatto perdere troppo tempo.» Riaprì gli occhi. «Potrete mai perdonarmi?» Lamanna sembrò rigirare la domanda a Minischetti, chiamandolo in causa con un cenno, come se l’afflizione della giovane lo facesse sentire a disagio.


46 Il poliziotto si fece avanti. Era sbiancato come se fosse reduce da una forte e repentina emorragia che lo aveva prosciugato di tutto il sangue che aveva in corpo. A Naomi diede l’impressione di non aver alcuna intenzione di impartirle una qualche assoluzione. Era evidente che aveva capito tutto. Naomi lo vide fare qualche altro passo nella sua direzione e si augurò di non essersi guadagnata un altro nemico. Anche Lamanna e il pelato parevano aver notato quanto fosse turbato Minischetti, anche se forse non ne avevano ancora intuito il motivo. «Vuoi dire che…?» Il vicequestore non fu interrotto da niente e nessuno, ma non riuscì a portare a termine la domanda. Naomi annuì. «Sì, dottor Minischetti. Ne ha presa un’altra. L’ha chiamata Teresa. Ho paura che non appena si accorgerà che sono scappata, la ucciderà subito, senza aspettare il momento in cui ha programmato di farlo.»


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·12

Domenica 9 febbraio. Teresa era ubriaca fradicia. La musica assordante contribuiva a intontirla ancora di più. Non aveva mai bevuto così tanto, e quel minimo di raziocinio che le rimaneva le stava suggerendo che presto non sarebbe più stata padrona di sé. Si passò una mano sul viso nella speranza che così facendo potesse dissolvere la nebbia che le imbozzolava il cervello. «Ti senti bene?» le chiese il suo corteggiatore compulsivo, che qualche minuto prima si era andato a sedere al loro tavolo senza essere invitato. «Ho bevuto troppo» confessò Teresa. Si chiese se il tizio che diceva di chiamarsi Enzo l’avesse sentita. Nonostante fossero seduti a meno di quindici centimetri l’una dall’altro, la musica era davvero troppo alta. «Una birra e un cocktail con una stilla di Martini per te è bere troppo?» Teresa si accorse di avere difficoltà a respirare. Era come se avesse un peso enorme sul petto. Non berrò mai più un goccio di alcol in tutta la mia vita, si ripromise. «È meglio che me ne torni a casa» disse. Poi si guardò intorno. Dove diavolo erano finite le sue amiche? Un attimo prima erano sedute davanti a lei. Possibile che non si fosse accorta del momento in cui si erano alzate? «Ehi, ma dove sono…?» Enzo rise. Aveva capelli biondi e un viso pulito da bravo ragazzo. Un tipo più che interessante. Come diavolo mi è saltato in mente di rifiutarlo tante volte? Peccato che allora non si trovasse nelle condizioni di approfondire la conoscenza. Per un momento, Teresa si commiserò per come si era ridotta. Poi, scrutando la folla che si dimenava sulla pista da ballo, tornò a chiedere dove si fossero cacciate le sue amiche. Enzo rise di nuovo.


48 «Devi essere veramente cotta, cara mia. Le tue amiche sono appena state rapite da due giovanotti alti e muscolosi. Te lo sei perso?» «Come rapite? Quali giovanotti?» Teresa non avrebbe voluto fare la figura della stupida, ma proprio non riusciva a controllarsi. Enzo le si avvicinò e puntò il dito verso la folla di individui che si stava scatenando al centro del locale. «Le vedi? Sono proprio là.» Teresa socchiuse gli occhi e protese il busto sul tavolo. Con sua grande sorpresa, riuscì subito a individuare Marta e Carmela. Saltellavano davanti a due energumeni, che invece si limitavano a spostare il loro peso da un piede all’altro. Ballano come ballano i duri, pensò Teresa, scoppiando a ridere. «Che ti prende?» le chiese Enzo, in tono divertito. «Niente, niente. Comunque è meglio se…» Lasciò cadere la frase senza accorgersene. All’improvviso si sentiva leggerissima, come un pallone gonfio di elio. Tra poco il mio sedere si staccherà dalla sedia e comincerò a volare fino a… Alzò lo sguardo verso il soffitto. Fino a incastrarmi fra quei faretti lassù. «È meglio se…?» disse Enzo, alzando la voce per farsi sentire al di sopra della musica. «È meglio se cosa?» Lei impiegò qualche secondo a tornare in sé, seppure nella modalità parziale per la quale doveva ringraziare una Bud da 33 cl e un bicchiere con dentro più ghiaccio, menta e soda che Martini e prosecco. «È meglio se vado» concluse. Enzo indicò di nuovo in direzione di Marta e Carmela. «E vuoi rovinare la loro serata? Mi pare di aver capito che siete con la macchina di Carmela…» «No, non voglio rovinare niente» disse lei. «Ma è meglio se…» Capì di essersi estraniata ancora una volta quando Enzo le prese con delicatezza il mento fra due dita e le girò la testa, in modo che potessero guardarsi in faccia. «Forse hai ragione» le concesse il ragazzo. «Forse per te una birretta e un Martini Spritz sono veramente troppi.» «Sì… deve essere così» concordò lei. «Che ne dici se ti do un passaggio?» «Mai accettare passaggi dagli sconosciuti» rispose lei e, pur non volendolo, si mise a ridere in maniera sguaiata.


49 «Sei messa male, cara mia» disse Enzo alzandosi. Poi le tese una mano. «Dai, andiamocene.» Teresa avrebbe voluto avvisare le sue amiche. Anzi, avrebbe voluto che fossero loro ad accompagnarla e non un ragazzo che conosceva a malapena, un ragazzo che aveva appena cominciato ad apprezzare, ma che fino ad allora aveva considerato più che altro uno scocciatore. Tuttavia, pur mettendosi in piedi senza accettare l’aiuto che le veniva offerto, si aggrappò alle spalle di Enzo e si lasciò guidare fuori dalla confusione. L’ultimo ricordo che la sua mente registrò prima di piombare nell’oblio più assoluto fu il suo salvatore che gettava una piccola boccetta di vetro trasparente nel bidone della spazzatura all’esterno del locale.


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·13

Gesù! Minischetti si passò una mano sulla faccia per scacciare lo sconcerto che vi era sopra. Per un attimo, ma solo per uno, i suoi intenti aggressivi cambiarono destinatario: si spostarono dal sostituto procuratore Lamanna, reo di ignorare i suoi segnali e di continuare a fare lo stronzo con Naomi, alla ragazza stessa, che per oltre un’ora dall’arrivo in ospedale si era tenuta per sé quell’informazione cruciale. Minischetti avrebbe voluto saltare sul letto e prenderla a schiaffi, urlandole che sarebbe stata solo colpa sua se la Teresa di cui aveva parlato fosse stata uccisa. A un tratto, però, si soffermò a osservare i segni che Naomi aveva intorno al collo e la sua rabbia sfiatò come vapore da una pentola a pressione. Pentendosi di aver solo pensato di usarle violenza, Minischetti inquadrò il silenzio della ragazza nella giusta prospettiva. Quali che fossero le ragioni per cui lei non aveva subito riferito al maresciallo del nuovo rapimento, si era trattato dell’errore di valutazione di una donna giovanissima che, sebbene pressoché illesa, era appena venuta fuori dall’inferno. Minischetti sapeva che i reduci da eventi traumatici o esperienze terrificanti, specie se di sesso femminile, spesso si estraniavano dalla realtà, chiudendosi in un mutismo che poteva durare giorni, se non settimane o addirittura mesi. Era pertanto una gran cosa che Naomi fosse reattiva e già disponibile a narrare la propria discesa agli inferi. Di conseguenza, non le si poteva certo dare addosso se, dopo quello che aveva passato, aveva commesso la leggerezza di aspettare gli inquirenti che direttamente si occupavano degli omicidi del mostro per dare la terribile notizia dell’esistenza di un’altra giovane rapita. Come intuendo le sue precedenti e poco amichevoli intenzioni, e rivolgendosi a lui e solo a lui, Naomi formò con il labiale un’altra richiesta di perdono. Poi prese a piangere in maniera sommessa. Minischetti le si avvicinò, portandosi sul lato del letto dirimpetto all’ispettore Di Niro anch’egli scioccato da quello che aveva appena sentito.


51 «La sai quella del latte versato?» chiese Minischetti a Naomi, riuscendo a trasformare alcuni suoi singhiozzi in un risolino tossicchiante. «Se la sai, smettila di piangere e raccogli le idee.» Minischetti sperò di non aver usato un tono troppo perentorio e di non aver dato l’impressione di volerla rimproverare. Non intendeva metterle più pressione di quanto fosse necessario. Non voleva rischiare di farla confondere o persino di inimicarsela, tanto più adesso che lei aveva capito di aver sbagliato e che tutti gli uomini che le erano intorno ritenevano difficilmente perdonabile la sua superficialità. «Adesso devi essere forte come lo sei stata fino a questo momento. Devi essere chiara e portarci da quell’uomo e nel suo covo. Pensi di potercela fare?» Sul comodino accanto al letto c’era un rotolone di carta assorbente: Minischetti ne staccò un foglio e lo porse alla ragazza. Naomi lo prese e lo usò per tamponarsi le lacrime. «Sì» rispose. «Posso farcela.» Apprezzando la sua determinazione, Minischetti le regalò un sorriso di approvazione. Poi le chiese: «Hai detto che la ragazza si chiama Teresa. Ho capito male?» Naomi fece di no con la testa. «È così che l’ha chiamata.» «Niente cognome?» «No, niente cognome?» «Tu l’hai vista, hai avuto modo di parlarle?» Naomi scrollò la testa, desolata. Minischetti poteva capire che lei si sentisse responsabile nei confronti della nuova vittima. Sperava solo che non si attribuisse colpe che non aveva, o almeno che non lo facesse per aver visto un’assoluta disapprovazione sul viso del poliziotto che aveva davanti. Non voleva essere lui il motivo per il quale quella bella ragazza di diciannove anni si sarebbe dannata l’anima per tutta la vita, rimpiangendo di non aver parlato prima nel caso in cui Teresa non ce l’avesse fatta. «No, non ci ho parlato né l’ho mai vista. Ieri, quando l’ha portata alla villetta, mi trovavo…» Minischetti la bloccò mostrandole il palmo della mano destra. «I dettagli ce li darai dopo, Naomi. Ora è importante che ci aiuti a capire chi è il mostro e dove si trova il luogo in cui sei stata tenuta prigioniera. Ma prima…» Minischetti richiamò l’attenzione dell’ispettore con un movimento del capo. Non ebbe bisogno di dirgli nulla, che l’altro si alzò e uscì dalla camera, portandosi dietro il tablet.


52 «Ma prima qualche altra domanda» riprese, tornando a rivolgersi a Naomi non appena Di Niro si fu chiuso la porta alle spalle. «Ammettiamo… speriamo che questa Teresa di cui parli sia ancora viva: secondo te, quanto è probabile che si trovi ancora in quella villetta?» Naomi rispose senza tentennamenti. «Fino al momento in cui sono fuggita, non ho più sentito il portone aprirsi. E poi non è che le sposti di qua e di là. A quanto ho capito, ha solo quel rifugio. E le ragazze che vi entrano…» La voce le si incrinò. «E le ragazze che vi entrano non vi escono più. Vive, almeno.» Minischetti si accorse di essere in apnea. Riprendendo a respirare, domandò: «Ha fatto riferimento a qualcun’altra? A una ragazza di nome Giovanna o a un’altra che si chiama Tonia? Sempre che tu non le abbia incontrate di persona, è ovvio.» Naomi cominciò a iperventilare, forse nel disperato tentativo di non rimettersi a piangere. «Lei mi sta chiedendo di Giovanna Di Maio e Tonia Urbano.» La sua non era una domanda. «Lei mi sta chiedendo della numero quattro e della numero cinque, come le chiamano i giornalisti.» E non solo loro, avrebbe voluto puntualizzare Minischetti. «Esatto, sto parlando proprio di loro. Le hai viste? Le hai sentite? Lui ha detto qualcosa su di loro?» Gli atti respiratori di Naomi si fecero ancora più veloci. «Sì, le ho viste.» «Stanno…?» Minischetti non riuscì a finire la frase. Avrebbe voluto chiederle se le due ragazze stessero bene, per quanto possibile nella loro situazione, ma Naomi gli parlò sopra. «Stanotte» disse, affannata e sofferente come dopo una lunga corsa. «Stanotte sono stata con loro.» Minischetti sentì nascere in sé una piccola speranza. «Sono…?» Questa volta avrebbe voluto domandare a Naomi se la Di Maio e la Urbano fossero ancora vive. Ma la ragazza lo interruppe di nuovo. «Ci sono stata sdraiata sopra» affermò, ricominciando a piangere. «Quasi tutta la notte, ci sono stata sdraiata sopra. In una vasca. Tonia la conoscevo già. Era mia compaesana. Ho pianto quando ho saputo della sua scomparsa. Non era proprio una mia amica, ma a volte si aggregava a noi, alla compagnia con la quale io e Giulio uscivamo qualche anno fa. Ha detto di averle squartate insieme il giorno prima di rapire me, vale a dire il giorno dopo aver ucciso Martina Palumbo. Ha detto che l’idea di ucciderne due contemporaneamente, chissà perché, gli è venuta dopo aver massacrato


53 Martina. Ha detto che la notte successiva all’omicidio di Martina non ha dormito, pensando a quell’idea. È per questo che il giorno dopo aver massacrato Martina ha rapito Tonia e l’ha uccisa insieme a Giovanna.» Adesso la diga era tracimata e Naomi pareva un fiume in piena. La fronte striata da vene gonfie e la parte centrale del viso coperta dall’avambraccio destro, parlava a ruota libera e piangeva a dirotto. «Mi ha detto che non riesce a controllarsi più come una volta. È per questo che adesso ha la necessità di prenderne una dopo l’altra, mentre prima andava a caccia solo una volta al mese. È diventato ingordo. Ha usato proprio questo termine: ingordo. “Negli ultimi giorni ho scoperto di essere diventato ingordo” ha detto. “Se ti avessi presa prima, quando riuscivo a controllarmi, avresti vissuto di più, ma adesso… Adesso…”» Quando gli fu chiaro che Naomi non sarebbe stata più in grado di parlare se prima non si fosse calmata, Minischetti si sedette sul bordo del letto, sperando che facendole sentire la propria vicinanza fisica potesse anche comunicarle una sorta di prossimità emotiva che le fosse di conforto. Rammaricandosi di non aver previsto un’emergenza come quella e di non essersi portato dietro nemmeno una poliziotta, magari una di quelle agenti empatiche di cui pullulava la sezione dedicata alla violenza sulle donne e allo stalking, stava quasi per richiamare in stanza i genitori della ragazza, quando questa si rasserenò all’improvviso. «Mi scusi» disse. «Scusatemi tutti» aggiunse guardando Lamanna e il maresciallo Racioppa, che avevano assistito agli ultimi eventi senza fare un fiato e che nemmeno adesso, forse ancora troppo scossi dalle parole della testimone, riuscirono a spiccicare una parola di solidarietà nei suoi confronti. «Vi chiedo ancora una volta di perdonarmi. Mi sono lasciata andare. Non accadrà più. Ve lo assicuro.» Fu allora che Di Niro rientrò nella camera. «Allora» gli chiese Minischetti, rimettendosi in piedi, ansioso di conoscere l’identità dell’ennesima vittima del mostro. «Trovato qualche riscontro?» L’ispettore scosse il capo in segno di diniego. «No» replicò. «Nel Ri.Sc. non c’è ancora niente.» Voleva dire che al momento, nel sistema informativo Ricerca Scomparsi del dipartimento di pubblica sicurezza, non risultava inserita alcuna scheda ante mortem relativa a un soggetto di sesso femminile di nome Teresa scomparso in zona da meno di ventiquattr’ore. Minischetti si voltò verso Naomi, notando la rabbia che ora velava il suo giovane volto. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD


Indice

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