La doppia spirale, Massimiliano Cardella

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MASSIMILIANO CARDELLA

LA DOPPIA SPIRALE

ZeroUnoUndici Edizioni


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LA DOPPIA SPIRALE Copyright © 2019 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-339-0 Copertina: immagine Shutterstock.com


Nell’intimo cuore, nel segreto più segreto della felicità, abita l’angoscia, che è disperazione: questo è il luogo più caro alla disperazione, quello che preferisce fra tutti: profondamente dentro alla felicità. Kierkegaard, La malattia mortale



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CAPITOLO I

L'auto procedeva velocemente lungo la strada desolata che costeggia l'East River, lo stretto marittimo di New York tra la Upper New York Bay al limite meridionale e il Long Island Sound a nord. L'East River è famoso, oltre che per i numerosi meandri e le baie strette e profonde su entrambe le rive, anche per la pericolosità delle sue acque per chi vi nuoti dentro o per chi vi cada, nonostante siano più pulite rispetto ai decenni scorsi. Presenta infatti pochi punti a cui ci si può appigliare e la velocità delle acque, di circa quattro nodi, può spingere i nuotatori casuali fino al mare. L'asfalto era leggermente bagnato. Nel pomeriggio era caduta molta acqua e la città di New York non era riuscita ad assorbirla tutta. Le previsioni meteorologiche si erano rivelate puntualmente esatte e, già da un mese, la pioggia e il freddo si facevano sentire prepotentemente nei weekend. All'interno della Ford Fiesta risuonava la melodia delle Quattro stagioni di Vivaldi, ovviamente l’Inverno. Di solito la musica classica rilassava Kenneth Simmons, soprattutto quando guidava, però, al momento, il concerto in Fa minore non riusciva a diminuirgli la tensione, perché la luna era coperta dalle nuvole e il livello di concentrazione alla guida doveva essere alto se voleva evitare le varie buche disseminate sulla strada extraurbana. La moglie di Kenneth, Susan, seduta accanto a lui, guardava


6 assorta lo scorrere veloce dei pini allineati lungo la carreggiata. Il finestrino rifletteva il suo viso delicato e armonioso, le sue labbra carnose e i capelli scuri che continuavano a caderle sui luminosi occhi verdi, mentre lei, meccanicamente, li scostava con aria distratta. Le piaceva osservare la natura e l’affascinava l'universo considerato nella sua forma, nella totalità dei fenomeni e delle forze che in esso si manifestano. Inoltre la velocità dell'auto metteva di solito in risalto, in forma confusa e continua, il suo colore preferito, il verde, ma quella sera, essendo particolarmente buio, si riuscivano a vedere solo le ombre degli alberi. «Cosa succede? Perché sei così silenziosa?» le domandò Kenneth senza distogliere lo sguardo dalla strada. «Niente! Stavo solo pensando» rispose con indifferenza Susan. Kenneth sapeva che quel tono significava “guai in vista”, quindi rimase un po’ indeciso se indagare ulteriormente oppure lasciare andare. Alla fine la curiosità gli fu cattiva consigliera. «A cosa stavi pensando? È strano per me non sentirti parlare per tutto il tragitto!». Forse non era il modo giusto di porre la domanda, ma era ciò che realmente voleva dire. «Vuoi proprio sapere che cosa ho?». Adesso il tono di Susan era cambiato, appariva indispettito. Kenneth capì di aver innescato la bomba e voleva risponderle “lascia perdere” ma ormai era troppo tardi perché Susan avrebbe parlato comunque. Quindi non emise alcun suono. «Sono stanca». Parole pericolose dette da Susan, pensò Kenneth, perché se lei era stanca voleva dire che, da quel momento, sarebbe stato Kenneth a sfiancarsi. «Non faccio mai nulla. Sono sempre sola a casa...». «Ma come…? Me lo dici proprio stasera che torniamo da una


7 festa» la interruppe lui. «Festa!? Una riunione noiosa con i tuoi colleghi vuoi dire». «Sai che il mio lavoro…» Kenneth non riuscì a finire la frase. «Il tuo lavoro… il tuo lavoro… sempre e solo il tuo lavoro. Non pensi a me che, per colpa tua, ho perso di vista tutte le mie amiche e non vedo mia madre da luglio». Quest’ultima affermazione fece calare un velo di tristezza sul viso di Susan. Aveva ragione, pensò Kenneth, ma lui non poteva farci nulla. La Federal Bureau of Investigation era solita dislocare i suoi agenti in tutta la nazione e in tutto il mondo, senza pensarci due volte. Anzi, a Kenneth non era andata tanto male perché New York era una bella città e offriva parecchie distrazioni ma, ultimamente, lui era stato davvero molto impegnato: doveva assicurare dietro le sbarre Tuesday. Lavorava su quel caso da cinque mesi e ancora non aveva raggiunto alcun risultato. Il serial killer, che preferiva entrare in azione solo il martedì, aveva già mietuto tre vittime, perciò l’indagine era diventata un problema federale. Tuesday sceglieva ragazze giovani e carine, le adescava in discoteca o nei pub e poi si divertiva a massacrarle. Quel bastardo aveva buon gusto ed era anche riuscito a farla franca fino ad allora, pensava Kenneth, convinto però che prima o poi l’avrebbe preso, perché per lui il delitto perfetto non esisteva e, se alcuni casi rimanevano insoluti, ciò accadeva perché anche l’FBI non era perfetta. Lui però aveva una marcia in più. Dai fascicoli letti Kenneth si era già fatto un’idea del profilo di questo serial killer e, di solito, non sbagliava. Per questa sua abilità era riuscito a entrare, tempo addietro, nella sezione dei “Crimini violenti”, era stato trasferito in Florida e lì aveva


8 incontrato Susan di cui si era innamorato perdutamente. Ricordava ancora come si erano conosciuti, quasi per caso. Era seduto su uno sgabello davanti al bancone di un pub nel quartiere di Downtown a Orlando e Susan si era avvicinata per prendere tre birre, una per sé e le altre per le amiche che l’aspettavano a un tavolo vicino. Quando stava per allontanarsi, le era caduto un orecchino. Kenneth prontamente lo aveva raccolto e, nel restituirglielo, l’aveva fissata per una manciata di secondi negli occhi e aveva capito che era la donna della sua vita. Successivamente si erano rivisti spesso e, dopo sei mesi, si erano sposati. Nei due anni successivi trascorsi in Florida, Kenneth era riuscito a risolvere due casi complicati e altri di poco conto, poi aveva ricevuto dal suo capo, Jacob Tyler, un uomo risoluto e di poche parole, il dossier di Tuesday ed era stato costretto ad abbandonare Orlando e, insieme alla moglie, si era trasferito a New York. Susan, che non aveva mai lasciato la sua città, all’inizio era stata ben lieta di seguire il marito, di vedere posti nuovi e di uscire dalla monotonia della vita locale ma, ben presto, a causa del suo carattere riservato non essendo riuscita a fare nuove conoscenze, si era chiusa in se stessa. Aveva provato a cercare un lavoro ma la sua laurea in Lingue non le era stata di grande aiuto e perciò trascorreva le sue giornate a New York, entro le quattro mura del suo appartamento nello Staten Island, tenendo pulita la casa, uscendo per fare la spesa e cucinando per il marito che puntualmente non arrivava mai all’ora di pranzo, perché troppo impegnato. L’appartamento era l’unico dato positivo della sua vita in


9 quella città. Era piccolo ma confortevole, tutto parquettato e con pochi arredi. Nella camera da letto, oltre al letto matrimoniale, c’erano una grande lampada bianca poggiata a terra, una sedia a dondolo in legno, un mobile ormai caduto in disuso e un armadio di colore panna a due sole ante. L’altra stanza, di media grandezza, era arredata con un divano a tre posti in pelle scura, una credenza e un tavolo quadrato con quattro sedie e, attraverso una porta finestra, portava in un balcone, che era il gioiello dell’appartamento, perché si affacciava sullo Staten Island Greenbelt, un sistema di parchi pubblici contigui, e permetteva di ammirare dall’alto viali alberati, piazze, rotonde, aiuole e fontane. «Dimmi, cosa dovrei fare?». Adesso era lui a essere contrariato. «Non lo so… non lo so…». «Scusami…» Kenneth si era pentito di aver alzato la voce. «Penso che andrò da mia madre in Florida». Era una provocazione, non voleva realmente ritornare a casa. «Ma così significa che non ci vedremo mai…». Susan rimase in silenzio. Allora Kenneth si voltò verso lei, voleva guardarla negli occhi mentre le diceva con voce delusa e spaventata: «Vuoi lasciarmi?». Susan alzò lo sguardo e, mentre stava per rispondergli che non l’avrebbe mai abbandonato, si accorse che in mezzo alla carreggiata c’era un cane e urlò: «Attento!». Suo marito staccò gli occhi da lei e cercò di schivare l’animale. Dallo stereo intanto risuonava il quarto sonetto dell’inverno. “Agghiacciato tremar tra nevi algenti Al Severo Spirar d' orrido Vento..." Kenneth sterzò velocemente a destra...


10 " Correr battendo i piedi ogni momento; E pel Soverchio gel batter i denti" ...poi a sinistra. Il cane era salvo ma le rapide manovre sullo strato di ghiaccio che copriva l’asfalto fecero perdere definitivamente il controllo dell’auto. "Passar al foco i dì quieti e contenti Mentre la pioggia fuor bagna ben cento" Kenneth cercò di premere il pedale del freno il più forte possibile, sperando che l'ABS facesse il suo dovere. "Caminar Sopra il ghiaccio, e a passo lento Per timor di cader girsene intenti" Ma la centralina non riuscì a mantenere il controllo dell’auto e ormai le ruote non avevano più alcun attrito. Kenneth si girò verso Susan che, terrorizzata, guardava oltre il parabrezza, non facendo più caso ai capelli che le cascavano davanti agli occhi. Avrebbe voluto incoraggiarla, ma la situazione era talmente critica che non sapeva cosa dire. "Gir forte Sdruzziolar, cader a terra Di nuovo ir Sopra 'l giaccio e correr forte" La Ford urtò prima contro un albero che frantumò il finestrino del passeggero e fece sobbalzare i due coniugi prima a destra e poi a sinistra. Nonostante il duro colpo, l'auto non si fermò. "Sin ch' il giaccio si rompe, e si disserra; Sentir uscir dalle ferrate porte" Kenneth e Susan subirono un secondo colpo, questo più lieve. L'auto sembrò rallentare la sua corsa, ma ormai si dirigeva verso il fiume. Quando la Ford si fermò, le ruote anteriori si trovavano oltre la terraferma e dondolavano sul precipizio. Kenneth si voltò verso Susan, volendo chiederle scusa di tutto ma capì che prima doveva tentare di salvarla. Allora slacciò


11 lentamente la cintura di sicurezza di sua moglie. Il rumore della cinghia che ritornava al suo posto fece sussultare Susan che si scosse dallo stato catatonico in cui era caduta. «Ho paura, Kenneth». «Non ti preoccupare usciremo di qui senza un graffio. Ora apri lentamente lo sportello e salta fuori». «Non so se ce la faccio». Susan, in preda al panico, era impietrita. «Ce la farai, ne sono sicuro, ora apri lo sportello» ripeté lui con decisione. La donna afferrò la maniglia e l'abbassò. Lo sportello si spalancò di colpo sbilanciando ulteriormente l'auto. "Scirocco, Borea, e tutti i Venti in guerra Quest' é 'l verno, ma tal, che gioia apporte" E l'automobile cadde nel precipizio.


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CAPITOLO II

Un trillo avvisò la dottoressa Brockdorf dell’arrivo di un sms, che prontamente lei lesse sul suo iPhone. “Stasera ti ho preparato una cenetta con i fiocchi”. Era Aaron, suo marito. “Non vedo l’ora di arrivare” scrisse e inviò l’sms pur sapendo che non sarebbe mai stata a casa in orario. Aveva infatti tra le mani la cartella di un soggetto interessante. Andava avanti e indietro nervosamente, leggendo e rileggendo il documento e soffermandosi soprattutto sui sintomi e sui segni clinici. Gli interventi terapeutici non avevano dato alcun risultato, il soggetto soffriva di un grave disturbo della personalità. La dottoressa si occupava di questo tipo di patologia sin da quando studiava alla Cornell University di New York. Si era specializzata in schizofrenia e quindi aveva approfondito gli studi sull'instabilità pervasiva dell'umore, delle relazioni interpersonali, dell'immagine di sé, dell'identità, del comportamento e sulla più generale anomalia nella percezione del senso di sé. Il suo carattere scrupoloso e la sua dedizione allo studio le avevano permesso di ottenere una borsa di studio, a scapito della sua vita sociale. Studiava infatti parecchio perché voleva mettere in pratica ciò che imparava e cercava di trovare nuove terapie per aiutare chi aveva problemi di salute mentale. La mente era per lei sia la presunta essenza sovrannaturale della divinità,


13 presente in ogni uomo, come sostengono diverse teorie risalenti a Platone, Aristotele e ad altri filosofi dell’antica Grecia, sia, secondo teorie più moderne, un fenomeno psicologico utilizzato più o meno come sinonimo di coscienza. Per questo, il sabato sera, preferiva leggere libri come il Compendio di psicoanalisi di Freud piuttosto che uscire con gli amici. I suoi genitori, entrambi medici, la incitavano a staccarsi ogni tanto dallo studio, non volendo che perdesse gli anni più belli della sua vita sui libri. «Esci. Ti farà bene, ti aiuterà a concentrarti meglio» le dicevano sempre. «Quando finirò, potrò anche dedicarmi ai divertimenti» lei rispondeva sempre. «Sei così carina, non c'è nessun ragazzo che ti piace?». Non era un’esagerazione, la loro figlia era davvero attraente e, col passare degli anni, diventava sempre più affascinante. I capelli castano scuro, tirati all’indietro in uno chignon, mostravano in tutta la loro chiarezza il viso delicato e gli occhi neri così penetranti che sembravano entrare nell'anima di chi li guardava. «Ancora ho tempo per l’amore» ripeteva con un gesto di stizza. Successivamente diventò la più giovane ricercatrice per la cura sul disturbo Borderline nella stessa Università ma, appunto perché era ancora troppo giovane, non venne mai presa sul serio. Era invece stata costretta a lavorare chiusa in una stanza, a compilare scartoffie inutili per qualcun altro e non le era mai stato permesso di esercitare i suoi studi sul campo. Aveva continuato questa vita, per lei piatta e noiosa, per altri due anni, poi era fuggita alla ricerca di un’occasione migliore. Non aveva dovuto aspettare molto ed era stata assunta al New


14 York State Psychiatric Institute, uno dei migliori centri per la cura della salute mentale nello Stato di New York. Qui finalmente, grazie alle tecniche di ricerca all’avanguardia, la dottoressa Brockdorf aveva dato libero sfogo alle sue capacità innovative e, dopo un anno, era riuscita a creare un nuovo metodo di cura della dissociazione mentale. Doveva ormai solo sperimentarlo sulla persona adatta e, se si fosse trattato di un caso critico, sarebbe stato anche più stimolante. Ora la dottoressa aveva in mano la cartella del paziente perfetto per sperimentare il suo procedimento e per questo era eccitata. Se fosse riuscita ad aiutarlo, avrebbe rivoluzionato l’approccio a determinati disturbi psichici. Il suono stridulo dell’interfono la staccò dai suoi pensieri. «Cosa c’è, Jenny?» domandò premendo il pulsante per la comunicazione. «È arrivata la persona che aspettava» rispose la segreteria con voce meccanica. «Grazie Jenny, la faccia entrare». Dopo pochi minuti si aprì la porta. La dottoressa Brockdorf guardò la persona comparsa sulla soglia e rimase un po’perplessa perché se l’era immaginata diversa, ma fu solo un attimo e con professionalità la invitò gentilmente a entrare nel suo studio e la fece accomodare sulla poltrona. Lo studio della Brockdorf era una stanza grande, resa accogliente dalle varie piante sparse nei vari angoli e dai quadri che ritraevano paesaggi, tra cui dominava un falso d’autore di Claude Monet che mostrava uno stagno con fiori rossi che galleggiavano. L’arredamento era classico: una scrivania in legno massiccio, una poltrona in pelle scura comoda dove potersi sdraiare e una libreria che copriva tutta una parete, piena di volumi, in parte


15 scritti da lei. La dottoressa Brockdorf prese il suo taccuino e la sua MontBlanc, poi si avvicinò a quello che, da quel momento, decise di chiamare il suo “hopeless case” e chiese: «Allora, vogliamo cominciare?».


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CAPITOLO III

Lidya Craver aveva vuotato il secondo bicchiere di birra e ormai era stanca di aspettare. Il pub era quasi vuoto. D’altronde era un martedì qualunque del mese di gennaio. Lidya si guardò intorno per l’ennesima volta e rivide la coppietta a un tavolo vicino, sempre intenta a scambiarsi effusioni, l’uomo seduto in fondo al salone che le incuteva una sensazione di disagio e il vecchietto appollaiato sullo sgabello del bancone che sorseggiava il suo whisky, mentre discuteva animatamente con il barman. Questa scena la fece sorridere. Intuiva chiaramente che il barista non aveva alcuna intenzione di ascoltarlo. Guardò ancora l’orologio. Era passata mezz’ora. “Basta ora la chiamo io quella stronza” disse a bassa voce. Prese il telefonino e compose il numero. «Che fine hai fatto, Marie?». «Scusami… ti stavo chiamando, Tommy non mi ha lasciato andare». Dal tono di voce sembrava sincera. «Allora che facciamo?». «Sarà per un’altra volta, ti prego perdonami» rispose Marie, quasi supplicandola. «Va bene» e chiuse la chiamata delusa. “Beata te che hai il tuo Tommy” rimuginò, poi prese la borsetta e uscì dal locale. Mentre si dirigeva verso l’auto notò, con la coda dell’occhio, che qualcuno la stava seguendo, allora si girò di scatto e vide


17 che era l’uomo del pub. Per nulla intimorita, gli si parò davanti e, fissandolo con aria aggressiva, chiese: «Mi sta pedinando o sbaglio?». «Ha ragione, la sto seguendo e non ho neanche una buona scusa per attaccare bottone. Questa zona la conosco bene e quindi non ho alcuna informazione da chiederle e poi il mio orologio funziona benissimo, guardi» rispose lui fissandola con ammirazione. La donna era alquanto gradevole, a dispetto del suo tono battagliero. Aveva un viso liscio e fresco, morbidi capelli castani che le arrivavano fin sulle spalle, un seno pieno, trattenuto a fatica dai bottoncini della camicetta e, soprattutto, delle splendide gambe. Quelle parole e, in particolare, la schiettezza con cui erano state pronunciate sembrarono rassicurare Lidya. Lidya Craver era divertita dalle disavventure di quel Charles Bates. Il racconto dei suoi anni passati a medicina, in particolar modo, l’avevano più volte fatta ridere di cuore. «Pensa» continuava lui, «ho deciso di intraprendere medicina ma, se vedo una goccia di sangue, mi devono portare all’ospedale svenuto. Inoltre ho il terrore delle malattie e, se vedo starnutire qualcuno vicino a me, mi sento l’ebola addosso. Sono ipocondriaco all’ennesima potenza!». «Come mai allora hai scelto medicina?» domandò lei ridacchiando. «I miei genitori. Mio padre è il primario di una clinica privata nell’Ohio e mia madre è dottoressa in psichiatria. Io, il loro unico figlio maschio, non potevo certo dispensarmi dal seguire le loro orme, anche se si dice, non so dove l’ho sentito, che il figlio del calzolaio esce sempre con le scarpe rotte. Tuttavia, col pretesto della specializzazione, sono riuscito almeno a fuggire da loro e a


18 trasferirmi in un altro stato». Lidya non ricordava più quando era stata l’ultima volta che aveva passato una serata così piacevole. Aveva fatto bene ad accettare quasi subito l’invito a cena in quel delizioso ristorante a Brooklyn. Cosa avrebbe fatto altrimenti? L’alternativa era andare a casa e mettersi davanti al televisore per seguire una fiction con un pacco di patatine in mano, nell’attesa che le calasse il sonno. La sua vita era diventata molto noiosa dopo che aveva mollato Richard. Non che prima in realtà fosse più brillante. Richard era il classico uomo che non aveva voglia di fare nulla. Per niente dinamico, considerava suo massimo piacere, stare sprofondato nella sua poltrona preferita con una birra in mano a guardare le partite. Non aveva iniziative né passioni. Lavorava come commesso in un supermarket e questa era la sua massima aspirazione. Quando veniva costretto a uscire, borbottava per tutta la serata. Se non fosse stato per il sesso che era l’unica cosa che gli riusciva bene, Lidya l’avrebbe mollato molto tempo prima. Charles invece era diverso, lo sentiva. Forse aveva conosciuto finalmente l’uomo dei suoi sogni: alto, bruno, capelli ricci come quelli dei bambini, con un sorriso acceso e uno sguardo profondo. Ormai Lidya pensava di conoscerlo bene e, anche se avevano trascorso insieme solo poche ore, sapeva che, quando l’uomo davanti a lei s’incuriosiva, sollevava leggermente il sopracciglio destro e, quando era divertito, mostrava lievemente gli incisivi bianchi. «Ora basta parlare di me. Tu cosa fai nella vita?» domandò Charles. «Io insegno musica in una scuola e, nel tempo libero, suono il clavicembalo».


19 Per la prima volta Lidya aveva visto qualcuno interessato a quello che faceva e se ne era stupita piacevolmente. La maggior parte degli uomini, che aveva frequentato prima, non sapevano neanche come fosse fatto quello strumento. «Mia sorella era concertista, suonava il pianoforte. Ha abbandonato la carriera per il matrimonio e mi ha trasmesso questa passione per la musica classica» aveva invece detto Charles. «Secondo te, questa "bellezza inquietante" di Mozart non è seriamente intaccata dal pessimismo?» aveva continuato. Questa domanda pertinente aveva impressionato Lidya, anche perché Wolfgang Amadeus Mozart era il suo compositore preferito. «Sì, è vero, ma con le sonate parigine di Mozart e la Sinfonia concertante assistiamo a uno spostamento verso un'idea di bellezza decisamente inatteso, che infonde un senso di apprensione e instabilità, nonché di pericolo e arcano». «Ah sì! Il soggiorno parigino. Lì si delinea un tipo di bellezza inconfondibilmente mozartiano, venato di morte, malinconia, dolore, con un misto di rinuncia e di affermazione. Cercando sollievo al dolore, queste opere guardano alla morte come a una soluzione del dilemma dell'esistenza» aveva terminato Charles, mentre affondava il cucchiaio nel brodo. Lidya non riusciva a nascondere la sua ammirazione per quell’uomo. Il trivani di Lidya Craver nel Queens non era molto grande ma arredato con gusto. Una parte del salone era occupata dal clavicembalo in legno scuro, l’altra era arredata da una libreria piena zeppa di libri e da un divano di pelle rossa. Charles si sbottonò l’impermeabile e lo appese all’attaccapanni.


20 Lidya lo guardò e capì che il gioco stava cominciando. «Musica? Il flauto magico di Mozart?». «Sì… mi sembra perfetto». Lidya era talmente emozionata che fece un grande sforzo per controllarsi e non piangere. «Allora… siamo d’accordo…». Charles non le diede il tempo di terminare la frase che le si avvicinò e cominciò a baciarla sul collo e dietro l’orecchio. Preso dall’ardore, con la mano destra le sfiorò l’interno coscia sotto la gonna e lentamente risalì fino a quando Lidya non emise un gemito. «Forse è meglio che vada a prendere un po’ di vino». Lidya aveva bisogno di riprendersi, era così eccitata che le girava la testa e le gambe le tremavano. «Ho un ottimo vino francese...». «Va benissimo». Quando tornò, Charles aveva la camicia sbottonata e la peluria che mostrava sul petto e i suoi pettorali vigorosi la infiammarono ancora di più. Charles afferrò con la mano destra la bottiglia e la poggiò sul tavolo e con la sinistra le mostrò un nastro adesivo. Lidya cercò all’inizio di opporre resistenza ma una così fragile resistenza che, dopo qualche secondo, si trovava già distesa sul suo letto. “Cosa sto facendo?” si chiese Lidya mentre Charles le legava i polsi alla testata del letto. “Cosa mi ha preso? Basta ora mi faccio liberare!” La pressione dolorosa del nastro sui polsi aveva ormai svegliato Lidya dal suo voluttuoso torpore. Ma, mentre pensava, vide Charles strappare un altro pezzo di nastro adesivo e tapparle la bocca, poi lo sentì dire mentre si allontanava: «Torno subito». Quando rientrò nella camera aveva in mano un rasoio affilato.


21 A quel punto Lidya capì che il gioco era ormai diventato pericoloso e cercò di liberarsi ma non vi riuscì, tentò di urlare ma il nastro adesivo non le permetteva di emettere alcun suono, poteva solo guardare il suo carnefice con occhi sbarrati. Charles adorava quello sguardo, l’aveva visto tante volte ma non ne era ancora sazio, perché la paura che sprigionavano gli occhi di Lidya lo eccitava. Si avvicinò delicatamente, con il rasoio le tagliò la gonna e la fece scivolare giù dal letto. Si muoveva come al rallentatore perché voleva che quei momenti durassero il più al lungo possibile. Sempre lentamente le tagliò lo slip e, mentre glielo sfilava, si accorse che le aveva provocato una piccola lacerazione. Aspettò che la goccia di sangue scendesse giù verso l’interno della coscia e la raccolse con la lingua. Basta! Era troppo per Lidya. La ragazza cominciò a scalciare cercando di allontanare l’uomo, ma Charles salì sulle sue gambe bloccandole, si accostò al suo orecchio e le sussurrò: «Sst… va tutto bene… fra poco avrò finito». Lidya sentì all’inizio il calore delle sue labbra sul collo, poi la fredda lama che le recideva la giugulare. Charles ovvero Tuesday osservava ormai con indifferenza il corpo, immerso in una pozza di sangue, e l’espressione eterea del volto. «Alla fine hanno sempre questo sguardo» rifletté l’uomo compiaciuto, «sono tranquille, prive di angoscia e di turbamenti». Tuesday si abbottonò l’impermeabile, aveva una gran voglia di uscire da lì, farsi una doccia bollente e scrollarsi tutto quel sangue dalla pelle ma prima doveva finire il suo lavoro.


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CAPITOLO IV

Il BlackBerry faceva echeggiare da almeno tre minuti quella fastidiosa musichetta e illuminava anche di poco la stanza buia, quando Kenneth Simmons lo afferrò e premette il pulsante verde. «Chi diavolo è?» domandò con una voce che sembrava provenisse dal regno dei morti. «Capo, ce n’è un’altra!» rispose eccitato l’interlocutore. «Dove?». «East 241Street». «Ok, arrivo» e interruppe la telefonata. Kenneth cercò di raggiungere l’interruttore della lampada poggiato sul tavolino e al terzo tentativo riuscì a premerlo. La luce lo abbagliò per qualche secondo, dopodiché i suoi occhi si assuefecero e si rinfrancò nel riconoscere il caos del soggiorno. Guardandosi attorno si accorse che anche questa volta non era riuscito ad arrivare al letto e si era addormentato sul divano. Si toccò il viso cercando di svegliarsi e si punse le mani con la barba. “È arrivato il momento di radermi” pensò. Sul tavolino vide la bottiglia di Johnny Walker, sua fedele compagna della notte precedente, delle notti passate e delle notti future. Kenneth decise di sciacquarsi la bocca, ma il brusco risveglio e l'alcool che ancora scorreva nelle sue vene gli annebbiarono la vista e, invece di afferrarla, fece cadere la bottiglia sul tappeto.


23 «Cazz...» imprecò. Il tappeto persiano, che un tempo era di un rosso vivace, aveva perso ormai la sua luminosità come il resto dell'appartamento. Da quando la moglie era scomparsa in quel tragico incidente di circa sei mesi prima, Kenneth si era lasciato andare, trascurando se stesso e soprattutto la sua abitazione, che adesso appariva sudicia e disordinata. Quel giorno non l’avrebbe mai dimenticato. Lui si era salvato grazie a un piccolo peschereccio che faceva rotta verso il mare aperto. Era stato recuperato e portato a bordo. Quando aveva ripreso i sensi, Kenneth aveva urlato il nome di Susan ma, nonostante le immediate e frenetiche ricerche, di sua moglie non si era saputo più nulla e il corpo non fu mai ritrovato. Le autorità locali gli avevano spiegato che le correnti erano molto forti in quel punto e nessuno avrebbe potuto resistere tanto a lungo, per cui il corpo di Susan era stato sicuramente inghiottito dall’oceano. Il funerale fu realizzato con grande pompa. Si erano presentati tutti: i suoi colleghi, i suoi amici e dalla Florida erano arrivati i genitori di lei e tutti i suoi parenti. L’unica persona che mancava era proprio Susan. Kenneth dovette seppellire un feretro vuoto. Adesso non abitava più nello Staten Island, non poteva più vivere nell’appartamento che Susan aveva arredato con tanto amore. Kenneth riusciva a percepire la sua presenza in ogni oggetto, in ogni soprammobile e, a volte, gli sembrava di vedere la moglie mentre cucinava i suoi dolci preferiti, i muffin al cioccolato e banana o mentre lo aspettava sdraiata sul divano, mostrando sotto la camicia da notte in seta nera, il suo corpo morbido e tenero. “Basta! Devo ricominciare a vivere” si era ripetuto tante volte,


24 ma non c’era mai riuscito e allora aveva cambiato casa. Ora viveva nel Queens, in un appartamento di tre vani: l’angolo cucina con bagno, la camera da letto e un piccolo soggiorno che gli faceva anche da studio. La cucina era così piccola da rendere difficilmente immaginabile una vita tra il piccolo tavolo e la lavatrice, eppure le tendine alla finestra sopra il lavello, il lampadario in carta colorata e le calamite dimenticate sul frigo raccontavano un tentativo di raggiungere un po’ di serenità. Nella stanza adiacente, la scrivania e il divano in pelle occupavano praticamente tutto lo spazio. Solo una finestra aperta sulla strada mitigava lo strano senso di angustia e di inquietudine che l’appartamento provocava. Subito dopo l’incidente, Jacob Tyler, il suo capo, si era dimostrato comprensivo ma non troppo, perché gli aveva permesso di prendersi quattro mesi di aspettativa che, forse, a giudizio di altri, potevano sembrare tanti, invece Kenneth, che era rimasto a casa fino all’ultimo di quei giorni, li aveva ritenuti insufficienti, perché non erano riusciti a fargli ritrovare interesse per il suo lavoro, a cui dava anche la colpa di quanto era successo. Ora la sua massima aspirazione era arrivare alla pensione, ritirarsi in una villetta in campagna e scolarsi il suo Johnny Walker. Ma prima, purtroppo, doveva portare a termine la sua indagine. Aveva lavorato da troppo tempo su quel caso perché Jacob lo desse a qualcun altro: doveva fermare Tuesday. Finalmente si alzò. Non avrebbe perso tempo a vestirsi, perché già indossava la camicia nera di flanella, i jeans e le scarpe di marca. Si diresse verso il bagno, scavalcando la bottiglia di whisky e alcuni vecchi giornali che mostravano il suo viso in prima


25 pagina, si lavò la faccia e si guardò allo specchio. Aveva un'espressione stanca e segnata dalla sofferenza, solo gli occhi verdi mostravano un barlume di vitalità. Kenneth non dimostrava la sua età e, se si fosse curato un po’, sarebbe risultato attraente. Guardò l’orologio: segnava le quattro e trenta del mattino. Era l’ora di muoversi. Ritornò nel soggiorno, si avvicinò alla porta d’ingresso, indossò la giacca di pelle nera, aprì il cassetto di un mobiletto e prese la sua pistola trentotto special e il distintivo. Quei gesti, che ormai faceva meccanicamente ogni giorno, gli infondevano sicurezza e gli davano la carica per affrontare la nuova giornata. Quindi aprì la porta e si guardò indietro per vedere se avesse dimenticato qualcosa, poi uscì. Era ancora buio e faceva abbastanza freddo quando arrivò nel Bronx. L’inverno aveva tardato ad arrivare ma si era fatto sentire subito con prepotenza. Posteggiò la sua vecchia Chevrolet Cobalt nera in mezzo alla strada, come era solito fare, e si diresse verso Clayton che lo aspettava ansiosamente insieme a un pugno di agenti. «Salve detective Simmons» lo salutò ossequioso Clayton. «Cosa abbiamo qui?» chiese Kenneth. Clayton era un giovane nero di bell’aspetto, sposato e con una bambina di pochi mesi. Era entrato nell’FBI. per quel suo senso di giustizia che lo portava quasi sempre in situazioni di rischio. Si sentiva gratificato di lavorare con Simmons perché sapeva che avrebbe imparato molto da lui anche se, nella maggior parte dei casi, si scontrava con la sua indole lunatica. Clayton ricordava a Kenneth i suoi primi anni di servizio all’FBI. Gli faceva rivivere l’entusiasmo con cui era riuscito a tagliare l’agognato traguardo, dopo aver seguito più di cinquecento ore di lezione e almeno mille ore di


26 addestramento, presso l’accademia dell’FBI, situata a Quantico in Virginia e gli faceva provare un senso di soddisfazione nel vedere sulla sua scrivania la pila di carte che sintetizzava quanto aveva prodotto in quegli anni e che lo ripagava dei sacrifici che aveva affrontato per diventare quello che era. Kenneth, almeno fino a prima dell’incidente, era stato affascinato dal suo lavoro che riassumeva nel mettere dentro i cattivi e salvare i buoni. Grazie alle sue capacità intuitive si era concentrato soprattutto sullo studio del ritratto dei criminali. Basandosi sull’analisi degli esiti del sopralluogo, dell’identificazione della vittima, delle cause e delle modalità del decesso, Kenneth tracciava il profilo psicologico e cercava di dare un volto all’autore del reato violento. Clayton invece era più un uomo di azione, adorava trovarsi in prima linea, combattere il crimine di persona senza affidare ad altri le sue deduzioni, insomma avrebbe preferito essere assegnato alla “Protezione degli Stati Uniti da attacchi terroristici” e sarebbe andato a stanare da solo Osama Bin Laden, piuttosto che ritrovarsi nel luogo del delitto, sempre dopo che esso era stato compiuto. «Il quarto omicidio di Tuesday». Durante l’assenza di Kenneth il serial killer non aveva ucciso neppure una volta, sembrava quasi che lo avesse aspettato. «Dove si trova il corpo?». «In quel vecchio magazzino». Clayton indicò un piccolo deposito poco illuminato a una cinquantina di passi. Appena entrò, Kenneth avvertì un odore ripugnante e fu costretto a prendere il fazzoletto e a tenerselo stretto sul naso e sulla bocca. Clayton fece la stessa cosa. Il magazzino era rischiarato da un piccolo neon che pendeva dal soffitto e si accendeva e si spegneva a intermittenza; il


27 pavimento era sudicio, cosparso di siringhe, topi morti e spazzatura. Non c’era niente che facesse capire a che cosa potesse essere adibito, al momento, quel magazzino per cui sembrava piuttosto il punto di ritrovo di qualche tossico. Al centro della stanza, proprio sotto al neon, c’era il cadavere sdraiato a terra e, a prima vista, sembrava che non ci fossero macchie di sangue. Mentre si avvicinava al morto, Kenneth notò un agente visibilmente pallido, chino in un angolo della stanza. Altri agenti gli erano intorno ad aiutarlo e, contemporaneamente, a beffeggiarlo e calpestavano qua e là orme, impronte e tracce. A Kenneth sembrava di assistere al film “Riusciranno i nostri eroi a inquinare la scena del delitto?”, ciò nonostante si rivolse a Clayton con calma e disse: «Forse è meglio farli uscire tutti». «Forza, ragazzi, tutti fuori» urlò Clayton. Gli agenti, per la maggior parte, si sentirono sollevati perché, passando la consegna all’FBI, potevano ritornare finalmente a casa e infilarsi sotto le coperte. Kenneth raggiunse il detective che seguiva le indagini. «Salve, FBI» e mostrò il tesserino. «Io sono l’agente Simmons e lui è l’agente Clayton» e indicò il suo compagno che spingeva verso l’uscita i pochi agenti incuriositi che erano rimasti. «Salve. Detective Coleman» si presentò. L’uomo era decisamente in sovrappeso, aveva la divisa così stretta da sembrare di due taglie più piccola per lui. «Chi è la ragazza?» domandò Kenneth. «Ancora non l’abbiamo identificata». Quando si avvicinò al corpo, Kenneth avvertì per un istante un senso di repulsione, ma fu solo per un istante, poi ricominciò a osservare con l’occhio cinico del professionista.


28 “D’altronde è solo carne morta” pensò. Il cadavere era completamente nudo, gli occhi vitrei guardavano il nulla, i polsi mostravano due segni di colore viola. Il viso e il resto del corpo, ben lavati e trattati con oli particolari, emanavano un buon odore di cocco. L’unica deturpazione in quella figura perfetta era un taglio lungo dieci centimetri che partiva da un orecchio e, passando sotto il collo, raggiungeva l’altro. «Chi ha avvertito la polizia?» chiese Kenneth. «Abbiamo ricevuto una telefonata anonima» rispose Coleman. «Avete rintracciato la telefonata?». «Sì. È partita dalla cabina telefonica di fronte». «C’erano impronte?». «No, nessuna». Kenneth ricordandosi dello scempio che gli agenti avevano fatto poco prima nel magazzino, pensò che, anche se ci fossero state delle impronte in quella cabina telefonica, ormai sarebbe stato impossibile rilevarle. Comunque era sempre meglio andare a dare un’occhiata. «E la scientifica?». «Dovrebbe essere qui a momenti». «Da quanto pensi che sia morta?». «Ma… da qualche ora». «Ok. Grazie, detective Coleman». «Di nulla, agente» rispose quello con ironia. Coleman non sopportava che l’FBI. s’intromettesse sempre nei suoi casi e lo levasse dalla scena. “Cosa facevano quelli che lui non poteva?” Kenneth, rivolgendosi a Clayton che nel frattempo esaminava accuratamente la vittima, sperando di trovare qualcosa che era stato trascurato dagli altri, disse: «Vado in centrale. Quando porteranno via il corpo, avvertimi


29 perché voglio assistere all’autopsia». «Sarà fatto capo» rispose Clayton. Il coroner Pascott, insieme al suo assistente, aveva posto il cadavere sul tavolo d’acciaio che facilitava la fuoriuscita dei liquidi liberati durante la procedura. Accese il registratore, come da prassi, e documentò tutti gli elementi utili del corpo. «Il cadavere è alto un metro e sessantacinque centimetri, capelli lisci e neri, occhi castani, non presenta nessuna caratteristica anomala né tatuaggi né cicatrici». Quindi Pascott fece la prima incisione a Y, cioè dagli omeri fino all'estremità inferiore dello sterno. Intanto il detective Kenneth aprì la porta della stanza silenziosamente. Il locale dove generalmente venivano effettuate le autopsie era situato al piano interrato del General Hospital, si estendeva in lunghezza e mostrava gli arredi essenziali: due tavoli in metallo dove poter analizzare i corpi e due porta oggetti con sopra tutti gli strumenti per le operazioni. Erano visibili circa venti casse mortuarie, perfettamente inserite all’interno di una parete. Appena varcò la soglia, Kenneth si sentì avvolgere immediatamente dall’aria fredda e, d’istinto, si alzò il bavero della giacca che, se non gli toglieva la sensazione di freddo, sembrava proteggerlo in quella camera di morte. Subito un forte odore di alcool lo investì e, per un attimo, gli fece girare la testa. «Ciao Kenneth» lo salutò Pascott mentre spegneva il registratore. «Ciao Pascott. Avete già iniziato?». «Non ancora». «Novità?» domandò, accennando un lieve sorriso.


30 Osservando meglio i due medici, a Kenneth tornarono in mente il più famoso duo comico della storia, Stanlio e Ollio: Pascott era voluminoso con la barba incolta e il suo assistente smilzo e occhialuto. «Ancora nessuna. Dagli esami tossicologici non è risultato nulla, era pulitissima». «Causa della morte?». «Dissanguamento determinato dalla profonda incisione nella giugulare». «Da quanto tempo è morta?». «Penso da circa sei ore, comunque quando esaminerò il fegato sarò più preciso» «L’avete identificata?». «Sì. È Lidya Craver, ventisette anni, abitava sola in Lowery Street». “Più tardi chiamerò Clayton e gli farò controllare l’appartamento” pensò Kenneth. «Dopo essere stata uccisa, è stata lavata. Il killer ha utilizzato, per ammorbidire la pelle, l’olio di Monoi, un olio profumatissimo estratto della polpa del cocco e originario dall’isola polinesiana di Tahiti». «Non sapevo che ti curassi la pelle» osservò Kenneth con sarcasmo. Doveva essere divertente e, al tempo stesso, sconcertante osservare un uomo così grosso mentre si passava l’olio su tutta la pelle. «Durante l’ultimo viaggio, mia moglie ne ha comprato una cassa intera e ora, tutte le volte che sto a casa, mi sembra di mangiare cocco». Pascott aveva cercato di spezzare la tensione ma poi, guardando il corpo, esclamò: «Povera ragazza! Lo prenderete quel bastardo?». «Sì. Lo prenderemo».


31 “Non dovevano essere molti i negozi che vendevano l’olio di Monoi”. «Il modus operandi è sempre lo stesso». «Sì, recisione della trachea». Pascott riaccese il registratore e riprese l’autopsia. Il lembo superiore della Y, che comprendeva la pelle sotto al mento e la pelle della parte superiore del torace, fu rialzato e tirato sopra la faccia. I due lembi laterali della Y, costituiti dalla pelle del torace, vennero scollati attraverso l'utilizzo di un bisturi e di un divaricatore. Alla fine Pascott scoprì la cassa toracica. L’assistente prese immediatamente la sega vibrante e la porse al coroner. «Non troveremo nulla, come per gli altri cadaveri» pensò ad alta voce Pascott. Kenneth lo sapeva e perciò, volendo evitare di assistere inutilmente a quel macello, disse: «Ok Pascott, per me è tutto, poi mandami il rapporto dell’autopsia» e si allontanò. «Va bene agente». Mentre stava salendo le scale, ricevette una telefonata. «Sono Jacob». «Ciao capo, cosa posso fare per te?» chiese Kenneth con sarcasmo. «Vieni subito da me. Ci sono delle novità». )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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