Isole di plastica, Stefano Cardellini

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In uscita il 24/12/2021 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre 2021 e inizio gennaio 2022 ( ,99 euro)

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STEFANO CARDELLINI

ISOLE DI PLASTICA

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ ISOLE DI PLASTICA Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-514-1 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Dicembre 2021


A Giulia



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PROLOGO

Università di Tubinga, Germania. Anno 1898 Due individui si muovevano lungo il corridoio della facoltà di Chimica. Dalle loro mosse e dal parlare concitato, si avvertiva che erano eccitati per qualcosa che gli era capitato da poco. Prima di svoltare per la sezione dei laboratori, il più alto dei due afferrò il braccio del collega, che lo precedeva di un passo, e gli domandò: «Sai come ha fatto? Com’è riuscito a sintetizzarlo?» L’altro, sospirando, rispose: «Senti, Eugene, sarà la centesima volta che te lo dico» riprese il passo e scandì: «non lo so!» poi, fermandosi di fronte alla porta del gabinetto di chimica aggiunse: «Quando il professore mi ha messo in mano il campione per farmelo analizzare, quella specie di pappetta bianca, che sembrava più lo scolo di una candela che altro, mi ha detto solo che stava riscaldando il diazometano.» «Ed è venuta fuori… quella cosa?» «Così sembra» rispose, bussando alla porta. Poi, dopo essersi voltato verso Eugene, con cui aveva condiviso anni di studi, alzò l’indice alle labbra in segno del silenzio e si mise in attesa. «Avanti!» squillò una voce dall’interno. Aprirono la porta ed entrarono. «Eugene, Friedrich… buongiorno» esordì un uomo seduto dietro a una scrivania di legno scuro. «Avete i risultati delle analisi?» «Sì» rispose Eugene. «Allora?» domandò quello, lisciandosi la barba ingrigita dal tempo. «Di che si tratta?» «Senta, professor Von Pechmann» disse Friedrich che, dopo essersi chiuso la porta alle spalle, aveva raggiunto l’amico di fronte allo scrittoio, stracolmo di fogli e quaderni aperti alla rinfusa. «Non so come ha fatto. Forse il caso, la fortuna, ma quel materiale è proprio


6 strano» fece una breve pausa, poi continuò: «È composto soltanto da lunghe strutture di CH2.» «Spiegati meglio» lo esortò il professore. «Gruppi di metilene, uniti l’uno con l’altro, hanno formato delle lunghissime catene stabili» chiarì Eugene «mai viste prima d’ora». «Un’altra cosa che non servirà a niente» precisò il professore, alzandosi dalla sedia. «Che nella prossima pubblicazione scientifica chiameremo Polimetilene» poi, avvicinandosi alla finestra e dando loro le spalle, disse: «Grazie. Ora lasciatemi. Devo ancora finire di preparare la lezione di oggi pomeriggio e sono in netto ritardo.» Quando rimase solo, mentre faceva ritorno alla scrivania, Hans Von Pechmann, il professore di chimica amato da tutti gli studenti, che aveva la fama di non sbagliarsi mai, pensò: “Polimetilene. Chissà, forse un domani potrà anche essere utile a qualcuno”. Subito dopo, abbassando la testa sopra gli appunti, si disse: «Almeno non è un materiale dannoso.» E fu in quel momento, con quelle parole, che commise il suo più grande errore.


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ISOLE DI PLASTICA

Tirreno settentrionale, dodici miglia a sud dell’isola di Capraia. Italia, 15 ottobre 2025, ore 18:00 Le nere nuvolaglie cariche di pioggia ghiacciata avevano nascosto il sole, che di solito, al termine del suo girovagare, andava a spegnersi in mare di là della Corsica, lasciando un ultimo alone rossastro sul profilo delle vette più alte. Quel tempo aveva rubato gli ultimi raggi di luce alla sala comando della RC23, la “raccogli-compattatrice” di plastiche, operativa in mare nel Nord Tirreno, e così le ombre, che abitualmente si allungavano sul pavimento fino alla postazione di controllo dove sedeva Anna, quella sera non vennero a tenerle compagnia. Non le disegnarono ai piedi le solite sagome sbiadite tra il bianco e il nero che poi, accarezzando le gambe affusolate, le risalivano su per il corpo sino al petto generoso, al volto struccato contornato dai capelli castani che, per praticità, usava portare ben legati sulla testa, fregandosene del giudizio degli altri. Del resto, lei sapeva di non essere bellissima, soprattutto dopo essersi confrontata con le amiche, le compagne d’università perennemente contornate da ragazzi sbavanti pieni di testosterone. Quelle sì che erano incantevoli e seducenti, di sicuro più attraenti di lei che, alla fine, poteva contare solo sulla sua intelligenza. “In ogni modo anche oggi non è andata poi così male”, pensò mentre, china sul laptop, inseriva gli ultimi dati nel rapporto che più tardi avrebbe firmato, archiviato e inviato in copia sul continente. “Con quest’ultimo, fanno ventotto pacchi. Una bella eredità da lasciarsi a poppa per la mangia plastica”. Dopo aver chiuso il portatile, si lasciò andare con la schiena fino a toccare la spalliera della sedia; si accese una Marlboro e sorrise.


8 “Sì, oggi sono proprio soddisfatta. Nonostante questo maledetto mare, che non vuole smettere di farmi ballare come una diciottenne al ballo di fine anno, ho fatto un buon lavoro”. Un lavoro difficile, che nessuno tra i suoi colleghi aveva accettato. Soltanto lei, bisognosa di denaro e con un marito senza lavoro, conosciuto due anni prima all’università di Madrid, e la piccola Belen, una bimba di sei mesi da sfamare, che l’aspettava a casa come un pulcino di passero con la bocca spalancata, non si era sentita di rifiutare. E così tre settimane prima, una volta raggiunto l’aeroporto di Pisa, un aitante pilota, glabro come una palla da bigliardo, l’aveva caricata su di un elicottero della compagnia, e dopo un interminabile volo sul Tirreno l’aveva calata in cima alla cabina della RC23. Una vecchia chiatta appena riverniciata e riadattata a imbarcazione raccoglitrice di plastica galleggiante, che s’ingoiava ogni tipo di rifiuto come bottiglie deformate, sacchetti del supermercato, e altri materiali simili che le correnti marine avevano ammassato plasmando isole smisurate. Dopo averle compattate al suo interno, modellandole in balle gigantesche, le espelleva da poppa come facevano i cavalli con le feci durante il passo. In seguito, grosse navi, guidate dai GPS che torreggiavano sulla sommità di quelle balle galleggianti, le risucchiavano attraverso un’apertura frontale, impilandole nella stiva per poi consegnarle alla grande catena del riciclo. «Del resto è un lavoro ben pagato» aveva detto a suo marito Alonso, la sera prima di partire. «E qualcuno deve pur farlo, altrimenti la plastica finirà per soffocarci.» Dopo aver fatto una carezza alla bimba che le dormiva in braccio, rimarcò: «Lo sai bene che se continuiamo a parlare, se restiamo impassibili, finiremo per trovarla dappertutto. Questo maledetto materiale sembra indistruttibile, e tra poco contaminerà anche l’aria» quindi, fissando la figlioletta, aggiunse: «Non sarei stupita se tra qualche anno contaminasse anche i vegetali, i pesci, la carne che ogni giorno sistemiamo nei nostri piatti… Nel piatto di tua figlia» rimarcò l’ultima frase, tentando comunque di sorridergli. Anche per questa ragione si decise a lasciare i suoi cari e partire alla vota del Tirreno, dove l’aspettavano due mesi di lavoro sulla RC23.


9 Sola, in mezzo al mare, di fronte a un’isola di plastica bazzicata soltanto da chiassosi gabbiani che ogni tanto buttavano uno sguardo sul ponte nella speranza di scorgere del cibo, un misero avanzo della sera precedente. “Già ventotto balle” si ripeté, allungando le gambe sotto la postazione di controllo, per distendere i muscoli indolenziti dalla posizione che ormai teneva da più di un’ora. “Sì, proprio un buon lavoro”. Si alzò e, barcollando a gambe larghe come un ubriaco per contrastare il forte rollio della chiatta, si mosse in direzione della grande vetrata panoramica che aveva di fronte, sopra i due lunghi bracci di metallo che, posti a filo dell’acqua, convogliavano le plastiche nella grande apertura dove venivano ingoiate, compattate, trasformate in colli grandi come vagoni ferroviari, e alla fine sputati di poppa uno dietro l’altro. Si era ricordata che l’indomani, nel minuscolo appartamento preso in affitto a Firenze, Alonso avrebbe invitato i suoi parenti per festeggiare la comparsa del primo dentino di Belen, e voleva chiamarlo per assicurarsi che non si fosse dimenticato nulla. Per poco non inciampò su Jamaica, la gatta “tre colori” mascotte della chiatta che, come sempre, facendo le fusa a coda eretta, si era svegliata e le si era intrufolata tra le gambe. «Maledizione! Stai attenta!» le sibilò, scostandola con un piede. «Prima o poi finirai per farmi cadere.» Si accostò alla postazione radio, si lasciò scivolare sulla sedia girevole e, dopo aver attivato la richiesta di comunicazione alla terraferma, rimase in attesa del segnale di assenso. Si voltò a guardare la povera micia, che ostinata come tutti i felini, non si era arresa e aveva ripreso ad avvicinarsi. Con un mezzo sorriso le chiese: «Hai fame?» e dopo essersi chinata a farle una carezza aggiunse: «Aspetta solo che parli con mio marito e ti aprirò una bella scatoletta di mousse al salmone. Non è la tua preferita?» Fu allora che dall’altoparlante della radio una voce gracchiante richiamò la sua attenzione: «RC23… RC23. Qui stazione controllo “Livorno”. Rispondo alla chiamata delle venti e quattordici della raccogli-compattatrice, operante dodici miglia sud dell’isola di


10 Capraia nel Tirreno settentrionale» e subito dopo, con un tono meno formale: «Anna? Sei tu? Qualche problema a bordo?» «Sì, sono io» rispose lei dopo aver pigiato il pulsante che le apriva la comunicazione in uscita. «Che ti è successo? Hai qualche problema a bordo? Si è rotto di nuovo il motore della pressa?» Cosa frequente sulle chiatte più vecchie. «No. Nessun problema meccanico.» «Allora il tempo?» insistette la voce dall’altoparlante. «Com’è il mare? Mosso?» «Da ieri si balla» confermò Anna. «A essere sincera, devo dirti che inizio a preoccuparmi. L’anemometro sta girando come una trottola, e temo che tra poco inizierà a decollare come un elicottero. Tuttavia la cosa che m’inquieta di più è il vento. Sembra rinforzare di ora in ora, e le onde sono sempre più alte.» Alla fine, accennando un sorriso, concluse: «Però va tutto bene. Forse stanotte si calmerà.» «Speriamo bene» sibilò la voce dopo un lungo stridio. «Dagli ultimi dati meteo, sembra che ti stia venendo incontro una bella burrasca carica di pioggia. Fai attenzione.» «Grazie dell’avvertimento. Terrò gli occhi aperti.» Poi, tanto per alleggerire il discorso, la voce, tra un crepitio e l’altro le domandò: «Quando terminerai il turno?» «Tra un mese» reagì Anna, presa alla sprovvista dalla domanda «Non dovresti saperlo?» «Sì, ma in questo momento non ho sott’occhio il calendario del personale esterno. Sai, tante volte faccio prima a chiederlo» e dopo una pausa: «Hai ancora tanto tempo. Insomma… Un mese non è poco.» «Già, non è per niente poco» balbettò Anna. Poi, dopo aver buttato uno sguardo sul mare in burrasca che si apriva attraverso la vetrata, seguitò: «Ma non è per il tempo che ti ho chiamato. Bensì per chiederti un favore personale… Puoi farmi da “ponte”? Devo chiamare casa.» «Perché me lo chiedi?» rispose la voce dopo un attimo di silenzio. «Sai bene che non posso. Ho delle regole da rispettare.»


11 «Lo so ma… mia figlia domani farà la sua prima festa in famiglia e… Mi manca tanto. Ti prego, puoi fare un’eccezione per questa volta?» Silenzio. Alcuni istanti dopo, una breve scarica anticipò: «E va bene, ma solo per questa volta, e per non più di un minuto.» «Grazie!» soffiò Anna tutto d’un fiato. «A buon rendere.» A quel punto la comunicazione s’interruppe, e il tempo iniziò a correre, lasciando la povera Anna in trepidante attesa di un segno, un crepitio che le annunciasse la voce del marito. Fino a quando una nuova voce gracchiante si levò dalla grata dell’altoparlante. «Pronto, Anna?» “Alonso!” riconobbe la sua voce. Riprese in mano il microfono della radio e rispose: «Sì, sono io. Non abbiamo molto tempo. Un minuto, forse due» poi, lasciandosi andare sulla sedia, con tono più mesto seguitò: «Amore mio, sapessi quanto mi mancate.» «Anche tu ci manchi tanto» replicò lui in un sussurro. Anna sorrise, e dopo aver mandato giù il groppo che improvvisamente l’era salito in gola, si chinò sul bancone che aveva di fronte e, iniziato a giocherellare con la matita sul blocco degli appunti, proseguì: «Dimmi di Belen. Come sta la bimba?» Alonso rispose: «Bene. Stai tranquilla, la tua “contessina” sta bene» in seguito, dopo una lunga scarica. «Sai, alla festa verranno tutti. Anche i cuginetti di Roma, mancherai solo tu» terminò con un sospiro. «Coraggio. Ancora un mese e poi sarò di nuovo a casa.» «Lo so» rispose lui «ma mi manchi tanto…» «Anche tu» deglutì a fatica, e diede un’occhiata all’orologio appeso sopra l’entrata del bagno. Con un filo di voce gli disse: «Ora devo andare.» «Ti amo» gracchiò la voce di Alonso. «Anch’io» gli rispose Anna, mentre la comunicazione s’interrompeva tra un turbinio di scariche sempre più forti. «E dai un bacio alla mia bimba.»


12 Si alzò, con un gesto di stizza spense la radio, e cercando di resistere al forte rollio della chiatta, muovendosi come una vecchia papera, si portò di fronte alla grande vetrata. “Ho bisogno d’aria” si disse, lanciando uno sguardo in direzione delle onde che, ritmicamente, s’infrangevano sui bracci metallici illuminati a stento dalle luci di posizione. “Il freddo mi darà una bella svegliata”, pensò immaginando che il vento di tramontana, gelido e teso, le avrebbe placato la malinconia che le aveva stretto in cuore dopo la chiacchierata con il marito. Si spostò verso l’uscita, aprì la porta di spesso vetro temperato, e dopo aver mosso un passo sullo stretto poggiolo metallico, che come una corona circondava l’intera sala comando, se la richiuse alle spalle. Tenendosi ben stretta alla balaustra si spostò al centro, sopra la grande apertura, dove le plastiche dell’isola venivano indirizzate dai bracci e risucchiate nella pancia della chiatta. Sollevò il volto, fissò il mare in tempesta, e si lasciò andare ai pensieri. Fu allora che rammentò di quando, giovane studentessa, lungo i corridoi dell’Università di Madrid conobbe Alonso. Alla festa di fine anno, dopo una notte trascorsa a parlare di tutto, si rese conto di amarlo e, cosa che prima non aveva mai fatto con nessuno dei suoi fidanzati, gli si concesse. “Eravamo così felici”, considerò mentre osservava le alte onde nere come il petrolio rompersi sui supporti metallici che rinforzavano i bracci direzionali. “Stupidi, irresponsabili, giovani e innamorati”. Ricordò quando gli disse che era rimasta incinta, e che presto sarebbe nata Belen. “La luce della mia vita. La ragione di tutti i miei sacrifici”. Poi il matrimonio in Italia, le difficoltà economiche, le prime discussioni, e alla fine l’occasione di un lavoro ben pagato. Un lavoro che allora sembrava sceso come manna dal cielo, fatto apposta per lei, che aveva studiato come si gestiscono gli ecosistemi in crisi. Un lavoro anche per Alonso, che così poteva finalmente iscriversi al master di microbiologia che tanto desiderava. “Lo so bene che è un gran sacrificio”, pensò sollevando lo sguardo in direzione delle nuvole scure che si addensavano sulla sua testa. “Ma per ora non ho alternative. Ancora qualche anno e poi


13 cercherò qualcosa a terra, dalla mia Belen” si disse ancora una volta. Ormai stanca di prendere freddo decise di rientrare, ma un improvviso bagliore di fianco, sulla linea dell’orizzonte, la fece arrestare. “E adesso?” si chiese incuriosita, tornando a fissare il cielo. Udì lo schianto di un tuono lontano, poi un lampo e un nuovo boato. «Maledizione!» esclamò, considerando le folgori che vedeva accendersi lontano. “I greci direbbero che Zeus è furioso!”. Poi, avviandosi verso l’ingresso della sala comando, mentre la chiatta iniziava a scuotersi come un guscio di noce preso dalla corrente del fiume, le venne in mente: “Se è la burrasca annunciata, stanotte si ballerà. Quando ne ho beccata una da nord, è stata veramente brutta”. Quando rientrò, notò che il motore della pressa era andato in blocco, e trascorse alcune ore a cercare di aggiustarlo. Era in tensione, e non chiuse occhio fino a quando il vento girò a sud e il mare si calmò. «Beata te che non hai da preoccuparti» disse alla gatta che, accovacciata sulla sua sedia, dormiva fregandosene del rollio. «Non t’importa se andiamo a fondo?» e muovendosi verso il bancone, su cui i manometri e le luci multicolori indicavano il funzionamento della chiatta, seguitò: «Ti basta una buona scatoletta, una sedia dove dormire, qualche carezza, e la lettiera sempre pulita per riempirmi di fusa.» Dopo aver dato un’ultima occhiata agli strumenti, si avviò verso il bagno. Prima di mettere a cuocere la solita minestra, e aprire l’ennesima razione di carne in scatola, voleva darsi una bella rinfrescata e leggere gli ultimi due capitoli di un romanzo storico sugli antichi Dori che le aveva regalato Alonso e che l’aveva presa sin dalle prime pagine. Del resto, a bordo della vecchia chiatta RC23 della Sea Cleaning Company, per ammazzare il tempo si potevano fare solo due cose: leggere, e quando il tempo lo permetteva, dormire.


14 16 ottobre 2025 ore 02:30 Distesa nella cuccetta, ben al caldo sotto le coperte con la gatta raggomitolata contro la schiena che ronfava come se nulla fosse, Anna non riuscì a chiudere occhio. Circondata dal buio, non poté far altro che pensare a cosa avrebbe combinato l’indomani, quando finalmente, alle prime luci dell’alba, si sarebbe resa conto della rilevanza della bufera che le stava venendo incontro. Per questo, a dispetto dei vari tentativi, non riuscì a dormire. Il continuo rollio, le vibrazioni, e gli scricchiolii metallici dello scafo nelle orecchie, le impedirono di rilassarsi. Poi, poco prima delle due, la stanchezza ebbe la meglio sulla paura, e finalmente riuscì ad addormentarsi. Cadde in un sonno così intenso che nonostante gli scossoni, e la gatta che le faceva la pasta sulla schiena, sognò la sua famiglia. Erano in auto, e stavano girando per Firenze alla ricerca di un posto dove fermarsi a gustare un bel gelato. Alonso alla guida, e lei, con Belen in braccio, seduta nel sedile posteriore, mentre correvano su per la salita dei moccoli che, cosa strana, era così piena di buche e avvallamenti che li facevano saltare sul sedile, oscillare come se proprio in quel momento si fosse scatenato un… «Terremoto!» urlò, scattando in piedi mentre la gatta si dava alla fuga, terrorizzata. Quando si rese conto che non era in auto ma immersa nel buio della sala comando, si chiese cosa fosse successo. Un botto, uno schianto l’aveva svegliata. Mentre dormiva beatamente, era successo qualcosa alla chiatta. “Maledizione!” pensò muovendosi a tentoni verso la postazione di controllo che, al riverbero delle spie lampeggianti impazzite, l’aspettava dall’altra parte della sala. “Ci mancava anche questo”, e dopo aver preso posto sulla sedia, cercò di capire quale fosse il problema. A quel punto uno sguardo le cadde su una lucetta rossa in fondo al quadro che, nascosta dal bagliore delle altre, timidamente si accendeva a intermittenza. Era il segnale che stava imbarcando acqua. «Una falla!» soffiò tra i denti. «Lo scafo è compromesso!»


15 Forse una grossa petroliera fuori rotta, magari con il radar guasto a causa della tempesta, non l’aveva vista e inavvertitamente le era finita contro. Poi, ignara di tutto, aveva proseguito per la sua strada. “Un incidente”, si disse mentre chiudeva l’interruttore che spingeva il carburante ai motori. “Un urto. Di sicuro una nave che non mi ha visto. Quei mostri se ne fregano delle segnalazioni e ci fosse mai una volta che si abbassino a leggere un bollettino della Capitaneria”. Solo allora le venne in mente che la chiatta non era provvista di camere stagne, e se l’acqua stava entrando… “Finirò in fondo al Tirreno!”. Si alzò subito, tenendosi rasente alla parete, e si avvicinò all’armadietto delle emergenze, lo aprì e tirò fuori il giubbotto salvagente arancione, fornito di fischietto e pila elettrica. “Ora calma” si disse, accendendo la torcia. “Per prima cosa devo capire bene cosa cavolo è successo. Devo scendere nella stiva per rendermi conto dell’entità del danno, e soprattutto se posso…”. Ma appena ruotò il fascio di luce verso la parte laterale, là dove una volta si trovava l’entrata del bagno e il baule contenente la zattera di salvataggio, capì che tutto sarebbe stato inutile. La porta del gabinetto era scomparsa, e al posto del gommone gonfiabile, unica speranza di salvezza, tra le lamiere contorte si apriva uno squarcio gigantesco attraverso il quale, in lontananza, poteva persino vedere le onde del mare. “Non ho molto tempo” pensò, immaginando che la falla si allungasse fin sotto la linea di galleggiamento. Si girò verso il bancone di comando. “Devo chiamare aiuto. Manderanno l’elicottero e in poche ore sarò a terra. Tanto per la chiatta non c’è più nulla da fare. Il compattatore è fuori uso, i motori non funzionano, lo scafo è compromesso. Comunque ormai era talmente vecchia che presto l’avrebbero mandata al disarmo”. Mentre sollevava l’interruttore per avviare la comunicazione con la stazione di terra, quella che notte e giorno faceva da supporto alle dieci raccogli-compattatrici di plastiche operanti nel Mediterraneo,


16 vide la gatta che, rannicchiata sul suo cuscino, la fissava con gli occhi sbarrati. «Hai paura?» le chiese mentre con la mano prendeva il microfono. «Stai tranquilla. Ora chiamiamo aiuto.» Attivò la radio e pronunciò: «Chiamata d’emergenza da RC23. Ripeto: Chiamata d’emergenza dalla Raccogli-compattatrice ventitré, operante in Tirreno. Falla a bordo. Scafo compromesso. Tempo d’affondamento stimato in quarantotto ore. Ripeto: Tempo stimato di affondamento in quarantotto ore. Chiedo soccorso elicottero immediato. Passo.» Nessuna risposta. Di nuovo: «Chiamata d’emergenza da RC23. Falla a bordo. Scafo compromesso. Affondamento stimato in quarantotto ore. Chiedo elicottero immediato. Passo.» Ancora niente. Nemmeno i soliti crepitii che solitamente facevano da sottofondo alle comunicazioni. Solo silenzio. “Calma. Stai calma” si disse, facendo correre lo sguardo sulle spie della radio che le lampeggiavano. “Com’è possibile… qui funziona tutto”. Poi le vennero in mente le telecamere esterne. Allora si spostò di lato, afferrò lo joystick, anima direzionale di tutto il sistema, e dopo aver avviato il software, iniziò a muoverlo alla ricerca dell’antenna. Tuttavia quello, nonostante i suoi sforzi, non rispondeva ai comandi. Gli schermi restavano scuri. “Andate anche queste!” considerò, lasciandosi cadere sulla sedia. “Sono cieca!”. Senza le due videocamere poste sul tetto della chiatta, non poteva scoprire che fine avesse fatto l’asta che supportava la trasmissione. “Non mi resta che aspettare la luce del giorno. Allora potrò uscire e andare a vedere che cavolo è successo. E magari, se è rotta, provare a ripararla”. Allora pensò che se non poteva comunicare con la terraferma, sarebbe stata costretta ad aspettare sei lunghi giorni prima che le squadre di soccorso venissero a vedere cosa le fosse successo. Nella condizione in cui era finita, sapeva bene di non poter contare su tutto


17 quel tempo. Infatti, come da protocollo, ogni settantadue ore la RC23 si doveva mettere in contatto con la stazione di Livorno. Se questo non avveniva, il giorno seguente era quella a chiamarla, e se non ci riusciva, entro quarantotto ore un elicottero si alzava in volo e si precipitava a vedere cosa le fosse capitato. Pertanto, dopo aver tirato un bel respiro, rivota alla gatta, che nel frattempo si era alzata dalla cuccia e le gironzolava a coda alta tra le gambe, concluse: «Meglio che aspetti la luce.» Con quella avrebbe potuto fare una stima dei danni, rendendosi conto dello stato dell’antenna, della reale entità della falla, e della quantità d’acqua che stava imbarcando. In ogni modo, sapeva che la chiatta era inaffondabile. O almeno così le avevano detto quelli della compagnia alla partenza. Ma nessuno le aveva paventato la possibilità di uno speronamento da parte di una grossa nave. L’eventualità di cavarsela con uno squarcio aperto sulla fiancata. “Sì. Aspettiamo l’alba” si convinse, tirandosi in braccio la gatta. “Per ora abbiamo tempo. Domani vedremo cosa fare”. 16 ottobre 2025 ore 07:30 Seduta di fronte alla consolle della sala comando, in attesa, al riverbero delle spie lampeggianti, la giovane non aveva fatto altro che pensare a casa. Alla bimba appena svezzata e al suo uomo, con il quale, un giorno di primavera aveva deciso di condividere tutta la sua vita. Solo quando l’angoscia di non poterli più rivedere le aveva stretto il cuore, togliendole il fiato, aveva scacciato via quei pensieri dolorosi e si era buttata sui controlli di rito, quelli che svolgeva ogni mattina dopo colazione. Nessun congegno rispondeva alle sue chiamate. I computer, i motori, tutti i sensori che solitamente indicavano i livelli di efficienza dell’impianto di compattazione, sembravano spenti e definitivamente morti. La chiatta era alla deriva, e tutto questo per colpa di una maledetta nave che non l’aveva vista. O meglio, per colpa della plastica che aveva invaso il pianeta, costringendola ad accettare quel lavoro.


18 “Maledetta plastica!” pensò più volte, mentre il chiarore del nuovo giorno iniziava a delineare la linea dell’orizzonte. “Se non fosse stato per te, per i soldi, a quest’ora starei dormendo abbracciata a mia figlia”. Poi un raggio di sole le scaldò il dorso della mano, riportandola alla cruda realtà. “Ora smettila” si disse, alzandosi dalla sedia. “Devi muoverti. Non hai molto tempo da perdere”. Quindi si avvicinò alla cassa, dove conservava il vestiario pesante, la aprì, e dopo aver rovistato tra i vari indumenti, tirò fuori la tuta invernale, quella in Gore-Tex con incorporata l’imbragatura. La indossò, e dopo aver calzato gli stivali, spalancò la porta stagna in fondo alla sala e uscì. “Andiamo a vedere che fine ha fatto l’antenna” meditò, salendo i pioli della scala fissata alla parete che l’avrebbe portata sul tetto della cabina comando. “Speriamo che non sia troppo danneggiata”. Quando arrivò in cima, agganciò il moschettone dell’imbrago al cavo salvavita che si srotolava per tutto il perimetro del terrazzino. Del resto, con quelle onde e il rollio della chiatta, cadere in mare sarebbe stata morte sicura. Poi, barcollando come un ubriaco, si avviò verso il centro, dove si levava l’antenna della radio. O perlomeno dove ricordava di averla vista mentre si calava dall’elicottero. Però quella non c’era più. Era stata strappata via a causa dell’urto, e al suo posto restavano solo i cavi d’ancoraggio e un troncone spezzato non più lungo di mezzo metro. Materiale inutile per comunicare con la terraferma. “Sono tagliata fuori” constatò, alzando lo sguardo sui cavalloni che le venivano incontro. “Non parlerò con nessuno. E oltretutto, con questo tempo…”. Fu a quel punto che il cielo si chiuse del tutto, all’orizzonte comparvero le prime saette, e subito dopo riecheggiarono i tuoni. Il vento che, appena messo il naso fuori dalla sala comando, sembrava essersi calmato, riprese a sferzare sulla chiatta come spinto da un’ira divina. Le cateratte del cielo si aprirono e la pioggia venne giù così fitta che in un attimo non vide più nulla. Tenendosi al cavo


19 salvavita, tornò indietro. A fatica discese la scaletta, e zuppa come un pulcino, rientrò in cabina. La burrasca che l’operatrice di Livorno le aveva predetto era arrivata. “Così non risolverò nulla” si disse, slacciando e togliendo la tuta. “Devo trovare un’altra soluzione. Non so come, ma non posso restare su questa bagnarola”. Poi, rivolta alla gatta che, da quando era rientrata in sala comando non l’aveva persa di vista nemmeno per un secondo, a denti stretti aggiunse: «E giusto per non farci mancare nulla… Siamo fuori dalle rotte dei principali traghetti.» Infatti, l’isola di plastica, per uno strano gioco di correnti, girava su se stessa lontana dalle direttrici che collegavano la Corsica e la Sardegna al continente, in una zona del Tirreno che nessuno frequentava. «Per questo, cara la mia gattina, prepariamoci al peggio» soffiò tra i denti mentre buttava sulla sedia la tuta in Gore-Tex. «E facciamoci venire in mente qualcosa.» Fu a quel punto che lo sguardo le cadde sullo squarcio che si apriva di fianco alla porta del bagno, e allora vide l’acqua che entrava, allargandosi sul tavolato. “Stiamo affondando” rifletté, accostandosi alla fenditura e passandosi una mano tra i capelli. “Non c’è più nulla da fare! Devo farmi venire in mente qualcosa… altrimenti andrò a fondo!”. Si rese conto di non avere molte alternative. Il canotto di salvataggio, quello riparato dalla tenda e provvisto di segnalatori GPS satellitari che stazionava accanto all’ingresso del bagno, era andato perso. Scomparso in mare a seguito dell’urto. L’energia elettrica, unica fonte di luce e calore durante le gelide notti, si stava esaurendo. Che cosa poteva fare? Buttarsi in mare? Non era una soluzione plausibile. L’acqua era fredda e le onde troppo alte. Immersa, in quelle condizioni, non avrebbe resistito più di una giornata. Restando in piedi di fronte allo squarcio, si grattò la nuca in cerca di un’idea per sopravvivere. Improvvisamente la chiatta s’inclinò su di un lato, facendola cadere. Anna sollevò le braccia nel tentativo di afferrare qualcosa per non


20 finire a terra, e il bordo di una lamiera affilata le lacerò il palmo della mano destra fin quasi all’osso, portando alla luce il bianco del derma. Anna urlò per il dolore, osservando il sangue che dalla ferita colava sul pavimento, mescolandosi all’acqua di mare. “Ci mancava anche questa!” osservò atterrita la profonda ferita alla mano. Si ricordò del rotolo telato, quello resistente e impermeabile che teneva nel secondo cassetto del banco comando, tra i cacciaviti e le chiavi inglesi. Così, a gambe larghe per non perdere l’equilibrio, raggiunse la sua postazione, e una volta afferrato il nastro adesivo, cercò di domare il dolore e fasciò la ferita. Alla fine si lasciò cadere sulla sedia. “Almeno ho fermato il sangue” pensò, esaminando il lavoro appena concluso. “Ma ora che faccio? Non posso fermarmi qui. Devo escogitare qualcosa, devo muovermi. Se non per me lo devo fare per loro”. Per il suo Alonso, per la sua Belen. Per i suoi cari che, ignari di tutto, l’aspettavano a casa. Così lontano. Tanto lontano. A quel punto si alzò, e sostenuta da quei pensieri iniziò a muoversi per la sala comando, rovistando in ogni armadietto, in ogni anfratto alla ricerca di qualcosa che potesse tornarle utile. Materiali che potesse usare per abbandonare la chiatta che lentamente, ma inesorabilmente, di lì a poco sarebbe andata in fondo al Tirreno. Non riuscì a trovare che due salvagente di polistirolo su cui spiccava la scritta “RC23”, una vecchia rete da pesca, alcuni cordini, e tre grosse taniche contenenti liquido detergente per le pulizie. “Niente!” pensò sconcertata, fissando il materiale ammucchiato al centro della sala. “Robaccia! Non c’è proprio nulla di utile su questa bagnarola”. Le venne in mente un’idea: “Se le svuoto dal detersivo… Ma sì! Posso fare una zattera!”. Una zattera per allontanarsi dalla RC23. Una zattera su cui salire e continuare a galleggiare in attesa dell’elicottero. Così, allargata la rete sul pavimento, liberò le taniche dal liquido detergente. Quindi le dispose sopra le maglie una accanto all’altra,


21 congiuntamente ai due salvagente, e dopo aver avvolto il tutto, afferrati i cordini, iniziò ad annodare le maglie fino a realizzare una base informe. Alla fine, dopo aver più volte provato la robustezza delle corde, si voltò verso Jamaica che, come al solito, la stava fissando dalla cuccia, e con un mezzo sorriso le domandò: «Che te ne pare? Certo, a guardarla bene non è che mi dia tutta questa sicurezza. Del resto… Hai un’altra soluzione?» Poi un brontolio allo stomaco le ricordò che ancora non aveva messo nulla sotto i denti. “Devo mangiare qualcosa” pensò avvicinandosi alla dispensa. “Sulla zattera non avrò posto che per l’acqua”. Quindi, presi due barattoli di carne conservata e un pacco di gallette salate, andò a sedersi per terra di fronte alla gatta. «E anche tu devi mangiare» le disse aprendo una scatoletta di manzo conservato in gelatina di brodo. «Se devi venire con me, se vuoi montare sulla zattera» continuò lasciando cadere di fronte alla micia qualche pezzetto di carne. «Anche tu devi mandar giù qualcosa.» 16 ottobre 2025 ore 13:30 Una volta terminata la carne in scatola e il pacchetto di gallette, Anna scese nella stiva. Mentre mangiava, le era venuto in mente che in quel posto avrebbe potuto trovare qualcos’altro di utile. Tuttavia, appena discesi due scalini, si trovò a che fare con l’acqua. I locali inferiori, quelli sotto la sala comando, erano allagati, e ogni cosa sommersa. Allora tornò indietro, e per non pensare ad altro, visto che ormai si era fatto troppo tardi per mettere la zattera in mare, si mise nuovamente a controllare i nodi che aveva fatto per tener unite le taniche e i salvagente. “Tra poco farà buio e non vedrò più nulla”, pensò mentre faceva correre le dita lungo i cordini. “Non è il caso che provi ora. Lo farò domattina. Viste le dimensioni della falla, la chiatta resisterà ancora una buona giornata”. Il mare sembrava calmarsi. I cavalloni che da ore le spazzavano il ponte dopo essersi rotti lungo la fiancata, dando vita a quel rollio così fastidioso, si stavano placando. Anche le nuvolaglie parevano


22 aprirsi sotto l’incalzante sole d’autunno che più in alto, ancora nascosto, ogni tanto gettava un raggio di luce sulla grande vetrata. “La vecchia RC23 lotterà fino alla fine” si disse la giovane, esaminando l’ultimo nodo. “Andrà tutto bene, e tempo un paio di giorni sarò a casa dai miei”. Terminato l’esame della zattera, e verificato che una volta messe in mare le tre taniche non imbarcassero acqua, Anna si accostò al suo armadietto. Facendo attenzione a non usare la mano ferita l’aprì, tirò fuori la sottotuta termica, il maglione di lana pesante, e tornata al bancone li indossò. Sapeva bene che in mare, anche se protetta dal pesante tessuto in Gore-Tex, avrebbe patito il freddo. Infagottata a tal punto che al suo confronto un Inuit della Groenlandia impegnato a cacciare la foca sembrava svestito, per fugare ogni dubbio decise di verificare la galleggiabilità del suo manufatto. “Se domani mattina dovrò montare su questa robaccia, devo verificare che non se ne vada a fondo” considerò accigliata mentre, afferrate le corde della zattera, cominciava a trascinarla verso l’uscita della sala comando. Poi, rivolta alla gatta, che nel frattempo si era alzata dalla cuccia e la stava spiando seduta in mezzo alla stanza, seguitò: «Non ti preoccupare. Non ho intenzione di lasciarti a morire in mezzo al mare. Faccio solo una prova» aprì la porta. «Se questa cosa funziona, domani ce ne andremo tutte e due.» Una volta all’esterno, mentre il vento gelido carico d’acqua marina le sferzava i capelli, fissò una cima della zattera alla balaustra, e sostenuta dall’unica mano sana la fece scivolare in mare, tra i flutti impetuosi. Quindi, afferrata la corda, facendo attenzione a scegliere il momento giusto tra un’onda e l’altra, pian piano vi si calò sopra. «Galleggia!» urlò stendendosi supina. “Forse riuscirò a scamparla”. Mentre quella strana accozzaglia di corde, reti, taniche e salvagente saltava come un puledro imbizzarrito in mezzo ai marosi, si drizzò sulle ginocchia, lentamente si alzò in piedi, e afferrata la corda che la teneva vincolata alla RC23, con un salto scavalcò la murata e finì incolume sul ponte.


23 “Certo, se questa maledetta burrasca non si ferma, domani salterò come un grillo” pensò, mentre tirava la zattera oltre la balaustra. Una volta aperta la porta, fece ritorno nella sala comando. 17 ottobre 2025 ore 06:00 Quella notte Anna sognò sua figlia. La piccolina era distesa nella culla con le manine in aria, e sorrideva. Non voleva dormire. Come ogni sera stentava a chiudere gli occhietti per lasciarla andare da Alonso che, in cucina, l’aspettava seduto di fronte alla cena. Quella furbetta indugiava in attesa della ninnananna e delle carezze che Anna le faceva, accompagnandola pian piano verso il riposo. Poi la culla di Belen scomparve, e al suo posto prese forma suo marito mentre le porgeva un calice di vino bianco. «Finalmente sei tornata. Sapessi quanto ci sei mancata!» A quel punto un sobbalzo inaspettato del pavimento lo costrinse a lasciar andare il grande bicchiere, rovesciando tutto per terra. “Ma che…” Anna fece uno scatto indietro. “Stai attento!”. Fu in quel momento che riaprì gli occhi e vide l’acqua lambirle la punta dei piedi. «Maledizione!» esclamò drizzandosi. «Stiamo affondando!» “Non ho più molto tempo. Devo abbandonare la chiatta”. Allora afferrò la gatta, che ancora dormiva nella sua cuccia, la ficcò dentro la gabbietta di vimini, e tenendola sotto braccio si mosse verso la porta della vetrata. “Vediamo questa mattina cosa ci riserva il mare. Se durante la notte il vento si è calmato”, si chiese appoggiando il trasportino sul bordo del banco comando. Tuttavia aperto l’uscio, una gelida folata la investì in pieno, portandosi via l’ultima speranza di trovarsi a faccia a faccia con un tempo più mite. Il cielo, coperto di nuvole nere, faceva da sfondo alle saette e ai tuoni. Il vento, che la sera precedente sembrava essersi placato, era aumentato, e ora spietatamente sferzava il ponte della povera chiatta come spinto da un’ira divina.


24 Le onde impazzite, la pioggia che le batteva fitta sul volto impedendole di tenere gli occhi aperti su quello scenario apocalittico, su quell’ultimo capitolo della sua vita, sembravano sfidarla. A quel punto comprese. “Non ho speranze. Non posso fare più nulla”. Poi le tornò in mente il sogno di quella notte. Il suo Alonso, la piccola Belen. «Non importa» si disse rientrando in sala comando. «Devo comunque tentare.» Preso il trasportino con la gatta, si avviò verso l’altra porta, la aprì, uscì e, afferrata la zattera, la lanciò in mare. In seguito, dopo aver sciolto la corda che la teneva assicurata alla balaustra, impugnando ben stretta la gabbietta di vimini tra le braccia, si tuffò tra le onde. Quando riemerse dalle acque, tirandosi dietro il trasportino, con uno scatto di reni salì su quell’insieme di taniche e salvagente. “Finora tutto bene”, pensò accucciandosi sulle ginocchia e iniziando a remare con le mani. “Ora cerchiamo di allontanarci da quella maledetta bagnarola”. Eppure la sfortuna l’aveva presa di mira, e così, un’onda gigantesca, comparsa dal nulla come un inatteso titano emerso dal mare, dopo aver sollevato la povera zattera la rovesciò contro la fiancata della chiatta, facendola finire in mille pezzi. Anna andò a fondo, poi riemerse, si aggrappò a una tanica e rimase lì, dolorante per la botta subita alla schiena, contro il freddo metallo della RC23. Si trovava in mezzo al mare, al centro di una bufera, immersa in un groviglio di corde, reti e salvagente, di fianco alla sua chiatta sbandata che stava affondando. “È finita”, rifletté attaccandosi a una fune che le penzolava di fronte. “Sono così stanca…”. Fu a quel punto, proprio quando si stava lasciando andare all’idea di morire, che l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio su quei pensieri. Allora, urlando, strinse la corda e facendo forza sulle gambe risalì a bordo, entrando in sala comando. «Non devo mollare» mormorò, lasciandosi cadere al suo posto. «Vediamo se c’è qualcos’altro…»


25 A quel punto la chiatta ebbe un sussulto, seguito da uno strano rumore, e alla fine una serie di scricchiolii accompagnarono l’inizio dell’affondamento. “Sta cedendo tutto”. L’acqua invase la sala sempre più velocemente, fino a bagnarle le gambe e la vita. Fino a sollevarla dalla sedia. Fino a sommergerla. Allora Anna pensò ai suoi cari. Ad Alfonso, a Belen. “Non li vedrò più”. E mentre tratteneva il fiato, prima dell’ultimo respiro che le avrebbe portato il mare nei polmoni, rivisse tutta la sua vita. Dalla nascita, all’imbarco sulla RC23. A quel maledetto lavoro di fronte all’isola di plastica. Poi morì. Fine anteprima. Continua...


INDICE

PROLOGO.................................................................................... 5

ISOLE DI PLASTICA.................................................................. 7

LE SERRE .................................................................................. 26

VENERE..................................................................................... 76

EPILOGO ................................................................................. 135



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