Indagini di buona famiglia, Federica Marchica

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FEDERICA MARCHICA

INDAGINI DI BUONA FAMIGLIA

ZeroUnoUndici Edizioni


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INDAGINI DI BUONA FAMIGLIA Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-373-4 Copertina: immagine Shutterstock.com


A tutte le famiglie e a chi ha perso tanto, ma ha costruito molto di piĂš



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PROLOGO

In una piccola chiesa cattolica di Londra, una famiglia è riunita per la morte del suo membro più anziano: la dolce matriarca, l’amorevole genitrice che ognuno di loro serberà nel cuore fino alla fine dei propri giorni. Ci sono proprio tutti, o quasi. La bionda figlia della defunta, dai quali occhi sgorgano poche lacrime, ha il viso segnato dal dolore. Rimane composta, timorosa di lasciar uscire le sue emozioni. Suo marito, imperturbabile, le sta accanto, fissando un punto indefinito davanti a sé. Lui è convinto che gli uomini non piangano. Le figlie della coppia sono inconsolabili. Ormai adulte, sentono che una parte della loro vita, quella felice, delle coccole amorevoli e dei “ciao amore” accompagnati da grandi sorrisi, sia morta insieme alla nonna. Il fidanzato della figlia maggiore tiene il mento alto, guardando di tanto in tanto la compagna senza dire nulla. È impotente davanti al dolore di una famiglia in cui è entrato da ormai tantissimi anni. La chiesa è quasi piena, a testimoniare che la defunta fosse amata da molti, ma nulla consolerà i parenti, né oggi, né a breve. Non ci sono promesse di vita eterna che tengano, né condoglianze da volti semi sconosciuti, visti per l’ultima volta dieci anni prima. Non ci sono parole. Ma c’è un segreto nel loro passato.


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1. UNA MACCHINA DA GUERRA

I cattivi muoiono sempre, ero solita dirmi quando volevo risollevarmi il morale, da ragazzina. Muoiono sempre, ed è così che sono puniti dal destino. Me lo ripetevo ogni volta in cui qualcuno mi trattava male; ogni volta in cui, incapace di reagire, restavo a guardare le ingiustizie che sentivo di subire. Pensavo che qualche indefinito potere dell’universo avrebbe punito chi mi prendeva in giro per il mio peso, per i miei brufoli, per l’apparecchio ai denti, per il mio essere la migliore della classe a scuola, e che finalmente prima o poi avrei potuto dimostrare di essere fantastica; un bellissimo cigno nascosto nei panni di un incallito brutto anatroccolo. Ma chi voglio ingannare? Non ho mai smesso di crederlo. Tuttavia, oggi so di raccontarmi una grande, terribile bugia. Non è vero che i cattivi muoiono sempre. Anzi! Permeano il mondo con la loro presenza, talvolta ingombrante, talvolta subdolamente sottile. Loro ci sono sempre, e spesso sono i buoni ad andarsene. Quelli come mia nonna, la persona migliore del mondo, che ci ha lasciati da poco, dopo sei mesi di una malattia mai identificata, con un enorme vuoto nel cuore e centinaia di domande nella testa. Se n’è andata senza sapere perché, salutandoci ogni giorno, per intere settimane, come se avesse dovuto non vederci mai più, e io ricordo ancora il dolore e il senso di claustrofobia che m’invasero quando vidi gli addetti delle pompe funebri saldare la sua bara, in quella camera dove, fino a pochi giorni prima, c’era il suo letto. Ricordo il grande vuoto e la paura che provai, il giorno in cui mia madre la trovò riversa sul pavimento di casa sua, poco più di sette mesi fa, e nessuno in ospedale seppe dirci con certezza cosa fosse successo. Sospetta ischemia. Sospetta neoplasia cerebrale. Non ottenemmo altro che ipotesi, e in un certo senso tutta la famiglia si ammalò insieme a lei. Fu soprattutto quel dolore, suppongo, a rendermi quella che sono oggi. Jenny l’automa. Jenny la Medusa. Io, dal canto mio, odio perfino quell’abbreviativo, che tanto ricorda il nome di una


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fatina di un cartone animato. Il mio nome è Jennifer, maledizione. Jennifer Anderson. Spero nella morte dei cattivi, ma sono diventata una di loro, dopo un cammino lungo anni, culminato nella realizzazione del mio peggiore incubo. Che strani scherzi gioca il destino, a volte. È una mattina di dicembre come tutte le altre; di una delle trentadue giornate intercorse dal funerale di mia nonna in cui nella mia mente, appena sveglia, ha fatto capolino l’immagine della bara saldata. Una delle trentadue mattine in cui ho temuto di non poter più respirare. Mentre mi reco in ufficio, Londra mi regala uno scroscio di pioggia e vento gelido. Il Tamigi è grigio e inquieto come il mio umore. Per stasera è prevista neve. Io la odio. «Sei in ritardo, Jenny.» Non potrei desiderare un’accoglienza migliore, nel mio posto di lavoro. «Tutta la città è in ritardo, Phil.» Lui scuote la testa e contorce la bocca in una smorfia. «Sarà.» Philip e io stiamo insieme da quindici anni, con alti e bassi meno espressi del dovuto. Ci siamo conosciuti quando io ero ancora quella ragazzina bruttina che credeva nel karma, e lui il mio compagno di banco; tenero, dolce e goffo. Il nostro amore è nato per necessità, perché due adolescenti sfigati, come venivamo considerati, hanno bisogno come tutti gli altri, o forse anche di più, di un complice nella vita. Al liceo, a partire dal secondo anno, siamo stati vicini di banco in quasi tutti i corsi. Io ero appassionata di libri e scrittura, lui di computer. Diversi dagli altri, simili tra noi, come due persone costrette a condividere una scialuppa troppo stretta, tra le quali nasce istintivamente un rapporto di odioamore: qualche volta, ognuno ha avuto voglia di uccidere l’altro, ma sapeva bene di aver bisogno di un alleato. E così, in quel mare mosso che è stato per noi il liceo, il sodalizio tra Phil e me si è trasformato in un amore dal retrogusto di una mera sperimentazione. Primo bacio a quindici anni. Il primo per entrambi, ovviamente. Tutto qui? Mi chiesi subito dopo, non comprendendo a pieno i racconti delle mie poche amiche, di grandi emozioni e pomiciate da sogno al chiaro di luna. Io dovetti accontentarmi di un ascensore dei grandi magazzini Harrods, con temperatura interna percepita di quaranta gradi e un leggero odore di fogna.


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Prima volta a diciassette anni. “Lo hanno fatto tutti, Jenny”, mi disse il mio fidanzato un pomeriggio dopo la scuola. Così mi lasciai convincere e, inaspettatamente, quel giorno riuscii perfino a emozionarmi. «Ti amo» mi sussurrò, mentre si muoveva sopra di me e dentro di me. Non me lo aveva mai detto prima di allora. «Ti amo anch’io» risposi, sentendomi importante e donna. Oggi, ripensando ai ragazzini che eravamo, non posso fare a meno di chiedermi se Phil, quel giorno, non amasse in realtà l’idea di cominciare a fare sesso, e io quella di piacermi in un corpo che odiavo. Arrivammo alla fine del liceo già più distanti, mentre venivamo accettati da due importanti università della nostra città. Lui l’Imperial College, alla facoltà di ingegneria, io la Goldsmiths, a quella di giornalismo. Litigavamo costantemente: Phil si sentiva oppresso, io poco apprezzata. Alla fine, però, inspiegabilmente tornavamo sempre l’uno dall’altra. Ci sono scialuppe che restano in mare a lungo. Quando iniziai a dimagrire, anche il mio fidanzato divenne più gentile e premuroso con me. “Che strana coincidenza”, direi oggi sarcasticamente, mentre a ventun’anni pensai solo che il mio ragazzo si fosse accorto del mio valore. Persistevo e sopravvivevo, credendo ingenuamente che fosse proprio quello, il segreto di una storia duratura. Del resto, anche i miei genitori sono stati l’unico amore l’uno dell’altra, e io ho sempre sognato una stabilità come la loro. Philip e io siamo finiti a lavorare insieme cinque anni fa, quando io stessa ho garantito per lui con il direttore dell’azienda. Lo ammetto: a volte mi pento di averlo fatto, ma nonostante il prestigio che da sempre accompagna il titolo d’ingegnere e la costante ricerca di simili figure sul mercato del lavoro, la crisi economica aveva costretto anche lui ad adattarsi, dopo due incarichi nel suo campo non andati a buon fine e svariate allusioni a quanto i miei studi fossero stati inutili. «Jenny» incalza Phil, distraendomi dai miei pensieri «questa mattina abbiamo una riunione importante, te lo ricordi?» Io non dimentico mai nulla, al contrario del mio fidanzato, ma a lui a volte piace sentirsi superiore a me. È il solo a partecipare a questa gara, e nemmeno se ne accorge. In questa riunione importante, dovremo chiudere un affare con dei nuovi clienti, provenienti dalla Polonia, che ci garantirebbe lavoro per almeno un anno. L’intera Telmatic Ltd di Londra


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conta su di noi, come fossimo gli eroi del giorno, prodi patrioti e valorosi condottieri pronti a vincere una grande battaglia. È così divertente. Poco più di un mese fa, quando la morte di mia nonna mi ha lacerato l’anima, coloro che oggi ci incitano e ci osannano come nuovi Dèi, mi guardavano con malcelata preoccupazione, ma non m’illudo che si trattasse di empatia nei miei confronti. Semplicemente, l’idea di perdere una delle macchine da guerra dell’azienda li disturbava troppo. «Sei pronta, allora? Andiamo. I clienti sono arrivati.» «Io sono sempre pronta.» O perlomeno, questo è ciò che mi piace far credere. Non è qui che vorrei stare, e se mi fermassi anche solo per un momento a pensare a quanto io stia buttando via la mia vita, tutto crollerebbe. Ogni cosa sboccerebbe come margherite con il primo sole, e io ne sarei sconfitta. Sono arrivata qui pochi mesi dopo aver finito l’università. La crisi economica non mi ha permesso di trovare lavoro nel mio settore, e io ero talmente desiderosa di arricchire il mio curriculum, cominciare a fare esperienze nel mondo e costruire un futuro per me e Phil, che decisi di rimanere alla Telmatic fino a quando qualcuno non mi avesse chiesto di andarmene. Questo succedeva otto anni fa. Mia nonna mi consigliava sempre di mollare il mio impiego. «Non sei felice, Jennifer» mi ripeteva «tu devi dedicare la vita a ciò che ami. Devi scrivere, e diventare una nuova voce del giornalismo inglese.» Tuttavia, io decisi di sopportare mesi e mesi di umiliazioni da parte di una collega più giovane e bella, ma già veterana dell’azienda, e della sua storica amica, che apparteneva alla categoria per la quale ogni chilo di peso corrispondeva a uno di frustrazione, infinite ore di straordinari mai pagate, e richieste assurde a ogni ora del giorno da parte di project manager che, da pietre miliari dell’impresa quali sembravano essere, sarebbero poi misteriosamente spariti l’anno successivo, forse attirati, come me, dalla speranza di un futuro migliore per sé e per le loro famiglie. Phil trovava molto divertente il mio status di “schiavetta tuttofare” dell’azienda alla quale pochi anni dopo sarebbe approdato e io, che covavo rabbia nei suoi confronti ormai da anni, sopportai di soffocare i miei pianti nel locale adibito alle fotocopie, e di passare prima mesi, poi anni, sorridendo a persone che, nel profondo, odiavo.


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Ed è proprio per questo, forse, che ora sono il capo della divisione tecnica. Dopo la riunione, Phil mi abbraccia felice. «Ce l’abbiamo fatta! Li abbiamo conquistati!» Non ne dubitavo. Abbiamo passato tante notti, a casa nostra, a elaborare l’offerta perfetta, il prezzo perfetto, la pubblicità perfetta, per il nostro impianto di trasporto di polveri. Phil mi bacia con trasporto. Lo fa così poco da quando è diventato il capo del settore commerciale. «Adesso puoi cominciare a cercare l’assistente del quale hai bisogno da mesi!» Ha ragione. Non posso più continuare a rincasare ogni sera alle dieci, nutrirmi male e velocemente, dormire cinque ore a notte. Ho trent’anni, ma a volte me ne sento molti di più. Domani incomincerò a cercare il mio tanto agognato assistente. Ora, però, ho qualcosa di più importante da fare. Qualcosa a cui sto pensando da un mese, senza avere il coraggio di agire e che forse mi farà male, perché potrebbe portarmi a conoscere delle verità scomode sulla mia famiglia. Qualcosa in cui non mi aiuterà nessuno, tantomeno Phil. Lui, con la sua razionalità, cercherebbe solo di dissuadermi, ma non posso più aspettare. «Devo uscire prima oggi. Ci vediamo questa sera a casa, ok?» «Ok.» Leggo nei suoi occhi le domande che, probabilmente, vorrebbe farmi, ma che ha deciso di non rivolgermi, guidato dal contegno tipico di un ingegnere. Dopo qualche fermata di metropolitana e poi di autobus, eccomi a Kensington, dove cammino fino alla redazione del London Evening Standard, un quotidiano locale gratuito diffuso nelle strade e in pressoché ogni fermata della Tube. Gli uffici si trovano vicino a quelli del Daily Mail, un importante quotidiano in cui, una volta, sognavo di lavorare. Presa dalla paranoia di essere seguita, mi guardo alle spalle due volte. Ma chi dovrei scorgere? Phil, forse? Vedermi uscire in anticipo dal lavoro è un evento raro, ma non al punto di mettere qualcuno sulle mie tracce. Spero. «Buongiorno» dico alla signora della reception, alla quale due grandi occhi azzurri, capelli biondi e un viso talmente pallido da sembrare di cera, donano un’aria regale.


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«Vorrei inserire un annuncio sul vostro giornale. Con chi posso parlare?» «Venga con me. Il signor Derry, che si occupa degli annunci, può riceverla.» È stato facile, finora. Poco dopo, entro nell’ufficio del signor Derry, preceduta dalla gentile receptionist, che si congeda quasi subito. «Allora, signorina, cosa la porta qui?» «La necessità di mettere un annuncio su un quotidiano popolare. Sto cercando un esperto in investigazioni.» Mi guarda e si accende un sigaro. «Un esperto in investigazioni» ripete, esalando una nuvola di fumo sulla mia faccia «e a che le serve? Suo marito la tradisce?» Nonostante abbia voglia di insultarlo, qualche secondo dopo sento me stessa confessare la verità. Forse avevo davvero bisogno di dirla ad alta voce. «Voglio scoprire chi siano le persone che condividono la tomba con mia nonna.» Il giornalista resta in silenzio per un po’, poi si mette a scrivere. «Cercasi esperto in investigazioni per indagine a scopo personale. Corretto?» Annuisco. «Contattare…» «Jennifer Anderson. 0044078877.» Il signor Derry mi congeda, e io torno nel freddo delle strade di Londra, pungente come lo era il giorno del funerale di mia nonna. Lo ricordo come se fosse oggi. In quel cimitero a due ore da Londra, nel paese dove aveva passato la sua infanzia e la sua adolescenza, l’esecuzione delle sue ultime volontà lasciò me, Phil e la mia famiglia, completamente senza parole. “Seppellitemi con Mary e John Ockhard, nel cimitero di Saint Caesar, accanto a mia madre e mio fratello.” Così recitavano le sue disposizioni. Ma chi erano Mary e John Ockhard? Né io, né nessun altro membro della mia famiglia li avevamo mai sentiti nominare fino a quel momento. Quando arrivammo al cimitero cattolico di Saint Caesar, un piccolo borgo immerso nella natura, scoprimmo ben poco su quelle due persone: della foto di John Ockhard, sulla lapide, non restava che un alone giallastro. Mary Ockhard era invece una bella


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bambina, la cui immagine sembrava quasi recente, che portava una tutina bianca e una cuffietta, stretta con due lunghi lacci ai lati. Mi sentii davvero triste per lei, poiché aveva perso la vita prima ancora di poter dire le sue prime parole. Per una sgradevole casualità, non ci fu possibile risalire né alla data di nascita, né a quella di morte di Mary e John. Gli ultimi due numeri di ognuna delle date su quella lapide erano infatti assenti: forse caduti, o sottratti da qualche teppista, o semplicemente vittime del tempo. Sotto al nome di lui, infatti, non si leggeva altro che 19..-19.. mentre in corrispondenza del nome della piccola c’era un unico anno: 19... Quando chiamammo l’Ufficio Anagrafe di Saint Caesar, decisi a saperne di più, ci fu detto che pochi giorni prima un incendio aveva distrutto tutti i documenti che risalivano a prima degli anni Novanta, i quali non erano ancora stati inseriti negli archivi computerizzati. Rientrati a Londra, i miei genitori decisero di non pensare più a quella vicenda. Mia madre soffre troppo all’idea di essere rimasta orfana, perché anche a cinquantasette anni perdere un genitore ti lacera l’anima così, da quel momento, non lascia un minuto libero nelle sue giornate. Fermarsi la ucciderebbe e la logorerebbe nel dubbio, esattamente come succede a me. Mio padre è un uomo buono e composto, da sempre promotore della dignità e del camminare a testa alta. Di sicuro non sarà lui a indagare. Mia sorella Victoria ha ventitré anni e ora vive negli Stati Uniti. Resto solo io, ed è mio dovere scoprire chi siano le persone che condividono l’eternità con mia nonna. Farò tutto da sola. O meglio, insieme all’esperto in investigazioni che sto cercando. Poco dopo il funerale, ho chiesto a Phil di aiutarmi, ma lui ha rifiutato fermamente. «Il passato è passato, Jenny» mi ha detto «se tua nonna non ha voluto dirvi chi fossero quelle persone, è giusto che voi rispettiate le sue volontà e la lasciate riposare in pace.» Non mi aspettavo empatia da lui. Io non credo che mia nonna non abbia voluto dirci chi fossero Mary e John Ockhard. Penso, invece, che intendesse parlarci della loro esistenza, e che non lo abbia mai fatto mentre era in vita perché qualcosa legato a loro le faceva troppo male. Perché a volte non sono solo i cattivi, a morire.


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Quando rientro a casa, la sera, Phil mi saluta come se non fossi sparita per ore senza dirgli dove mi trovassi. «Sono arrivati due curriculum, oggi. Un ragazzo e una ragazza. Li ho lasciati sulla tua scrivania, così finalmente domani comincerai a cercare il tuo assistente.» «Grazie.» «Jenny, che hai? Non sei più la stessa.» «Che vuoi che abbia? Sono in lutto, Phil. Da un mese.» Lui tace e resta a guardarmi con espressione triste. I suoi occhi sembrano velarsi di lacrime. So che le mie risposte pungenti lo feriscono, anche se non me lo dice mai. Non lo biasimo, benché in questo momento sia io a essere in cerca di comprensione. «Trova un assistente, Jenny. Ne hai un gran bisogno» sussurra, e se ne va in camera da letto, chiudendo la porta dietro di sé e lasciandomi sola nel nostro salotto. Lo farò. Domani forse, o quando avere un assistente cesserà di sembrarmi una manifestazione di palese inadeguatezza nel mio lavoro. Un lavoro che non amo, ma che mi rende la donna che ho sempre voluto essere: fredda, combattiva, inflessibile e orgogliosa. Sperando che la notte porti consiglio, senza nemmeno aver cenato, mi abbandono a un sonno senza sogni, sul divano. Non posso andare in camera da letto, né vedere di nuovo Phil sul punto di piangere per colpa mia. Sono io ad aver subìto un lutto, non lui. Sarei io a dover piangere, non lui. Domani mattina, forse, sarà tutto passato; ma ora sta nevicando a Londra, e io odio la neve. Tutto quel bianco ovunque è così opprimente, e spero che non ne resti più alcuna traccia al mio risveglio.


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2. L’ASSISTENTE PERFETTO

Dopo tre giorni di neve ininterrotta, il mio umore non ha fatto altro che peggiorare. Ho convocato in azienda la ragazza del curriculum consegnatomi da Phil, per un colloquio che si è rivelato un totale disastro. Annie, ventidue anni e un nome persino più da fatina buona del mio, non ha retto alla mia analisi delle sue competenze. Se n’è andata piangendo dopo una conversazione di un quarto d’ora in francese e un’altra in tedesco – lingue che ho studiato per anni – e l’ho apertamente giudicata inadeguata a occupare il posto di mia assistente. L’altro curriculum arrivato tre giorni fa, invece, appartiene a un ragazzo che non ho ancora avuto il coraggio di contattare. Michael May, ventidue anni, residente a Soho e fresco di laurea a pieni voti in informatica alla University of East London, ha già all’attivo un’esperienza come assistente del capo di una famosa azienda informatica americana, svolta durante il periodo dell’università, come riconoscimento conferitogli in quanto migliore studente del suo corso. Durante tale esperienza si è occupato della risoluzione di problemi informatici insieme al suo superiore, con il quale ha curato la realizzazione di nuovi progetti e l’organizzazione delle giornate, con relativi appuntamenti e gestione delle comunicazioni. «Lui sì, che sarebbe un assistente perfetto» penso ad alta voce, quando Phil entra nel mio ufficio. «Ti sei decisa a contattare quel ragazzo?» No, ma in compenso porto il suo curriculum ovunque da tre giorni, e l’ho letto talmente tante volte da averlo imparato a memoria, vorrei rispondere. Mi limito tuttavia a scuotere la testa. «Bene, perché l’ho fatto io. Hai appuntamento con lui oggi pomeriggio alle quindici.» «Phil! Se ci tieni tanto, perché non lo assumi tu? Io posso farcela da sola.» «No, Jennifer. Non più. Da quante sere non rincasi prima delle dieci? Da quanto non ceniamo tranquilli, seduti a tavola, nello stesso momento?


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Sei rimasta l’unico capo settore senza un assistente, e questo sta rovinando la tua vita. La nostra vita. Riesci a capirlo?» «Tu lavori tanto quanto me» è l’unica cosa che riesco a dire, quando in realtà vorrei dilungarmi sull’incompetenza di Lydia, la sua assistente sessantenne scorbutica e ormai stanca del lavoro a cui lui affida qualunque incombenza indesiderata, ottenendo pessimi risultati, ai quali pone rimedio da solo, abbastanza per mantenere la sua reputazione di lavoratore infaticabile. «Ma ogni sera sono a casa almeno due ore prima di te.» Mi stupirei del contrario. Ricordo ancora benissimo la nostra lite sui metodi di gestione del lavoro. “Sei un capo o un delegatore, Phil?” avevo tuonato superbamente. Lui mi aveva altrettanto gentilmente invitata ad andare a quel paese, e non ci eravamo parlati per tre giorni. «Forse questo non accadrebbe, se degnassi il mio lutto di una minima considerazione!» esclamo, stupendomene io stessa. Lui resta a guardarmi con occhi sgranati. «Oggi pomeriggio alle quindici» dice, e se ne va sbattendo la porta per la seconda volta in pochi giorni. Nel silenzio del mio ufficio, mentre tento di portare a termine tutto il mio lavoro, la mia mente comincia a viaggiare. Perché nessuno risponde al mio annuncio sullo Standard? È troppo, chiedere di trovare un esperto in investigazioni a Londra? Sconsolata, guardo il display del mio cellulare. Nessuna chiamata. Lo ributto nella mia borsa, e inserisco di nuovo il pilota automatico. Le quindici arrivano in un battibaleno. «Signorina Anderson» dice la segretaria, dopo aver fatto capolino timidamente nel mio ufficio con la testa «c’è Michael May per lei.» «Grazie. Lo faccia entrare.» Ho analizzato ogni dettaglio del suo curriculum per giorni, fotografia compresa, ma la persona che mi si presenta davanti sembra totalmente diversa dal ragazzo raffigurato in quella piccola immagine. Lo riconosco solo dagli occhiali, neri e sottili, e dai penetranti occhi marroni. Nella fotografia, i suoi capelli sono corti e ordinati, mentre ora sono lunghi fino alle spalle, mossi e di un bel castano scuro. Indossa una camicia nera a maniche corte, piuttosto attillata, dei jeans blu scuro e anfibi neri. Resto a guardarlo, mentre un’ondata di stupore mi annebbia la mente. «Piacere, Michael May» dice, porgendomi la mano.


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«Tu… tu mi assomigli. Tanto.» Come lui, ho occhi piccoli e castani, capelli color cioccolato, mossi e lunghi fino alle spalle e pelle olivastra. Siamo perfino della stessa altezza, e i miei occhiali hanno lo stesso colore dei suoi. Capisco di non essere l’unica ad averlo notato. «Incredibile. Davvero incredibile» risponde lui, stupito quanto me. Durante il colloquio, mi accorgo che non siamo uguali solo fisicamente. Michael parla correntemente francese e tedesco, come me ha una passione che ha deciso di accantonare – che nel suo caso è la fotografia – e come me supera le otto ore di lavoro giornaliere senza alcun problema. È l’assistente perfetto, ma farò la cosa giusta assumendolo? «Quando puoi cominciare?» gli chiedo, dopo venti minuti di conversazione, decidendo di mettere da parte le mie preoccupazioni. Lui mi sorride, contento. «Anche domani, signorina Anderson.» «Jennifer. Staremo fianco a fianco per molte ore al giorno, prima ti abitui a chiamarmi per nome e meglio è.» «Ok, Jennifer.» «Perfetto. Alle otto, puntuale.» Michael se ne va felice, e per la prima volta dopo molto tempo realizzo di esserlo anch’io. È bello trovare una persona simile a me, e non capita molto spesso. A pensarci bene, Michael e io siamo simili da così tanti punti di vista, che l’intera situazione sembra essere costruita ad arte. Ho appena assunto la versione maschile di me, ventiduenne e con una barba incolta che non avrei accettato in nessun altro aspirante assistente, oppure Michael mi sta prendendo spudoratamente in giro? Solo il tempo potrà aiutarmi a capirlo con certezza. Non posso negare, però, che la sua presenza mi cambia la vita fin da subito. A partire dal suo primo giorno come mio assistente, al quale si presenta addirittura con venti minuti di anticipo, la mia scrivania, dalla quale fino al giorno prima sembrava essere passato un tornado, è perfettamente organizzata, e tutti i file sul mio computer sono accuratamente raggruppati in cartelle e sottocartelle. Sono una di quelle persone che si trovano perfettamente a proprio agio nel disordine da esse stesse creato, perciò, all’inizio, l’ordine di quel ragazzo non può che disturbarmi. Ci metto poco, però, a iniziare a pensare che, per una volta, la fortuna si sia tolta la benda per guardare


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dalla mia parte, e che Phil avesse ragione quando sosteneva che io avessi bisogno di un assistente. A dire la verità, la presenza di Michael May cambia radicalmente la vita dell’intero settore tecnico della Telmatic Ltd. La sua incredibile velocità nel finire le mansioni che gli affido gli lascia del tempo per aiutare anche altri colleghi, risolvendo in un battibaleno ogni problema dei loro computer e memorizzando in men che non si dica tutte le loro scadenze e i loro appuntamenti. Michael May sembra essere una macchina infallibile e instancabile; perfezionista e dedito al lavoro come se la possibilità di commettere un errore non potesse nemmeno esistere. Adoro che mi ricordi così tanto me stessa. Dopo alcune settimane, quando comincio a capire che avere un assistente non implica necessariamente una mia incapacità di produrre, accade l’impensabile. Ho perso le speranze da giorni quando una sera, mentre per l’ennesima volta sto per rientrare a casa più tardi di Phil, il mio cellulare squilla. «Pronto, Jennifer Anderson? Chiamo in merito al suo annuncio sullo Standard.» La voce è lontana e molto disturbata, ma non mi azzardo a chiedere all’uomo con cui sto parlando di richiamarmi. Aspettavo e speravo così tanto in questa telefonata, che interromperla anche per una necessità potrebbe causarmi una crisi di panico. «Sì, sì, mi dica pure!» «Sarei interessato a collaborare con lei nella sua indagine. Possiamo incontrarci domani alle venti, alla Tate Gallery?» «Ma certo! A domani allora!» «A dom…» L’uomo non riesce nemmeno a finire la parola, poiché la linea cade improvvisamente. Maledizione. Non gli ho nemmeno chiesto il suo nome. Tuttavia sono contenta e impaziente come non mai di scoprire l’identità di Mary e John Ockhard, e quale ruolo abbiano avuto nella vita di mia nonna Agatha. Il giorno dopo, in seguito ad altre dieci intense ore di lavoro, alle quali non riesco a sottrarmi nemmeno dopo aver assunto Michael, arrivo alla


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Tate quando manca un minuto alle venti, e mi siedo sugli scalini davanti all’entrata. Prendo il cellulare, in attesa della chiamata del mio misterioso esperto in investigazioni. Dovrebbe arrivare a momenti. Fa molto freddo, oggi, ma posso sopportarlo. Quello che reggerei difficilmente, invece, sarebbe rimediare un enorme buco nell’acqua. Scavare nel passato di mia nonna mi farà male, ma me ne farebbe ancora di più non riuscire a sapere chi siano le persone con le quali dividerà il suo sonno eterno, che era in realtà cominciato almeno tre settimane prima della sua morte, quando perse la speranza e la voglia di vivere in seguito a una brutta caduta che la costrinse a letto. Un sonno nel quale, talvolta, mi sembra di essere caduta anch’io. Dopo qualche minuto, mentre inizio a spazientirmi per il ritardo dell’uomo che ha risposto al mio annuncio, al quale ho stupidamente dimenticato di chiedere persino il nome, sento qualcuno rivolgersi a me. «Ciao, Jen» dice una voce alle mie spalle. È l’unica persona che non mi chiama con quell’abbreviativo da protagonista di cartone animato, che tanto odio. «Ciao, Mike! Che ci fai, qui?» «Sono io» risponde. Resto a guardarlo senza capire. «Sono il tuo esperto in investigazioni. Quello che ha risposto al tuo annuncio sullo Standard.» «Tu… sapevi che l’annuncio fosse mio?» «Avevo dei dubbi a riguardo. Londra potrebbe essere piena di Jennifer Anderson! Ma quando ti ho vista qui, poco fa, ho capito che eri tu.» La situazione è insostenibile. Come posso condividere una tale indagine e un pezzo così importante della mia vita con lui? Phil aveva ragione. Avrei dovuto lasciar perdere e permettere a mia nonna di riposare in pace, rispettando le sue ultime volontà. «Allora, cosa faremo?» incalza Michael «per quale motivo hai bisogno di me?» «Ah. Non dirlo neanche.» «Non c’è niente di male ad ammettere di aver bisogno di qualcuno. Se così non fosse, non avresti nemmeno messo quell’annuncio sul giornale.» Benissimo. Sembra proprio che il mio assistente sia stato a un corso accelerato intitolato Come farsi odiare da Jennifer Anderson, dopo esserle sembrato brillante. Non c’è nulla che io sopporti meno di qualcuno che, velatamente, mi lasci intendere di trovarmi fredda o troppo


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indipendente, e altrettanto velatamente mi faccia la morale per questo. D’accordo, se fosse stata ancora viva lo avrebbe fatto anche mia nonna, e sarebbe stata l’unica persona che non avrei osato contraddire, perché era così buona e capace di trovare il bello in ogni cosa, da farmi venire voglia di esserlo a mia volta. Ma lei non c’è più, e io inizio a pensare di non essere fatta per essere gentile. “Fatti aiutare, Jennifer”, mi avrebbe consigliato “questo ragazzo è l’unico ad aver accettato di aiutarti. Vorrà pur dire qualcosa, no?” Tuttavia, so essere molto, molto testarda, anche se, per qualche ragione che ancora non riesco a spiegarmi, sento una forte connessione con Michael, che va ben oltre la nostra innegabile, e alquanto inquietante, somiglianza fisica. «Necessito di qualche giorno per rifletterci» gli dico secca, mentre mi alzo per andarmene. Non posso farlo. Non posso permettergli di esplorare nel mio passato, di vedermi debole, di sapere dove colpirmi. Come farei a lavorare ed essere a mio agio con lui, se gli permettessi di entrare per davvero nella mia vita? Devo restare un capo degno di tale nome e tirarmi indietro. Ma allora perché non riesco a dirglielo? È la somiglianza a istupidirmi, o l’inspiegabile senso di familiarità che percepisco, in sua compagnia? «Fidati dei tuoi sensi!» mi dice lui a voce un po’ alta, mentre sono ormai lontana e diretta alla Tube. «Fidati dei tuoi sensi…» ripeto tra me, facendo il verso alla sua voce profonda mentre continuo a camminare. I miei sensi non sono importanti ora. Capire come cominciare quest’indagine da sola, invece, lo è eccome.


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3. FOTOGRAFIE DALLE TENEBRE

Funziona tutto perfettamente. Lo immaginavo proprio così. Per me non è mai stato difficile adattarmi, diventare qualcun altro, essere qualsiasi cosa di cui chi mi sta davanti possa avere bisogno, dire esattamente ciò che il mio interlocutore vuole sentire. Possiedo questo incredibile talento: posso sentire l’essenza delle persone, il loro io più profondo, e questo mi aiuterà ad arrivare dove voglio, come sempre. Non è difficile capirlo: Jennifer vede qualcosa in me, e più la guardo, più non ne comprendo la ragione. Come può credere che io sia solo ed esclusivamente ciò che le permetto di cogliere? Le persone sono talmente cieche a volte. Eppure lei è così decisa, così forte, così autoritaria. Niente sembra poterla scalfire, esattamente come alla versione di me di cui, per il momento, ho deciso di vestire i panni. «Ascolta, Mike. Ci ho pensato, e non è proprio il caso che tu mi aiuti con la mia indagine. Voglio dire… lavoriamo insieme» mi dice a fine giornata, quando in azienda siamo rimasti solo io e lei. «Per me non ci sarebbe alcun problema. So conciliare queste cose tra loro. Tu no?» Lei mi guarda alzando le sopracciglia, e io capisco di averla colpita, anche se non lo ammetterebbe mai. Non posso evitarlo: adoro provocare le persone che voglio realmente conoscere. «Oh, ma certo. Pensavo fosse un disagio per te.» Sorrido senza rispondere alla sua insinuazione. «È ora di andare. Tu hai un compagno che ti aspetta a casa, no?» Jennifer abbassa lo sguardo e sembra arrossire leggermente. Non è il robot che vorrebbe essere, dunque. Qualcosa è in grado di scalfirla. «Sì, ce l’ho, e sarà di nuovo arrabbiatissimo. Sono le nove e mezza.» «Perché scappi da lui?» «Ho del lavoro da fare.» Il mio capo si rabbuia e prende le sue cose in fretta. Forse ho sparato un colpo troppo forte; in fondo ci conosciamo solo da poche settimane. Ma


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cosa posso farci? È così interessante vedere le persone cercare di difendersi dalle mie provocazioni. Le parole, se scelte bene, sono le peggiori lame. Possono fare a pezzi anche le maschere più dure. Comunque non mi scuserò con Jennifer, sto solo provando a leggerle dentro. È un mio diritto, e nessuno può togliermelo. La vita mi ha già privato di troppo. «Vuoi andare a bere qualcosa e discutere dell’indagine?» azzardo. «Oh, no. Non ora, Mike. Ti prego.» Non ora è sempre meglio di una porta chiusa. «Va bene, nessun problema. Buonanotte Jen, a domani.» Ci salutiamo, avviandoci verso le rispettive case. Mentre giro la chiave nella serratura della mia, per tornare a perdermi nei miei pensieri più nascosti, molteplici domande iniziano ad attanagliarmi, a riempire la mia mente quasi fossero un vino di malessere versato in un recipiente. Esisterà mai un luogo nel quale mi sentirò a casa? Un luogo nel quale non mi limiterò solo a poggiare la testa sul cuscino, e dove mi sembrerà realmente di vivere? Un luogo al quale potrò appartenere? Mentre rientro nell’appartamento che corrisponde alla voce residenza nei miei documenti, penso che in pochi minuti mi arrenderò a un sonno irregolare e altalenante quanto me. Probabilmente dormirò poche ore, e mi risveglierò quando fuori le tenebre staranno ancora avvolgendo ogni cosa. Le mie care tenebre. Sono sempre state una costante nella mia vita, e io ho imparato a trovarle rassicuranti e protettive; diversamente dal bianco: odio vedere quel colore avere la meglio su ogni cosa; come nelle giornate di neve che, nell’ultimo periodo, sono frequenti a Londra. È cosi opprimente. Niente è più bello delle tenebre della mia piccola camera oscura, dove sviluppo ciò che mi è più caro al mondo. Immagini di sconosciuti, familiari e conoscenti si fanno via via sempre più nitide, e andranno a finire sulla parete della mia stanza, insieme alle altre. Volti tristi, felici, pensierosi, o preoccupati. Addormentarmi guardandoli, ogni sera, mi fa sentire meno solo, così come usare la mia Reflex per immortalare momenti, espressioni, sensazioni e tutte le vite che non vivo, ma che vorrei tanto conoscere. Che cos’è in fondo la fotografia, se non un occhio curioso verso il mondo e le sue innumerevoli sfaccettature?


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Per qualche giorno, Jennifer continua a non parlarmi dell’indagine. Io sto al suo gioco, ma sono consapevole che prima o poi tornerà sui suoi passi. «Mike» mi dice, infatti, quando entro nel suo ufficio con un caffè per lei «hai già fatto cose simili, prima d’ora?» «Ti porto il caffè due volte al giorno. Non te lo ricordi?» rispondo, fingendo di non capire a cosa lei si riferisca. Jennifer abbozza un sorriso, ma dura solo una frazione di secondo. Evidentemente, se voglio che si apra con me, devo insistere di più. «Non essere stupido, ragazzo. Sto parlando delle investigazioni.» «Oh, quello. Sì, eccome. Molte mogli arrabbiate e altrettanti mariti sospettosi mi hanno messo alle costole dei coniugi fedifraghi. La fotografia è la mia più grande passione da sempre, ma solo da qualche anno ho capito che può darmi soddisfazioni ancora maggiori, se posso usarla per osservare le persone quando credono di non essere viste, o se posso migliorare la vita di qualcuno.» Accidenti. Questo non mi fa apparire esattamente sano di mente. «Molto bene. Nulla di simile alla mia indagine. Fai come se non ci fossimo mai incontrati davanti alla Tate Gallery. Avrò una videoconferenza con la Francia tra poco. Avvisami, se nel frattempo qualcuno mi cerca.» Perché un tale passo indietro? «Come desideri» mi limito a rispondere, quando in realtà muoio dalla voglia di chiederle che cosa non mi abbia detto, e perché mi tenga a distanza. Sono già sulla porta, quando il mio capo mi richiama. «Michael.» «Sì?» «Non è necessario che continui a portarmi il caffè. Io non sono quel tipo di capo. Posso andare a prendermelo da sola.» Annuisco e me ne vado. Le persone non sono abituate alla gentilezza, ecco perché non sono capaci di apprezzarla. Durante la videoconferenza di Jennifer, installo un antivirus di ultima generazione sul suo computer e su quelli di altri due colleghi, più capaci di lei di godere di una genuina gentilezza, o forse solo di approfittarne. Nessuno di loro, infatti, mi rivolge la parola abitualmente, ma li vedo ogni giorno guardarmi e sussurrarsi cattiverie nei miei riguardi. «Jennifer Anderson ha assunto uno schiavo.»


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«Da quanto tempo non fa una doccia? Guarda quella barba incolta, e com’è vestito!» Fingo indifferenza perché sono più furbo di tutti loro. Il mio piano si compirà al momento opportuno, e tra qualche mese tutti loro mi adoreranno. Rispondo a tre chiamate per Jennifer, e le lascio tutti i messaggi ben ordinati sulla scrivania. Forse questo lavoro dovrebbe starmi stretto, a causa del mio curriculum, ma non è così. So bene dove voglio e posso arrivare. Qualche ora dopo, quando è ormai quasi sera, nell’ufficio del mio capo c’è un gran fermento. Lei sta urlando con qualcuno, e si tratta del direttore del settore commerciale, Philip. Non sapevo che fosse lui il compagno arrabbiato per gli esagerati orari di lavoro. «Non puoi continuare a trattarmi così!» esclama lui «mi fai male, lo capisci? Credi che sia semplice starti vicino? Vivere con te ogni giorno?» «Non dobbiamo parlarne qui! Non è il luogo adatto!» Molti dei miei colleghi approfittano di questa spiacevole situazione per terminare la loro giornata lavorativa e andarsene. Io però sono curioso, si sa. «Se vivere con me è così difficile, allora perché non te ne vai? Ti lascio libero, porta via le tue cose!» Lui rimane in silenzio, e dopo qualche secondo esce sbattendo la porta; il volto di chi ha preferito allontanarsi, piuttosto che dire qualcosa di cui si sarebbe pentito. «La Anderson è veramente una stronza» mi sussurra Emily, una delle segretarie del settore commerciale «io lavoravo al suo fianco anni fa. Non t’invidio. Da quando ha subìto quel lutto, poi, è perfino peggio.» «Di cosa parli?» «Oh, ma come? Non ne sai nulla? Circa un mese e mezzo fa ha perso sua nonna, e da allora è ancora più cattiva. Odia tutti. Dovresti dimetterti e cercare un altro lavoro.» Io non le do ascolto e busso timidamente alla porta dell’ufficio di Jennifer. «Tutto bene?» dico, nel mio tono più dolce. «Sì, sì. Per favore, torna tra poco» mi liquida lei, mentre si tiene la fronte con entrambe le mani, come se fosse in preda a un terribile mal di testa. «Un lutto non va affrontato da soli» attacco, sapendo bene che rischio di essere invitato ad andarmene in malo modo, esattamente com’è successo


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al suo fidanzato. Jennifer mi guarda a lungo, massaggiandosi le tempie. Penso che la testa debba farle davvero male. «E tu che ne sai, ragazzino?» “Ragazzino?”, questo lo vedremo. «Forse nulla, signorina Anderson. Ma sono abbastanza intelligente da dedurre che l’indagine che vuoi intraprendere riguarda proprio quello. Tua nonna… o mi sbaglio?» «Michael…» «E il tuo fidanzato non ne sa nulla. Vero?» «Vero. Ora mi faresti la cortesia di smetterla con le domande sulla mia vita privata? Grazie. Per oggi puoi anche andare a casa.» «Ok. Le pratiche che mi hai richiesto sono state archiviate. Nel tuo computer c’è un nuovo antivirus, lo hai notato, vero? Ricordati il pranzo di lavoro con il capo della J&J Ltd, domani. Sarà meglio che io vada davvero, domani dovrò controllare i computer di tutto l’ufficio, esattamente come mi hai richiesto tu. Buona serata e buonanotte.» Mentre sistemo la mia scrivania prima di uscire, la mia curiosità è ormai imbizzarrita. Tra me e me mi dico che è un peccato, e che l’indagine con Jennifer sarebbe potuta essere la più interessante della mia vita. Niente a che vedere con tutte quelle banali storie di tradimenti, così uguali nel loro squallore. Ormai rassegnato, esco e mi avvio verso la fermata più vicina della Tube. Sono ormai immerso nel confortevole mondo dei miei pensieri più nascosti, quando qualcuno mi tira per un braccio. «Mike!» È il mio capo. Indossa giubbotto e sciarpa e ha con sé la valigetta da lavoro. Mi ha seguito, e non ha intenzione di ritornare in ufficio. «Jen, ehi, che ci fai qui?» «Avevi ragione su tutto. Un lutto non si affronta da soli, e io ho bisogno del tuo aiuto.» Davanti a me c’è una donna ben diversa da quella che sono abituato a vedere in ufficio. È fragile e sola, e per troppo tempo, forse, ha nascosto le sue emozioni. È una trentenne che ha appena perso qualcuno e che non riesce a darsi pace e che, proprio per questo, renderà il mio piano incredibilmente facile. «Andiamo a bere qualcosa» le dico, mettendole un braccio intorno al collo «raccontami tutto.»


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Ed è allora che, per la prima volta, la vedo piangere e capisco che neanche tutta la cosiddetta potenza e tutti i soldi al mondo valgono abbastanza, quando si perde un pilastro della propria vita. Jen e io, in fondo, siamo uguali. Andiamo nella stessa direzione, anche se lei ancora non lo vede. Che inizino i giochi, dunque.


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4. SAINT CAESAR, TERRA DI SEGRETI

Che umiliazione. Che grande, terribile umiliazione. Non piango quasi mai, perciò quando mi capita non ricordo come si riesca a smettere, e faccio fatica a riconoscermi. È la mia, quella voce rotta dai singhiozzi? Sono i miei, quegli occhi gonfi e con il trucco indegnamente colato, che intravedo in una vetrina dall’altra parte della strada? Mentre siamo ancora poco lontani da una delle fermate della metropolitana, Michael mi stringe forte a sé. «Andrà tutto bene» sussurra «troveremo quello che cerchi.» Dentro di me muoio di vergogna. Lui non dovrebbe vedermi così, e io sono un capo davvero pessimo e non meritevole di tale nome. E pensare che fino a ieri credevo di essere una delle persone più capaci al mondo di separare la vita lavorativa da quella personale. Devo smetterla, è il momento di recuperare contegno, asciugarmi le lacrime e chiedere scusa a questo povero e innocente ragazzo, che starà sicuramente pensando di essere l’assistente di una totale squilibrata. «Tu non meriti di vedermi così» è però l’unica cosa che riesco a dire, prima che un nuovo fiume di lacrime esca dagli argini. Maledizione, Jennifer. Maledizione. «Così mi offendi» risponde Mike, stringendomi ancora più forte «come se io non fossi abbastanza intelligente da sapere che tu, prima di essere il mio capo, sei anche una persona. Una bella persona.» Dubito di averlo mai lasciato trasparire, benché io sia più gentile con lui che con il restante novantanove percento della Telmatic, incluso il mio fidanzato, e sono pronta a scommettere che in azienda sia possibile contare sulle dita di una mano i colleghi che mi vedono come una persona. Una bella persona, poi, nemmeno a parlarne. Probabilmente solo Mike, dato che non so nemmeno se troverò Phil quando tornerò a casa. Di cosa mi stupisco? Michael May è speciale, nel bene e nel male, e io l’ho capito subito. Quasi. Quando ho smesso di credere che fosse solo un gran leccapiedi.


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Dopo qualche minuto, finalmente riesco a smetterla di lagnarmi e a togliere gli aloni di trucco sbavato dalle mie guance, per riguadagnare un po’ di contegno e credibilità. È così, dunque, che si finisce di piangere: a un certo punto non ci sono più lacrime. «Andiamo in quel pub a mangiare qualcosa» propone il mio assistente, indicandomi The Shakespeare, un adorabile locale dove fanno un ottimo fish and chips. «Ti chiedo scusa» ripeto ancora una volta, davanti ai nostri piatti di merluzzo fritto e patatine. «Jen, dovresti smetterla di scusarti di avere un’anima, contrariamente a quello che vuoi mostrare alla Telmatic e nella vita di tutti i giorni. Dico sul serio.» «Avere un’anima è una gran rottura di scatole.» «Una immensa rottura di scatole, ma è anche inevitabile. Adesso parliamo della nostra indagine, su!» La nostra indagine. Respiro profondamente; devo raccontargli tutto senza scoppiare nuovamente in lacrime. «Quasi due mesi fa ho perso mia nonna Agatha. Aveva ottantacinque anni ed è stata stroncata da una malattia che nessuno è mai riuscito a definire con certezza. Qualcosa inficiava il funzionamento del suo cervello, a quanto pare. È stato il momento peggiore della mia vita, Mike, per me come per tutta la mia famiglia. Mia nonna era la donna più buona del mondo: era incapace di provare qualsiasi sentimento negativo, non alzava mai la voce, girava per casa cantando e quando era seduta batteva un piede a tempo di una musica che, probabilmente, stava fischiettando nella sua testa. Perderla è stato terribile. Il cosiddetto colpo di grazia, però, ci è stato dato il giorno dell’apertura delle sue ultime volontà, poco prima del funerale. Chiedeva di essere sepolta nel cimitero cattolico di Saint Caesar, il suo paese natale, accanto a sua madre e a suo fratello, ma nella stessa tomba di due persone che nessuno della mia famiglia aveva sentito nominare prima di allora: Mary e John Ockhard.» «Non hai nemmeno una minima idea di chi possano essere quelle persone? Hai guardato le loro fotografie sulla tomba? Le date di nascita e di morte?» Sbuffo. «Le ho guardate eccome, ma non credo possano esserci molto utili. La foto di John è talmente ingiallita che non è più nemmeno possibile


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distinguere se si tratti di un ragazzo o di un uomo anziano. Quella di Mary è nitida, forse più recente, e la ritrae come una bambina intorno ai sei mesi, credo. Purtroppo è impossibile risalire alle date di nascita e di morte di entrambi, in quanto gli ultimi numeri di ciascuna di queste sono spariti.» «Come spariti?» domanda Mike, incredulo. «Sì. Portati via dal tempo, o da qualche teppista che non aveva nulla di meglio da fare. Nemmeno all’Ufficio Anagrafe di Saint Caesar ci sono stati d’aiuto.» «Che altro è successo?» «Un incendio ha bruciato tutti i documenti risalenti a prima degli anni Novanta, non ancora trasferiti negli archivi computerizzati.» Michael strabuzza gli occhi. «Accidenti. Non sarà facile, Jen, non ti garantisco risultati in poco tempo, ma ce la faremo. Te lo prometto.» Finalmente un’iniezione di positività. È proprio ciò di cui avevo bisogno. «Solo una domanda» riprende il mio assistente «saremo solo io e te a indagare, o si unirà a noi anche qualche membro della tua famiglia?» «Solamente i presenti a questo tavolo. Mia madre sta reagendo al lutto tenendosi il più occupata possibile, pensando ad altro. Mio padre non è il tipo di persona che si metterebbe a indagare, così come non lo è Phil. A lui ho chiesto di aiutarmi, dopo il funerale, ma si è rifiutato. L’ho detestato per questo. Mia sorella, invece, vive negli Stati Uniti.» «Ok, perfetto. Non ci resta che cominciare, e penso che dovremmo farlo il prima possibile. Andiamo a Saint Caesar!» Deglutisco a fatica, spiazzata dal suo entusiasmo. «Ora?» «Oh, ma che dici! La prossima domenica. Cominceremo chiedendo informazioni su Mary e John agli abitanti del posto. Va bene?» «Va benissimo! Non vedo l’ora di iniziare, davvero.» Sono contenta, e nello stesso tempo molto, molto spaventata. Dove ci porterà questa indagine? Cosa scopriremo? Michael sarà realmente in grado di aiutarmi? Cosa dirò a Phil, qualora volesse continuare a stare con me? E io, che non faccio altro che allontanarlo, voglio continuare a stare con lui? «Jen, stai… stiamo facendo la cosa giusta. Stai tranquilla. Ora, se posso permettermi di darti un consiglio, credo che dovresti tornare a casa e parlarne con il tuo compagno.»


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Mike, talvolta, sembra leggermi nel pensiero. «Dovrei, hai ragione. Andiamo.» Pago per entrambi, ignorando le rimostranze di Michael e le sue esortazioni a permettergli di fare l’uomo. Saluto il mio assistente e prendo la Tube che mi riporta a casa mia, un bell’appartamento al ventesimo piano di un moderno palazzo di trenta, di recente costruzione, grigio come il cielo di Londra e non lontano da Westminster Abbey, uno dei miei posti preferiti in città. Phil e io viviamo qui in affitto da un anno, cioè da quando entrambi siamo diventati manager dei nostri rispettivi settori, in azienda. Mentre infilo la chiave nella serratura, mi scopro insolitamente spaventata. Il mio fidanzato se ne sarà andato davvero? Se così fosse, non potrei nemmeno lamentarmene. Sono stata proprio io a suggerirglielo, dopo che lui mi aveva esternato le grandi difficoltà di abitare sotto il mio stesso tetto. Apro la porta e, dal grande specchio che riflette il nostro salotto, lo vedo dormire sul divano. Impaurita dall’idea di svegliarlo e ricominciare a litigare, vado in cucina. Capisco che ha cenato da solo, perché la lavastoviglie è ancora attiva, ma non c’è l’ombra di una briciola, di una macchia, di una qualsiasi cosa che possa lasciare intendere che sul tavolo sia comparso del cibo anche solo per pochi minuti. È tutto così pulito che ci si può specchiare, e anche se qualunque donna si direbbe contenta di un compagno così attento alla limpidezza della casa, io so bene cosa significhi tutto questo: Phil è arrabbiatissimo. Credo che, spesso, la ricerca dell’ordine e della pulizia delle cose non sia per lui che una cura palliativa per quella parte di sé che non riesce ad andarsene e lasciarmi sola nel mio mondo di cattiveria, imbarazzanti crisi di pianto davanti ad assistenti che non mi prenderanno mai più sul serio, e lutti da superare, nemmeno se sono io a chiedergli espressamente di farlo. «Perché sei ancora qui, se continuo ad allontanarti?» sussurro tra me e me. «Perché sono un idiota, forse» risponde Phil, comparendo sulla porta della cucina con gli occhi impastati di sonno «buonanotte.» Vorrei fermarlo, ma lo lascio andare a letto. Vorrei dirgli che sto per iniziarla davvero quell’indagine in cui lui non ha voluto aiutarmi e che, a sorpresa perfino per me stessa, sto per farlo insieme a Mike, l’assistente che lui ha voluto per me. Vorrei dirgli che lo odio un po’, per non essere stato dalla mia parte, e che per un breve ma eterno momento, sono stata


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davvero spaventata dall’idea di averlo perso. Vorrei, ma scelgo il silenzio. Poi squilla il mio cellulare, ed è un messaggio di Michael: Come l’ha presa Philip? Scelgo nuovamente il silenzio. *** La domenica esco di casa e passo a prendere Mike di buon’ora, per recarci a Saint Caesar. A Phil, che da tre giorni mi parla solo al lavoro, ho deciso di lasciare un biglietto in cui spiegavo che sarei andata a portare fiori sulla tomba di mia nonna con Chloe, la mia amica d’infanzia che, venendo a conoscenza della mia perdita, ha ricominciato ad avvicinarsi a me per porgermi le sue condoglianze e i suoi complimenti per la perdita di peso – venti chili – dall’ultima volta in cui ci eravamo sentite, ossia al liceo. Da quando ci frequentiamo di nuovo ci vediamo quasi tutti i weekend, perciò la mia bugia risulterà sicuramente credibile. Quando arrivo a Soho, e Mike sale sulla mia macchina, una Mini nera che non lavo da tempo immemore, perché a Londra piove sempre, la sua espressione è alquanto contrariata. «Che c’è?» «Nemmeno questa volta mi permetti di comportarmi da uomo. Sarei potuto passare io a prenderti.» «Hai già l’età per guidare, ragazzino?» dico, ridendo. «Molto divertente. Ma… Ehi! Quella era una battuta! Ora fai dello spirito, Anderson?» «Già. Suona strano, perfino per me.» Quando arriviamo al cimitero cattolico di Saint Caesar, il mio cuore batte all’impazzata, ma sto indossando la mia consueta facciata calma e tutta d’un pezzo. Il camposanto si trova dietro a una vecchia cartiera in disuso, poco al di fuori del centro del paese, composto dalle due vie dove si concentra l’intera vita di questo villaggio d’altri tempi: due ristoranti, il Municipio, tre botteghe di artigiani e una piccola basilica costruita in stile gotico.


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Circondato da una fitta vegetazione, che gli dona un’aria cupa ma al contempo molto raccolta, è quasi deserto, poiché fa molto freddo, e tra poco comincerà a piovere. «Jen, calmati, dai. Andrà tutto bene.» «Sono calmissima.» «Non mi sembra proprio.» Posso indossare qualsiasi facciata io voglia. Michael May, inspiegabilmente, vede oltre, pur non conoscendomi da molto. Una volta giunti davanti alla tomba dove riposano mia nonna, insieme a Mary e John Ockhard, in basso a una delle file che compongono una serie di loculi di marmo, i quali costituiscono una delle parti più antiche del cimitero, poso un mazzo di viole, cercando di non piangere di nuovo davanti a Mike. Il mio assistente, invece, studia con attenzione i dettagli delle foto, poi si allontana. «Faccio un giro. Voglio vedere se ci sono altre tombe con date di nascita e di morte che hanno numeri mancanti» dice. In quel momento, un’anziana signora con un mazzetto di crisantemi, che a prima vista sembra avere più di ottant’anni, si avvicina e si inginocchia davanti alla tomba. Non ho la minima idea di chi possa essere. «Agatha Cross Bowman» sussurra, tra sé e sé. «È mia nonna. Lei la conosceva?» «Io? Oh, no, no» mi risponde, agitando troppo vigorosamente le mani. «Conosceva gli Ockhard, allora? Può dirmi qualcosa di loro?» «No, no, no» se ne va portando con sé anche i fiori, lasciandomi incredula. «Ehi, signora! Signora! Torni qui! Perché non vuole parlare con me?» «Jennifer, per quale dannato motivo stai gridando? Siamo in un cimitero!» mi rimprovera Michael, tornato proprio in quel momento dalla sua perlustrazione. Gli spiego quanto accaduto, aggiungendo che, sicuramente, la vecchia signora con i crisantemi che ancora ci sta guardando da lontano conosceva Mary e John, oppure mia nonna, ma per ragioni che ignoro, non ha voluto dirmi nulla su di loro. «Lascia che ci pensi io» mi rassicura, e poi parte all’inseguimento della sconosciuta. Li osservo parlare da lontano, e non posso fare a meno di notare come l’anziana donna tenga un atteggiamento completamente diverso con lui, rispetto a quello che ha avuto poco fa nei miei confronti. Tra me e me mi dico che forse è proprio questo il metodo giusto per condurre


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un’indagine: entrare in empatia con le persone e risultare simpatici e brillanti, al fine di ottenere tutte le informazioni di cui si necessita. E quando vedo la vecchietta abbracciare Michael, che a sua volta le sorride felice, sono a mia volta contenta. Finalmente avremo qualche informazione. «Al numero due di Lake Street c’è una vecchia casa disabitata» sussurra Mike, riavvicinandosi a me mentre il cielo è squarciato da un lampo, seguito da un tuono talmente forte da far vibrare il terreno «pare che l’ultimo occupante fosse un Ockhard. La signora non ha saputo, o non ha voluto, fornirmi ulteriori dettagli. Ci andremo sabato, ora le condizioni climatiche non sono dalla nostra parte, e noi siamo gli unici due londinesi che girano senza un ombrello.» Proprio in quel momento, siamo sorpresi da una pioggia insistente e pesante. «Ma come hai fatto a…» «A farla parlare? Ho una dote naturale per questo» ammicca, facendomi l’occhiolino. Come negarlo? Mentre torniamo in macchina, diretti a Londra, ognuno di noi è immerso nei propri pensieri. Dall’autoradio riecheggia Long lost feeling dei Blink 182. «Hai trovato altre date con numeri mancanti?» gli chiedo. «No. Nessuna.» Continuo a guidare, felice di avere una pista da seguire, ma intimorita dall’idea di essere solo all’inizio di un viaggio che, ne sono certa, si rivelerà tutt’altro che semplice.


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5. QUELLO CHE NON HO AVUTO

Lettere. Vecchie lettere di un vecchio amore. Lettere da un tempo passato, da ciò che è stato e che ora non è, e che mai più sarà. Lettere che conosco a memoria, che rileggo spesso e che non riesco a buttare, perché io, in fondo, sono ormai l’unico testimone. Il solo che sappia com’è andata, e che possa raccontare la verità. E che cos’è, in fondo, la verità? Una sete di risposte, di fatti, di prove. Un traguardo a cui i più anelano, ma che io raggiungerò con calma. Lascerò che il tempo faccia il suo corso, e che il momento del mio riscatto arrivi silenzioso e subdolo. Devo solo aspettare, e farlo è meno doloroso nella mia camera; in queste quattro pareti nere che parlano di me, per me, con me. Lo è anche davanti a queste fotografie, che riempiono per intero la parete davanti al mio letto, dalle quali anche lei mi guarda, sorridente. Chissà come sarebbe stato… Nulla sembra terribile, nella quiete sanguigna che mi danno le mie tende rosse, mentre mi cullo nel senso di potenza conferitomi dalle due pistole che riposano sulla mia scrivania, dalle siringhe inutilizzate che riesco a scorgere poco più in là, e dai coltelli che ho appeso al muro, insieme a una bandiera degli Stati Uniti e a delle targhe degli Stati che ho visitato durante il mio tirocinio laggiù: New York, Pennsylvania, West Virginia, Connecticut. Devo pur difendermi, dallo schifo che la vita mi riserva ogni giorno. Aspettare è meno doloroso anche quando penso a ciò che finalmente avrò dopo, se il mio piano andrà per il verso giusto. E dovrà essere così. Non sono ammessi errori, Michael. Né sul lavoro, né fuori. Soprattutto fuori, anche se a volte vorrei morire qui, nella mia stanza, immerso nei miei pensieri e nel rimpianto di ciò che non ho avuto. Del vecchio amore. Di lei che non smette di guardarmi e sorridermi, così eterea ed elegante. È di nuovo mattina, e io ho come sempre dormito poco; due o tre ore massimo. Mi alzo dal letto a fatica, e mi vesto per andare al lavoro. Indosso una maglietta nera, dei jeans blu e degli anfibi. La barba può


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attendere un altro giorno, o forse un paio, anche se inizio ad avere un viso piuttosto trasandato. Oggi Jennifer non mi ha nemmeno salutato. È una di quelle mattine in cui sembra voler tenere a distanza il mondo intero e in particolare me. Mi è faticoso non cercare di avvicinarla o di sapere cosa la turbi, e lasciarle quelli che lei definirebbe i suoi spazi. Del resto, però, è ciò che devo fare, non essendo altro che il suo assistente. Per ora. «Michael» mi chiama d’improvviso il mio capo, sulla porta del suo ufficio. «Sì?» «Nessun caffè, oggi. Nessun disturbo. Procedi pure con la sistemazione dell’archivio.» La porta sbatte a pochi centimetri dalla mia faccia prima che io abbia il tempo di rispondere. «Sì, signora» dico, tra me e me. Sono sempre stato abituato a sentirmi solo tra la gente. Quando alle elementari venivo preso in giro per i miei capelli già un po’ troppo lunghi e rispondevo con un sorriso smagliante; quando le ragazze si innamoravano di me e io non le ricambiavo mai; quando la gente guarda le mie fotografie e si limita a giudicarle bellissime, senza mai vedere quello che i miei occhi hanno visto in quegli scatti; e quando divento servile pur di avere qualcuno intorno e di non morire inghiottito dalla mia stessa mente. Sono sempre stato solo, ma per qualche ragione che ancora mi è ignota, quando sono con Jennifer dimentico perfino il significato di tale parola. Per questo motivo stasera brucerà tutto. Fiamme alte, calde e impietose squarceranno il cielo, portando con sé speranze, gioie, tristezze, nascite, vite, morti, storie. Non resterà più nulla. «Ehi, Michael!» Una voce, che al primo momento non riesco a riconoscere, mi riporta alla realtà. Mi volto, riconosco Philip, il fidanzato di Jennifer, e non posso fare a meno di notare che almeno altri dieci colleghi della divisione tecnica stanno guardando dalla mia parte, curiosi e stupiti come non mai. «Ehi, scusami… wow! Hai davvero sistemato tutto l’archivio per argomenti e in ordine alfabetico in poco più di un’ora?» «Io? Beh…»


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Sì, l’ho fatto, e lo realizzo solo in quel momento. Ero talmente immerso in tutti quei pensieri a cui non mi è permesso dar voce, da non essermene nemmeno accorto. «Sembra proprio che Jennifer abbia ragione, quando dice che sei efficiente al limite dell’inverosimile» commenta fiero, mentre io mi chiedo cosa voglia realmente da me e perché mi stia parlando, per la prima volta dal mio colloquio, circa un mese e mezzo fa. «Ascolta, Michael…» Lo sapevo. Ero sicuro che avesse bisogno di qualcosa. «Jennifer come sta?» la sua domanda mi confonde. «Mi perdoni, signor Ross, ma chi meglio di lei potrebbe saperlo? Vivete insieme, no?» Abbassa lo sguardo. Da quanto ho potuto osservare, quest’uomo non brilla certo per attributi e capacità di reagire alle provocazioni. «Sono Philip, e puoi darmi del tu. Sì, viviamo insieme, ma Jennifer… stai iniziando a conoscerla, no?» Ride, ma nelle sue parole colgo punte di tristezza e rassegnazione. Eccome, se sto iniziando a conoscere Jen. Mi sembra che sia nella mia vita da anni. Certe volte, però, è necessario mentire. «Non direi, scusi… scusa, Philip. Non si apre molto, con me.» «Capisco. Grazie lo stesso. Mi informerai, se dovessi venire a sapere qualcosa, vero?» «Assolutamente sì» mento di nuovo. Mi dispiace dovergli dire bugie. Lui sembra così buono, in fondo, ma potrebbe ostacolare il mio piano, ovvero ciò che per me conta di più in assoluto. La sera, raggiungo la mia destinazione quando si fa buio. Non ci sono molte persone qui intorno, perciò farò in modo che nessuno si accorga della mia presenza. Sarà terribilmente facile, poiché sono abituato a essere invisibile, ad agire nell’ombra, a passare inosservato, a restare sullo sfondo di quadri nei quali vorrei disperatamente essere in primo piano. Ho con me molti fiammiferi e un accendino. Indosso dei guanti ignifughi neri, dove si conservano ancora gli aloni dell’ultima volta. Quello fu tutt’altro che facile.


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Mi avvicino a ciò che, nella notte e in assenza di lampioni, non è altro che una massa nera, alta e informe. Accendo tutti i fiammiferi a uno a uno e li lancio all’interno, dove tutto, o quasi, è fatto di legno. Sono già stato qui molte volte, conosco questo posto alla perfezione e so bene di non poter sbagliare; infatti, poco dopo, il fuoco inizia a essere visibile e a fuoriuscire da ogni dove. Che meraviglioso spettacolo. Brucia il vecchio amore, brucia il tempo passato che non tornerà più, bruciano la storia e le nascite, le vite e le morti. Tutto brucia, tutto cade, e per una volta non sono io a farlo. Al contrario: io ho i piedi ben saldi a terra, mentre contemplo le fiamme avvolgere ogni cosa, il legno scoppiare e il fumo salire leggero in cielo. Da lontano sento le sirene di almeno due veicoli dei pompieri in avvicinamento, così decido di voltarmi e di cominciare a camminare, per tornare verso la mia macchina. Qualcuno grida parole che non riesco a distinguere, altre persone corrono nel senso opposto al mio, senza nemmeno notarmi, provandomi che, qualche volta, essere invisibile ha i suoi vantaggi. Continua a camminare, Michael. Resta calmo e ricorda; niente errori. Quando raggiungo la mia auto, riesco perfino a sentirmi orgoglioso di me stesso e di aver fatto un altro passo verso il compimento del mio piano e della mia missione; verso il raggiungimento dell’unico scopo che sento di avere. A burnt child loves fire, diceva Oscar Wilde. Un bambino che si è scottato, ama il fuoco. Mentre guido verso casa, fischietto allegramente come non mi capitava da tempo, e una volta arrivato, pieno di adrenalina, parcheggio la mia auto e cammino verso Trafalgar Square, per assaporarne la bellezza e il silenzio che la riempie alle due e trenta del mattino. Mi sdraio su uno dei grandi gradini che portano all’ingresso della National Gallery e fumo una sigaretta, guardando il cielo stranamente privo di nuvole. Tutto è come l’ultima volta. Il mio cellulare squilla improvvisamente, spaventandomi e rovinando il mio più unico che raro momento di gioia. «Che vuoi, a quest’ora?» Dall’altra parte, sento solo lamenti disperati.


38

«Ehi, non fare così, ti prego! Sarò lì tra poco, ok? Sì, è andato tutto bene. No, non ho corso nessun pericolo. Devi fidarti di me, te l’ho detto, ho tutto sotto controllo. Arrivo, tu però cerca di calmarti.» Riattacco e torno a prendere la mia macchina, armato della convinzione di non avere diritto a un po’ di pace e tranquillità. Anche per questa notte, di dormire, non se ne parla. Dopo poche ore arrivo alla Telmatic, senza aver chiuso occhio nemmeno per un minuto. Sono terribilmente stanco, ma non dimentico il mio mantra: niente errori. «Mike, ehi. Tutto bene?» mi saluta Jennifer. L’eco delle ultime ore della mia nottata grida infuriata dentro di me: tutto bene? Vorrei solo che tutto ciò che sto facendo non fosse necessario e vorrei non dover lottare per quello che la vita mi ha tolto. «Tutto stupendamente» rispondo, con un sorriso smagliante. Accidenti, troppo entusiasmo. «Non mi sembra proprio. Non sei il solito. Vuoi parlare?» «Va tutto bene. Davvero.» Non devo perdere di vista il mio piano. «Oh, beh, io volevo solo aiutarti, come tu stai facendo con me. Sento di essere in debito con te, Mike.» Presto, ma forse non troppo, capirà di essere in torto. La verità può aspettare, in fondo. Il mio capo ci arriverà con calma, insieme a me, quando il tempo avrà finalmente fatto il suo corso. Del resto, come si suol dire, a volte il viaggio conta molto più della meta. «Devi fissarmi un appuntamento con la Iron-Motor Plc per la settimana prossima. Vedi di non dimenticartene.» Jennifer se ne va, visibilmente arrabbiata. A quanto pare, nemmeno a lei piace essere tenuta a distanza. «Michael, ciao!» Emily, la segretaria della divisione commerciale che detesta Jen, non perde mai l’occasione di essere nel posto giusto al momento giusto, in modo particolare quando si tratta di fare del becero gossip da corridoio «ho sentito male, o la Anderson si è appena preoccupata per te? Ti rendi conto? Lei non bada mai a nessuno, al di fuori di se stessa. Come mai con te è diversa?» Sorride ammiccante, credendo di potermi carpire succulente verità delle quali parlare per qualche settimana.


39

«Non lo so.» Mento, conosco benissimo la risposta. Lo è perché il mio piano sta funzionando alla perfezione. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

Prologo ............................................................................................ 5 1. Una macchina da guerra ............................................................. 7 2. L’assistente perfetto .................................................................. 15 3. Fotografie dalle tenebre ............................................................ 21 4. Saint Caesar, terra di segreti ..................................................... 27 5. Quello che non ho avuto ........................................................... 34 6. Aiutami, amica, con le mie speranze in fumo .......................... 39 7. Non fidarti dell’assistente perfetto ............................................ 46 8. Una buona famiglia ................................................................... 52 9. Vorrei ma non posso, né devo ................................................... 59 10. Un colpo al cuore .................................................................... 66 11. Invincibile ............................................................................... 73 12. Il meglio di me ........................................................................ 79 13. Ti ricordi? ................................................................................ 85 14. La prima verità ........................................................................ 91 15. Cosa resta del passato ............................................................. 98 16. Ti conosco ............................................................................. 104 17. Non è una gara, quando perdi sempre................................... 110 18. Rivelazioni ............................................................................ 117 19. Una speranza per noi............................................................. 123 20. Le altre verità ........................................................................ 127 21. L’altra faccia della buona famiglia e l’incontro con l’assistente perfetto ........................................................................................ 134 22. Una bambina di buona famiglia ............................................ 146 23. Dietro a ogni anima rotta c’è una madre incapace di amare 149 24. Ogni male è un bene, quando serve ...................................... 153


25. Io, dopo di te, con te ............................................................. 169 26. Ricominciare ......................................................................... 173 Epilogo. Un anno dopo ............................................................... 177 Ringraziamenti ............................................................................ 181


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Terza edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2020) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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