In ricordo di noi

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Rossella Martielli

IN RICORDO DI NOI

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IN RICORDO DI NOI Copyright Š 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright Š 2011 Rossella Martielli ISBN: 978-88-6307-058-3 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Marzo 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova


A mia madre Nilda, con immenso amore.



Com’è felice il destino dell’incolpevole vestale, dimentica del mondo, dal mondo dimenticata l’eterno splendore della mente immacolata accolta ogni preghiera e rimosso ogni desiderio ALEXANDER POPE, Eloisa e Abelardo



7

Lunedì

23. Alice aprì di scatto gli occhi nell’oscurità che l’avvolgeva. Sbatté un po’ le palpebre assonnate prima di abituare lo sguardo al buio e riuscire a distinguere i contorni familiari della sua minuscola cameretta: l’enorme armadio chiaro che occupava l’intera parete di fronte al letto, la minuscola scrivania addossata al muro, ingombra di roba, e la porta socchiusa da cui filtrava una sottile e flebile striscia di luce notturna proveniente con ogni probabilità dalla finestra in corridoio. Non avrebbe saputo dire cosa l’avesse svegliata, ma di colpo aveva spalancato gli occhi e si era sentita più vigile che mai. La tapparella completamente abbassata – era una vera fissazione per lei, che per dormire aveva bisogno del buio più assoluto – non le permetteva di capire se fosse l’alba o ancora piena notte, così cercò a tastoni sul comodino la sveglia digitale che al suo tocco esperto si illuminò di un bagliore verde fosforescente. 23. Guardò meglio strizzando gli occhi… Chissà da dove le era uscito quel numero! La sveglia segnava invece le quattro del mattino. Aveva ancora davanti tre ore piene di sonno, se solo fosse riuscita a riaddormentarsi in fretta. Rabbrividendo si rigirò nella flanella delle coperte e cercò di fare il vuoto assoluto nella sua mente; per esperienza sapeva che se avesse cominciato a pensare e a rimuginare sulla serata appena trascorsa, a fare programmi per l’indomani, avrebbe passato il resto della nottata in bianco. 23. Ancora. Non riusciva proprio a capire perché si fosse svegliata con quel numero in testa… Che stesse contando le pecorelle in sogno? Forse era una buona idea farlo sul serio, per conciliarsi il sonno. 1,2,3,4… 23. Senza rendersene conto la sua coscienza era già scivolata via. La strada si estendeva all’infinito. Per quanto si sforzasse di guardare lontano, non riusciva a distinguerne né l’inizio né la fine. Continuava ad avanzare a piccoli passetti rapidi,


8 senza sapere dove andare, mentre sentiva montarle dentro un’opprimente angoscia. Non c’era nessuno. Era sola al mondo su una strada sconosciuta, che si allungava malevola e luccicante nel nero del suo asfalto; guardò in alto e si accorse che macchie d’inchiostro – simili a delle nuvole, eccetto che per il colore – stavano sporcando il cielo, fino a pochi secondi prima di un tenue rosa pesca. Le pozze d’oscurità si allargarono a vista d’occhio, compenetrandosi a vicenda in strati e strati di buio finché il cielo non fu anch’esso completamente nero. Non era nemmeno sicura di trovarsi ancora sulla stessa strada, quando si materializzò lui. Si trovava esattamente di fronte a lei, a una ventina di metri circa. Ne distingueva chiaramente il pallore del viso perché costituiva l’unica chiazza di luce in quell’oscurità senza fine, ma non i lineamenti. D’improvviso sentì l’impellente bisogno di corrergli incontro e, senza esitare, iniziò a correre nella direzione opposta rispetto a quella che stava percorrendo prima. D’un tratto si bloccò, inconsciamente consapevole del suo sguardo su di lei. I lineamenti dell’uomo erano ancora confusi e indistinguibili, ma adesso riusciva a vederne chiaramente gli occhi… quegli occhi! Il loro azzurro intenso e opaco, striato di un brillante blu color della notte, illuminava come un faro la striscia di cammino che li separava. Sentiva un disperato, assurdo, desiderio di piangere. Riprese ad avanzare, ma quella figura umana non era mai più vicina di quanto non fosse la prima volta che l’aveva scorta, e presto capì il perché: tre passi avanti per lei, tre indietro per lui; uno scatto in avanti per lei, un altro indietro per lui, di eguale intensità. Seppe con assoluta certezza che non si sarebbero incontrati mai più, e pensò che a quel punto era meglio morire. Sentiva male dappertutto. Una fitta le trapassò il petto, e dovette fermarsi ancora una volta. Cercò di urlare il suo nome – era certa di saperlo – ma la sua bocca rimase ostinatamente muta mentre gli occhi si perdevano in una nebbia scura e la figura dell’uomo veniva risucchiata dallo stesso vortice. Il faro azzurro si era spento. Il suo faro. Spento. Per sempre. Crollò a terra, cercando un appiglio fermo nel mondo che ormai le ruotava intorno… ma la terra tremava e si ritrovò in balia di onde dure e nere


9 come l’asfalto, che si agitavano sotto di lei e cercavano di risucchiarla. Sapeva che l’avrebbero fatto. E che sarebbe morta. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Questa volta saltò su annaspando, stringendo con violenza le lenzuola tra i pugni chiusi. Il letto sembrava ondeggiare e per un attimo pensò a un terremoto. Devo salvarmi. Il cuore le batteva all’impazzata. Le ci vollero diversi secondi – o forse erano minuti? – per recuperare brandelli di coscienza, assieme alla consapevolezza di trovarsi ancora nel suo letto con il corpo, mentre la mente continuava a vagare sperduta in una cupa desolazione. Si rese confusamente conto di essere bagnata: il sottile e uniforme strato di sudore, che le avvolgeva il corpo come un sudario e le stava gelando l’epidermide sotto il pigiama, la faceva sentire umida e ghiacciata; iniziò a battere i denti violentemente, senza riuscire a fermarsi. Calmati, iniziò a ripetersi. Calmati… Era un attacco d’ansia e niente più. Diverso eppur simile a quelli che le sconvolgevano il sonno subito dopo la partenza di suo padre, quando si svegliava almeno due volte per notte, il cuscino zuppo di lacrime e il viso congestionato. Per un lunghissimo, interminabile mese, non aveva smesso di piangere nemmeno di notte. Riusciva a fermarsi solo quando gli occhi le facevano così male e bruciavano talmente forte da sovrastare ogni altra sensazione. Così aveva preso a dormire nel lettone accanto alla madre, ma non era servito a nulla. Un nodo alla gola le impediva di respirare, e la preoccupazione che leggeva negli occhi della donna faceva solo si che questo nodo stringesse sempre più, minacciando di soffocarla. Ansia, aveva sentenziato il medico. Niente che un po’ di gocce e un bravo psicologo non sarebbero stati in grado di lenire. Lei aveva fissato con occhi vacui l’omone che la scrutava al di là dell’enorme scrivania. Anche se avesse avuto intenzione di farlo, non sarebbe riuscita comunque a spiegargli con le parole quello che sentiva. Un giorno aveva preso in mano un dizionario e l’aveva sfogliato a lungo, per ore intere; cercava le parole giuste, perché si era convinta che se solo le avesse trovate e fosse riuscita a esprimere a voce o per iscritto quello che sentiva, a tradurre in un qualcosa di vagamente comprensibile la ma-


10 tassa aggrovigliata che aveva dentro e che minacciava di soffocarla, sarebbe stata subito meglio. Ma le parole che cercava non esistevano. Erano davvero tutte lì in quel librone, le parole che l’uomo conosceva? Si chiese perplessa. Aveva trovato tristezza, dolore, disperazione, suicidio, dramma, abbandono, follia, oppressione e moltissime altre di cui non conosceva il senso, ma che dal suono non la ispiravano nemmeno un po’. L’unica che le era sembrata abbastanza adatta, seppur incompleta, era vuoto. Vuoto, come il posto a tavola di suo padre. Come la parte del lettone in cui lui dormiva. Come l’angolo della strada dove la aspettava quando usciva da scuola. Come il foglio da disegno che la maestra le aveva dato per disegnare la sua famiglia. Sì, vuoto era decisamente la parola che descriveva meglio la sua condizione. Quando sua madre era entrata nella stanza, l’aveva trovata seduta a terra, le gambe incrociate, la schiena dritta e un enorme vocabolario posato in grembo. Accortasi della sua presenza, si era girata a guardarla e aveva mormorato piano: «Mamma… le parole sono finite.» Aveva tredici anni. Alice si riscosse da quei pensieri. Succedeva sempre così. Quando abbassava la guardia, quando si rilassava, ecco che i brutti ricordi prendevano il sopravvento. Da qualche giorno a quella parte era peggio del solito. Si sentiva angosciata, come oppressa da un senso di imminente pericolo, e si svegliava sempre prima che suonasse la sveglia, agitata e sudata, in preda all’ansia e ai cattivi pensieri. Era certa di aver sognato qualcosa di brutto, ma non ricordava mai bene cosa. In ogni caso nulla di così vivido e tremendo come l’incubo di quella notte, che invece ricordava alla perfezione. L’impercettibile cambiamento dei colori nella stanza le fece capire che era giorno. Le 6:10 del mattino, constatò sulla sveglia. Ormai non c’erano speranze di recuperare un altro po’ di sonno, tanto valeva alzarsi. Sentiva freddo – l’appartamento, all’ultimo piano di un isolato condominio esposto a nord, in inverno era quasi sempre sferzato da un gelido vento di tramontana – così si infilò le ciabatte e la vecchia vestaglia di lana e andò in bagno. Represse a stento una smorfia di disgusto quanto vide il suo volto riflesso nello specchio sopra il lavandino. Quella mattina era più pallida del solito. Le efelidi risaltavano particolarmente in contrasto col bianco latte


11 della pelle e ombre scure le solcavano impietosamente gli occhi. Un po’ di trucco avrebbe forse mascherato la cosa, ma lei detestava truccarsi, soprattutto per andare all’università o al lavoro; quegli strati colorati la facevano sentire più a disagio e fuori luogo di quanto non si sentisse di solito. Del resto non ne aveva mai avuto un gran bisogno. I lineamenti del suo viso erano delicati e regolari – del tutto scialbi, pensava quando aveva la luna di traverso – tranne la bocca, leggermente larga; aveva poi un simpatico nasino a patata, che l’aveva resa di gran lunga la più buffa tra le bambine dell’asilo e che da adulta continuava a conferire al suo volto un’aria un po’ infantile, e grandi occhi cerulei che la facevano assomigliare alla protagonista di un fumetto manga. Il suo unico vanto erano i capelli lunghissimi – “spaghettini neri” li definiva divertita sua madre quando da piccola glieli pettinava – che le ricadevano sulle spalle fino a solleticarle il fondoschiena. In corridoio passò accanto alla camera di sua madre e si fermò ad ascoltare il leggero russare che proveniva regolare dal letto al di là della porta chiusa. Da quando quel pomeriggio di molti anni prima erano tornate a casa e l’avevano trovata irrealmente vuota, ogni oggetto del padre svanito nel nulla, Anna si era sempre fatta in quattro per fare in modo che la figlia crescesse come una qualsiasi delle ragazze della sua età. Non avevano mai potuto concedersi grossi lussi, nemmeno ora che Alice dava una mano al bilancio familiare con un lavoro part-time, ma in casa non erano mai mancati cibo, vestiti, piccoli regali ai compleanni e alle feste, e soprattutto moltissimi libri. Entrambe le donne li amavano più di ogni cosa. Per Alice i ricordi più belli dell’adolescenza erano le serate invernali passate con la madre accanto al camino, quando entrambe leggevano un libro col sottofondo della tv al minimo del volume, alzando la testa di tanto in tanto per scambiarsi impressioni sulla lettura o raccontarsi ciò che avevano fatto durante la giornata. Di solito Anna sedeva sulla vecchia sedia a dondolo appartenuta al nonno, e quando i suoi occhi stanchi iniziavano a bruciare, chiudeva il libro e andava a preparare per entrambe una tazza di cioccolata calda. Altre sere invece, le più buie, tornava tardi dal lavoro e andava difilata a letto, segno che qualcosa era andato storto: il capo l’aveva trattata male, non le erano stati pagati gli straordinari, oppure aveva sgobbato tanto da non reggersi più in piedi. Nella cucina ancora buia e fredda, Alice accese la stufa, mise sul fuoco la caffettiera e mentre aspettava che il caffè fosse pronto, imburrò alcune fette biscottate. Un delizioso tepore salì a scaldarle le gambe nude e, per


12 reazione, il suo corpo fu immediatamente attraversato da un piccolo fremito di piacere. Ne aveva già abbastanza del freddo per quel giorno. Chiuse gli occhi per rilassarsi e inaspettatamente, fugaci come un lampo, le balzarono agli occhi le immagini dell’incubo. Nello stesso istante ricordò anche la causa della sua inquietudine della sera prima, che per qualche inspiegabile ragione era riuscita ad accantonare in un remoto angolino della mente. Estrasse il malconcio cellulare dalla tasca del pigiama, dove l’aveva infilato quando aveva lasciato la camera, e lo accese. Digitò la password e attese che il telefono trovasse campo; poi aspettò qualche secondo, speranzosa, ma non accadde nulla. Forse c’erano le linee intasate… Alle sette di mattina? Fissava ormai da parecchi minuti il display del cellulare, quando si arrese all’evidenza: Mattia non aveva chiamato, né le aveva mandato alcun messaggio durante la notte, ed era inutile continuare a vegliare l’odioso aggeggio elettronico come se fosse un nuovo messia; aveva già sprecato un’intera serata in quella maniera. Un invitante odore di caffè si diffuse per la stanza e la caffettiera iniziò a gorgogliare trionfalmente. «Accidenti!» esclamò quando si rese conto che il liquido scuro stava straripando sui fornelli immacolati. Mentre sorseggiava il caffè, scostò le tendine per dare un’occhiata al tempo. I tetti delle macchine, i cassonetti e i davanzali delle finestre erano coperti da un sottile strato di neve. Il cielo si stava addensando in spesse nubi biancastre, ma i pochi passanti già in giro, pesantemente imbacuccati, non sembravano avere difficoltà nel procedere spediti, segno che a terra non c’era ghiaccio. Tirò un piccolo sospiro di sollievo. In camera indossò un paio di jeans e un pesante maglione di lana color prugna, quindi ispezionò il contenuto dell’enorme borsa che avrebbe portato con sé: i libri che le sarebbero serviti a lezione, l’agendina, una biro tutta mangiucchiata, le chiavi di casa… e ovviamente il cellulare. C’era poco da fare, ormai per lei quell’oggetto era indissolubilmente legato al pensiero di Mattia. Le venne il sospetto che se lo detestava così tanto era perché immancabilmente ce l’aveva appresso ogni volta che stava male: quando lei e il suo ragazzo si tenevano il broncio, quando lui non si faceva sentire perché troppo impegnato con gli amici, quando non le rispondeva ai messaggi, o quando – come il giorno prima – dopo una furibonda lite lo spegneva, e se lei provava a cercarlo, si sentiva rispondere: «Tim, il telefono


13 della persona chiamata potrebbe essere spento, si prega di…». Cielo, se odiava quella voce! Forse c’era qualcosa di buono perfino nell’incubo della notte precedente, si disse cercando di sdrammatizzare. Se non altro l’aveva momentaneamente distratta dai pensieri cupi che non smettevano di ronzarle in testa dal sabato sera, quando per l’ennesima volta il suo fidanzato si era comportato da perfetto stronzo. Una volta in stazione, si guardò intorno cercando Sara, ma l’amica non era tra il gruppetto di pendolari infreddoliti e apatici che aspettavano il treno per Bari sul secondo binario. Se ne meravigliò un po’, considerando che generalmente l’amica arrivava con largo anticipo. Attraversò il sottopassaggio sporco e buio e si unì al gruppetto di gente giusto in tempo per veder apparire all’orizzonte l’intercity sbuffante e rumoroso. Si era già sistemata al calduccio in uno scompartimento semivuoto, quando vide Sara sbucare dal sottopassaggio e affrettarsi verso la porta più vicina; aveva i capelli biondi legati in una coda scarmigliata, il cappotto di traverso e il viso rosso, segno inequivocabile che aveva dovuto fare una gran corsa per arrivare in tempo. Aprì il finestrino e urlò a gran voce il nome dell’amica, che qualche minuto dopo le sedeva accanto e raccontava infervorata il motivo dell’insolito ritardo. «Non puoi capire che casino mi ha combinato stamattina quel pigrone incosciente!» ripeté per l’ennesima volta, sfilandosi la pesante sciarpa di lana e rifacendosi la coda per la terza volta. «Ma dai, poverino! A chi non capita una piccola sbadataggine di tanto in tanto!» rispose ridendo. Sapeva che le sue parole avrebbero provocato l’indignazione dell’amica, ma la trovava troppo buffa quando si scaldava così. Effettivamente definire Marco, il ragazzo di Sara, “un po’ sbadato” era a dir poco benevolo. Sarebbe stato più veritiero dire che era un simpatico pasticcione, assolutamente inaffidabile e con la testa perennemente tra le nuvole. Lui e Sara vivevano insieme da pochi mesi, e quella mattina l’aveva convinta a trattenersi a letto più a lungo del solito, promettendole che l’avrebbe accompagnata alla stazione con la sua auto; si era completamente dimenticato che la vecchia e scassata Ford-Escort si trovava dal meccanico.


14 Il prevedibile risultato era stato che un’infuriatissima Sara, prima aveva tentato di strozzarlo, poi, resasi conto che ci avrebbe impiegato troppo tempo, si era messa a correre come una matta verso la stazione, imprecando mentalmente e pensando a tutti i modi in cui gliela avrebbe fatta pagare. «Stai scherzando, vero?» incenerì l’amica con un’occhiata minacciosa. «Fosse stato un giorno qualsiasi, avrei anche potuto passarci sopra… ma non oggi che ho il primo parziale della mia carriera universitaria!» «Andrà benissimo, ne sono certa. Accidenti però, il tempo vola! È già il sedici?» «Sì. E invece non andrà affatto bene, perché non ho ripassato nulla e sono agitatissima. Tutta colpa di quel testone! Ma stasera vedrà!». Sventolò irata la matita per gli occhi con cui stava ripassando le palpebre. «Be’, ha i suoi difetti… però è un gran bravo ragazzo. Sul serio, tu sei serena da quando stai con lui, e questa cosa conta più di tutti i danni che combina.» Qualcosa nel tono di Alice spinse l’amica ad alzare gli occhi dallo specchietto per guardarla in faccia. La conosceva troppo bene per non capire cosa sottintendevano le sue parole. «Cosa ti ha fatto questa volta?» «Chi?» «Sai benissimo di chi sto parlando!» «Perché dovrebbe…» «Smettila di tergiversare! Da quanti anni ci conosciamo noi due? Da quanto tempo siamo amiche?» Quelle parole le fecero tornare in mente all’improvviso la manina grassoccia e umida di Sara stretta nella sua, quando all’asilo le mettevano in fila per portarle a fare un giro al parco. «Secoli infiniti.» Sorrise ricordando la loro infantile promessa di amicizia eterna: Io e te saremo amiche per millemilamiliardi di secoli infiniti. E che vuol dire, Sara? Vuol dire per sempre, scema! «Appunto. E io sinceramente non ti ho mai vista così infelice e debole come da quando stai con Mattia. Nemmeno quando tuo padre è andato via stavi così male! Come diavolo fai a non accorgertene?» Per un attimo la crudeltà e la verità di quelle parole lasciò Alice annichilita, incapace di replicare, e tra loro scese un silenzio imbarazzato, scandito dallo sferragliare del treno e dal chiacchiericcio sfumato degli scompartimenti vicini. Come poteva dirle certe cose? Come poteva essere così brutale?


15 «Ascolta, non volevo…» tergiversò Sara qualche minuto dopo, incapace di sopportare ancora la tensione che era scesa tra loro. Sapeva di essere troppo dura, a volte, ma non riusciva a sopportare di vedere la sua migliore amica maltrattata e resa infelice da un buzzurro del genere. Era cambiata da quando stava con lui. Si era come… spenta. I suoi occhi si accendevano sempre meno spesso di entusiasmo, mentre invece scrutavano di continuo il cellulare, ansiosi e infelici, in attesa di chiamate promesse che puntualmente non arrivavano. Quando era con lui era ugualmente tesa, preoccupata di non far nulla che potesse dargli noia. Ma tanto che cambiava? Si chiedeva Sara. Tanto lui avrebbe comunque continuato a sparire dalla circolazione, a sfogare su di lei il suo malumore, a trascurarla per gli amici, a criticarla e a mentirle. E decisamente non era da lei starsene a guardare. «Ehi… mi parli?» disse piano, vedendo che l’amica non rispondeva. «Non ho niente da dirti.» «Senti, se ne vuoi parlare… se hai bisogno di sfogarti, sai che io...» «Sì certo, ci credo.» Alice prese l’agendina dalla borsa e iniziò a scribacchiare disegnini inutili, tanto per dare l’idea di essere impegnata in qualcosa e non esser costretta a rispondere. Era dunque questa l’impressione che dava agli altri? Sapeva di non esser quel che si dice “una ragazza frivola e spensierata” – lo stesso Mattia non mancava mai di farglielo notare – ma non aveva mai pensato a sé come a una persona debole. Lo so che non sono affatto felice. Lo so perfettamente. E quel giorno era anche peggio del solito. La litigata col suo ragazzo c’entrava solo fino a un certo punto. Litigavano spessissimo, soprattutto negli ultimi tempi, eppure lei non si era mai sentita così tanto angosciata. Si trattava di una sensazione talmente vaga e indefinibile, che per giunta andava a intermittenza, da non poter essere altro che una proiezione della sua mente depressa e fantasiosa. Si rese conto troppo tardi di aver scarabocchiato per intero la pagina del 23 Febbraio. Dove avrebbe scritto i suoi impegni per quella giornata? Una volta arrivate a Bari, le due amiche percorsero in silenzio il tragitto dalla stazione all’università, in un caos assordante tipico del lunedì mattina, fatto di macchine strombazzanti e autobus in doppia fila, pedoni frettolosi e negozi appena aperti. Giunte a destinazione, si salutarono con un freddo cenno del capo prima di dirigersi verso le rispettive aule.


16 La mattinata trascorse pigra e noiosa. Il lunedì aveva lezione ininterrottamente dalle nove all’una, con un paio d’ore di intervallo per la pausa pranzo prima della sua materia preferita, Letteratura francese. Seguire quattro materie diverse implicava doversi spostare ogni ora da un’aula all’altra; di norma ciò le risultava snervante, perché le faceva perdere la concentrazione, ma quel giorno si rivelò un vero toccasana: alle dieci e mezza la sua testa ciondolava pericolosamente sul libro di filosofia teoretica e aveva talmente tanto sonno da non riuscire a capire il senso di quello che diceva l’attempata professoressa. Se non si fosse dovuta alzare per cambiare aula, si sarebbe di sicuro addormentata. I postumi della nottataccia trascorsa tra insonnia e incubi si facevano sentire. Prese un caffè al volo prima della lezione di storia dell’estetica – che detestava – durante la quale si perse in fantasie di ogni genere su lei e Mattia. Il cellulare continuava a tacere, anche se ogni tanto le pareva di sentirlo vibrare e si affrettava a sfilarlo dalla tasca interna della borsa per controllare. Adesso soffro anche di allucinazioni uditive! Pensava ogni volta, demoralizzata. Alla fine se lo mise in tasca, così da non dover aprire di continuo la borsa. Il suo ragazzo non era un tipo semplice, ne era stata consapevole sin dall’inizio della loro storia. Aveva avuto un’infanzia piuttosto turbolenta, sballottato da una casa all’altra da genitori divorziati che se lo contendevano quasi fosse un premio alla lotteria, ricoprendolo di regali costosi e vacanze esclusive. Erano entrambi avvocati di successo, e quando Mattia aveva deciso di iscriversi alla facoltà di giurisprudenza, lo avevano gratificato comprandogli un mini-appartamento in pieno centro. Per un attimo Alice pensò di andarlo a trovare durante la pausa pranzo – in fondo si trattava soltanto di poche centinaia di metri dall’università, e lei aveva due ore libere da occupare in qualche modo – ma accantonò immediatamente l’idea. Sapeva quanto lui si adirasse quando le cose non seguivano i suoi piani e quanto poco amasse le sorprese, soprattutto se queste prevedevano la presenza imprevista della fidanzata in uno dei suoi “spazi vitali”, come definiva i momenti in cui voleva starsene per i fatti suoi. Nelle sue fantasie Mattia l’avrebbe chiamata per chiederle scusa in tono colpevole e le avrebbe chiesto di passare la serata insieme, magari andando al cinema o a cena nel loro ristorante preferito, dove le avrebbe promesso solennemente di comportarsi meglio.


17 Per la verità questo accadeva con una certa frequenza, e tuttavia le cose tra loro non cambiavano mai, anzi da qualche mese a quella parte lui aveva smesso anche di chiedere scusa. Perché non capiva che continuando così avrebbe rovinato tutto? Perché non si rendeva conto che se solo l’avesse voluto, avrebbero potuto essere davvero felici? Da quando anni prima si erano messi insieme, durante una sagra di paese, Mattia aveva sempre cercato di mantenere una certa distanza emotiva da lei. Diceva di amarla moltissimo e talvolta faceva cose esageratamente romantiche, tipo spedirle cento rose rosse per il compleanno o organizzare week-end in posti da sogno, ma sembrava restio a farla entrare completamente nella sua vita quotidiana, a condividere pensieri e preoccupazioni con lei. Probabilmente aveva paura che lei lo lasciasse o gli facesse del male; era così che la pensava Alice, e del resto anche lui qualche volta gliel’aveva confermato durante le estenuanti litigate notturne al telefono. Questo lato estremamente fragile del suo carattere l’aveva attratta e intenerita moltissimo fin dal principio. Dal profondo del cuore sentiva che non avrebbe mai potuto fargli del male, che anzi lo avrebbe aiutato e guarito, ridandogli fiducia nell’amore. Ricordava cos’era successo l’ultima volta che erano stati sul punto di lasciarsi. Lei stava piangendo sdraiata a pancia in giù sul letto, la faccia nascosta nel cuscino e Mattia era seduto immobile su una sedia, il volto tra le mani, l’aria sconfitta e desolata e il ciuffo ribelle che gli ricadeva sugli occhi senza che lui si prendesse la briga di scostarlo. Aveva appena scoperto sul suo cellulare un messaggio equivoco mandato a una compagna di corso. «Certe volte non so che mi prende», aveva tentato di scusarsi lui, la voce incrinata dal pianto e dalla colpa. «È più forte di me, devo sempre rovinate tutto! Tutto…» «Smettila, non voglio vederti così», aveva ribattuto, vedendolo insolitamente stravolto. «Me lo merito. Mi faccio schifo da solo.» Aveva un’espressione talmente infelice che lei, incapace di resistere oltre, era corsa ad abbracciarlo. Avevano trascorso una delle loro notti più belle, piangendo e parlando abbracciati fino alle cinque del mattino. Poi si erano addormentati stremati e al risveglio avevano fatto l’amore con estrema dolcezza, continuando a sussurrarsi “ti amo”. Questi ricordi erano diventati quasi un’abitudine per Alice, un balsamo che leniva rinfrancarla e a farla sentire meno astiosa e infelice. Anche quella mattina la frustrazione che aveva covato durante tutto il week-end


18 stava progressivamente svanendo, per lasciare il posto a una gran voglia di abbracciarlo e far la pace. Ciò che davvero contava era che lei aveva bisogno di lui… e lui di lei, anche se non voleva ammetterlo. In realtà il ragazzo se la passava tutt’altro che male. A venticinque anni era iscritto fuoricorso al terzo anno di giurisprudenza, e ogni mese i genitori gli rimpinguavano il conto in banca con una somma che ammontava al quadruplo di quella guadagnata da Alice nella libreria in cui lavorava part-time, e lui impiegava fino all’ultimo centesimo di quei soldi per mantenere lo stile di vita a cui era abituato. Si dedicava a numerosi sport, frequentava le discoteche più note della zona, non si svegliava mai prima delle undici del mattino e la casa che divideva con un amico di vecchia data era il ritrovo preferito di mezza facoltà. Quasi ogni sera c’era una cena che inevitabilmente si tramutava in festino notturno, e tutti lo adoravano per l’allegria e la capacità di sdrammatizzare ogni cosa, da un esame andato male alla fine di un amore. Per lui sembrava sempre tutto un gioco e la vita era incredibilmente leggera. Alice lo ammirava moltissimo per queste sue qualità, lei che era così timida e riservata da risultare snob o addirittura antipatica. Accanto a lui si sentiva sempre sbagliata e fuori posto, una figuretta cupa e scialba che per chissà quale motivo un tipo brillante come Mattia aveva scelto come fidanzata: era questo che i suoi amici pensavano di lei e lo sapeva benissimo. Alcuni di loro le riconoscevano a malincuore una certa avvenenza fisica, che però contribuiva soltanto a renderla, se possibile, ancor più antipatica. La ragazza aveva smesso da un pezzo di andare a quelle feste dove si sentiva perennemente a disagio, incapace di divertirsi alla battute volgari degli amici di lui o di intavolare un qualche discorso che non fosse relativo alla moda o al pettegolezzo con le ragazze presenti. Finiva sempre più spesso a pensare che la colpa era sua perché era fatta male… altrimenti perché tutti sembravano sempre divertirsi un mondo, mentre lei si sentiva un pesce fuor d’acqua? Allora avevano faticosamente raggiunto un compromesso: Mattia avrebbe riservato a lei alcune sere della settimana, in cui avrebbero fatto qualcosa loro due da soli. In realtà, se andava bene, si vedevano il lunedì e il martedì, perché dal mercoledì ricominciava la tarantella festaiola degli universitari fuori sede, da cui lei era esclusa.


19 «Ti sei esclusa da sola!» aveva commentato lui una volta. Il malcelato disprezzo nelle sue parole l’aveva fatta trasalire. Ma Alice c’era sempre quando ne aveva bisogno. Era con lei che si sfogava quando arrivava ai ferri corti con i genitori e questi minacciavano di tagliargli i viveri; era a lei che ricorreva per delle parole di conforto quando in un’intera sessione di esami non riusciva a darne nessuno, o quando nonostante il successo sociale che riscuoteva si sentiva solo e fallito… Questo doveva pur contare qualcosa no? Il trillo acuto della campanella segnò la fine dell’ultima lezione del mattino e la riscosse bruscamente dai suoi pensieri. Sentendosi vagamente in colpa per non aver seguito una sola parola, recuperò la propria roba e sgattaiolò via. La giornata si era inaspettatamente volta al bello. Un tiepido sole aveva iniziato a far capolino a metà mattina, riuscendo ben presto a dominare incontrastato il cielo grazie all’aiuto del vento di maestrale che aveva spazzato via tutte le nubi; faceva ancora molto freddo, ma una luce diversa illuminava le strade e rallegrava l’animo. All’improvviso il ricordo delle nuvole malefiche che occultavano il cielo, trasformandolo in un muro spesso e nero, la colpì come un pugno nello stomaco… l’incubo! Ne aveva fatti di peggiori in vita sua, ma al mattino se li era sempre lasciati alle spalle. Perché quello ci metteva così tanto a lasciarla in pace? Tentò di dissipare l’angoscia andando a mangiare nella sua focacceria preferita, a pochi passi dalla facoltà, e si immise nella fila di studenti e lavoratori in pausa pranzo che quel giorno le parve più lunga del solito. Gli spintoni e il chiacchiericcio della gente in coda, le urla del personale che cercava di coordinare alle meglio il servizio e il profumino delizioso dei piatti da asporto la riportarono alla realtà, relegando in un cantuccio della sua mente gli strani pensieri di poco prima. Mangiò all’aperto e si fermò a leggere su una panchina, coccolata dal tepore di un pallido raggio di sole che le rischiarava il viso e la pagina. Quando infine controllò l’ora sul cellulare, si accorse che erano già le due e quarantacinque. Il telefono aveva taciuto per tutto quel tempo. Né Sara, né tanto meno Mattia avevano chiamato o le avevano lasciato messaggi. L’aula era la più grande e luminosa di tutto l’edificio, e quando entrò, Alice vide che il professore era seduto in cattedra, impegnato a sistemare alcuni appunti. Le prime tre file erano già interamente occupate.


20 Se anche non avesse amato la materia, quella lezione le sarebbe piaciuta comunque per quanto era affollata: la seguivano tutti gli studenti di lettere moderne, di lingue, di psicologia e qualcuno di filosofia come lei. Il risultato era che l’aula era sempre piena e difficilmente qualcuno prestava attenzione a lei, che di solito si sistemava in un angolino dell’ultima fila. Da quando aveva iniziato a frequentare l’università temeva moltissimo soprattutto quei professori che pretendevano di coinvolgere attivamente gli studenti nella lezione, facendo loro domande e invitandoli ad alzarsi per farsi ascoltare da tutti. Per fortuna il modesto e pacifico professor Stauder non era tra questi, e anche se lo fosse stato, difficilmente avrebbe potuto interpellare qualcuno in un’aula in cui lui stesso aveva bisogno del microfono per farsi udire. Quel giorno la lezione verteva sulla poetica Rebelais, che Alice aveva già studiato e conosceva abbastanza bene. Si stava lasciando cullare dalla voce strascicata del professore, che rispondeva a uno studente spiegandogli le modalità della prova scritta della settimana seguente, quando si accorse di lui. Era di spalle, indolentemente appoggiato al muro pochi metri più avanti rispetto a lei, e vestiva completamente di nero, con dei semplici jeans e un anonimo maglione di lana. Era magro, ma aveva una struttura ossea tutt’altro che smilza: le spalle erano decisamente larghe ed era alto almeno un metro e ottantacinque. I capelli biondo cenere, lisci e leggermente spettinati, gli solleticavano il collo bianco che spiccava in confronto al nero del maglione. Persino di spalle dava l’impressione di essere un bel ragazzo. Non sapeva perché proprio quel tipo avesse attirato la sua attenzione. Forse per il suo aspetto un po’ dark? Ne dubitava. Ce n’erano di ben più strani e appariscenti in facoltà, e anche se lei rimaneva un’ingenua provinciale, si era ormai abituata alle mille varianti di punk, figli dei fiori e quant’altro che frequentavano le sue stesse lezioni. O magari era la sua bellezza… Ma come faceva a sapere che era bello se non l’aveva nemmeno visto in faccia? Eppure sapeva che era così. Forse la pelle candida, o le spalle larghe… No, non c’era nessun motivo sensato perché lei continuasse a fissarlo in quel modo. Accigliata, si sforzò di concentrarsi sull’Umanesimo rinascimentale. «Per scrivere i suoi primi testi, Rabelais si ispirò direttamente al folklore e alla tradizione orale popolare. Nel millecinquecentotrentaquattro pubblicò…» stava dicendo il professore, ma la sua voce sembrava provenire da molto lontano e si perdeva rimbalzando sui muri dell’aula.


21 Quasi fossero sotto l’influsso di una potente calamita, i suoi occhi continuavano a saettare dall’uomo di mezza età che parlava dietro la cattedra al giovane biondo addossato al muro, austero e statico come un soldatino di piombo. Se proprio avesse dovuto trovare qualcosa di straordinario, fuori dalla norma, in quel ragazzo che poteva vedere solo di spalle, era senz’ombra di dubbio l’incredibile immobilità della sua posa: nella mezz’ora dacché era lì non si era mosso di un millimetro, nemmeno con la testa. Ormai non le importava più nulla della lezione e chiuse il quaderno degli appunti, arresa all’evidenza: non avrebbe scritto più di un paio di frasi intercettate per puro caso e prive di significato. Il tempo passava e l’orologio accanto alla lavagna segnava dieci minuti alla fine della lezione. Alice soffocò uno sbadiglio, pensando confusamente che quel giorno aveva dimenticato di lasciare da mangiare al gatto. Si riscosse sbalordita, rendendosi improvvisamente conto che lei non aveva un gatto. Quando aveva cinque anni suo padre le aveva regalato un pulcino che era morto nel giro di pochi giorni e a volte portava a spasso il cagnolino della vicina quando questa era via, ma i suoi rapporti con gli animali domestici si riducevano a quello: di gatti non c’era traccia nella sua esistenza, anche perché sua madre era allergica. Con sua enorme sorpresa, quando tornò a posare distrattamente lo sguardo sulla figura immobile, ne intercettò lo sguardo. Anche lui la stava guardando! Sentì una vampata di calore salire sul collo sino a infuocarle in viso e abbassò di scatto la testa sul quadernetto chiuso. Lo aprì con mani tremanti e a tastoni cercò la penna sul banco, facendola cadere; si chinò per raccoglierla e alzandosi non poté fare a meno di incrociare nuovamente quello sguardo azzurro che si era voltato a fissarla. Era impossibile non riconoscere quegli occhi, e si stupì di non averlo fatto prima. Erano gli occhi che aveva sognato… e in un certo senso, la cosa le parve assolutamente normale. Io sto impazzendo sul serio! L’unica cosa davvero sensata che aveva fatto da quando era entrata in quell’aula era stata dubitare delle sue facoltà mentali, pensò decisa. Tuttavia, nonostante la timidezza e il rossore che sicuramente l’avevano trasformata in un fantasmino chiazzato di rosso, una volta incatenati i suoi occhi a quelli del ragazzo, non riusciva in alcun modo a distoglierli. Un’audacia decisamente non da lei, che di solito non riusciva mai a fis-


22 sare nessuno per più di qualche secondo, tanto meno i perfetti sconosciuti. Si scrutarono per un po’ e Alice pian piano iniziò a registrare mentalmente le linee e i contorni del suo volto. Per essere carino lo era, e parecchio anche: aveva un viso leggermente spigoloso in cui gli zigomi erano particolarmente accentuati, la bocca sottile e il naso fin troppo regolare; nell’insieme era di una bellezza che colpiva più per la sua assoluta simmetria che per una qualche particolarità, a eccezione degli occhi. Erano abbastanza grandi e tagliati leggermente all’insù, ma quello che la colpiva era il colore, un azzurro cupo e ipnotizzante che sembrava voler spargere la sua aura ghiacciata nell’ambiente circostante. Nel fissarli, un brivido le percorse la schiena, elettrizzandole l’epidermide in tante piccole scosse che le provocarono altri brividi ripetuti. Con sua grande sorpresa, si trattava di una sensazione assolutamente piacevole… rassicurante, in un certo senso. Certo non aveva nessuna intenzione di distogliere lo sguardo, anche se quegli occhi sembravano volutamente indifferenti e decisi a non lasciar trapelare nulla. Solo i lineamenti erano un po’ troppo tirati perché un osservatore attento non scorgesse un qualche tipo di emozione tenuta tenacemente sotto controllo. A un certo punto Alice si morse il labbro inferiore – non se ne accorse nemmeno, era un gesto abituale e involontario che faceva ogni volta che era pensierosa o indecisa – e l’atmosfera tra loro cambiò impercettibilmente. Non avrebbe saputo ipotizzarne il motivo, ma sotto quel faro azzurro che prima l’aveva messa a suo agio, ora si sentì improvvisamente gelare. Era sopravvenuta una certa alterigia nel contegno del ragazzo, e lei, nuovamente imbarazzata e confusa, distolse lo sguardo nell’istante stesso in cui suonò la campanella. Quando pochi secondi dopo si alzò e si voltò nella sua direzione – avrebbe dovuto passargli accanto per uscire dall’aula – era già sparito, probabilmente trascinato via dal fiume di studenti che premeva per uscire dall’aula. Si aspettava quasi di scorgere un solco laddove era stato poggiato immobile per tutto quel tempo, ma ovviamente non era così. Uscendo si trovò perfino a dubitare del fatto che quegli occhi fossero anche solo vagamente simili a quelli del sogno. In fondo un paio di occhi, per quanto di un colore straordinario e inusuale come quell’azzurro, non erano poi tanto dissimili da quelli di un altro, e lei quel giorno lavorava decisamente troppo di fantasia. Addirittura più del solito.


23 L’unica cosa che non poteva negare era che si era comportata in un modo che decisamente non le apparteneva. La Alice di sempre non avrebbe mai fissato in quel modo un perfetto sconosciuto. Sin da piccolina si era sentita a suo agio soltanto con le persone che conosceva benissimo e che erano parte integrante della sua vita quotidiana: sua madre, suo padre, Sara… A volte non riusciva nemmeno a sostenere certi sguardi di Mattia e si trovava a distogliere gli occhi, imbarazzata. Che stesse di colpo diventando meno timida? Il pensiero non le dispiaceva per niente. Magari sarebbe finalmente riuscita a spiccicare qualcosa più di un sì o un no quando veniva interpellata e a farsi qualche nuova amica in facoltà, senza contare quanto se ne sarebbe rallegrato il suo ragazzo… Eppure qualcosa le diceva che non era questo il motivo. Era intenta a scartare il pacco di libri arrivato al mattino, curiosa di sapere quale degli ordini effettuati era arrivato per primo, quando sentì lo scampanellio dell’acchiappa-sogni all’entrata e alzò gli occhi per vedere chi fosse il cliente in arrivo. Sorrise nel vedere il signor Grant scrollarsi la neve del giaccone direttamente sul pavimento. Quel pomeriggio, quand’era arrivata in paese, era stata accolta da una leggera spruzzata di neve che si era subito interrotta. Da un’ora a quella parte però – erano le otto di sera e da quando aveva aperto aveva avuto sempre clienti in negozio, così, tra un consiglio e una chiacchiera, il tempo era volato senza che avesse il tempo di gettare un occhio in strada – aveva ripreso a nevicare con rinnovata intensità. In pochi minuti i fiocchi bianchi avevano ricoperto interamente l’asfalto, seminando eccitazione tra i ragazzini che già giocavano in strada emettendo acuti strilli di gioia. Il traffico era gradualmente rallentato, fino a ridursi a qualche auto che di tanto in tanto in tanto avanzava silenziosamente sul soffice tappeto bianco. Nella libreria si godeva un invitante calduccio. «Signor Grant!» lo apostrofò, fingendosi costernata. «Ho appena pulito! Così mi sporca tutto!» «Oh, scusa mia cara», fece lui, un po’ vergognoso. «Sono il solito maldestro! Vado di là a prendere lo straccio per asciugare.» «Ma no, non ho ancora pulito, lo farò prima di chiudere. Stavo scherzando!»


24 Gli rivolse un sorriso. Voleva bene a quell’anziano signore come a un nonno. E se anche non le fosse stato tanto caro per il suo carattere bonario e semplice, per quell’ingenuità tipica più di un bambino che di un ultrasettantenne, di sicuro le sarebbe stato immediatamente simpatico per l’aspetto da Babbo Natale col pancione, la barba bianca e una serie di cappelli di lana buffissimi che sfoggiava per nascondere la testa completamente calva. Era un caotico pasticcione che disseminava ovunque i suoi oggetti personali – le chiavi di casa, il portafoglio, il cellulare che il figlio lo aveva costretto a portarsi appresso e una volta perfino la fede nuziale – ed era la disperazione della moglie, che ogni tanto chiamava per sapere dove si era cacciato, visto che la cena era pronta da un pezzo e lui ancora non si vedeva. Era solito attaccare lunghissimi e logorroici monologhi con le persone che incontrava per strada, che le conoscesse o meno. Alcuni lo evitavano come la peste, considerandolo un vecchio rimbambito, ma altri lo salutavano con deferenza e ascoltavano pazientemente le storie sulla seconda guerra mondiale che amava raccontare, anche se quando c’era stata la guerra era troppo piccolo per aver fatto alcunché e probabilmente aveva solo lavorato molto di fantasia. Aveva sempre voluto fare lo scrittore e invecchiando le sue fantasie si erano indissolubilmente mescolate con la realtà. Una volta sua moglie e Alice si erano prese un bello spavento. Erano le sette del pomeriggio e la signora Grant aspettava ormai da due ore il marito per andare dal medico, ma questi non si era ancora visto e la ragazza le confermò preoccupata che era andato via dal negozio pochi minuti dopo l’apertura, alle quattro e mezza. Chiamarono i figli per sapere se era da loro, i nipoti, la signora Grant contattò persino i cognati e i cugini: non si trovava da nessuna parte. Poco prima della chiusura, quando Alice uscì per portare fuori dei cartoni, incapace di concentrarsi sul lavoro da quanto era preoccupata, scorse il vecchio che dormiva placidamente nella sua vecchia Cinquecento. Conoscendolo, doveva aver pensato di schiacciare un pisolino prima di tornare a casa, dove l’isteria della moglie non gli faceva chiuder occhio, come si lamentava spesso con Alice. Ormai dimenticava sempre più spesso appuntamenti e nomi, ma conservava una straordinaria memoria per i libri. Si vantava di conoscere quasi tutti gli autori del mondo, anche i più giovani, e nei suoi settantotto anni di vita sosteneva di aver letto addirittura un terzo di quello che era stato scritto. Qualche volta Alice lo aveva beccato a confidare a un cliente che


25 il libro che aveva in mano faceva davvero schifo e non valeva né la spesa né il tempo perso a leggerlo. «Ma signor Grant!» l’aveva rimproverato più tardi. «Così ha perso una vendita sicura!» «Oh, mia cara… ne faremo altre, vedrai! E poi un cliente scontento non è un buon cliente, ricordatelo sempre…» Anche se con la sua attività non si era mai arricchito, era comunque riuscito a vivere decorosamente potendo contare su un piccolo esercito di affezionati e fedeli lettori, che anche Alice aveva ormai imparato a conoscere, che amavano i libri quanto lui e gli chiedevano consigli e opinioni. Quando era diventato troppo vecchio per poter passare l’intera giornata in negozio e aveva iniziato a far confusione con gli ordini e i conti, aveva acconsentito con riluttanza all’idea della moglie che da tempo lo pregava di trovarsi una commessa, anche part-time. La ricerca era stata lunga e complicata, nonostante fossero in molti i giovani del paese che desideravano guadagnare qualcosa mentre studiavano o cercavano il lavoro della vita. Lui aveva posto una sola condizione indispensabile per essere assunti: che si trattasse di un ragazzo o di una ragazza, di un giovane o di una persona più matura – “basta non sia un altro vecchio rimbambito come te!” lo prendeva in giro la moglie – con esperienza o no, doveva amare e conoscere i libri. Non avrebbe potuto sopportare che i suoi amati clienti fossero accolti da qualcuno che non aveva letto tutte le opere di Tolstoj o che non avesse mai sentito nominare Jane Austen, o Pirandello, o Kundera, o Baricco, o Catullo… la lista per lui era potenzialmente infinita. Era ormai sfiduciato e scandalizzato dall’ignoranza delle nuove generazioni, quando gli si era presentata Alice. Il suo colloquio di lavoro era stato né più né meno che una chiacchierata tra lettori accaniti, e già il giorno dopo lei aveva passato il suo primo pomeriggio in libreria. «Guarda cos’ho qua, mia cara. Per te!» Il signor Grant le sventolò sotto al naso una busta gialla di quelle usate per la corrispondenza postale. Sapeva che conteneva il suo stipendio del mese e sperò che nell’ordine arrivato ci fossero quei due nuovissimi romanzi che desiderava tanto, così da poterseli portare a casa quella sera stessa. «Grazie signor Grant, anche se come sempre una parte dei soldi tornerà nuovamente a lei!» «Ah ah! Dovrei pagarti in libri, altroché… Chi è venuto oggi?»


26 Si scambiarono pettegolezzi sugli acquisti dei clienti finché Alice non gli ricordò che era ora di cena. La signora Grant avrebbe sicuramente chiamato di lì a poco per fargli una sfuriata. «Hai ragione, vado», mormorò concitato infilandosi il pesante cappotto. «Ah, le donne! Dei generali mancati, ecco cosa siete!» Alice si stava preparando un piatto di pasta, quando sentì il cellulare squillare in camera. L’orrido aggeggio sembrava farlo apposta, dava segni di vita proprio quando lei non ci sperava più e non lo portava con sé. Decise di lasciarlo squillare a vuoto. In quel momento il suo stomaco aveva la precedenza assoluta, e persino il pensiero di Mattia non era più così assillante come al mattino. Che si arrovellasse anche lui ogni tanto su dove fosse la sua ragazza e perché non rispondesse! Mentre faceva soffriggere la pancetta e aspettava che l’acqua bollisse per cuocere gli spaghetti, ripensò a quel tizio in facoltà. Il biondo. Sarebbe bastata già la sua straordinaria bellezza a metterla a disagio, in più aveva uno sguardo così strano… Come diavolo era riuscita a ricambiare quello sguardo così a lungo? Per un attimo pensò a sé come a una di quelle ragazze che vedeva spesso in facoltà, una vera mangiauomini che indossava gonne esageratamente corte, tacchi alti e che ancheggiava facendo gli occhi da triglia a tutti i bei ragazzi che incrociavano il suo cammino. Semplicemente assurdo, pensò scuotendo la testa. Non sarebbe potuta diventare così nemmeno se fosse vissuta cento anni, e non le dispiaceva per niente. Mattia aveva un’amica così – nel ricordarsela provò una fitta di dolorosa gelosia – era una sua compagna di corso e lui doveva trovarla molto attraente, purtroppo glielo leggeva chiaramente negli occhi ogni volta che la guardava, ma le poche volte che Alice aveva cercato di parlarci aveva ottenuto in risposta sono sguardi vacui e perplessi. Aveva anche un nome che le calzava a pennello, Jessica, perfetto per la ragazza più popolare e oca del liceo. Mentre addentava la prima forchettata di pasta, il cellulare squillò di nuovo. Stavolta decise di rispondere. Sapeva già chi era ancor prima di leggere il nome sul display illuminato. «Sì?» rispose con la bocca ancora mezza piena. «Ciao.» «Ciao.» «Be’?» «Be’, cosa?» «Che stai facendo?»


27 «Mangiavo… » «Ah.» «Tu?» Come al solito, lui puntava sulla tattica del fingo-che-non-sia-successonulla per esasperarla e costringerla a sbottare, così da farla passare automaticamente dalla parte del torto. Ma questa volta non avrebbe fatto il suo gioco. «Niente. Mi sono svegliato con un forte mal di testa e ancora non mi è passato», rispose con voce atona, palesemente apatico. «Capito. Allora, se non hai niente da dirmi, torno a mangiare.» Restarono in silenzio per qualche attimo. «In realtà volevo chiederti se domani sera ti andava di uscire con Giusy e Leo», le propose con una certa titubanza. «Lo so che avevamo programmato una seratina solo per noi due, però sai com’è… da quando abito in città non li vedo quasi mai, e dal momento che vengo in paese a trovare te pensavo di approfittarne.» Erano dieci giorni che non stavano insieme nemmeno per mezz’ora e lui progettava l’ennesima serata con amici al seguito. Registrò mentalmente la cosa. «Ok, va bene.» «Come?» Era palesemente incredulo all’idea di averla avuta vinta così facilmente. «Ho detto che va bene.» «Ah… allora a domani. Ti mando un messaggio per dirti verso che ora vengo a prenderti.» La voce suonava ancora piuttosto incerta. «A domani.» Alice riattaccò. Per la seconda volta in quel giorno si era comportata in una maniera che non le apparteneva affatto, ma se quelli erano i risultati, magari fosse riuscita a comportarsi sempre così! Perché non aveva solo fatto finta di non essere arrabbiata con lui – come faceva a volte cambiando tattica per vedere se un glaciale e silenzioso astio avrebbe funzionato più di urla e pianti – al contrario, si sentiva davvero tranquilla. Per la prima volta dacché era fidanzata si trovò a pensare che alle volte nella vita era meglio star a guardare quello che succedeva, piuttosto che lottare contro i mulini a vento. Tornò in cucina e accese la tv per seguire l’ultimo notiziario. Quella sera andò a letto più presto del solito, verso le undici.


28 Essendo lunedì sua madre avrebbe finito prima al ristorante, ma lei era troppo stanca per aspettarla in piedi. Mentre leggeva a letto, il bip-bip del cellulare la fece sobbalzare. Era arrivato un nuovo messaggio: “Mi dispiace tanto per oggi. Scusami. Aspetto un tuo cenno… ti voglio bene. Sara.” Non poté rispondere perché aveva esaurito il credito, ma elaborò mentalmente una risposta affettuosa e si ripromise di mandargliela il giorno dopo. Si addormentò con un sorriso sereno stampato sul volto e un paio di occhi blu impressi nella mente.


29

Martedì

La mattina dopo si svegliò spontaneamente pochi minuti prima che suonasse la sveglia. Aveva dormito per otto ore difilate e si sentiva fisicamente in perfetta forma, ma il sottofondo di angoscia che la sera prima sembrava essersi dissipato si era nuovamente impossessato di lei. Si rigirò per un po’ tra le coperte, inquieta, finché non decise di alzarsi. In corridoio si sentiva un piacevole profumino. Frittelle! Pensò deliziata. Quando entrò in cucina, trovò sua madre ai fornelli, intenta a preparare le frittelline dolci e calde che avrebbero mangiato con il burro e la marmellata. La abbracciò forte stampandole un bacione sulla guancia e mise la caffettiera sul fuoco. «Dormito bene, tesoro?» le chiese Anna mentre in punta di piedi cercava lo zucchero a velo nella dispensa. «Uhm… diciamo di sì.» «Che programmi hai per oggi? Ti va di accompagnarmi a scuola?» Da due mesi aveva ottenuto un lavoro come bidella presso una delle scuole elementari del paese, così aveva occupato anche le mattine, l’unico tempo libero che le restava tra il lavoro di badante, il pomeriggio, e quello di cameriera in un ristorante, la sera. «Certo. Ho lezione a mezzogiorno, ma prima volevo fare un giro per negozi e vedere se mi riesce di trovare qualcosa di carino in saldo. Il signor Grant mi ha pagata ieri», aggiunse con un sorrisetto soddisfatto. «Ottimo, cara. Che signore gentile, è sempre così puntuale!» L’anziana vedova Martinelli, a cui faceva da badante, era capace di non pagarla per mesi finché Anna, esasperata, non minacciava di andarsene. La mattina dopo trovava l’assegno sul tavolo e la vedova a letto, in lacrime, che si lamentava che sarebbe morta senza i soldi per il funerale. Quando anche l’ultima frittella dorata e zuccherata fu pronta, si sedettero a mangiarle. Anna le raccontò di come la signora Martinelli fosse caduta dalle scale il giorno prima, del cliente che la domenica al ristorante aveva rimandato


30 indietro un piatto perché “troppo piccolo” e dei bambini della scuola, che lei adorava anche se le davano non poche preoccupazioni. Alice ascoltava sempre volentieri i racconti di sua madre, che aveva un carattere decisamente più estroverso e allegro del suo. «Hai preso tutto da tuo padre!» le aveva rinfacciato qualche mese prima, durante la più tremenda delle loro litigate. Lei era consapevole di somigliargli molto, sia caratterialmente che fisicamente. Ricordava il bisogno di solitudine di suo padre, le passeggiate lunghissime che faceva spinto dall’inquietudine. Ricordava anche che lui preferiva la sua compagnia a quella della moglie perché loro due erano in grado di condividere il silenzio, di camminare per ore mano nella mano senza bisogno di scambiare una sola parola, sentendosi ugualmente vicini. Eppure questo non gli aveva impedito di andarsene senza una parola per lei. Aveva lottato per anni col senso di colpa, finché non si era resa conto che soltanto lui poteva rispondere alle domande che la tormentavano. E non l’avrebbe fatto. Erano anni ormai che non dava sue notizie; per quanto ne sapevano, poteva anche esser morto. E allora la cosa più sensata da fare era accantonare il suo ricordo e costruire una nuova famiglia per loro due; c’erano riuscite, ma il prezzo da pagare per Alice erano stati degli enormi e irreparabili buchi nella memoria della sua infanzia. A furia di ricacciare indietro i ricordi di lui quando irrompevano senza preavviso nei suoi pensieri, era accaduto che questi avevano definitivamente smesso di andarla a trovare, finché un giorno aveva cercato di riportarli volontariamente alla mente e loro non erano venuti. Interi pezzi di vita – passeggiate, giochi, gite al mare, discorsi buffi e seri – erano stati completamente cancellati da un’amnesia parziale che se un tempo si era rivelata una salvezza, ora invece le procurava un certo dolore. I pochi ricordi che riusciva faticosamente ad evocare erano incompleti e non le bastavano per capire – ora che avrebbe potuto farlo, ora che aveva l’età e la maturità giusta per comprendere un uomo –perché suo padre se ne era andato in quella maniera. «Non c’è un motivo, tesoro», le diceva sua madre ogni volta che ne parlavano. «Quando sarai più grande capirai che è tempo perso cercare di capire le ragioni delle azioni delle persone, cercare di analizzare la loro anima e i loro pensieri. Ti renderai conto che non a tutto c’è una spiegazione… alle volte e così è basta. Alle volte le persone stesse non sanno spiegare perché hanno agito in un modo piuttosto che un altro. Se tuo padre fosse qui, alzerebbe le spalle e direbbe “è successo”. E non perché


31 fosse un uomo cattivo, ma perché certe volte è la pura verità. Le cose succedono e basta.» Alice si arrabbiava moltissimo ogni volta che sentiva la madre fare questo discorso. Non poteva credere che fosse davvero così, perché avrebbe significato che molte delle cose brutte che accadevano al mondo - le cattiverie, i soprusi, gli abbandoni, le delusioni, i tradimenti - erano inevitabili. Non era possibile! Ci doveva essere un motivo perché solo così si sarebbe potuto rimediare. Cercando e trovando quel motivo si sarebbe potuto intervenire in tempo ed evitare i dolori. Forse se loro avessero capito cosa passava nella testa di suo padre, lui non se ne sarebbe andato. Con la testardaggine e il bisogno di assoluto tipico degli adolescenti, cercava di spiegarlo alla madre, che la guardava con un sorriso triste e rassegnato. Se c’era una cosa che la infastidiva un po’ in lei era proprio questo: la rassegnazione. Non aveva lottato per il suo amore, aveva lasciato che un’altra donna si portasse via suo marito… Perché? Anni prima aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai commesso i suoi stessi errori. Si guardava spesso indietro e vedeva il suo passato come un puzzle: aveva deciso di ricomporlo, ma temeva che non ci sarebbe mai riuscita perché mancavano troppi pezzi. «Mamma, posso farti una domanda?» fu come folgorata da un pensiero improvviso. «Dimmi.» «Io ho mai avuto un gatto?» «Un gatto? Come ti viene in mente? Certo che no, sai che sono allergica.» «Sì, ma non è mai capitato che magari da piccolina ne abbia portato a casa uno raccattato per strada? O che qualche parente me l’abbia regalato ma non abbiamo potuto tenerlo?» «No tesoro, assolutamente. Perché questa domanda?» «Uhm… niente, era solo un’idea», mormorò sorseggiando lentamente il suo caffè. Era un’altra mattina fredda e soleggiata e la neve si stava sciogliendo in tante sporche pozzanghere di nevischio, col risultato che la gente a piedi imprecava finendoci dentro e il traffico era nel caos più completo. Girò per negozi tutta la mattina senza trovare nulla che la soddisfacesse.


32 Cercava un abito di lana da indossare con i collant e gli stivali, ma puntualmente arricciava il naso sconfortata dinanzi ai capi che le presentavano le commesse: erano talmente corti che in un paio di occasioni era dovuta uscire dal camerino con le mani sulla gonna per coprirsi il sedere, e di un tessuto leggero e impalpabile che non poteva assolutamente essere usato per andare in giro con quel freddo. Alle undici e mezza, quando fece una pausa per mangiare qualcosa, era abbastanza demoralizzata. Seduta al minuscolo tavolino di un’elegante caffetteria in pieno centro, con la sua tazza di tè fumante ancora mezza piena e il vassoietto dei biscotti vuoto, stava guardando fuori dalla vetrata la città che si affannava frenetica, il traffico congestionato, i clacson e la gente che entrava e usciva dai negozi. Un moto di forte ansia iniziò improvvisamente a montarle dentro. Tentò di calmarsi ingoiando un paio di pasticche di valeriana – le prendeva spesso da quando il medico le aveva fatto smettere la cura a base di xanax, che teneva comunque sempre con sé in uno scomparto nascosto della borsa, per le emergenze – e iniziò a respirare lentamente, concentrandosi sul diaframma, come aveva imparato a fare anni prima durante un corso di yoga. Niente. Aveva le vertigini e non voleva alzarsi per paura di cadere, ma soprattutto era spaventata a morte. Per piacere, non un attacco di panico adesso, quando sono in città completamente sola! Pensò freneticamente che non avrebbe saputo a chi chiedere aiuto e si agitò ancora di più; poteva chiamare Sara, ma era senza credito nel cellulare, ricordò con le lacrime agli occhi, mordendosi forte le labbra. Era ormai fuori di sé, quando inspiegabilmente la sua attenzione fu catturata da un cagnolino accucciato a dormire accanto all’entrata del bar. Era un bastardino marrone, con una macchia bianca sul musetto e il pelo sporco. Il flash la colpì con violenza. Dimentica di tutto ciò che la circondava, perfino della sua stessa ansia, vide il cane morente sull’asfalto, ricoperto di sangue, e accostata al marciapiede, la Punto celeste che l’aveva investito. Il conducente – un uomo di mezza età alto e con degli occhiali assurdamente grandi per quel viso magro e allungato – guardava la scena costernato, mentre un’anziana signora gli inveiva contro e un paio di ragazzini volenterosi spostavano il corpicino senza vita dell’animale sul marciapiede di fronte, per permettere al traffico strombazzante di riprendere a scorrere come prima.


33 Non si era resa conto di aver chiuso gli occhi. Quando li riaprì, vide che la coppia seduta al tavolino di fronte al suo la stava fissando con una certa curiosità. Si diede della stupida e ancora sconvolta si avviò verso la cassa, il corpo ricoperto di sudore freddo. Nel mentre diede un’occhiata veloce al cagnolino e si tranquillizzò vedendolo ancora pacificamente addormentato nello stesso posto. Pagò e con voce leggermente tremante chiese di poter usare la toilette. In bagno pianse per un po’ appoggiata contro la porta chiusa, poi si sciacquò più volte il viso con l’acqua ghiacciata. In quei momenti si sentiva quasi un’invalida per via dei suoi problemi, una fuori di testa, o meglio “una che tanto normale non era”, come le diceva a volte Mattia quando era arrabbiato con lei. L’attacco era ormai passato e si era portato via anche l’ansia, lasciandola come sempre esausta e tremendamente depressa. Decise di uscire prima che qualcuno venisse a richiamarla, insospettito da tutto il tempo che aveva passato chiusa in bagno, ma quando fu di nuovo nel locale si rese conto che nessuno prestava attenzione a lei. La maggior parte dei clienti e persino alcuni camerieri del bar erano accalcati sulla porta e guardavano fuori scambiandosi frasi concitate. Nuovamente nervosa, si avvicinò al proprietario che stava asciugando dei bicchieri dietro al bancone e gli chiese cosa fosse successo. «Oh, niente di che. Nessun incidente o rapina, intendo dire, solo un bastardino che è finito sotto un’auto. Quando il sindaco si deciderà a riaprire il vecchio canile comunale, sarà sempre troppo tardi! Ormai siamo invasi dai cani e… » iniziò un’invettiva contro i mali della città ma lei non lo ascoltava già più. Lo piantò in asso nel bel mezzo del discorso e si avviò tremante verso l’uscita, mentre la folla dei curiosi rifluiva all’interno scuotendo la testa. Mise piede sul marciapiede nell’istante stesso in cui i due ragazzini stavano posando a terra la carcassa dell’animaletto, mentre la Punto celeste ripartiva sgommando. Un’anziana signora, con le lacrime agli occhi, mormorò rivolta a se stessa: «Non c’è più rispetto per niente. Nemmeno per una vita.» Alice si incamminò automaticamente verso i giardini, inebetita e quasi in stato di shock. Non si accorse affatto del giovane alto e biondo che si trovava a pochi metri da lei, dall’altra parte del marciapiede, e che la stava fissando intensamente.


34 Era seduta ormai da un’ora su una panchina del parco e guardava i piccioni contendersi le briciole dei cracker che gettava loro. Non sapeva che pensare. Sono impazzita su serio stavolta. Era la prima cosa che le era venuta in mente. Ci aveva pensato fino a farsi scoppiare la testa, ma non c’era un altro modo di vedere le cose. La sua mente aveva anticipato fin nei minimi dettagli ciò che poi era effettivamente accaduto, e non qualcosa di ordinario e facilmente prevedibile – quante volte aveva indovinato le domande di un esame o anticipato quale canzone stava per trasmettere la sua radio preferita? – bensì un evento fuori dal comune, quasi impensabile… Quel cane sembrava avere tutta l’intenzione di continuare a pisolare per un bel po’, e in quella via il traffico era talmente intasato e lento che i pedoni facevano lo slalom tra le auto in fila! L’unico risultato del suo arrovellarsi era stato un potente mal di testa. «Al diavolo!» esclamò, alzandosi di scatto e spaventando i piccioni più vicini, che volarono via. Controllando l’ora sul cellulare si rese conto che aveva perso sia la lezione di mezzogiorno che quella dell’una, ma era ben determinata a non perdere Letteratura francese, che questa volta avrebbe seguito dalla prima parola all’ultima – decise – anche se nel bel mezzo fosse entrato Brad Pitt. Tuttavia mancava ancora parecchio all’inizio, e poteva sfruttare quel tempo per vedere se le riusciva di comprare almeno un maglioncino o un paio di jeans. Passò davanti alla nuovissima libreria su due piani – la sua personale visione del paradiso in terra – evitando stoicamente di entrarci, e si diresse verso uno dei suoi negozi preferiti, che quella mattina non aveva ancora visitato. Se non avevano niente neanche lì, si sarebbe arresa. Senza un motivo preciso, decise di fare una strada diversa da quella che faceva di solito. Mentre camminava sovrappensiero immaginava l’abito di lana che desiderava. Era di un bel verdone che metteva in risalto la sua carnagione chiara, le arrivava a una decina di centimetri sopra il ginocchio, aveva maniche lunghe e un enorme collo a ciambella; le aderiva sul seno, fasciandole la vita con una cintura di raso di una tonalità di verde un po’ più chiara, per poi allargarsi leggermente dai fianchi in giù. L’avrebbe indossato con un paio di décolleté nere col tacco alto e un cappottino elegante. Chiuse gli occhi e si vide così vestita nella saletta interna di una sala da tè molto elegante, con le pareti rivestite di specchi e attorno ai tavoli poltroncine rosa antico, stile Luigi XVI.


35 Si stava togliendo il cappotto, quando il ragazzo alto e biondo che aveva visto il giorno prima a lezione la raggiunse e le stampò un veloce bacio sulla bocca. Lei rideva divertita raccontandogli qualcosa di buffo, mentre un attempato cameriere depositava davanti a loro due tazze fumanti di cioccolata calda con panna. Il ragazzo la imboccava scherzosamente con il suo cucchiaino, mentre sotto il tavolo con l’altra mano calda e umida le accarezzava una gamba, spingendo sempre più su la sottile lana del vestito. Arrossì di piacere e scostò il cucchiaino per dargli un profondissimo bacio al cioccolato. «Se continui così tra un po’ ci cacceranno, lo sai vero?» gli sussurrò piano all’orecchio, in un velato invito a continuare. «E allora continueremo fuori», rispose lui malizioso, fissandola con quegli stupendi occhi azzurri. Il clacson di un’auto la riportò bruscamente alla realtà. Persa nelle sue fantasticherie, stava per attraversare col rosso. S’infilò d’istinto in una boutique sconosciuta che si trovava appena dietro l’angolo, che esponeva in vetrina un paio di vestiti da sera. Che diavolo ci faccio qui? Avranno prezzi altissimi! Pensò nervosamente mentre la commessa le si faceva incontro con un sorriso di cortesia stampato sulle labbra. Incapace di andarsene così di punto in bianco, farfugliò che cercava un abito in lana, preferibilmente tinta unita, e la commessa sparì sul retro per tornare alcuni minuti dopo con un enorme mucchio di vestiti tra le braccia. Li posò su un lungo tavolo di vetro e Alice si avvicinò per dargli un’occhiata, già pronta a dire che non le piaceva nulla e a sgattaiolare via, quando vide il suo vestito verde. Era in cima al mucchio ed era esattamente come l’aveva immaginato. Aveva persino la cintura di raso in vita. Mentre lo provava, la commessa lanciava entusiastici gridolini di ammirazione. Oltre ad essere bellissimo, le stava d’incanto, ma con ogni probabilità non avrebbe mai potuto permetterselo. Fingendosi indecisa, e cercando di sembrare il più indifferente possibile, alla fine si decise a chiedere il prezzo. Non poté credere alle proprie orecchie: costava solo sessanta euro, addirittura meno del budget medio che aveva preventivato. Mentre incartava l’acquisto, la commessa le spiegò che era l’ultimo capo rimasto – per giunta di una taglia, la trentotto, talmente piccola da essere venduta molto difficilmente e solo a un certo tipo di ragazze, sottolineò guardando ammirata l’esile figura di Alice – di conseguenza l’avevano ribassato del sessanta per cento.


36 Lei uscì dal negozio un po’ confusa ma tutto sommato contenta. «È la seconda volta stamattina che ho un’intuizione, se così si può chiamare. Che diavolo mi succede? Sarò mica una medium?» rifletté, affrettandosi verso l’Ateneo. Qualche sera prima, lei e sua madre avevano visto in tv un telefilm in cui i detective alle prese con misteriosi omicidi venivano aiutati a risolvere i casi dai fantasmi degli assassinati. Certo quello era un film, e non la realtà, però magari era ispirato a fatti realmente accaduti; forse c’erano persone con dei poteri un po’ strani e lei era una di queste, dotata di una qualche forma di preveggenza. Anche se dubitava seriamente che avrebbe mai avuto una tresca con il bellissimo biondo. Arrossì intimamente al pensiero di quello che aveva immaginato. Il ricordo del cane investito le procurava ancora un certo malessere, ma probabilmente, considerò, era da attribuirsi all’evento in sé e non al fatto che lei l’avesse previsto. In quel momento, tuttavia, l’unico potere che desiderava era quello di dissipare nel nulla l’angoscia che la tormentava dal giorno precedente, assalendola a intervalli di tempo che si accorciavano sempre più. Quel pomeriggio il professor Stauder era insolitamente in ritardo. L’aula che lo attendeva era piena e rumorosa, gli studenti ridevano e chiacchieravano vivacemente ad alta voce in gruppetti di due o più persone. Come al solito, Alice era seduta da sola in un angolo dell’ultima fila e dopo averci rimuginato a lungo, cercando le parole adatte e imponendosi di non arrossire nel pronunciarle, stava quasi per rivolgere la parola alla ragazza che le sedeva accanto – anche lei sola e probabilmente nuova – quando sentì alle sue spalle una voce maschile profonda e leggermente strascicata. «Posso sedermi qui?» le chiese il biondo indicando il banco libero alla sua destra. «C… certo… » mormorò, affrettandosi a togliere la sua roba. Nel farlo, il contenuto della borsa, che aveva lasciato inavvertitamente aperta, si rovesciò: fazzolettini, agendina, chiavi e persino il cellulare caddero a terra con un tonfo sonoro. Arrossi così violentemente che per un attimo pensò che i capelli le sarebbero andati in fiamme. Per fortuna il frastuono dell’aula aveva coperto il rumore e nessuno si era accorto dell’accaduto, tranne la compagna di banco che ridacchiava pia-


37 no e lanciava ammiccanti sguardi d’intesa al ragazzo. Ma lui, serissimo, si era chinato per aiutare Alice a raccogliere le sue cose e poi si era tranquillamente seduto al suo posto senza degnarla di uno sguardo. Alice – che per un momento era stata seriamente sul punto di scoppiare a piangere – aprì il block-notes e si mise a scrivere lentamente il nome della materia e la data della lezione. A fatica, stava cercando di recuperare un certo contegno. Si sentiva meno accaldata, segno che il rossore stava svanendo dal suo viso, ma era ancora completamente nel pallone, confusa e stordita. Quando lei e il biondo erano chini sotto il banco, i loro sguardi si erano incrociati per un attimo. Con suo grande stupore, in quelli strepitosamente azzurri del ragazzo non solo non aveva scorto alcun segno di derisione nei suoi confronti, ma si era sentita trasmettere una tenerezza tale che l’aveva quasi commossa. Era simile alla luce che da piccolina scorgeva talvolta negli occhi di suo padre. Si sentiva strana, le fischiavano le orecchie e la stanza sembrava ondeggiare, eppure non le dispiaceva affatto avere quello strano ragazzo seduto accanto. Per qualche assurda ragione la sua presenza la calmava anziché agitarla. Di sottecchi lanciò uno sguardo al suo profilo perfetto e per un istante si sentì mancare. Quel volto le era incredibilmente familiare… Dove poteva averlo visto, oltre che nel sogno? All’improvviso provò il fortissimo impulso di passargli delicatamente una mano sulla guancia, in una carezza, e poi spettinargli i capelli. Dovette resistere con tutte le sue forze per impedire alla mano di muoversi. Smettila, ti stai comportando come una pazza! Mise le mani una sull’altra e le strinse tra le ginocchia per sentirsi più sicura. «È tanto che segui questa lezione?» le rivolse la parola all’improvviso, voltandosi a guardarla. Alice deglutì faticosamente prima di aprire bocca, distogliendo immediatamente lo sguardo. «Be’… in realtà l’ho seguita anche l’anno scorso. Ho già dato l’esame. Soltanto che quest’anno il programma è cambiato. Ci sono molti autori interessanti che non ho mai studiato e ho pensato di venirci lo stesso… mi piace molto», si trovò a rispondere. Da dove le usciva tutta quella loquacità? E a quante persone avrebbe mai confidato una cosa del genere? Eppure mentre parlava si era sentita sempre meno in imbarazzo, finché aveva addirittura alzato gli occhi dal banco per abbozzare un sorriso incerto.


38 Mattia, quando gliel’aveva raccontato, le aveva dato senza mezzi termini della fuori di testa. Per lui era incomprensibile voler frequentare una lezione senza esservi costretti dall’obbligo di frequenza o da un professore troppo esigente. Il biondo, invece, la guardava con un’espressione indecifrabile, e lei non sentì alcun bisogno di dare spiegazioni o distogliere lo sguardo. «Direi che è un’ottima idea», fece dopo un po’. «Anch’io la seguo per puro piacere personale. Non sono nemmeno iscritto all’università.» «Sul serio?» Era incredula di aver conosciuto qualcuno – per giunta un ragazzo – che sembrava condividere qualcosa dei suoi stessi interessi e modi di fare. Anche lei talvolta aveva pensato che da lavoratrice le sarebbe piaciuto comunque venire a seguire le sue materie preferite. «Certo.» «Lavori?» chiese d’impulso. Stava già pentendosi della domanda sfacciata, quando le balenò in mente l’immagine del ragazzo con indosso una divisa della polizia. «Sto nella polizia da un paio di anni.» Non è possibile. In quel momento entrò un bidello che avvicinò al microfono della cattedra. Il professor Stauder era a casa con l’influenza, annunciò con voce tuonante, dal forte accento dialettale, la lezione di quel giorno era rimandata. Gridolini di gioia echeggiarono in tutta l’aula e nel giro di pochissimo si creò la solita ressa nei pressi delle uscite. «Sono un vero cafone a non essermi nemmeno presentato. Mi chiamo Alex. È un piacere conoscerti, Alice», disse lui alzandosi. «Come sai che mi chiamo Alice?» domandò, leggermente sorpresa. Per un attimo il ragazzo parve confuso. «Era scritto in grande sul tuo quaderno degli appunti. L’ho letto mentre lo raccoglievo», replicò sorridendo. Si strinsero la mano qualche secondo più del dovuto, e lei si sentì avvolta in una presa calda e forte. La stanza prese a oscillare leggermente, i colori sbiadirono in una nebbiolina opaca e il pavimento sotto i piedi sembrò farsi molle e poi ritrarsi. Per un tempo che le parve infinito – erano solo pochi secondi, se ne rendeva perfettamente conto – le parve di galleggiare in un mondo senza gravità né suoni. Un mondo ovattato che, anziché farle paura, la proteggeva. Fu questione di un attimo. Lui ritirò la mano e lei si sentì nuovamente persa. Il mondo riacquistò colori così accesi da farle dolere gli occhi, e il pavimento duro e statico le diede l’impressione di barcollare. Provò il desiderio acuto di riafferrar-


39 la e di stringerla ancora più forte, ma affondò con decisione entrambe le mani nelle tasche del cappotto. Aveva già fatto troppe stranezze quel giorno. «Torni a casa?» chiese Alex. Camminavano fianco a fianco verso l’uscita, dove si stavano dileguando anche gli ultimi studenti. Alice aveva lasciato fuori dalla borsa il blocknotes e lo stringeva forte contro il petto, dove il cuore sembrava sul punto di esplodere da quanto martellava forte e veloce. Non si era mai sentita così, mai in venti anni di vita, e non avrebbe nemmeno saputo descrivere in cosa consistesse il suo stato d’animo. Anche prima di Mattia c’erano stati ragazzi che le erano piaciuti, che le avevano fatto battere il cuore e l’avevano emozionata, ma tutto questo non aveva nulla a che vedere con le sensazioni che stava provando in quel momento. «Sì, torno a casa. Prendo il treno… Sono di un paese qui vicino.» Alex le lanciò uno sguardo veloce, che la face arrossire fino alla punta delle orecchie. «Ti va se ti accompagno in stazione, così chiacchieriamo un altro po’? Sono di strada. Però non vorrei essere invadente», propose. Per la seconda volta la sua voce era sembrata vagamente incerta. «No anzi, mi fa piacere.» Abbozzò un sorriso impacciato, sperando che lui non si accorgesse di quanto fosse dannatamente felice della sua proposta. Durante il tragitto stettero per lo più in silenzio. Solo quando furono a pochi metri dalla stazione, lui all’improvviso le chiese come andasse l’università. Come già successo in aula, Alice si trovò a parlargli come avrebbe fatto con la sua migliore amica; gli confidò brevemente i suoi dubbi sull’indirizzo da scegliere per il biennio e sulle materie da preparare per il secondo semestre. Perché le sembrava così normale trovarsi in giro con uno sconosciuto – per giunta bello da mozzare il fiato – a parlare di una cosa così ordinaria come l’università? Lei non parlava con gli sconosciuti. Non se poteva evitarlo, ecco. Lui la ascoltò attentamente aggrottando la fronte. Sembrava pensieroso. «Staserà darò un’occhiata al piano di studi», le promise con naturalezza. «Così domani a lezione potrò consigliarti meglio.» Quindi ci sarebbe stato anche il giorno dopo! Quando si salutarono, le strinse di nuovo la mano, ma questa volta la sua presa era svogliata e sfuggente. La ritirò velocemente, come se si fosse scottato, e fece un passo indietro ancor prima che lei se ne rendesse conto, mormorando un saluto. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...


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Da APRILE 2011 su www.jukebook.it



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