Il Settimo Cielo, Elisa Origi

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IL SETTIMO CIELO

ELISA ORIGI
ZeroUnoUndici Edizioni

ZeroUnoUndici Edizioni

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IL SETTIMO CIELO

Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-577-6

Copertina: Immagine proposta dall’Autrice Prima edizione Ottobre 2022

Taci, anima stanca di godere e di soffrire

all’uno, all’altro vai rassegnata.

Ascolto e mi giunge una tua voce. Non di rimpianto per la miserabile giovinezza, non d’ira o di rivolta e neppure di tedio. Ammutolita

giaci col corpo in una disperata indifferenza. Non ci stupiremmo, non è vero, mia anima, se adesso il cuore s’arrestasse, se sospeso ci fosse il fiato… Invece camminiamo.

E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano sono donne e tutto quello che è ˗ quello che è.

La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca. Perduto ha la voce la sirena del mondo e il mondo è un grande deserto.

[…] Camillo Sbarbaro, “Pianissimo” (1914)

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CAPITOLO 1. TERESA

La pancia di una casa. I fiori del maggiociondolo. Barattoli di vetro. Se la tavola è in disordine. Sento dei passi. Odore giallo, di zucchero e limoni caldi. Il rame balugina. Tutti i treni sferragliano. Amaro segreto. Capelli di bambina.

La mia cucina è grande, ed è sempre aperta. Al centro della stanza c’è una grande porta finestra, tutta vetro e luce. Sono seduta ma ora mi alzo e poi, sì: vi dirò tutto. È tempo.

Oggi è il 16 di febbraio, vero? La primavera soffia, ampia, tiepida sui fiori del maggiociondolo. Avete mai visto i fiori di un albero di maggiociondolo mentre il vento li fa vibrare? Se non vi è mai capitato, avete ancora almeno un motivo per continuare a vivere. Non è poco.

Quanto a me, lo conosco bene il tremolio di quei fiori. Eppure questo miracolo si rinnova, ancora e ancora, davanti ai miei occhi. Non mi azzardo a chiedere perché. Coltivare amarezza sarebbe sciocco. Ho novantaquattro anni e la primavera torna a pulsare sotto la pelle liscia dei miei polpastrelli.

Per certo, non merito tutta questa vita. Ma non è una questione di meriti il tempo concesso.

Ci sono molti barattoli, qualcuno anche rovesciato, sul mio tavolo. Aspettano di essere riempiti con ciò che ancora sobbolle nel mio bel pentolone di rame. Gocce di luce baluginano sulla sua superficie. Poi rimbalzano tutto intorno e nei miei occhi.

C’è odore di zucchero nell’aria. È un odore caldo, e giallo, che si muove in piccoli vortici. Salterella, l’aroma oleoso dei limoni, forma cerchietti concentrici, scivolando alla fine in piccoli risucchi. E poi sono sbuffi, che spandono per rilasciare, d’improvviso, questa poesia, queste carezze lievi, morbide.

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Non c’è tregua, invece, per queste ginocchia che scricchiolano e per quest’anziana donna che sono e che vaga nel suo moto perfetto, e ormai perpetuo, per l’ampia pancia di questa casa.

Non c’è pietà in questo ostinato proseguire.

S’invecchia, ecco tutto. E a invecchiare con i segreti conficcati nel petto, si diventa gracili; patetiche macchioline rosa in cerca di ascolto, pur sapendo che le orecchie che avrebbero dovuto davvero sentire non possono farlo più.

La polpa della frutta si sfalda lenta, mentre la rimescolo. C’è ancora molta energia in questo polso, sapete?

Antonia, piccola bambina mia, tra poco tutto sarà pronto. Io raddrizzerò quei barattoli sul tavolo, li riempiremo e faremo scorta d’amore per l’inverno che ci attende. Accenderemo il camino, tosteremo fette di pane, prepareremo un tè scuro e bollente. Poi spalmeremo il burro su quelle fette e le inonderemo della nostra marmellata. Mangeremo e parlare non servirà, perché saranno cose di cui il cuore non avrà più bisogno.

Antonia non c’è più. Antonia era la mia bambina.

Lo racconto a voi, per ricordare a me stessa che mia figlia è morta. Che mia figlia è morta.

Che io l’ho seppellita, pur essendo più vecchia di lei.

Vi prego, però: non ditelo! Non dite quella cosa anche voi, non negatemi il diritto alle lacrime.

“Settantasei anni sono una buona età per morire”, hanno canterellato tutti, credendo di consolarmi. “Lei era malata, lo sai, Teresa. Tu sei sana e devi andare avanti”.

Devo andare avanti, mi hanno detto. Ma fino a quando si può sorridere di un simile stornello? Lei era mia figlia e io voglio piangerla per tutti i giorni che mi restano e che a me paiono sempre più numerosi, e che si gonfiano al posto di contrarsi: ingrata, io.

Ho spento il fuoco. La superficie di questo liquido denso si fa liscia. Le ultime gobbe scoppiano, poi si acquietano. Con il cucchiaio di legno increspo di nuovo tutto in un cerchio quasi prodigioso: vapori odorosi si liberano nell’aria.

I barattoli sono allineati. Prendo un mestolo, ha un beccuccio sottile che mi aiuta ad accompagnare la composta nei contenitori. Poi li richiuderò. Stringerò con forza, ve l’ho detto che ce la posso ancora fare! Quindi li capovolgerò, così che la marmellata di limoni, ancora bollente,

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sterilizzi anche i coperchi. Le etichette sono pronte. Anche le piccole rondelle di stoffa, a quadretti, bianchi e verdi. E il nastro di iuta, con il quale farò un bel nodino. Le operazioni minute sono le più difficili per le mie dita.

Sento dei rumori. Provengono dal mio frutteto. Lascio ogni cosa sul piano di lavoro: sono passi di una persona, quelli, ed è gioia per me!

Se smetto di rimestare, tutto si solidifica, a strati, lungo le pareti della pentola. Ma non importa, perché forse non sono più sola adesso.

È bello, anche se ancora non so di chi sia quel lento calpestio tra le foglie. Abbandono i miei fornelli. Attraverso la porta finestra e mi affaccio sulla piccola ringhiera della veranda.

Uno sferragliare di rotaie annuncia il treno delle cinque. Non vedo nessuno. C’è solo rumore, solo un ritmo metallico. Tutti i treni sferragliano. Tutti i treni si fanno attendere. Poi si lasciano intravedere, da sinistra. Appaiono. Scintillano di velocità. I treni scompongono i capelli, ti costringono a chiudere gli occhi e quando li riapri sono passati, non si sono fermati e tu puoi solo osservarli diventare una piccola cosa, nerastra, lontana.

Sì, che bello, un nuovo fruscìo lì tra gli alberi! Non l’ho sognato, vedete! Ma… È di nuovo lei! Sono felice. «È ancora presto per le ciliegie, piccola! Oh no, ti prego, non scappare. Non volevo spaventarti. Né sgridarti… Ti prego, resta, bambina. Anch’io le guardo e le aspetto, sai? Anche a me sembra incredibile che quelle palline dure e verdi possano diventare rosse e sugose. Ma dovremo aspettare luglio. Bisogna sempre aspettare luglio…» «Me ne vado, mi scusi.»

«Piccola puoi restare se vuoi. Puoi restare, ti prego…» Non ho sognato, non sto vaneggiando. È davvero una bambina. Non la mia, certo. La mia aveva i capelli più rossicci. Questa creaturina in cerca di ciliegie, invece, ha i capelli lunghi, castani e ricci. Mi fa capire che sono ancora parte di questo mondo, e che può ancora esserci qualcosa di bello per me quaggiù.

«Non c’è un cancello e sono scivolata. È che questo coso ha le rotelle sotto…»

«Qualche volta le ciliegie crescono spontanee, sai? Allora si dice che sono selvatiche. Hanno un sapore più asprigno, ma ci si possono fare dei dolci così buoni…»

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«Però lo skateboard l’ho sollevato, adesso, va bene? L’ho messo qui, sotto il braccio: non ho rovinato niente!» Dora. Mi dice di chiamarsi Dora.

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CAPITOLO 2. DORA

Il fatto è. Ci si poteva parlare, con lei. I miei denti. Comunque, io ho scelto. Una sedia così comoda. Il mio nascondiglio. Pane. Una cosa che so solo io. Divento un uovo. Una schiena. Amicizia. Non dirlo a nessuno! Quanto è bello. Burro. Però mica lo so. Volevo capirla, quella faccia. Orchi e cantine.

Il fatto è che l’ho capito subito. Ecco, l’ho detto ancora. Non ci posso fare niente, continuo a ripetere: “il fatto è”. Dev’essere perché capisco che le cose stanno proprio in un certo modo, e non perché a me sembra così, o a chiunque altro: è proprio perché il fatto sta così, ecco. L’ho capito subito che con lei, con Teresa, ci si poteva parlare, altrimenti non avrei finito la conversazione con una domanda. Tant’è che le ho chiesto: “Vero?” perché volevo una risposta.

Ero preoccupata di averle rovinato il giardino con il mio skateboard. Forse le ho spennato un pochino il cespuglio di ortensie, quello nell’angolo.

Che poi, mi sa che l’hanno capito tutti che io ho paura di andare su questa tavoletta con le ruote, che quando prende velocità comincio a sentire l’aria nei capelli; il che sembra bello ma mi si crea come un buco nella pancia e mi viene quella specie di vertigine, e allora devo mettere giù un piede e frenare. Poi mi giro di scatto per vedere se qualcuno mi ha vista fare questa cosa da fifona. Per fortuna fino a oggi non mi ha mai beccata nessuno. Almeno credo.

Però ho trovato un mio modo di divertirmi con lo skate. Anche se posso farlo solo quando nessuno mi vede, perché mi sa che sembrerei ridicola agli altri.

Ad Andrea, poi, non ne parliamo.

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Lui impenna, persino, con lo skate, ci va giù per le scale, poi fa ruotare la tavola con un colpo della caviglia ma non so come ci riesce, poi sterza e riprende ancora più veloce. Be’, poco male, perché io mi ci siedo sullo skate, e con le mani spingo, spingo, e poi spingo, e le mani diventano come due piccoli remi, o come le zampe di un’anatra, che fa più ridere, lo so, ma il fatto è che è vero: si va veloci anche così. Allora prendo velocità. Se poi c’è un po’ di discesa, è fatta. Mi rannicchio tutta su me stessa, divento un uovo e penso che da dietro si vede solo una schiena gobba; così il vento mi ributta indietro tutti i ricci. Poi, però, quando mi fermo e li tocco, capisco che il vento non è stato abbastanza forte da renderli più lisci, come piacerebbero a me. Pazienza. Comunque, il fatto è che con Teresa siamo diventate subito amiche. Perché a me è venuto spontaneo non scappar via dopo averle chiesto scusa. Non era la prima volta che entravo in quel giardino. Dietro alla sua casa c’è solo un piccolo recinto di cemento, un po’ franato. Dev’essere per quello che ho pensato: “questa casa è disabitata”. Anche le persiane che danno sulla strada, sul davanti, sono sempre chiuse.

Quel pomeriggio, quando Teresa mi ha sorpreso a guardare nel suo giardino, ho visto una stradina di beole e che quel “serpente di pietre” giungeva agli scalini: da lì si arriva alla cucina di Teresa, che ha una grande porta di vetro.

Non mi sono fermata solo perché ancora non la conoscevo.

Un po’ mi spiaceva: mi sembrava di averla disturbata. L’ho capito dal fatto che si stava pulendo le mani sul grembiule, quindi doveva essere impegnata in cucina. Poi un treno è passato e abbiamo dovuto lasciare spazio al suo rumore fortissimo. Le cose forti ci fanno fermare.

«Ma no che non hai rovinato nulla, piccola!»

Ecco, per una volta un adulto non aveva da ridire su di me e sulle cose che avevo fatto; l’ho apprezzato.

In ogni caso, anche quando gli adulti brontolano non m’importa, perché io prendo le mie decisioni e poi le faccio sapere a tutti, che lo vogliano o no.

«Io mi ricordo di te! Ti sono cresciuti i capelli dallo scorso anno» mi ha detto Teresa.

«Sì, ma non sono diventati più lisci» ho replicato, con una punta di amarezza.

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Allora lei mi ha sorriso e io, stranamente, non mi sono curata di nascondere i due dentoni davanti. Li ho mostrati con il mio sorriso, e ho lasciato che sfregassero la pelle del labbro inferiore.

Sì, lo so che sono troppo lunghi i miei denti. Ho dodici anni, i capelli crespi e i dentoni da coniglietta.

«Che begli occhi hai, sono così azzurri che sembra di guardare il cielo.»

“Ecco, la solita cosa che mi dicono tutti”, ho pensato; anche se detto da Teresa, sembrava un complimento sincero.

Le persone fanno così fatica a essere dolci. Si difendono tutti. Però mica lo so perché, o da che cosa.

Allora mi sono avvicinata a lei, sempre stringendo lo skate sotto l’ascella. Anche se avevo una maglietta bianca e avevo paura di sporcarla di terra.

Mentre mi avvicinavo, lei si rimescolava le mani nel grembiule, e allora le ho guardato bene le dita: facevano uno strano zig-zag che partiva dal polso e andava avanti in un mucchio di vene, sotto una pelle sottile e morbida. Forse ad altre persone quelle dita avrebbero fatto paura, ma non a me.

«Vuoi entrare? Io mi chiamo Teresa, e tu? Ho appena finito di preparare la marmellata di limoni. Ne vuoi un po’?» Magari, in una fiaba, la vecchietta che avevo davanti si sarebbe trasformata in un orco cattivo, per legarmi, rinchiudermi in una qualche cantina puzzolente o farmi chissà che. Ma la realtà è sempre più noiosa. Fatto sta che dopo un minuto di chiacchiere – le avevo chiesto di non chiamarmi più bambina, o piccola, ma soltanto con il mio nome, Dora – eravamo amiche, e parlavamo come se ci conoscessimo da una vita. A me i maschi non piacciono, così come gli adulti. A volte non vado d’accordo nemmeno con le femmine. Con i bambini, poi, non ne parliamo. Ma non avevo mai pensato di fare amicizia con un’anziana. Ci siamo sedute e abbiamo parlato. Le sue sedie sono comode. Sono ricoperte da cuscini a fiori, gialli e verdi, e l’imbottitura si rigonfia tutta a onde e resta attaccata allo schienale con due fettucce di cotone. Una si era slacciata quasi del tutto. Allora l’ho riannodata e Teresa mi ha guardato con gli occhi lucidi. Poi ho visto che anche altre fascette penzolavano nel vuoto, e ho stretto anche quelle. Abbiamo parlato tanto. Del pane che è più buono tostato, per cominciare. Quando è ancora caldo, ci puoi spalmare meglio il burro, perché così si scioglie, ovvio.

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La marmellata l’aveva già versata tutta nei barattoli di vetro, e quando ci siamo trovate con in mano solo un pezzetto di pane, ci siamo guardate e abbiamo avuto lo stesso pensiero. Così abbiamo passato un’altra ora a fare la scarpetta nel pentolone di rame. Che bel colore ha il rame. È come se fosse d’oro, ma un po’ sembra anche rosa.

Le ho spiegato come vado sullo skate e lei ha detto che ero forte, ma non si è mai messa a ridere.

A un certo punto ho pensato che volesse andarci pure lei, allora le ho detto: «Vuoi provarci? Te lo presto!» «Sì, vorrei provare ma credo che sarebbe poco prudente» ridacchiò. Mi è dispiaciuto ma abbiamo superato l’argomento, continuando a parlare del più e del meno. Poi è arrivata Mirna. Era mercoledì, infatti. È così che sono diventati belli i mercoledì.

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CAPITOLO 3. MIRNA

Forse, se vado di fretta. Sento di dover rimediare. La pazienza. Io sorrido. Ho preso in mano un rasoio. La ruvidità della polvere. Era una bugia. Non guardarmi. Ho trovato una bambina, a casa sua. Sono guarita. Posso disegnarti?

Io vado sempre di fretta. Solo così sento di poter rimediare; non so bene a che cosa.

Mi chiamo Mirna, e con la sensazione di dover rimediare ci sono nata. È inevitabile quando si viene al mondo e si è fatti come me, ma sono contenta anche così.

Sono felice, e questo disturba tutti quelli che non lo sono. Che sono tanti, ma tanti.

Non si può non essere felici quando si scampa a una malattia, e io sono guarita e per questo, per tutta la vita, non potrò fare altro che festeggiare. So anche che, se fossi morta, non sarebbe dispiaciuto a molti. Ma io sorrido lo stesso.

Mi sono ammalata, non molto tempo fa, e mi sono caduti i capelli. Per non sentirli scivolare, a ciocche lagnose, dalla testa, una mattina ho preso in mano un rasoio e ho anticipato la vita. Da allora, anche se sono passati quattro anni, non ho mai smesso di farlo. Ed ecco il mio look di oggi, tutto stonato: per metà della testa porto i capelli rasati, come un Marine, per l’altra sono lunghi, con qualche schiribizzo.

La mia pettinatura è una cosa che mi piace: una cosa che mi aiuta a sentirmi le spalle grosse.

Il mercoledì vado a fare le pulizie a casa di Teresa. Succede così, a volte, quando le perone non hanno un titolo di studio.

Però ho letto tutta Agatha Christie. Tutta: anche il teatro, intendo. E un giorno leggerò anche i suoi romanzi rosa, quelli che nessuno conosce, perché li ha scritti con un nome diverso; a volte è un problema essere per come si è, se tutti credono che tu sei fatto in un determinato modo.

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Teresa mi piace, lei piace a tutti. Sarà perché una persona anziana può sembrare indifesa, ma lei non lo è. Ha già combattuto tutte le sue battaglie; quasi tutte. Si capisce che qualcosa è ancora lì, come in sospeso.

Vivo in una casa famiglia. Sono di tutti, e per questo, di nessuno. Quando sono tornata a casa dall’ospedale – definitivamente, voglio dire – mi è stata data una stanza tutta per me nell’istituto. Così sono entrata nel mondo degli adulti.

Ora vivo nella parte di qua, quella degli operatori, che non appartengono al mondo di chi una famiglia non ce l’ha, ma solo al mondo di chi aiuta, perché è più forte.

È così è stato come se d’improvviso non fossi più un’orfana, ma solo più forte.

Io una mamma non ce l’ho mai avuta, e la cosa mi fa piangere ogni notte. Non ho mai voluto fare come nei film e provare a cercarla.

“Potresti, se volessi”, qualcuno mi ha detto, visto che oggi, con le nuove leggi, con internet… Ma io sono questa persona qui, senza una mamma, sono mille occhi e mille carezze di persone che hanno provato a essere con me tutto quello che può essere una madre.

Per questo non ti cerco, mamma. Non voglio rischiare di disturbarti. Non voglio chiederti, anch’io, perché hai preso quella decisione. In fondo, se è vero che possiamo ritrovarci, puoi sempre iniziare tu, no?

Ha senso cercare di rovesciare il destino? Voglio accettarla così com’è la mia vita; così accetto anche me stessa.

Quando guardo le persone mi sento a disagio. Vorrei dire loro non guardarmi, ma non sempre posso e allora provo con un “posso provare a disegnarti?”. La gente sorride, smette di osservarmi e pensa che persino una come me potrebbe sorprenderla.

Ma se ritrovassi lei, mia madre, potrei dirle “posso provare a disegnarti?”, ovvio che no.

Sono vent’anni che provo a disegnarla. A volte somiglia un po’ a me, poi penso che potrebbe essere più bella, e allora mi viene in mente che potrei aver preso anche da mio padre. Avrò pur avuto un padre.

Mi mancano le corsie dell’ospedale. Ero l’unica che si ostinava a non mettersi un pigiama, così ciondolavo in giro con i jeans strappati e le canottiere da uomo, anche quando facevano sbucare cerotti e tubicini. A volte avevo il moccio al naso.

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«Mirna, non ce l’hai il fazzoletto?» mi dicevano le infermiere. Allora io a recuperavo un po’ di carta igienica dal bagno, perché per avere un fazzoletto a portata di mano, bisognerebbe anche avere una borsa. Una borsa a tracolla, come la portano le donne.

Il mercoledì faccio le pulizie a casa di Teresa, dicevo. Non c’è verso che lei stia ferma, mentre io mi do da fare con stracci e detersivi. «Faccio io, Teresa, cosa sono qui a fare altrimenti? Siediti.»

Ma è più forte di lei.

Mercoledì scorso ho trovato una bambina a casa sua. Non so da dove fosse sbucata. Sembrava essersi materializzata così, dal giardino. Quando i nostri sguardi si sono incrociati, ho visto che ha ristretto il suo sorriso, richiudendo i denti tra le labbra. Anch’io ho avuto i denti un po’ così, da piccola. Poi si sono allineati e non si è più notato così tanto. Avrei voluto raccontarglielo, ma sono rimasta in silenzio. Secondo me, però, ha capito che volevo dirle qualcosa. È da lì che è nata la nostra simpatia.

Da quel pomeriggio non mi sono sentita più la giovane di casa, quella che Teresa si sforzava di proteggere con i suoi “ma sei sicura che ce la fai con quelle persiane? Non salire troppo in alto su quella scala!”. Poteva esserci qualcuno più piccolo di me, più tenero, più fragile di me. Non mi sono mai sentita così, neanche quando sono passata dalla parte degli operatori in istituto.

«È avanzata una fetta di pane e marmellata, qui sul fondo della pentola, ce n’è ancora un sacco. Ne vuoi?» mi ha chiesto Dora, quasi subito, come se si trovasse nell’agio di casa sua.

È facile sentirsi a casa propria nella cucina di Teresa. Le altre stanze le pulisco, ma poi le devo chiudere. Teresa resta in vita solo vicino ai fornelli.

Sto facendo un ritratto con i gessetti bianchi. Qui, sulla lavagna nera della stanza dei compiti, in istituto. Guardo quello che ho disegnato: mi piace. La polvere del gesso è ruvida e asciutta sulle dita. Mi chiedo se lo scorrere di questi minuscoli granelli potrebbe cancellare le mie impronte digitali. Sarebbe un modo per ricominciare da zero. Gli orfani possono cominciare da zero, mi hanno detto una volta, ma era una bugia.

Un giorno Teresa era malata. Io ero seduta vicino al suo comodino, lei dormiva e ho lasciato scivolare le mie dita sotto il suo palmo: aveva i polpastrelli lisci, come se il tempo avesse levigato le sue impronte.

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Come se avesse vissuto così tanto da esser pronta a ricominciare una nuova vita.

Sono andata via di tutta fretta, perché sapevo che sarebbe arrivata Laura.

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CAPITOLO 4. LAURA

Ti sei mai chiesta come sia franato, quel muricciolo? Pelle di alabastro. Tra orgoglio e malinconie. I dolcevita raccontano una bugia. Chissà se posso smettere. Qualcosa non va, in quel sorriso.

«Teresa? Sei in casa, posso entrare? Mmh, sento un profumino! È il giorno del liquore, vero? Produzione in corso?»

«Laura! Ma certo, entra: sai che la mia casa è sempre aperta!»

«Lo so, ormai non ci passo neanche più dal citofono, scavalco il muricciolo da dietro e arrivo qui: è divertente!»

«Eh… ti sei mai chiesta come sia franato, quel muricciolo?»

Per un attimo sono rimasta imbambolata. Teresa stava con le mani sui fianchi, in attesa della mia risposta. Siamo scoppiate a ridere. Rincontrarla è più o meno sempre così, ogni mese.

Me ne vado via da lei con le tasche zeppe di allegria. Ecco, lei è Teresa. Ho trentasette anni e sono un’assistente sociale. Vivo da sola, orgogliosa e carica di malinconie; guido una Fiat 500, rosso fuoco, ho i capelli corti, biondissimi e due grandi – un po’ troppo tondi – occhi verdi. Le guance rosa e la pelle di alabastro, come mi diceva qualcuno quando ero piccola.

Teresa è la mia assistita più anziana e la più in gamba, neanche a dirlo. Oggi sono felice, mi si legge in faccia. Che ci posso fare? Mi sono innamorata. Forse non dovrei dirlo.

Anche questa volta Teresa è più in forma che mai. Posso anche segnare due semplici virgolette sul registro comunale, alla sua voce: il riscontro sul suo stato di salute fisica, mentale e sociale è costante e luminoso. Ha iniziato la preparazione del suo prezioso liquore di uova e limoni. Lo fa con le bucce che avanzano dalla cottura della marmellata. È una catena di montaggio, la sua. Per tutto l’inverno avremo un goccetto da farci per brindare alle piccole conquiste, consolarci delle tristezze, non badare al grigiore dei giorni.

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Abbiamo appena oltrepassato la metà di febbraio, eppure c’è già un così piacevole tepore. Forse potrei riporre i miei dolcevita. Che bel nome hanno dato a questo capo d’abbigliamento. Quello che indosso oggi mi pizzica un po’ qui, dietro il collo. Forse la sua è una bugia. La mia giornata lavorativa è finita e potrei andare al parco, a leggere un po’. Chissà se ho ancora una coperta nel baule. È bello non dover più correre a casa, ad accendere il computer. Chissà se posso smettere con quella cosa. La casa di Teresa è in ordine. Anche se a occuparsene è quella ragazza, Mirna mi pare si chiami. Non sono più riuscita a incrociarla. Peccato, arriverò prima la prossima volta. C’è qualcosa che non va, in quel suo sorriso.

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CAPITOLO 5. TERESA

Me ne sono accorta. Hai mai annusato la pianta del pomodoro? Non avrò mai i capelli bianchi. Non posso invecchiare più di così. Se Dio. Un motivo per non morire ancora. Le spine sottili che sbucano dalla punta delle zucchine. Il brulicare delle coccinelle. Il cielo era rosa, poi si striava di viola. Gli occhi del colore che non ho più.

I pomodori sono buoni, ma non so se avete ben presente l’odore della sua pianta. Nel qual caso, credo abbiate un altro motivo per non morire ancora.

Gli steli verdi della pianta del pomodoro sono rigidi e un po’ vellutati, con quei riccioli come pampini d’uva e poi, a grappoli, il rosso. Devo rientrare dall’orto. Scende la sera e inizia a far freddo. Vorrei restare così, con le dita pizzicate dalle spine sottili che sbucano dalla punta delle zucchine, e le mani incuriosite dal brulicare delle coccinelle.

Ho bisogno di lavarmi i capelli, non riesco più a farlo da sola. Di mattina, un tempo, pregavo. Prima ancora lo facevo di sera. Poi ho smesso.

Ho smesso anche di aspettare che i miei capelli diventino bianchi. Se a novantaquattro anni si ostinano a restare grigi, dubito che un giorno potranno cedere.

Il tempo, per me, si è come fermato. Le vite degli altri proseguono e io qui, con gli occhi sempre aperti, a guardarle. Non c’è più un vero colore nelle mie iridi. Sono una luce smorzata, un riflesso opaco, avvoltolato tra i fili sottili di un nido di rondini.

La mia cucina è tutta bianca. Le pareti sono ricoperte di listarelle di legno e il soffitto, alto, spiove seguendo la linea del tetto. C’è un tavolo grande, al centro di tutto. Un sacco di pensili e utensili e fiori. Vasi di biscotti con il tappo in sughero, e libri di ricette. Cesti in midollino. C’è anche una grande credenza, zeppa di cassetti con i tiranti che spuntano da sportellini di vetro, e si può vedere subito il loro contenuto:

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ci tengo dentro un sacco di cose diverse. Mi piace affondare le mani nel riso e sentilo sfrigolare tra la cipolla tagliata fine, affogata nell’olio dorato.

I mobili sono nuovi. Sono l’ultima cosa nuova che ho voluto nella mia vita, dopo che ho perso mia figlia. Perché sono ancora diverse le persone che entrano nelle mie giornate, e in qualche modo, mi chiedono di portarne via qualcosa. Dovevo accoglierle bene, perciò.

Del resto della casa, invece, non m’importa più.

Questa notte ho fatto un sogno. Ero al mare, camminavo sulle scogliere alte e scure. Il mare sbuffava e faceva tanta schiuma. Il cielo era rosa, poi si striava di viola. Dalle nuvole il sole filtrava luminoso e m’indicava il punto in cui raggiungere la mia bambina.

Lei camminava, e ogni tanto scivolava. Mi tendeva le braccia. L’ho raggiunta, sembrava assonnata, ma io le dicevo: “Non addormentarti, non lasciarmi, ascoltami ancora. Non ti ho detto tutto. Non piangere, non dirmi che non mi odi. So che lo faresti, se potessi sapere”.

Allora parlavo, lasciavo che le mie parole rotolassero nelle sue orecchie, ma la sua testa si era già accoccolata nell’incavo della mia clavicola. Dormiva, e non potevo fare altro che ninnarla, come se fosse ancora piccola.

Questo è un figlio malato, quando è già adulto, tra le braccia di un genitore anziano.

Ora riempirò la vasca da bagno di acqua calda e poi mi ci infilerò. Non so ancora bene come farò per i capelli.

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CAPITOLO 6. DORA

Procedevo tranquilla. Tanto lo sapevo. Senza cadere. Ho detto “permesso!” ma non mi ha risposto nessuno. C’era una porta con al centro un grande vetro, di quelli che ti lasciano vedere solo le ombre. Attenzione: adesso sembri un coniglio!

Quando sono uscita di casa sapevo bene che sarei finita di nuovo lì, a casa di Teresa. L’ho capito perché sullo skate ci sono salita poco convinta, prima con un piede, poi poggiando l’altro sulla strada e usandolo così, come fanno tutti. Andavo avanti tranquilla, sperando che qualcuno mi guardasse mentre andavo sullo skateboard come si conviene. Senza cadere, per giunta. Per forza, così piano son capaci tutti. A metà strada però non me n’è importato più niente dello skate, della velocità e degli altri. Ho frenato, ho raccolto la tavola sotto l’ascella –come faccio quando voglio metterla a cuccia – e ho sono andata avanti a piedi, prendendo il viale alberato che sbuca sulla ferrovia, dove c’è la casa di Teresa. Ho citofonato questa volta. Sapevo che non mi avrebbe risposto nessuno, così sono passata dal giardino, come volevo fare da subito. Teresa non c’era, la sua cucina era vuota. Ho sentito dei rumori, però, e sono entrata. Ho chiesto il permesso ma non mi ha risposto nessuno. C’era tanta luce. I rumori venivano dal buio, dal fondo di un corridoio. Ho pensato che avrei dovuto avere paura, ma non ne avevo. Ho fatto qualche passo per sentire meglio. C’era una porta con un grande vetro, di quelli che ti lasciano vedere solo le ombre. Ho visto una sagoma che si restringeva e poi spariva. Poi un rumore d’acqua. «Teresa!» ho urlato, spaventata. «Dora!» mi ha risposto lei. «Sei… in bagno, Teresa?» «Sì, cara, sono entrata adesso in vasca!» Silenzio. Non sapevo che fare.

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«Teresa» ho detto, schiarendomi la voce «ma non chiudi casa quando sei in bagno?»

«La porta di casa è chiusa!» «Scusami…»

«Per cosa? Entra, se vuoi!»

Non volevo, mi vergognavo, ma poi ho pensato che era da maleducata non farlo. Così ho appoggiato la mano sulla maniglia.

Teresa non mi guardava, era in un mare di schiuma e l’imbarazzo svanì. Le domandai se avesse bisogno di una mano e mi chiese di aiutarla con i capelli, perché da sola non riusciva più a lavarseli.

Con un bicchiere di plastica le bagnai la testa. Poi presi il barattolo dello shampoo. Aveva la testa piccola, come quella di una bambina. Cercai di fare piano, a un certo punto mi parve di vedere una lacrima scenderle da un occhio, ma non ne ero sicura, perché c’era troppo vapore in giro.

Le chiesi se stessi facendo bene e lei mi sorrise, così andai avanti.

Una volta finito, la schiuma del bagno si era consumata. Vidi la pelle della sua schiena macchiata di rosa scuro; faceva sempre più freddo.

«Dora, cara, perché non vai in cucina a mettere su un po’ d’acqua per il tè?»

«Ma tu te la cavi?» domandai, preoccupata di lasciarla lì.

«Me la cavo sempre» sorrise. «Grazie per avermi aiutato con i capelli!»

Prima di uscire dal bagno mi guardai allo specchio. Vidi una ciocca di capelli incastrata nel mio orecchino a forma di chiave di sol. Feci un movimento strano per liberarla e un po’ di saliva mi andò di traverso. Da quanto tempo avevo in bocca quella Galatina?

Dovrei smetterla con le caramelle. Ma il fatto è che fino a quando ho in bocca una caramella, le labbra restano chiuse. Perché io non mi accorgo sempre di stare con la bocca un po’ aperta, e così i denti si vedono troppo. Quando invece finisce il sapore dolce in bocca, scatta un allarme: attenzione, ti si apre la bocca! Attenzione: adesso sembri un coniglio!

Non avevo molto tempo per prendere il tè con Teresa e non mancava tanto alla mia lezione di ginnastica ritmica.

Odio fare ginnastica. Odio le grida dell’insegnante, specie quando mi dice di sbrigarmi, e odio dover rimanere con i piedi nudi in quella palestra sporca; non sopporto di dover uscire dal mio bozzolo per concentrarmi su un movimento. E poi la bucherei quella palla che non

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ricade mai fra le mie mani e quel nastro che entra bene tra le ginocchia delle altre e si attorciglia attorno alle mie!

Ho detto tutto questo a Teresa, e lei non mi ha detto che la ginnastica è una cosa bella, che mi fa bene, che tutte le ragazzine della mia età dovrebbero farne. Non mi ha detto niente. Mi ha ascoltata. Forse a lei potrei raccontare della decisione che ho preso. O forse è meglio che aspetti ancora un po’.

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CAPITOLO 7. MIRNA

Letti a castello. Il dolore che non sopporto più. Solitudine e illusioni. Inchiostro, pelle, aghi. La mia bocca. Come si chiama? Lacrime, gesso, vergogna.

Piango, piango spesso, piango sempre.

Piangere è la mia forza.

La sera mi sdraio e mi guardo intorno stranita: non mi sono ancora abituata ad avare una stanza tutta per me.

Non è semplice abituarsi a dormire da soli, dopo che per una vita hai dormito infilata in un letto a castello, in un camerone con altri dieci ragazzini. Cresci pensando che dormire da sola sia un lusso, ma poi…

Il giorno stesso in cui mi è stata assegnata questa stanza, sono andata a comperarmi due cose: un pesce rosso e un deodorante che sapeva di talco. Il pesce perché finalmente potevo occuparmi di una creatura tutta mia, solo e soltanto mia: in una casa famiglia tutto, e soprattutto tutti, appartengono a tutti. Il talco perché la camera in cui dormivo prima dava sulle cucine, e l’odore del mangiare si attaccava alle tende, s’infilava nelle lenzuola e nessun oggetto, con il suo odore, riusciva mai a parlarmi di me.

Mi piace il profumo del talco, delle cose pulite e nuove, delle cose che sanno di scelte personali.

Piango, però. Piango e tutto si scioglie, allenta, mi libera. Non m’importa di farlo, non mi vergogno. Ci sono già così tante altre cose di cui mi vergogno. Per esempio della paura del dolore dei tatuaggi, quando il tatuatore deve lavorare di aghi per un intero pomeriggio per infilarti sotto pelle l’inchiostro del nuovo fronzolo che ha promesso di tenerti compagnia.

Per questo non riesco a decidermi a farne uno nuovo, anche se avevo deciso che il braccio destro non avrebbe più avuto un solo angolo libero.

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E poi, sì: voglio risparmiare. Voglio comprarmi quel gioiello. L’ho visto ormai un anno fa, in un colorificio, a Milano, quando sono andata a sognare di iscrivermi a Brera. Un’enorme valigetta, piena di gessi, di quelli che tracciano così bene anche sull’asfalto poroso. Adesso mi vesto. Poi mi vestirò ancora. Anche questa è una cosa che faccio sempre. Mi metto addosso un primo strato. Poi vado avanti. Mi fermo solo quando mi sembra che le mie linee non si possano più immaginare. Solo quando smetto di avere l’impressione di essere così magra. Solo quando quel dislivello, tra i miei seni, non si nota più. Poi mi guardo allo specchio. Mi spazzolo solo la parte destra della testa anche se, con la mano, l’istinto di riavviare i capelli mi viene anche sulla sinistra, dove tutto è rasato. Altra novità: ieri mi sono chiesta come starei con un rossetto. Non l’ho mai messo. “Hai la bocca a forma di cuore”, mi hanno detto in tanti, e mi è sempre sembrata una cosa tenera fino a quando, quel giorno, anche lui mi ha detto sì, è vero, sembra un cuore, e poi mi ha detto anche: “bocchinara”.

Ci mettono poco, gli uomini, a uccidere. Devo chiedere a Teresa di cambiare giorno della settimana per le pulizie, e soprattutto di non dirlo a quell’odiosa di un’assistente sociale. Lo so che quella lì mi considera soltanto un avanzo di centro sociale, sono abituata a sentirmi trattare così. Ma qualche volta mi dà fastidio. Mi fa ribollire il sangue quando mi accorgo che negli sguardi c’è quel compatimento, quella voglia di giudicarmi, o peggio, quell’istinto di voler aiutare la “povera orfanella” che a tutti do l’impressione di essere. Perché lo sono.

Del resto, tutti noi abbiamo idee sugli altri. Lei a me sembra una donna sola, per esempio. Anche se finge che non sia così. Sì, finge. Così tanto che in fondo mi fa tenerezza.

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CAPITOLO 8. LAURA

Faremo l’amore. Premio. Solo un’ombra. Il mio vestito giallo. Aspettiamo insieme l’alba. La carrozza e la zucca. Di che cosa dovrei vergognarmi? Saremo felici.

Faremo l’amore, Guido e io. Credo succederà tra non molto. L’ho aspettato tanto, ho sentito che lo desideravo. È così che deve andare per poter essere felici. È così che si può capire che la vita, finalmente, ti premia. Premia il tuo saper aspettare, il tuo non esserti arresa.

Qualche volta Teresa mi dice che io penso di sapere troppe cose, che lascio le mie certezze diventare giganti. Non posso spiegare a chiunque come ho conosciuto Guido. Ci sono segreti che è meglio non svelare. Non tutti capirebbero. O forse tutti crederebbero di capire.

Ma posso raccontare che ora stiamo insieme e siamo felici.

Ieri mi è sembrato un po’ accigliato quando gli ho detto una cosa. Non ricordo neanche più cosa, di preciso. Non doveva essere un fatto di grande importanza, per questo non darò troppo peso a quest’ombra. Potrei parlargliene. Posso sempre parlare di tutto con lui, ma non mi sembra il caso.

Basta con la mia insicurezza!

Basta anche con le sere passate nel buio del mio soggiorno, la luce blu del computer spalmata sulla faccia. Ho conosciuto tanti uomini, in questo modo. Li ho conosciuti, ma non ci ho mica fatto nulla di male! Il mio segreto eccolo qui, a ogni modo. Piccolo, tondo, scivoloso.

Come faccio a spiegare alla gente che negli ultimi cinque anni non ho fatto altro che entrare e uscire da storie mediocri, con uomini iscritti, come me, a un sito d’incontri per single?

Che male c’è a provare a incrociare i destini delle anime sole? Non siamo forse tutti in cerca della stessa cosa? Di un cuore che batte forte?

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Non rimpiango nulla, non rinnego niente delle storie che mi sono lasciata alle spalle. A volte ho amato, ma ho danzato da sola. Ho lasciato, anche, disperandomi per ogni mancata sintonia.

In tutti i casi, siamo stati esseri umani, umanissimi, in cerca di giorni migliori. Di che cosa dovrei vergognarmi?

“Sbagli”, mi hanno detto in tanti, nel corso degli anni. Certe cose non si cercano, certe cose ti accadono quando vivi.

Accadono quando sei soddisfatta di ciò che fai, di ciò di cui ti circondi, perché la vita è come uno specchio e tutto ti si riflette addosso.

Le ho lasciate alle carte dei cioccolatini, quelle frasi. Le ho lasciate agli altri, o meglio: alle altre. A parlare così erano sempre donne. Donne sistemate.

Non mi sono voluta sedere e sono andata avanti, a rendere manifesta la mia solitudine, a non provarne imbarazzo, a forzare un po’ la mano al destino, forse, ma sempre con le intenzioni di un cuore buono.

Fino a quando ho incontrato Guido. Era settembre.

Ho incrociato il suo profilo che erano già le dieci di sera. Siamo andati avanti a chattare fino alle undici e mezza. Poi abbiamo voluto sentirci al telefono e alla fine della chiacchierata ci siamo detti: dai, ci vediamo?

Quando, già domani? E se fosse… adesso?

Ci siamo incontrati in piazza, mezz’ora dopo. Lui mi è piaciuto da subito, da quando era ancora soltanto una linea flessuosa all’orizzonte. Una linea alta, snella, sorridente mentre si avvicinava. Ho sempre apprezzato i tratti del viso regolari: è come se mi ci potessi appoggiare.

La mezzanotte era scoccata, ma noi non volevamo saperne di smettere di parlare, di raccontarci, di trovarci. Il bar dove eravamo entrati per bere insieme qualcosa aveva chiuso. «Andiamo all’aeroporto» mi ha proposto lui. «Aspettiamo insieme l’alba, poi ci beviamo un caffè e mangiamo una brioche.»

“Allora gli piaccio”, mi sono detta in quel momento, tutta giuliva. Però mi sembrava ci fosse qualcosa in lui, nei suoi occhi grigi, qualcosa che ancora voleva mantenere una distanza, una posa guardinga.

È giusto, ho pensato, anche se questo in qualche modo mi disilludeva, mi tendeva un gancio a cui appigliarmi.

Lui sorrideva, poi smorzava. Faceva una domanda, ma non insisteva per arrivare al fondo di quanto io lasciavo un po’ in disparte. Sembrava discrezione ma anche distacco.

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Sto passando dei momenti speciali, dicevo a me stessa. Tutto questo è bello, tutto questo è unico e forse non è dato a tutti.

Alla fine, siamo tornati nel parcheggio dove avevamo lasciato la macchina, con gli occhi pieni di sonno, un po’ tachicardia dovuta alla stanchezza, alle palpitazioni delle nuove speranze. Guido mi sembrava stanco. Qualcosa velava il suo sguardo. Una mestizia, una voglia di non strafare, forse, provavo a supporre in una parte dei miei pensieri che continuavano a rimanere scollati dai suoi.

Alla fine, è stato lui, per primo, a dire ok dai, ci salutiamo. Torniamo. Bisogna sempre ritirarsi, prima o poi, rientrare alla base. Nell’ultima mezz’ora le cose si erano come allentate e quelle prime luci dell’alba sembravano essere nate, dalla notte, per riportare ogni fantasia in un posto più vero e più definito. Per restituirmi la zucca che era stata una bella carrozza. Pazienza, mi ero già detta. Sentivo che l’ago della sua bilancia pendeva verso un pungente no. Ricordo: indossavo un vestito giallo che mi piace molto, con cui mi sento sempre a mio agio. Svolazzava un po’, nella brezza del primo mattino, e mi scopriva le gambe. Ma lui non le guardava, le sue ciglia strette a limitare il brillio dell’orizzonte. Poi, l’ultimo atto. Quello della spudoratezza, quello della sincerità. «Guido, ti sei trovato bene con me questa sera, vero? Ma qualcosa non ti torna. Pazienza, non è colpa di nessuno, in questi casi. Però penso che ce lo meritiamo di dirci tutto, che siamo in grado di sopportare di dirci tutto, vero?»

L’uomo che avevo davanti, in quel momento, si è trasformato e acceso. Lo stupore gli ha illuminato il viso in un sorriso che non scorderò mai. «Come ci sei riuscita? Come sei riuscita a trovare le parole per dire la stessa identica cosa che pensavo io? No, Laura, non è così, non per me. La verità, se possiamo permetterci il lusso di dircela tutta, è che tu mi sembri meravigliosa. Troppo per me. Allora mi costringo a stare con i piedi per terra. Forse per questo devo esserti sembrato distante. Ma se tu mi dici questo, allora… be’, cambia tutto. Può essere tutto… e non mi sto illudendo, vero?» È finita in un bacio.

Saremo felici. Lo so. Lo spero.

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INDICE Capitolo 1. Teresa...................................................................................5 Capitolo 2. Dora.....................................................................................9 Capitolo 3. Mirna..................................................................................13 Capitolo 4. Laura..................................................................................17 Capitolo 5. Teresa.................................................................................19 Capitolo 6. Dora...................................................................................21 Capitolo 7. Mirna..................................................................................24 Capitolo 8. Laura..................................................................................26 Capitolo 9. Laura..................................................................................29 Capitolo 10. Dora.................................................................................33 Capitolo 11. Mirna................................................................................36 Capitolo 12. Laura................................................................................41 Capitolo13. Dora..................................................................................45 Capitolo 14. Laura................................................................................48 Capitolo 15. Dora.................................................................................50 Capitolo 16. Teresa...............................................................................53 Capitolo 17. Mirna................................................................................55 Capitolo 18. Mirna................................................................................61
Capitolo 19. Teresa...............................................................................64 Capitolo 20. Teresa...............................................................................69 Capitolo 21. Dora.................................................................................72 Capitolo 22. Mirna................................................................................80 Capitolo 23. Mirna................................................................................83 Capitolo 24. Laura................................................................................93 Capitolo 25. Dora.................................................................................96 Capitolo 26. Dora.................................................................................99 Capitolo 27. Teresa.............................................................................101 Capitolo 28. Laura..............................................................................102 Capitolo 29. Mirna..............................................................................103 Capitolo 30. Laura..............................................................................105 Capitolo 31. Teresa.............................................................................107 Capitolo 32. Laura..............................................................................110 Capitolo 33. Teresa.............................................................................112 Capitolo 34. Dora...............................................................................117 Capitolo 35. Laura..............................................................................120 Capitolo 36. Teresa.............................................................................121 Capitolo 37. Laura..............................................................................124 Capitolo 38. Teresa.............................................................................125 Capitolo 39. Dora...............................................................................134 Capitolo 40. Teresa.............................................................................136 AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI...........................................141

vincitore

premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti

ZeroUnoUndici Edizioni

romanzi

come consuetudine della Casa

alcuna

AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com Al
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