Il Pastore, Massimo Torsani

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In uscita il /1/20 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio H LQL]LR IHEEUDLR 2020 ( ,99 euro)

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MASSIMO TORSANI

IL PASTORE

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ IL PASTORE Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-364-2 Copertina: immagine Shutterstock.com


Dedicato a Lello e Franca



Passavamo sulla terra leggeri come acqua (Sergio Atzeni)

Una rosa in su lentore, in sas labras su disizu; sos profumus d’uno lizu son paragulas d’amore. (Franceschino Satta)

‌ per colpa o per destino le donne le ho perdute (Francesco Guccini)



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CAPITOLO 1

Lascio la cabina con la mia borsa, salgo sul ponte ed esco in coperta, a babordo. La luce dell’aurora comincia a illuminare il paesaggio. Sotto di me la scia del traghetto increspa il mare quasi piatto. Di fronte sfila l’isola di Tavolara. L’odore è inconfondibile: sono di nuovo in Sardegna. Da quanti anni faccio questo viaggio, e da quanti anni per, con e senza di Lei. La prima volta da ragazzo, non la conoscevo ancora. Per la prima vacanza con gli amici, una vacanza di avventura, di sogno… e di amore. Poi per raggiungerla a casa sua, dai suoi. Quindi insieme, per tornare in Sardegna, rivedere gli amici, la sua famiglia; per imbarcarci in questa impresa, cominciata insieme, che per me ancora continua. Per Lei no. Infine, da solo, sempre con il ricordo e il rimpianto nel cuore. Basta con la malinconia di primo mattino. Torniamo a godere del paesaggio. Ecco: stiamo entrando nel golfo di Olbia. La luce è aumentata e rivela i monti dietro la città, le campagne e i boschi verdissimi. Penso alla grande fortuna che ho avuto nel conoscere questa terra meravigliosa, e perfino di lavorarci. Eccomi qua: Fabio Marella, quarant’anni, ingegnere. Socio, tecnico e manutentore in un campeggio in Sardegna, che si reca al suo luogo estivo di lavoro, dove trascorrerà una metà dell’anno. L’altra metà a Spoleto, nella casa lasciatami dai miei genitori, con frequenti puntate a Roma e in Sardegna, occupando buona parte del tempo in attività collegate al mio lavoro estivo: acquisti, progetti, manutenzione del sito internet e pubblicità sul web. Per il resto qualche viaggio per fare immersioni e il volontariato in Croce Rossa. Molte persone potrebbero invidiare questa vita. Forse sbaglierebbero. Intanto sfilano le coltivazioni di cozze, disturbate dalle scie di questo palazzo navigante. Nel corso degli anni ho visto i traghetti aumentare di dimensioni e di numero, soprattutto d’estate, sull’onda dell’aumento del turismo. Le povere cozze ne soffrono. Sono aumentate anche le


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costruzioni sulle coste della rada: approdi, cantieri navali per imbarcazioni da diporto e quant’altro. Anche i moli di Isola Bianca sono aumentati, e la stazione marittima è stata costruita più grande e moderna. Detto fra noi, mi piaceva di più prima. Comunque, il fascino di questa terra magica rimane intatto. Stiamo attraccando al molo, è meglio che mi avvii per raggiungere la mia auto al ponte quattro, perché è una delle prime che scenderanno. Nel ponte auto i soliti maleducati hanno acceso i motori prima dell’inizio dello sbarco, così cominciamo tutti a intossicarci. Mi chiudo nel mio vecchio fuoristrada e aspetto. Mi attende un bel po’ di strada per arrivare a Tortolì. Avrei potuto prendere il traghetto per Arbatax ma non viaggia tutti i giorni. Poi sono affezionato a questa tratta e allo sbarco a Olbia. Mi risveglia ricordi come quelli di poc’anzi, malinconici ma ricchi e profondi. Aprono i portelloni e comincia la gara per uscire per primi, con sgasate, scatti aggressivi e parolacce. Non capisco perché la gente abbia questa fretta parossistica di evadere dalla stiva, come se vi fossero stati imprigionati per mesi. Ricordo una volta, mentre stavamo sbarcando sempre qui, a Olbia, una litigata con una signora ingioiellata alla guida di un gigantesco SUV che pretendeva di passare mentre caricavo le borse e il cane nel portabagagli, fino al punto di venirmi con il paraurti sulle gambe. Soltanto l’intervento di Sofia mi trattenne da gesti insani. Mi avvio, seguendo gli altri, all’uscita, imbocco la rampa e sono sul molo. Gli addetti ci indirizzano al cancello più vicino da cui si esce dall’area portuale, recintata e sorvegliata. Sì, perché oggi, per ragioni di sicurezza, l’area portuale è chiusa e vi possono accedere solo coloro che sono in possesso di titoli di viaggio. Cosa curiosa: i passeggeri a piedi, per entrare devono passare per un metal detector simile a quello degli aeroporti, mentre i loro bagagli, posti su un nastro trasportatore, attraversano uno scanner a raggi x. Invece i passeggeri muniti di auto devono solo mostrare biglietto e documenti al cancello. Ovviamente il terrorista kamikaze è imbecille e passa a piedi con la sua bomba e le sue armi per farsi scoprire, invece di entrare con un’auto e regolare biglietto, o magari con un camper a noleggio carico di armi, benzina, anticrittogamici e altre sostanze atte a esplodere ma non rintracciabili dagli scanner della polizia.


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Bando alle polemiche a cui mi abbandono fin troppo spesso: è il mio caratteraccio. Sono in Sardegna e mi avvio verso il campeggio, ma prima devo soddisfare la mia mattutina bramosia di dolci e caffè. Mi fermo al solito bar di Olbia, dove faccio colazione due o tre volte l’anno dopo il viaggio in nave. Dentro ci sono tre o quattro avventori, probabilmente abituali, intenti a consumare e leggere i quotidiani e, sedute a tre tavoli ravvicinati, due famiglie di turisti un po’ fuori stagione – in fondo è fine marzo – corredati di numerosa prole. Ordino un cappuccino e vado per servirmi del cornetto. Un bambino di una decina di anni, alzatosi dai tavoli dei turisti, è davanti a me, di fronte al contenitore delle paste e, incoraggiato dagli adulti ai tavoli, ne prende una in mano, la guarda e si sente dire da un genitore: «No quella non ti piace, prendi l’altra» la posa e ne prende un’altra: «questa?» «No», dice un altro adulto «quell’altra con la glassa.» La posa e ne riprende un’altra. «Allora questa?» dice. A questo punto intervengo: «Vuoi anche assaggiarla per sapere se ti piace? Forse non è il caso che le tocchi tutte visto che poi saranno altri a mangiare quelle che scarti.» Il bambino torna al tavolo e parla a bassa voce con gli adulti. Intanto ho preso la mia pasta e sono intento a consumarla insieme al cappuccino. Una signora si alza dal tavolo e mi apostrofa con accento del Nord: «Come si permette di rimproverare mio figlio?» «Signora, forse gli ho detto quello che avreste dovuto dirgli voi» rispondo piccato. «Lei non si deve permettere comunque. Chi si crede di essere? Sempre così voi sardi, non sapete stare al vostro posto. Noi turisti veniamo qui a portarvi i soldi e veniamo trattati in questo modo. Non vi vergognate?» Decido di fargliela pagare. Mi accosto alla signora, le faccio cenno con la mano di abbassare la voce e le dico: «Parli piano per favore, lei non si rende conto. Lo vede quello… ma non guardi direttamente… quello con la coppola, seduto allo sgabello che legge l’Unione Sarda e beve il caffè?» «Sì lo vedo, perché?» «Quello è un famoso bandito sardo. È il figlio di un ancor più famoso ergastolano dell’anonima sequestri. È molto suscettibile e non ama che si parli così della sua terra.» «Oddio mio.»


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«Eh, sì! L’ha combinata grossa. Ora provo a parlare con lui, deve capire che anch’io rischio grosso. Voi tutti alzatevi, pagate e andatevene rapidamente. Lasciate lì la colazione e sbrigatevi per carità. E speriamo bene!» Mi avvicino al tipo al banco, ignaro della mia piccola beffa, e gli chiedo sottovoce: «Scusi, saprebbe dirmi che strada devo fare per arrivare a Telti?» «Sì certo, ora gliela spiego» risponde gentile. Intanto vedo la signora che parla sottovoce con gli altri facendo cenno verso di noi. Poi si alzano tutti dai tavoli e praticamente fuggono dal bar lasciando sul tavolo cappuccini, cornetti, succhi di frutta e un biglietto da cinquanta euro, che ripaga abbondantemente la colazione di tutti. Mi rendo conto di avere esagerato e di non aver contribuito allo sviluppo del turismo in Sardegna, ma non ho resistito di fronte a tanta presunzione e inciviltà. Ascolto la gentile quanto inutile spiegazione, visto che non devo andare a Telti, ringrazio, termino la mia colazione, pago ed esco anch’io. Fuori non c’è traccia delle auto dei turisti. Probabilmente sono in fuga già a chilometri di distanza, se non sono tornati in porto ad acquistare dei biglietti per un ritorno immediato. Lascio Olbia e poco dopo imbocco le quattro corsie in direzione Nuoro, da lì la strada a scorrimento veloce per Lanusei e quindi svolto per Villagrande. Arrivato al paese, la strada esce dal bosco, comincia a scendere verso il mare e si mostra il panorama del golfo di Arbatax, gli isolotti rossi al centro della baia: sono arrivato a casa! Imbocco l’Orientale Sarda verso Baunei, entro in Lotzorai, giro a destra e quasi subito arrivo all’ingresso del Camping Le Ricciole. Apro il cancello con il telecomando, visto che il campeggio è ancora chiuso ai turisti. È ancora tutto in disordine, pieno di erbacce e aghi di pino, visto che dobbiamo ancora avviare i lavori per l’apertura. Solo le piante sono ben curate. Supero la reception e mi fermo davanti al corpo centrale del ristorantebar-market. Come al solito mi sento a mio agio e nel contempo straniato. Fa un certo effetto trascorrere metà dell’anno in un posto e l’altra metà in un altro. Appena scendo dalla macchina mi piomba addosso, come una furia, una figuretta bionda. Mi butta le braccia al collo, urlando:


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«Zio Fabio, zio Fabio, sei arrivato finalmente! Come stai? Hai viaggiato bene? Cosa mi hai portato? Sai che ho preso nove in storia? La mamma ha detto che posso venire con te quando esci col gommone…» La sollevo e la faccio girare mentre le dico: «Calma, Peste. Ricordati di respirare ogni tanto. Sei cresciuta ancora e sei sempre più bella. Dammi subito un bacio.» Barbara, la mia stupenda e affezionatissima nipotina, il motivo per cui continuo a valutare la possibilità di trasferirmi definitivamente in Sardegna anche per l’inverno. La copia carbone di sua zia Sofia. Arrivano anche gli altri. Francesca, la mia cognatina nonché direttore del campeggio e amministratore della “Le Ricciole S.n.c.”, di cui sono socio anch’io, mi bacia su una guancia. Michele, suo marito, mi stringe la mano e mi prende a pacche sulle spalle, cosa alquanto preoccupante, visto il suo formato XXL. «Che bello arrivare qui e rivedervi. Non ci incontriamo da Natale. Come vanno le cose?» «Tutto bene» dice Francesca «e tu hai viaggiato bene?» «Tutto bene non direi» aggiunge Michele «c’è quella faccenda…» «Sì, sì. Ne parliamo a tavola, adesso Fabio deve scaricare e sistemarsi. Dagli una mano» soggiunge Francesca. «Ma no, non mi serve aiuto. Lascio due scatoloni in officina e vado alla mia casetta» dico io «ci vediamo a pranzo. Peste, salta in macchina e vieni con me. Mi aiuti a sistemarmi e cerchiamo il tuo regalo.» «Subito zio!» Parcheggio davanti alla mia casetta, una casa mobile di sei metri per due e mezzo, due camere e bagno, con una veranda grande altrettanto, attrezzata con un angolo cottura. Abbiamo molte casette come questa, che costituiscono la parte villaggio turistico dell’attività. La mia è ovviamente molto personalizzata visto che, a differenza dei turisti, ci trascorro metà della mia esistenza. Sono situate sotto a una pineta fittissima e la mia è in prima fila sulla spiaggia, con vista sul mare. Un posto bellissimo, uno dei grandi vantaggi di questa vita. Immaginate che finché non apre il campeggio l’illuminazione notturna è spenta, tutti gli altri dormono in bungalow in muratura situati vicino all’ingresso, e io qui la sera sono completamente solo. Ascolto il mormorio delle onde, vedo affacciate sul mare le luci di Santa Maria


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Navarrese e di Arbatax, bevo un bicchiere di vino leggendo e mi rilasso: una cosa favolosa! «Zio, stanotte posso dormire qui da te?» «Adesso aiutami a scaricare.» La casetta è stata già pulita da Maria, alla quale avevo telefonato per avvertirla del mio arrivo, quindi possiamo portare direttamente dentro le mie cose. «Zio, hai sentito la zia Sofia?» «No amore mio. È tanto che non la sento.» «Zio, perché la zia se n’è andata?» «Piccola, te l’ho spiegato tante volte.» «Spiegamelo ancora. Io non capisco: non mi voleva bene? E non voleva bene a te?» «Certo che ci voleva bene.» «E allora?» «Vedi, Papera, le persone nella vita hanno un solo obbligo: tentare di essere felici. La zia era nata per avere figli. Non avrebbe potuto essere felice senza. Quando abbiamo scoperto che non potevamo averne e che dipendeva da me, io stesso le ho consigliato di lasciarmi e di trovare qualcuno con cui essere piena di bambini e felice.» Non avremmo potuto ricorrere alla fecondazione artificiale o a qualche pratica analoga. Ce lo vietava a entrambi non una questione religiosa, ma profonde convinzioni personali. La sacralità, anche se da un punto di vista laico, di concepire una vita non poteva essere svilita, a nostro avviso, da pratiche tecnologiche. Poi, in un mondo in cui il problema della sovrappopolazione minaccia di distruggere il pianeta, che una coppia non potesse avere figli ci sembrava un meccanismo di difesa della specie che non andava ostacolato. «Ma perché non viene mai a trovarci?» riprende la nipotina. «Perché lo sente come troppo doloroso: ha fatto una scelta ma anche quello a cui ha rinunciato valeva tanto per lei. Prima o poi vedrai che verrà per farti conoscere i tuoi cuginetti. Ma adesso che qui abbiamo sistemato, andiamo a cercare il tuo regalo.» «Andiamo, andiamo, andiamo!» Apro il cofano della macchina e tiro fuori un pacco lungo e stretto, incartato con carta regalo e con un bel fiocco. «Che cos’è?» mi chiede saltellando. «Aprilo e lo saprai.»


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Strappa la carta e grida: «Ma è un arbalete! È mio?» «Sì, bella Papera. È un fucile subacqueo a elastico, ed è tuo. Non potresti fare pesca subacquea alla tua età, ma visto che vieni con me da quando sei piccina, anche di notte, anche col mare mosso e hai già sparato con il mio, puoi farlo, ma solo con me. E non caricare mai il fucile fuori dall’acqua.» «Ma sì, zio, uffa, me lo ripeti da anni. Sei una pizza.» «Dimmi dove la trovi un’altra pizza che regala un arbalete a una peste di undici anni. Dammi subito un bacione.» «Eccomi» e mi butta le braccia al collo «allora mi dici se posso dormire qui stasera?» «Va bene. Se vuoi, possiamo andare a cena all’Olivastro, solo io e te.» «Che bello, che bello, che bello! Speriamo che mamma e papa dicono di sì.» «Si dice dicano e se non impari a usare il congiuntivo, con me non ci vieni più.» «Va bene. Ma Lo sai che la professoressa di lettere dice che parlo e scrivo benissimo in italiano?» «E tu continua così. Però oggi a pranzo stai tranquilla da una parte perché dobbiamo parlare di lavoro.» «Va bene zio.» «Adesso aiutami a scaricare i peperoncini.» I miei peperoncini piccanti da compagnia, quest’anno dodici piantine già sviluppate di dodici varietà diverse, con vari gradi di piccantezza secondo la scala Scoville: dai 5.000 del Jalapeňo ai 2.000.000 del Carolina Reaper. «Li mettiamo qui fuori e domani li pianterò.» «Perché porti sempre i peperoncini?» «Perché mi piace il piccante e perché questi sono peperoncini speciali. Sono da compagnia.» «Che vuol dire?» «Vuol dire che mi fanno sentire meno solo. Ci parlo, mi confido e a modo loro mi rispondono.» «Zio, tu non sei tanto normale» dice inclinando la testa di lato e squadrandomi. «E chi vuole esserlo? Tu vorresti avere uno zio normale?» «No! Con uno zio normale non mi divertirei così tanto!»


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Saliamo a pranzo e troviamo già tutti che ci aspettano, intorno al tavolo nella sala dove mangiamo sia soci che personale. «Fabio come stai?» mi chiede Stefano, l’altro socio oltre a Francesca, me, Michele e Annalisa, sua moglie. Loro non sono parenti ma amici, prima di Francesca e Michele, ormai da anni anche miei. «Bene ragazzi, e voi? Sempre più giovani vedo, e in piena forma. Pronti per iniziare?» «Pronti per andare a tavola piuttosto» dice Michele, il nostro cuoco invernale. Arrivano anche Maria e Franco, nostri dipendenti fissi per tutto l’anno, con Carlo, il loro figlio di quattro anni. «Ciao Carletto» dico «dammi un bacino.» Ci sediamo e Michele serve a tavola. «Parlatemi delle novità» dico. «La situazione e i lavori che ci sono da fare li conosci» dice Francesca «ne abbiamo parlato per telefono e per e-mail. In più c’è solo la questione a cui accennava prima Michele.» «E ti sembra poco?» aggiunge Michele. «No. Non mi sembra poco. Però nemmeno la prendo come fai tu, come una questione drammatica.» «È una questione drammatica, e penso…» «Volete, per favore, lasciar perdere i battibecchi e comunicare anche a me di cosa si tratta?» Stefano riassume la storia. In sostanza Mario Puddu, il pastore nostro vicino, che ogni anno ci affitta un’area che utilizziamo come parcheggio aggiuntivo e come accesso secondario per i fornitori, quest’anno si rifiuta di affittare. «Ha detto che se ci interessa comunque può vendercela e ha sparato un prezzo assurdo» conclude Stefano. «Ci sta ricattando» dice Michele alterato «aveva con me un accordo personale: avrebbe continuato ad affittarcela finché ne avessimo avuto bisogno o finché lui non l’avesse venduta o avesse edificato. Al prezzo concordato rivalutato ogni anno secondo l’indice ISTAT, e avremmo avuto il diritto di prelazione in caso di vendita.» «E come giustifica questa decisione?» «Dice» continua Michele sempre più agitato «che non ricorda nulla di quell’accordo, che il terreno è suo e ci fa quello che vuole. Bagassa sua!


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Con me aveva fatto l’accordo e ci eravamo stretti la mano, e ora mi fa questa offesa.» «Calmati, Michele. Non ti fa bene agitarti così» tenta di placarlo Francesca. «Sì Michele, calmati» intervengo «secondo me si tratta di un bluff suggerito da quei due banditi dei nipoti a cui la moglie dà fin troppo retta e poi tormenta il marito. Sapete di cos’è capace quella donna. Secondo me dobbiamo far finta di niente. In fondo quel terreno non ci serve fino almeno a metà luglio. I camion dei fornitori possiamo farli passare dall’ingresso principale organizzandoci bene. Andiamo a vedere il bluff. Gli diciamo che non intendiamo acquistare, che faremo a meno del terreno e che visti i tempi che corrono, il risparmio dei soldi dell’affitto ci verrà utile. Vedremo se lui sarà disposto a rinunciare a quei soldi che gli fanno tanto comodo.» «Ma aveva dato la sua parola!» ruggisce Michele. «È un poveretto, Michele, con quella moglie e con i nipoti che si ritrova. Devi essere superiore a queste cose. Voialtri cosa ne pensate.» «Si può fare.» «Sì, va bene.» «Ok. Facciamo così» si rassegna Michele. «Beviamoci sopra un bicchiere di vino. Stappa quel Prosecco che ho portato, Stefano. L’ho messo in frigorifero» concludo. «Ora che avete finito» interviene Barbara, insofferente per essere stata tagliata fuori per tutto il tempo «io stasera vado a mangiare all’Olivastro con lo zio, soltanto io e lui. Poi stanotte dormo nella sua casetta. Zio quando mi cucini qualcosa?» «Sai che hai proprio scocciato con questo zio qui, zio là, figlia mia? Comincio a essere gelosa.» «Dai Francesca, mi vede così poco, è normale… e tu, Peste: tuo padre cucina benissimo.» «Sì lo so, ma a me piace tanto la cucina romana.» «Va bene, allora la prossima settimana, quando torni, ti faccio i supplì al telefono.» «Che bello, ci vado pazza! Adesso vado a fare i compiti, ne ho tantissimi. Poi mi vesto e passo giù da te.» «Passa dopo le sette che prima devo lavorare.»


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Santa Maria Navarrese è un paesino delizioso. Una frazione costiera del comune di Baunei, il quale è posto più in alto, a mezza costa della montagna. Le case, dall’alto della collina, discendono convergendo verso un parco affacciato sul mare. Questo ospita una chiesetta dell’XI secolo e vari olivastri giganteschi tra cui uno millenario, più alcuni resti di un insediamento neolitico. Il fatto che sia abitato da così tanto tempo dimostra che è veramente un luogo meraviglioso. Dalla chiesetta guardando il mare: la strada, una sottile striscia di pineta, una spiaggetta di sabbia rossiccia e il golfo di Arbatax, con al centro gli isolotti di roccia rossa. Sulla sinistra, sulla punta, una torre di avvistamento di origine spagnola. Al di là di essa, ma non visibile, il porticciolo turistico. Ogni volta che vengo qui, penso a quella figlia del Re di Navarra che, secondo la tradizione, si rifugiò in Ogliastra per chissà quale motivo, dove fu accolta come fosse nata qui, cambiò il suo nome e fece edificare la chiesetta. Quali motivi la spinsero ad abbandonare la sua terra? Forse pene d’amore? E qui davvero trovò consolazione? Ma la streghetta al mio fianco mi distoglie dalle mie fantasticherie. «Zio, sei sempre perso tra le nuvole. Andiamo a mangiare.» L’Olivastro, al di là della strada, affacciato sul mare e coperto da enormi piante di olivo selvatico, è sostanzialmente un bar con un po’ di tavoli all’aperto e una piccola cucina. Preparano insalate, panini e, soprattutto, il ramadan. Non ha nulla a che vedere col precetto religioso mussulmano. Il nome del piatto trae spunto da una scena in un fumetto, non ricordo quale, pubblicato da Bonelli editore. Si tratta della tradizionale spianata ogliastrina: una specie di piadina poco più alta e morbida, fatta con un impasto di farina bianca e patate. Viene aperta in due metà. Se ne prende una, la si mette su una teglia con la parte interna rivolta verso l’alto e si condisce come fosse una pizza napoletana. Poi la s’inforna. Ci sono tantissimi tipi di condimenti ed è una cosa che a Barbara e a me fa impazzire. Ci sediamo al tavolo e, mentre scegliamo, ci facciamo portare una birra e un tè freddo. Fortunatamente Michele e Francesca hanno educato bene Barbara, che non ama le bevande gasate, causa, insieme a merendine e quant’altro, della silhouette esagerata di tanti bambini di oggi. Mi perdo ad ascoltare il sottofondo musicale. Uno dei punti di forza di questo locale da quando lo conosco – e sono più di quindici anni – è la


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selezione musicale: prevalentemente jazz e musica anni Settanta e Ottanta: Rock, Pop, Country Rock. Veramente delle scelte da intenditore. La Peste mi distoglie dalla mia assenza. «Zio, sono preoccupata.» «E di cosa, Paperina?» «Hai visto babbo? Si sta agitando in maniera esagerata per questa faccenda.» «Sì, è vero. Ma è fatto così. Prende fuoco immediatamente per le questioni di principio. Ma di cosa hai paura: che possa passare dalle parole ai fatti?» «No, questo no. Babbo è la persona più buona del mondo e non farebbe male a una mosca. Ho paura che possa sentirsi male quando diventa tutto rosso e si gonfia come… come… come un tacchino di quelli del cartone Tacchini in fuga» soggiunge ridendo. «Senti Peste, non essere maleducata. È comunque tuo padre e devi portargli rispetto» dico soffocando la mia di risata: immagino Michele con la cresta e i bargigli. Questa bambina è proprio speciale, ha una capacità di cogliere i problemi, ma anche il loro lato umoristico, molto più sviluppata di quella che ci si aspetterebbe alla sua età. «Comunque cercheremo di risolvere la questione, cosi resterà più tranquillo.» Inclina la testa e mi guarda pensosa per un poco, sorridendo, poi cambia argomento: «Zio, ma tu li avresti voluti dei bambini?» «Sì, amore mio. Tantissimo. Ma in modo diverso da zia Sofia. Per me sarebbero andati bene anche dei bimbi adottati, per Lei no. Ma non perché voleva che fossero del suo sangue, come purtroppo ancora troppe persone desiderano, Sofia aveva bisogno di sentirli crescere dentro di sé per nove mesi. Di partorire, di avvicinarli al seno, di godere dei primi mesi di vita che in genere sono negati a chi adotta. Io questa cosa l’ho capita con la mente, anche se non riesco a sentirla con il cuore. Forse quando sarai donna, ci riuscirai tu.» «Sai zio perché mi piace stare tanto con te?» «Per l’Olivastro, i regali, la pesca subacquea, le gite in gommone, la cucina romanesca?» «No. Queste sono cose belle ma non sono così importanti. Perché tu non mi tratti da bambina. Mi dici delle cose difficili, che a volte non capisco


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del tutto ma che mi fanno sentire grande, importante. Mi fanno pensare ad altre cose e mi fanno sentire viva.» Questa bambina è davvero molto speciale. «Parliamo di cose serie: il prossimo fine settimana, se il mare resterà calmo, ti porterò con me in acqua a raccogliere i ricci di mare.» «Ma zio, l’acqua è ancora freddissima.» «Non ti preoccupare. Tu hai già una muta da cinque millimetri. Ti ho preso guanti, calzari e una maglietta di neoprene sottomuta. Poi se il mare resterà calmo per qualche giorno l’acqua in superficie si riscalderà e noi andremo col gommone alla secca, in acqua bassissima.» «Uffa, perché devo tornare a Sassari a scuola? Non è giusto.» «Smettila. Ringrazia il cielo che fai il tempo pieno, così hai tutto il sabato libero e puoi venire per due giorni. Pensa a tua madre che deve tornare a casa solo per te, invece di rimanere qui con tuo padre. Piuttosto, continua ad andare bene a scuola così potrai venire in campeggio qualche giorno prima della fine ufficiale della scuola. Adesso andiamo a prendere il gelato e poi rientriamo.»


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CAPITOLO 2

È una bella mattina della seconda metà di aprile, e sto facendo il giro dei quadri elettrici per testare i salvavita e controllare che vada tutto bene. Siamo vicini all’apertura. Di solito apriamo il campeggio per il ponte che va dal 25 aprile al primo maggio. Quindi il sabato precedente al 25 aprile. Il mio lavoro nel campeggio è abbastanza variegato. Consiste nella manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché progettazione, dei vari impianti che costituiscono l’ossatura tecnica del campeggio. Mi occupo anche del porticciolo e delle attrezzature audio, video e luci dell’animazione. Organizzo tutta la parte informatica del lavoro e riparo i guasti. Insomma, c’è da divertirsi. Prima dell’apertura e durante il mese di maggio, quando i clienti sono pochi, faccio prevalentemente manutenzione ordinaria ed eventuali impianti nuovi. Tra giugno, luglio e agosto riparazione guasti, supporto alla parte informatizzata del lavoro, supporto all’animazione, supporto al diving e al noleggio gommoni interni al campeggio: insomma supporto tutto quello che deve essere supportato e sopporto più di quello che immaginiate, quanto a rotture dei cosiddetti. A settembre inizio, man mano che se ne va la clientela, le operazioni di smontaggio con il miraggio della fine della stagione turistica. Intendiamoci, è tutto sommato una condizione lavorativa privilegiata, immersi nella natura, con il mare a due passi e la possibilità di un tuffo, un’immersione o un giro in barca appena si ha un minuto libero. Però il rapporto con il pubblico alla lunga è molto stressante. In questo periodo, in cui non ci sono clienti tra l’altro, si lavora in mezzo agli animali selvatici: nello stagno al di là del canale c’è un tripudio di germani reali, aironi bianchi, cavalieri d’Italia, folaghe e altri uccelli acquatici che sguazzano rumorosi. Dentro il campeggio, le lepri sbucano fuori dalle loro tane sotto le roulotte in rimessaggio. I ricci s’infilano in ogni buco immaginabile per svernare, e poi li ritrovi quando inizi a rimontare, per esempio, i pali della rete del campo da tennis. Ogni tanto


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un rumore simile a quello di un trapano a percussione rivela il picchio che sta cercando insetti nella corteccia degli alberi. Di giorno fischiano i merli e di notte gli assioli. Il verso della ghiandaia assomiglia al miagolio di un gatto, e il richiamo d’amore della tortora è ossessionante. Le bisce d’acqua serpeggiano dappertutto. È una natura varia e rigogliosa quella che mi circonda mentre lavoro e, anche se via via che il campeggio si affolla gli animali si fanno vedere di meno, ho notato che, con il passare degli anni, sono diventati meno schivi. Mentre lavoro vicino al cancello d’ingresso, vedo fermarsi un furgone: è Youssuf. Apro il cancelletto pedonale e lo abbraccio: «Salam Aleikum, fratello» mi dice. «Wa`alaykum assalam» rispondo «non ti avevo ancora visto quest’anno.» «Sono venuto giorni fa e ho parlato con Francesca, ma tu eri fuori. Vedo che sei in buona forma.» «Merito degli alcolici e della carne di maiale che il tuo Dio t’impedisce di consumare. Anche Chadia è qui?» «No, è rimasta a Rabat con i ragazzi. Arriverà quando finiscono le scuole. Sono venuto con mia sorella.» «Halima! Dov’è?» «Adesso è rimasta a Tortolì, al magazzino. Aziz come al solito è a Villasimius.» Youssuf è un nostro carissimo amico marocchino. Lo abbiamo conosciuto per lavoro. Lui, la sorella Halima e suo cognato Aziz, hanno cominciato a lavorare qui in Sardegna riparando elettrodomestici, anche professionali, e vendendo pentole. Abbiamo cominciato a chiamarli anche noi per alcune riparazioni. Adesso conducono una bene avviata attività di servizi alberghieri e per la ristorazione. Hanno una sede a Tortolì e un’altra a Villasimius. Lavorano anche per il nostro campeggio. Vengono in Sardegna un po’ prima che inizi la stagione turistica e rimangono tutta l’estate. Francesca, Sonia, Michele e io siamo andati a trovarli in Marocco anni fa, prima che nascesse Barbara. Siamo stati a casa loro a Rabat, dove il padre ha un’attività di forniture alberghiere. La mamma è stata molto ospitale e ci ha fatto conoscere le specialità della cucina marocchina: couscous, tajine, pastilla e dei dolci favolosi. Poi abbiamo fatto un


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bellissimo giro del Marocco, accompagnati da Youssuf e dalla sorella. A Ressani, ai bordi del deserto, abbiamo conosciuto tramite loro dei tuareg, commercianti di tappeti e gioielli. Sono stati estremamente ospitali e, visto che era in corso la festa di matrimonio di un loro conoscente, hanno fatto portare dei vassoi carichi di cibo nel magazzino dove stavamo guardando la loro merce e abbiamo trascorso lì una serata magica. Siamo stati per ore a mangiare e a raccontarci indovinelli per i quali, abbiamo scoperto, avevano una vera passione. Una gran faticata visto che comunicavamo in francese, il loro ovviamente fluente e il nostro abbastanza stentato. Comunque, sembrava di vivere una delle novelle delle Mille e una notte: seduti su montagne di tappeti, con davanti vassoi di ogni ben di Dio, pardon di Allah, cofani di gioielli in argento che loro commerciavano, aperti a terra, narghilè accesi che qualcuno fumava. Mancava solo che qualcuno strofinasse una lampada e ne facesse sbucare fuori il genio. Ricordo con piacere che uno dei miei indovinelli fu particolarmente applaudito e dovetti spiegarlo dettagliatamente perché, mi dissero, lo avrebbero raccontato nelle tappe dei loro viaggi commerciali. Mi piace l’idea che questo sia entrato a far parte del loro patrimonio culturale, e che magari ancora si racconti nei villaggi tuareg ai bordi del deserto o nelle oasi, dal Marocco al Niger, dall’Algeria al Mali. Ma basta con le divagazioni. «Senti, Youssuf, tra tre giorni andiamo al ristorante per il pranzo di apertura della stagione. Volete venire tu e Halima?» «Grazie Fabio, ma abbiamo da fare. Poi non sono nemmeno dell’umore giusto.» «Cosa c’è che non va?» «Ciao, Youssuf. Come stanno Nabil e Kaima. Sono qui?» ci interrompe Barbara in un turbine di polvere, mentre arriva sgommando con la bici. «Sono a scuola, Peste, dove dovresti essere anche tu» le dico. «Sai che sono qui per il ponte del 25 aprile.» «Il ponte non è ancora cominciato» ribadisco «e tu stai marinando la scuola.» «Ma zio, lo dici anche tu che se vado bene posso anche saltare qualche giorno.» «Ma tu esageri e quegli irresponsabili dei tuoi genitori te lo fanno fare. Dai un bacio a Youssuf e vai a giocare che noi dobbiamo parlare di cose importanti.»


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«Vado, vado. Tanto poi mi racconti tutto. Maramao» e se ne va in bici con la ruota anteriore alzata. «Che monella che è diventata.» «Si vede che stravedi per lei, Fabio. È inutile che fingi di fare il duro.» «Sì, sì… ma dimmi, che cos’hai?» «Hai presente mio cugino Hafid, quello che beve.» «Certo che ce l’ho presente e tu smettila con queste fesserie religiose. Hafid non è un ubriacone. Beve qualche bicchiere semplicemente perché non gliene importa niente di Allah, visto che è ateo come me. A te questo non va bene perché sei un fottuto integralista.» «Non è vero che sono integralista, sono un mussulmano moderato e… ma perché parlo di queste cose con te, vorrei sapere?» Comunque mi racconta le sue preoccupazioni e poi se ne va per continuare il suo giro per clienti. Quando Youssuf se ne va, riprendo il mio lavoro e subito arriva la Peste: doveva essere in agguato. «Allora zio, dimmi di cosa avete parlato: si tratta di Hafid vero?» «E tu come fai a saperlo? Sei stata a origliare?» «Ma no, è facile: Youssuf lo critica sempre ma gli è affezionato, e Hafid è venuto qui giorni fa, tu non c’eri, ed era distratto e pensieroso. Sai che lui è sempre allegro e sorridente. Poi scherza sempre con me: mi vuole bene. Invece non mi ha nemmeno guardata, ha salutato mamma, chiesto di te e, sentito che non c’eri, se n’è andato. Secondo me è molto preoccupato.» «È la stessa cosa che mi ha detto Youssuf. Mi ha chiesto di parlare con lui e provare a vedere se con me si sbottona.» «Bene, allora ci andiamo insieme. Prendi la macchina.» «Frena, ragazzina. Innanzitutto, Hafid è in Marocco e torna a fine maggio. Poi è meglio che ci vada solo io. Mi ha cercato e quindi può darsi che voglia parlare con me. Non è detto che lo farebbe se ci fossi anche tu. Quindi tu non vieni.» «Uffa, perché hai sempre ragione? Va bene, facciamo così. Ma dopo che avrai parlato con lui mi racconterai tutto. Prometti!» «Promesso, e adesso vuoi continuare a fare la scansafatiche, oppure mi aiuti? Passami quel cacciavite a croce.» «Di chi è il brano che stai ascoltando con il soundbox? Di Janice Joplin?» «Bravissima, piccola DJ.»


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«Bella forza. La musica che ascolto è quella che ho sempre sentito con te. L’anno scorso mi hai riempito l’Iphone nuovo.» «Perché, ti dispiace?» «Certo che no. Sono musiche bellissime. Non mi piace nient’altro.» Dopo un poco un’auto, una Golf verde, si avvicina al cancello. «Chi è ancora? Abbiamo finito il quadro dell’illuminazione ma ci manca ancora in quadro generale.» «Saranno turisti. Digli che siamo ancora chiusi» prorompe Barbara spazientita. L’auto accosta, si ferma ed esce una ragazza. «È ancora chiuso» le faccio avvicinandomi al cancello «apriamo tra qualche giorno.» «Non sono una turista» risponde «a giugno verrò a lavorare qui con Roberto, al diving» dice spigliata con un sorriso. Alta quasi quanto me, una nuvola di capelli rossi ricci, occhi grandi, verde intenso, in un viso a cuore. Giovanissima all’apparenza, sembra una liceale, ma s’intuisce che è più grande, anche se non di molto. Il fisico, beh: fa piacere guardarlo. «Ti apro il cancello, entra pure.» «Piacere, sono Claudia Spinali» mi informa tendendomi la mano. Ha una stretta ferma, solida, quasi maschile, che contraddice la sua aria da ragazzina. «Sono Fabio, Fabio Marella e lavoro qui, tra l’altro anche molto a contatto con il diving.» «Bene, allora puoi farmi vedere qualcosa.» «Adesso devo finire un lavoro per una mezz’ora, poi posso farti da guida e, se hai l’attrezzatura con te, possiamo anche fare un’immersione.» «Sarebbe bellissimo.» «Allora ti apro: porta dentro la macchina, mettila al parcheggio, poi fatti un giretto. Ci vediamo qui alle dieci.» «Fabio, ti sbrighi a finire questo lavoro?» mi fa la Peste. Me lo aspettavo. «Barbara, vieni a salutare. Lei lavorerà qui con noi.» «Chi è questa bella bambina?» chiede Claudia, amichevole. «Non sono una bambina e qui non possiamo perdere tempo.» «Barbara, che modi sono questi?» le chiedo. «Mi hai stufato anche tu. Me ne vado!» monta sulla bici e parte come una furia. «Ma cos’ha?» chiede Claudia.


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«È gelosa» rispondo «sono il suo zio preferito e non sopporta che mi si avvicinino altre femmine.» «E succede spesso?» «No, perché sono un tipo timido e introverso, non trovi anche tu? Ci vediamo più tardi.» Cerco la Peste e la trovo rintanata in officina. «Cosa stai facendo qui? Non ti sembra di esserti comportata da maleducata?» «Dimmi tu cosa fai! Non pensi a zia Sofia?» «Ci penso sempre, amore mio. È lei che non pensa più a me.» Più tardi sono alla darsena. Così chiamiamo il canale, a un bordo del campeggio, dove abbiamo una decina di posti barca. Per il resto utilizziamo un campo boe in mare, a duecento metri da riva. C’è un magazzino di legno, dove sono riposte le attrezzature del diving. Roberto, a cui lo abbiamo dato in gestione, arriverà tra qualche giorno. Ci sono anche quattro cabine per spogliarsi e da una esce Claudia in costume da bagno: confermo che vale la pena di guardarla. Peccato che sia troppo giovane per me. È una bella giornata, il solito vento di mezza mattina non si è alzato. Il maestrale dei giorni scorsi ha reso l’aria limpida e pulita. Carichiamo l’attrezzatura sulla mia barca e ci avviamo. Esco piano dal canale e aumento la velocità già distante dalla riva. Sul mare piatto come l’olio, la barca plana che è una bellezza. Mi sento libero e spensierato. È la prima volta, da quando Sofia se n’è andata, che vado in giro con una ragazza che, diciamolo francamente, mi interessa. Ho passato questi anni concentrato su me stesso e sulla nostra storia finita, senza curarmi dell’altra metà del mondo. Chissà, forse è ora che cambi qualcosa. Costeggiamo la parete rocciosa diretti verso Capo di Monte Santo. Nonostante siamo proprio agli inizi della stagione turistica, circolano già molte barche e la navigazione è disturbata dalle scie di barche, gommoni e battelli che trasportano turisti in gita verso le cale più famose di questa costa selvaggia e quasi irraggiungibile da terra. «Sei mai stata da queste parti?» le chiedo mentre guarda ammirata la parete costellata di grotte grandi e piccole. Intorno a quelle più in alto svolazzano uccelli che le hanno elette a loro residenza.


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«No mai. È una costa stupenda.» «Avrai occasione di vedere le cale che ci sono oltre il capo, nel golfo di Orosei. Sono favolose anche se, purtroppo, sempre piene di turisti.» Scendo dalla planata e accostiamo alla boa che segnala il punto dell’immersione che ho scelto. Claudia l’aggancia con il mezzo marinaio, inchinata a prua offrendo una splendida visione del suo lato B. Forse è veramente ora che qualcosa cambi per me. Sono troppo concentrato su certi aspetti: devo recuperare l’equilibrio prima di arrivare allo stalking. Sai che figuraccia. Spengo il motore, ormeggio la barca con una cima e iniziamo a prepararci. Nell’indossare la muta e il resto dell’attrezzatura, Claudia denota il piglio di una professionista. Effettuiamo il consueto controllo reciproco ed entriamo in mare. In acqua ovviamente niente dialogo, a parte i segnali convenzionali e qualche stretta della sua mano sul mio braccio. Quando usciamo però, appena tolta la maschera, mi sommerge con un diluvio di esclamazioni: «Fabio, è stato bellissimo! Io di immersioni ne ho fatte veramente tante, ma questa è stata tra le più belle! Grazie di avermi portato qui!» «Quando tornerai, spero che ce ne saranno delle altre.» «Lo spero anch’io» mi risponde con un mezzo sorriso e uno sguardo obliquo, mentre inizia a togliersi la bombola.


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CAPITOLO 3

È una giornata ventosa. Uno scirocco teso spazza il mare, creando increspature e sbuffi di spuma che cospargono la distesa azzurra di macchie bianche: le ochette, come vengono chiamate dagli esperti di vento. Nell’interno probabilmente sarà caldissimo ma qui, visto che lo scirocco tira da mare, il tasso dell’umidità è alto ma la temperatura percepita è nettamente più bassa di quella di ieri. Per un meteoropatico come me è quasi il massimo della depressione. Peggio di così solo quella pioggerellina autunnale, leggera ma persistente, che rende la giornata triste e uggiosa. Il campeggio è aperto da poco più di un mese. L’afflusso dei clienti corrisponde più o meno alle nostre previsioni, quindi per il momento siamo abbastanza tranquilli. Dal punto di vista meteorologico l’andamento è buono e le previsioni pure, anche se di quelle a media scadenza a livello locale non c’è molto da fidarsi. In questo momento i miei lavori di preparazione e di manutenzione ordinaria e straordinaria sono perlopiù ultimati. L’animazione non è ancora iniziata, quindi il mio impegno di collaborazione con loro anche. C’è la riparazione di eventuali guasti, sta iniziando la collaborazione con Roberto che gestisce il diving, il porticciolo e il noleggio gommoni, il quale è arrivato da poco e si sta organizzando, ma comunque per me poco da fare. Insomma, mi sto godendo un momento di pausa. Tra qualche giorno penserò che siano le ultime parole famose. Comunque, per ora sono abbastanza inoccupato. Youssuf mi ha telefonato per avvertirmi che Hafid è rientrato dal Marocco, quindi lo chiamo. «Pronto Hafid? Sono Fabio. Allora, sei rientrato dal Marocco? Avresti anche potuto chiamarmi… mi hanno detto che mi avevi cercato ad aprile. Anch’io vorrei parlarti. Ascolta: va bene se passo a casa tua oggi? Sì, lo so che lavori dal carrozziere. Passo subito dopo pranzo, alle due. Va bene. A dopo. Ciao.»


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Riprendo a sistemare l’officina. Mi arriva una chiamata per radio. Durante la stagione qui in campeggio siamo tutti collegati con i walkietalkie.» «Fabio, vieni qui che ti cercano» mi chiama Annalisa dalla reception. Arrivo e vedo una Golf verde ferma davanti alla reception e una testa rossa che mi sorride e mi tende la mano. «Ciao Fabio.» «Claudia, che piacere. Sei pronta per la stagione? Roberto è arrivato due giorni fa e sta sistemando l’attrezzatura del diving» il mio umore è sensibilmente migliorato. «Ti voglio ancora ringraziare per l’accoglienza di aprile. L’immersione mi è piaciuta moltissimo.» «Neanche a parlarne.» «Senti, ma tu in acqua sei proprio bravo. Come mai non hai il brevetto d’istruttore?» «In realtà non mi interessa. Ho preferito prendere altri brevetti tecnici per imparare a fare le cose che mi piacciono. Ma adesso vai a scaricare la macchina e a sistemarti. Ci vediamo dopo a pranzo. A proposito, si mangia tutti insieme in quella costruzione lì all’una.» «E tua nipote dov’è? È ancora gelosa?» «Barbara è a Sassari, a scuola. Verrà domani, e non è realmente gelosa, su tante cose è più grande della sua età ma su altre è ancora molto bambina.» «Vado a sistemarmi, a dopo.» «Vedo che ti interessa la bella istruttrice» commenta Annalisa appena Claudia è andata via. «È una bella ragazza ed è simpatica, ma non c’è niente.» «Allora vedi di fare in modo che ci sia qualcosa. Sono stufa di vederti solo come un cane.» «Annalisa, lo sai com’è.» «Fabio, se n’è andata da quattro anni. È ora che superi la cosa. Tu non sei fatto per stare solo.» «Nessuno è fatto per stare solo. Succede… e poi non sono solo. Ho la mia fidanzata ufficiale: Barbara. Tu se volessi potresti essere la mia amante in titolo.» «Scemo.» Alle due suono al citofono di Hafid, a Lotzorai. «Sali su» mi apre il portoncino.


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Salgo le scale pensando a quanto sono legato ad Hafid. L’ho conosciuto che era poco più di un ragazzino, quindici anni fa, in Marocco. Ma da quando è venuto a lavorare qui come dipendente di un carrozziere ci siamo ritrovati vicini nonostante la differenza di età. Mi piace il modo disincantato e ironico con cui guarda alla vita, la maniera in cui si incazza verso le intolleranze religiose, etniche e sessuali. È un ragazzo limpido e coraggioso. Anche se beve più di quello che ho detto a Youssuf, e fuma anche troppo. «Hafid» dico entrando «come mai sei andato a casa dai tuoi? Come stanno?» «Più vecchi di come li ricordi tu. Ci penso io a farli invecchiare.» «Cioè?» «La solita faccenda: non sono un buon mussulmano. Anzi non lo sono affatto. Ho parlato a loro di quello di cui vorrei parlare anche a te e l’hanno presa molto male.» «Hai deciso di arruolarti nei marines e andare a combattere contro i tuoi fratelli di fede?» «Non fare l’idiota. Siediti che ti spiego» e appena seduti continua: «ho conosciuto una ragazza qui in Sardegna.» «Hafid, tu hai conosciuto moltissime ragazze non solo qui in Sardegna, a quanto ne so io, e parlo di conoscenza biblica.» «Mi sono innamorato» taglia corto alle mie battute. «Ah, questa è una cosa nuova. Ma è meraviglioso! Congratulazioni amico mio.» «No, è un gran casino. Suo padre non vuole, dice che è perché io sono povero e miro solo ai suoi soldi. In realtà è un gran razzista. Inoltre, la sua famiglia è cattolica e la mia è mussulmana. I miei hanno detto che non accetteranno mai che io cambi religione per sposarmi: ne morirebbero.» «Porca miseria, non ci avevo pensato. È proprio un gran casino.» «Fabio, mi devi aiutare. Solo tu puoi farlo. Tu hai sempre delle idee brillanti. Inventa qualcosa.» «Va bene Hafid, ci proverò. Tanto non c’è una grande fretta.» «C’è una cosa che non ti ho detto.» «Con quel tono mi fai preoccupare.» «As…t…n…g…o» dice a voce bassissima. «Non ho capito. Alza la testa e parla più forte.» «Aspettiamo un figlio…»


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«Dammi subito qualcosa da bere. Qualcosa di forte.» «Tieni» mi porge la bottiglia del brandy. «Per una volta non potevi tenere i pantaloni allacciati?» «Ti prego, aiutaci.» «Di quante settimane è?» «Quindici.» «Allora ancora un pochino di tempo c’è. Però voglio conoscerla, la futura mamma intendo. Come si chiama.» «Elisa. Elisa Manca di Lanusei. Il padre, Andrea, ha un ingrosso di bevande, la madre, Giovanna, torinese, è insegnante.» «Allora ci vediamo tra qualche giorno qui con Elisa. Io intanto comincio a pensare a qualcosa.» «Fabio, sei un amico» mi dice abbracciandomi «adesso ti saluto che devo andare al lavoro. Ci mancherebbe solo di perderlo in questo momento.» Torno in campeggio pensieroso: la questione è difficile. Certo, poveri ragazzi. Montecchi e Capuleti: sempre attuale. Possibile che una cosa così bella come innamorarsi e aspettare un figlio debba essere rovinata da queste assurdità? All’ingresso trovo Efisio che è venuto a trovare Franco. Efisio Lai, detto Stone Man perché si è costruito una casa tutta in pietra, sia all’esterno che all’interno, e si dice che sia fatto tutto in pietra anche ai suoi piani alti, è un nostro vicino. È motorista da tutta la vita, imbarcato per molti mesi l’anno su navi mercantili, in giro per il mondo. «Ben arrivato» lo saluto «quando riparti?» aggiungo, visto che spesso la sua permanenza a terra è breve. «Non riparto più, Fabio. Sono in pensione, e dal mio ultimo viaggio mi sono riportato una moglie. Ti presento Lyudmila, è moldava. Ci siamo conosciuti a Odessa e l’ho sposata.» Dalle sue spalle spunta una donna molto più giovane di lui, un’alta bellezza slava che mi stringe la mano, mentre Efisio, basso, grasso, pelato, capelli bianchi, parla con Franco. Con un italiano esitante e fortemente accentato mi dice: «Piacere.» «Piacere mio» rispondo «ti trovi bene in Italia?» «Bene dove si mangia, no bene dove fame.» «Ho capito, non devi spiegarmi altro» e mi incammino verso la mia casetta. Quest’incontro mi fa pensare a mio padre. Da bambino e fino a quando morì, mi raccontava del campo di concentramento durante la Seconda


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guerra mondiale. Era stato catturato dai tedeschi durante il rastrellamento del Quadraro operato a Roma nel ‘44 come rappresaglia per un’azione partigiana. Raccontava tanti episodi drammatici e divertenti delle sue vicissitudini, ma tra tutti il più significativo era quello della fame. Fame che non aveva sofferto in Germania, dove era stato mandato a lavorare in fabbrica, ma in Italia, nel campo di smistamento di Fossoli, dove rimase tre mesi, nutrito con un bicchiere di brodaglia al giorno e un pezzetto di pane la settimana. Lì compì vent’anni. Molti, più grandi di lui, magari di estrazione sociale superiore – mio padre era figlio di un manovale – e abituati a mangiare meglio, non sopravvissero. La fame era l’incubo di mio padre. Lo ricordo che diceva: «Io ancora oggi smetto di mangiare perché so che ho mangiato abbastanza ma non provo mai senso di sazietà. Ho sempre fame.» Le nostre generazioni di occidentali, nate successivamente al Secondo dopoguerra, non conoscono cosa significhi aver fame. Per noi la fame è un concetto astratto, una citazione letteraria, non una cosa concreta. Una cosa che può spingere una giovane e bella ragazza a sposare un vecchiaccio per poter mangiare. Più avanti, mentre percorro il sentiero che conduce alla mia casa mobile, un cliente mi ferma: «Fabio, posso parlarti un momento?» «Dimmi, Biagio. Cosa c’è?» È Biagio Cerasa, milanese, da poco pensionato, vecchio cliente stagionale, pescatore amatoriale. Uno di quelli fissati, che passano tutta la stagione a preparare, calare in mare al tramonto, uscendo con la barca, e ritirare all’alba i palamiti o coffe. Questi consistono in un filo di nailon spesso che può essere lungo anche centinaia di metri a ciascuna delle cui estremità sono fissati con altro filo un grosso galleggiante e un grosso peso. A intervalli regolari sono legate delle lenze più piccole, a cui sono fissati degli ami. Prepararli con le esche, calarli in mare e ritirarli sono lavori impegnativi e lui, come molti altri, fa tutto questo ogni giorno, mare permettendo, per mesi e mesi, riportandosi a casa freezer pieni di pesce. Tecnicamente quelli come lui non violano la legge sulla pesca amatoriale, che prevede un numero massimo di ami calati per barca e un quantitativo massimo di pesce pescato ogni volta. Solo che facendolo per tutto quel tempo di seguito depredano il mare. Io tento spesso di farli rallentare, suggerendogli di dedicarsi anche ad altro: gite in barca per


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esempio. Ma quelli hanno in mente una cosa sola e continuano imperterriti. Non si tratta del gusto di avere il pesce a tavola, che diversi di questi nemmeno lo mangiano, ma proprio di un atteggiamento predatorio. Anni fa veniva in campeggio un romano che amava andare a polpi. Ci andava tutti i giorni e tutti i giorni ne prendeva due o tre, poi li regalava. Pensate quanti polpi prendeva in una stagione. Un altro caso: mi capitò d’incontrare un cliente bolognese, che amava andare a traina col gommone. Gli chiesi come andava la pesca e mi rispose che non si trovavano più i barracuda. Gli risposi: «Certo, li hai pescati tutti tu.» «Ma cosa dici, Fabio?» «Il conto è presto fatto: c’era un branco di barracuda che girava da anni intorno a quell’isolotto dove vai tu a traina. Ne hai pescati uno o due al giorno tutti i giorni per più di due mesi e di barracuda sono finiti.» «Ma non dire fesserie. Le risorse del mare sono infinite» concluse. Questa è la convinzione che ha molta gente. E invece le risorse del mare non sono infinite, anzi, stanno proprio finendo. Non dico che questo dipenda tutto dai pescatori amatoriali ma anche questi, se hanno un atteggiamento sconsiderato e predatorio, fanno la loro parte. «Si tratta del posto barca» mi dice Biagio «non potrei, per la mia barca, averne uno nella darsena invece che nel campo boe? È scomodo ogni volta dover andare a prenderla col barchino per uscire a pescare.» «Biagio, sai che i posti nella darsena sono pochi e sono già tutti assegnati. Per darlo a te dovrei toglierlo a qualcun altro.» «Ma non è giusto.» «E cosa dovrei fare, metterli all’asta al migliore offerente? Sai che li sorteggio tra tutti quelli che ne fanno richiesta prima dell’apertura del campeggio.» «Allora non c’è niente da fare?» «Niente, mi dispiace.» Arrivo alla mia casetta, mi cambio e vado ad annaffiare i miei peperoncini. Come al solito racconto loro la giornata: i guai di Hafid, Lyudmila che ha sposato un vecchio per venire in Italia e mangiare, i campeggiatori che mi assillano, Claudia sempre più simpatica ma che certo non perderà tempo con uno molto più grande di lei come me. Stasera mi guardano, bevono l’acqua ma sono pensierosi e poco loquaci.


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CAPITOLO 4

È arrivata la polizia in campeggio. Sono le otto di mattina e salgo al bar per fare colazione. Il nostro barista mi avverte: «Sono venuti i poliziotti. Sono andati a perquisire il bungalow di Michele e Francesca.» Arrivo in reception dove trovo due volanti con i lampeggianti accesi che bloccano il vialetto e Annalisa si precipita tra le mie braccia, tremante, dicendomi con voce spezzata: «Sono arrivati alle sette e mezza, quando stavo aprendo. Sono andati a perquisire da Francesca.» Ci sono automobili di clienti in coda per uscire e per entrare. Mi rivolgo ai due poliziotti fermi lì e li interpello gentilmente: «Le vostre auto ferme così bloccano l’accesso al campeggio: è necessario spostarle.» «Come si permette?» mi risponde un uomo anziano, in borghese, vicino a loro «chi è lei? Favorisca i documenti.» «Sono della direzione del campeggio. Avete un mandato per sequestrare la struttura o per interromperne l’attività?» dico, estraendo il portafogli per mostrare la carta d’identità. Il poliziotto in borghese fa per strapparmela di mano ma intervengo: «Cominci intanto con il qualificarsi. Io non la conosco e non so con quale autorità mi sta chiedendo il documento.» «Sono il vice sovrintendente Piras» mi dice, estraendo e mostrandomi per un secondo qualcosa che appare come un distintivo. Mi rendo conto di non salire nella scala del suo gradimento ma insisto: «Piano, non ho visto nulla.» Quello, incazzatissimo chiama i due agenti: «Careddu e Chessa, ammanettatelo.» «E con quale imputazione?» chiedo. «Resistenza e oltraggio per esempio. Imputazioni ne trovo quante ne voglio» ribatte. Evidentemente non è una cima, e questo spiega come sia ancora vice sovrintendente a un passo dalla pensione.


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«Bene, proceda pure. A parte i numerosi testimoni» indicando il capannello di clienti che si è formato «ci sono le telecamere di sicurezza che qui in direzione sono dotate di microfono. Vedremo come riuscirà a giustificare questo arresto davanti ai suoi superiori.» Nel frattempo, arriva il nostro avvocato in auto. Scende e interviene: «Cosa sta accadendo qui? Sono l’avvocato Pinna. Rappresento il signor Marella e i signori Piredda e curo gli interessi del campeggio Le Ricciole, di cui state bloccando l’attività con le vostre auto parcheggiate all’ingresso. Ho appena parlato al telefono con il vicequestore De Rosa. Mi risulta che voi abbiate un mandato di perquisizione per l’abitazione e l’ufficio del signor Piredda ma che non siate autorizzati a interrompere l’attività di un pubblico esercizio. Chieda conferma in commissariato se non mi crede, ma faccia spostare subito le volanti.» Quello si allontana con la coda fra le gambe telefonando, mentre Antonio si avvicina: «Mi ha chiamato Francesca alle sette e mezza. Ha detto che questa notte hanno arrestato Michele, non sa dove, e ora hanno un mandato di perquisizione.» Il poliziotto in borghese ha finito la telefonata e fa spostare le volanti ma mi guarda con odio. Mi avvicino ad Annalisa e a Stefano, che intanto è sopraggiunto. «Voi rimanete qui e fate funzionare l’attività. Io vado a vedere con Antonio.» Raggiungiamo l’ingresso dell’alloggio di Michele dove troviamo, fermi lì davanti, un altro poliziotto in borghese e due agenti in divisa insieme a Francesca che si precipita ad abbracciarmi piangendo. «Fabio, sono arrivati, mi hanno riferito che hanno arrestato Michele stanotte, sul luogo del delitto e devono perquisire il nostro bungalow. Io gli ho detto che dovevano aspettare l’arrivo del nostro avvocato e ho chiamato Antonio.» «Ma quale delitto?» «Hanno ucciso Mario Puddu.» «Cazzo» dico «comunque sei stata bravissima, ora cerca di calmarti.» Intanto Antonio parla con i poliziotti e si fa mostrare il mandato. «Per fortuna Barbara stanotte è venuta a dormire giù da me. Ora vai a tranquillizzarla, Francesca.» «Fermi» dice quello in borghese «c’è un’altra abitazione, dobbiamo perquisire anche quella.»


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«No!» dice l’avvocato «voi avete un mandato che riguarda soltanto l’alloggio del signor Piredda Michele e non tutto quello che volete. Quello di cui stiamo parlando è l’alloggio del signor Marella Fabio, qui presente, il cognato e quindi di sua esclusiva pertinenza. Il fatto che ci stia dormendo la figlia del Piredda, sua nipote, non costituisce titolo di proprietà o di pertinenza del soggetto del mandato di perquisizione.» «Va bene, ora è chiaro. Però nessuno dei due si può muovere di qui per ora.» «Sono in arresto?» «No avvocato, ma è in corso un’operazione di polizia che riguarda il loro congiunto e possiamo aver bisogno di ascoltarli come persone informate dei fatti.» «Ok. Francesca e Fabio dovete restare qui a disposizione. Mandate qualcun altro da Barbara.» «Ci penso io, avvocato» dico, e telefono. «Claudia, sono Fabio. Devi fare una cosa importante: vai alla mia casetta, dove sta dormendo Barbara, e aspetta che si svegli. Le prepari la colazione, le spieghi che siamo impegnati in un’emergenza e poi rimani con lei. Magari la porti in spiaggia. Per questa mattina lascia stare il diving. Poi ti spiego.» «Va bene Fabio, ma quando puoi mi racconti tutto.» La perquisizione si svolge lentamente. I poliziotti sono precisi e metodici. Antonio controlla e intanto parla con quello in borghese che pare sia un ispettore. Non riesce però a farsi dire nulla dei particolari della vicenda. Solo che Michele è stato arrestato la scorsa sera alle undici e mezza perché è stato trovato sul luogo del delitto. Sarà ascoltato più tardi dal sostituto procuratore. Prendo da parte Francesca e le chiedo se sul portatile di Michele c’è qualcosa d’importante per il lavoro, ma mi dice che ha tutto il materiale sul cloud a cui anche lei ha accesso. La invito a scaricare al più presto il materiale sul suo PC prima che il magistrato decida di bloccare gli archivi sul web. L’ispettore chiede di vedere il luogo di lavoro di Michele. Francesca e Antonio lo accompagnano. Io vengo bellamente ignorato e me la filo all’inglese. Vado in reception a verificare che tutto proceda bene e aggiorno Annalisa e Stefano. Poi scendo in spiaggia, dove trovo Claudia con


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Barbara. Prendo la nipotina con me, facendo cenno alla ragazza che le avrei parlato più tardi. Racconto a Barbara la vicenda senza nasconderle nulla, ma cercando di non drammatizzare. Scoppia comunque in lacrime e la coccolo un po’. «Adesso» le spiego «bisogna essere forti per aiutare il babbo. Piangere non serve a nulla. Dobbiamo ragionare e cercare di capire. Oltretutto tua madre è preoccupatissima e comunque non può tralasciare molte delle cose di cui si occupa per gestire il campeggio.» «Al diavolo il campeggio! Il mio babbo è in prigione.» «Sì, ma sai quanto è legato al suo lavoro, e anche la tua mamma. Quando uscirà, dovrà trovare le cose che funzionano al meglio. Se tu ti disperi, non fai altro che aggiungere un’altra preoccupazione a tua madre. E anche a tuo padre quando lo saprà. Sei una ragazza in gamba ed è il momento di dimostrarlo.» Si asciuga gli occhi, tira su col naso e mi dice: «Hai ragione zio, ma tu mi devi promettere che lo farai uscire da lì. Tu sai fare tutto. Fai anche questo per me.» «Te lo prometto, amore mio.» «E mi permetterai di aiutarti. Lo sai che anch’io ci so fare.» «Va bene. Per il momento devo cercare di sapere tutto quello che è possibile sulla vicenda. Intanto, tu devi stare tranquilla, aiutare la tua mamma e tenere le orecchie aperte. Non chiedere nulla ma ascolta tutto quello che senti dire sull’accaduto, anche dai campeggiatori, magari tramite i loro ragazzi, tu li conosci tutti, e poi riferisci a me. È una cosa importante e ti devi impegnare.» «Agli ordini, zio. Adesso vado su da mamma.» Perlomeno, dandole qualcosa da fare, riesco a tenerla occupata e a non farla disperare. Ma c’è proprio da disperarsi. Michele in prigione! Accusato di una cosa così orribile poi. Cosa si può fare? Devo mantenere la calma anch’io. Bisogna saperne di più. È necessario aspettare che torni l’avvocato. Sicuramente sarà andato ad assistere all’interrogatorio. Vado a cercare Francesca. Nel frattempo, incontro Claudia. Evidentemente mi stava cercando e mi chiede subito cosa stia accadendo. Le riassumo brevemente la situazione e lei rimane sbalordita. «Una cosa terribile! Michele poi… non è possibile, una persona così tranquilla e gentile. Tu cosa ne pensi?»


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«Ne so ancora troppo poco per pensare qualcosa. Certo non credo affatto che possa aver fatto una cosa del genere. Nonostante la mole e l’aspetto, è la persona più innocua del mondo. Michele e la violenza abitano su due pianeti diversi. Potrei immaginarlo usare le mani solo per difendere sua moglie e sua figlia. Ma non credo che sarebbe capace di farlo in altre circostanze. Nemmeno per difendere sé stesso.» «Ho avuto di lui la stessa impressione. Cosa possiamo fare?» «Non molto finché non ne sappiamo di più. Se ti va, fai il giro di tutti i dipendenti e riferisci quello che ti ho detto in modo che siano informati dei fatti e che non circolino versioni fantasiose.» «Va bene, vado. Fabio, se ti serve qualche altra cosa, non hai che da chiedere.» «Grazie» la sua disponibilità e il suo mesto sorriso mi sollevano un poco. Trovo Francesca nel suo ufficio. La polizia è andata via e Antonio l’ha seguita in commissariato. Barbara è con lei e sono abbracciate. «Fabio che facciamo?» mi chiede. «Non lo so» dico sconsolato, poi cerco di recuperare: «dobbiamo saperne di più. Per ora aspettiamo che torni Antonio e ci dica qualcosa. Cercate di stare tranquille. Troveremo una soluzione.» «Fabio, si è guastata una pompa dei reflui al pozzetto principale» mi chiama Annalisa per radio. «Vado subito» le rispondo e continuo con le mie fanciulle: «ci vediamo a pranzo. Provate a telefonare ad Antonio e vedere se vi risponde» e vado a occuparmi di questo guasto. A pranzo sono tutti mogi e la conversazione langue. Barbara e Francesca hanno gli occhi rossi e mi avvertono che Antonio non è ancora tornato e non riescono a contattarlo. Le convinco a pazientare. Mamma e figlia vanno via subito dopo mangiato. Stefano mi apostrofa: «E allora?» «Non lo so. Tiriamo avanti finché non si sa qualcosa di più.» Mi alzo da tavola anch’io e me ne vado a fare una passeggiata per schiarirmi le idee. Automaticamente, assorto, arrivo a mare. In spiaggia da noi ci vanno quasi soltanto i clienti del campeggio, quindi, dato l’orario, c’è pochissima gente. Tre o quattro ombrelloni vicini e una famiglia, più in là, sul bagnasciuga.


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Avete osservato che se andate in una spiaggia vuota e vi sistemate in un punto, quelli che arrivano dopo di voi sicuramente si piazzano a meno di dieci metri? Chissà, forse la gente ha paura della solitudine, o forse pensa che chi è arrivato prima di loro abbia scelto il posto migliore e quindi si debba imitarlo. Vicino agli ombrelloni si crogiolano alcune ragazze e signore distese a prendere la tintarella. I mariti su sedie a sdraio da spiaggia, cappello in testa, leggono il giornale. Sulla battigia una famiglia, sicuramente tedeschi: una coppia giovane con tre figli di età a scalare, biondissimi. I tedeschi sono prolifici, forse anche perché se lo possono permettere visti gli stipendi e i servizi sociali come i kindergarten erogati dallo Stato e dalle aziende. Questi si godono il mare, con un clima che per loro è sconosciuto, sguazzando tutto il giorno con i figli. Il mare è una tavola, appena uno sciabordio a riva, cosa insolita a quest’ora, quando un poco di brezza di solito si alza anche in giornate buone. Fuori dalla baia, a largo, un mercantile procede verso sud, diretto chissà dove. Più vicino le scie di due gommoni s’incrociano. Un volo di gabbiani. Il mare! Il mio amico, il mio fratello, la presenza che scandisce la mia esistenza anche quando, come d’inverno a Spoleto, ne sono lontano. Lontano a lungo non riesco a starci e ogni tanto devo partire per raggiungerlo. Da bambino, a Roma, il mare era un’entità geograficamente vicina ma assente. Non ritmava l’esistenza come fa per molti di quelli che vivono nelle città di mare. Un mese l’anno, ad agosto, a Fregene, fino ai nove anni. Poi, con la morte di mio padre, con mio fratello e sua moglie sull’adriatico, a Francavilla. Bellissima vacanza, divertente, ma il mare era solo una parte della villeggiatura, non segnava la mia vita. Ai diciotto anni una vacanza, una settimana prima degli esami di maturità all’Argentario con gli amici ha cambiato tutto questo: mi ha cambiato per sempre. Lo confesso, ho fatto, o meglio i miei genitori hanno voluto che facessi, la primina. Quindi in quinta liceo ero il piccolino della classe, tutti con la patente e io ancora no. Dopo il tour de force di preparazione agli esami, decidemmo di concederci una settimana di campeggio libero al mare prima dello sforzo finale. Io decisi di partire un giorno avanti agli altri. In treno fino a Orbetello, poi con pullman e autostop raggiunsi, zaino in spalla, il luogo designato: un angolino sulla punta del promontorio dell’Argentario, dove si riusciva ancora a fare


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campeggio libero indisturbati. Ebbi modo di trarre soddisfazione dalle mie capacità organizzative e di autosufficienza. In poco tempo sistemai le mie poche cose, andai a fare un bagno e mi preparai la cena. A tre coppie di ragazzi più grandi di me, arrivati poco dopo con tre auto e una montagna di attrezzatura, dovetti prestare martello, apriscatole, cavaturaccioli e quant’altro mentre loro, indaffarati nella sistemazione del campo, invidiavano i fagioli con pancetta che stavo mangiando, seduto sul sacco a pelo. Ma altre, e ben più significative soddisfazioni, mi aspettavano. Il giorno dopo arrivarono i miei amici con la macchina e cominciò davvero quella vacanza. Lì conobbi e capii il mare. Non so perché accadde, forse per il viverci accanto giorno e notte e sentirne continuamente la presenza, il mormorio. Forse perché per la prima volta ero solo con lui, senza la mediazione dei miei familiari, senza qualcuno che si assumesse per me la responsabilità di dirmi che rapporto potevo avere, se potevo bagnarmi o se era troppo agitato. O fu per quell’episodio così lontano, ma così presente anche oggi nella mia mente. Ero uscito per una nuotata. Fuori della baia una forte corrente trasversale portava a largo e anche le mie ottime capacità di nuotatore potevano non essere sufficienti. Mi trovai in seria difficoltà ma riuscii ad avere la freddezza di calcolare che invece di forzare la corrente avrei dovuto quasi assecondarla nuotando in modo leggermente trasversale fino alla punta opposta dell’insenatura, dove necessariamente avrei trovato una corrente rientrante verso riva. I miei amici, che mi avevano seguito con ansia dalla riva, mi festeggiarono. A me sembrava di aver ricevuto un insegnamento che non riguardava il gioco delle correnti, ma qualcosa di più profondo. Il padre di un mio caro amico di Alghero, soleva dire che al mare bisogna dare del Voi. Avevo capito quello e stipulai così un contratto con quel mare così pericoloso ma affascinante. Strinsi con lui un’amicizia che dura incrollabile tuttora. Seguirono i corsi di sub FIPSAS al Foro italico, le prime immersioni e quel viaggio in Sardegna che mi fece scoprire il mare vero, e anche qualche cosa di più. Poi i viaggi nel resto d’Italia, e quindi nel mondo sempre alla scoperta del mare, tra pesca subacquea e immersioni. Ma quella fu la prima volta. Lì cominciò. Oggi sono di nuovo di fronte al mare e mi sento rasserenato. So che mi trovo di fronte una circostanza difficile, ma la posso affrontare. So che mi darò da fare e riuscirò a trovare una soluzione.


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Risalgo dalla spiaggia e inizio il mio impegno lavorativo: oggi pomeriggio controllo del computer della reception, finire di montare le attrezzature del teatro all’aperto e del tendone discoteca, varie ed eventuali. The show must go on. Annalisa mi dice che l’avvocato è passato e ha parlato con Francesca. La raggiungo in ufficio e mi ragguaglia. Antonio ha assistito all’interrogatorio svolto dal magistrato con la presenza silenziosa del vicequestore aggiunto, responsabile del commissariato di Tortolì. Da quanto è emerso, Michele è stato trovato dalla polizia, allertata da una telefonata, alle undici e mezza a casa di Puddu, il quale era riverso a terra morto a causa di numerose coltellate. Michele era sporco di sangue e hanno trovato le sue impronte su di un coltello che aveva ancora in mano. Secondo l’impianto accusatorio, nel corso di una lite Michele, in uno scatto d’ira, avrebbe colpito Puddu. Poi sarebbe rimasto lì frastornato finché non è stato trovato dagli agenti. Michele sostiene di essere andato lì su invito di Mario che lo aspettava per le ventitré. Arrivato qualche minuto prima ha trovato la porta aperta, è entrato e Puddu era riverso sul pavimento, immerso nel sangue. Si è chinato e lo ha spostato per vedere se fosse ancora vivo. Ha trovato il coltello e lo ha istintivamente raccolto. Mentre era lì, è arrivata la volante. «Non gli hanno creduto, capisci?» Francesca scoppia di nuovo in lacrime. «Domani» le dico «vado a parlare col maresciallo di Santa Maria Navarrese. Poi vado da Antonio. Tu cerca di riuscire a far visita a Michele e a farti raccontare da lui l’accaduto.» «Antonio mi ha detto che il Sostituto procuratore ha formalizzato l’arresto e che Michele è stato tradotto alla casa circondariale di Lanusei.» «Tu chiama Antonio per fargli richiedere un colloquio.» A cene replica del pranzo: stessa atmosfera. Barbara mi dice che ha deciso di non dormire giù da me ma dalla madre. Le rispondo che fa bene a starle vicina. Anche stasera ha gli occhi rossi. Scendo alla casetta e annaffio i peperoncini. Sono molto quieti. D’altra parte, non ho voglia di raccontargli tutti gli sviluppi. Capiscono che non ho voglia di parlarne e si dedicano a vegetare.


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Arriva Claudia in jeans e felpa. Anche se mesto e preoccupato, non posso fare a meno di notare la sua bellezza. «Ti dispiace se ti faccio compagnia? Stasera non ho voglia di stare sola» dice scuotendo i capelli. «A chi lo dici. Vieni, sediamoci qui in veranda. Lo vuoi un bicchiere di vino?» «Grazie, sì.» Riempio i bicchieri e sorseggiamo, guardando il mare, con la luce che si abbassa sempre di più. «Che pace che c’è qui. È bellissimo.» «Come ti trovi a Le Ricciole? A parte questa vicenda che è accaduta, intendo.» «Bene. Sono tutti cordiali ed è un bel posticino per lavorare.» «Come mai sei finita a fare questo lavoro?» «Sai, ho sempre amato il mare e da adolescente ho cominciato i corsi di sub. Poi ho lavorato in un diving per arrotondare mentre frequentavo l’università.» «Cosa e dove?» «Mi sono laureata in biologia marina a Genova.» «Ma con quell’accento non sei certo di Genova.» «Sono di Siracusa. Per questo amo il mare. Noi di Siracusa siamo tutt’uno con Pelagos, da quando lo abbiamo attraversato per fondare la città. Da quando gli ateniesi hanno provato a conquistarci, ma non ci sono riusciti. I miei hanno casa nell’isola di Ortigia: sono nata circondata dal mare.» «E così i corsi di sub?» «E cosi quelli, e prima il nuoto sincronizzato, la vela, poi il windsurf e la patente nautica. Tutto con il mare per me. I miei genitori mi hanno assecondata perché anche loro sono così. Papà ha un battello per le escursioni turistiche nella zona. La mamma è stata campionessa di nuoto e ora è istruttrice in piscina.» «Hanno accettato di averti lontana per tutti gli anni dell’università, e poi anche adesso?» «Mi vogliono bene.» «Cosa pensi di fare in futuro? Continuare come istruttrice? Magari aprire un tuo diving?» «Vorrei continuare con la biologia marina. Ho spedito diverse domande in Italia e all’estero per dottorati di ricerca con borsa di studio. Vedremo.


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E tu? Ingegnere, a quanto mi hanno detto, e invece di progettare ponti sei qui a riparare cessi e computer. Perché?» «Quando mi sono laureato, non mi si sono presentate particolari occasioni. Michele e Francesca ci hanno proposto di avviare quest’attività e a me non piaceva di vivere in città. Poi era in Sardegna e sul mare.» «Vi hanno proposto? A te e a chi, se non sono indiscreta?» «A me e alla sorella di Francesca, mia moglie.» «E lei dov’è?» «Non è più in Italia e non è più mia moglie. Perdonami ma preferisco non parlarne.» «Scusami se sono stata indiscreta, ma avevo bisogno di sapere.» «Bisogno?» «Bisogno. Ma questa è una cosa da donne. Ora vado a dormire. Grazie per la bella serata.» Ci alziamo, mi si avvicina e mi deposita un bacio all’angolo della bocca. Poi se ne va. Rimango piacevolmente perplesso. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD


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INDICE

CAPITOLO 1 .................................................................................. 7 CAPITOLO 2 ................................................................................ 19 CAPITOLO 3 ................................................................................ 26 CAPITOLO 4 ................................................................................ 32 CAPITOLO 5 ................................................................................ 42 CAPITOLO 6 ................................................................................ 47 CAPITOLO 7 ................................................................................ 54 CAPITOLO 8 ................................................................................ 61 CAPITOLO 9 ................................................................................ 68 CAPITOLO 10 .............................................................................. 76 CAPITOLO 11 .............................................................................. 83 CAPITOLO 12 .............................................................................. 91 CAPITOLO 13 .............................................................................. 98 CAPITOLO 14 ............................................................................ 105 CAPITOLO 15 ............................................................................ 113 CAPITOLO 16 ............................................................................ 121 CAPITOLO 17 ............................................................................ 128 CAPITOLO 18 ............................................................................ 135


 CAPITOLO 19 ............................................................................ 142 CAPITOLO 20 ............................................................................ 150 CAPITOLO 21 ............................................................................ 158 CAPITOLO 22 ............................................................................ 169


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Terza edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2020) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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