Il mondo nella nebbia, Michelangelo Maiullari

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In uscita il 2 /2022 (15, 0 euro)

Versione ebook in uscita tra fine 2022 ( ,99 euro)

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IL MONDO NELLA NEBBIA

LE CRONACHE DI RAVELLDHUR

MICHELANGELO MAIUILLARI
ZeroUnoUndici Edizioni

ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/

IL MONDO NELLA NEBBIA

Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-588-2 Copertina: Immagine Shutterstock.com Prima edizione Novembre 2022

A chi non si arrende mai e a chi non smette mai di sognare. Anche dalla Nebbia più fitta può farsi strada un raggio di luce…

Un ringraziamento particolare alla dott.ssa Isabella Liberto per aver curato l’editing del testo e per i preziosi suggerimenti.

Grazie a tutti coloro che hanno letto il romanzo durante il suo divenire e che mi hanno sostenuto in questo viaggio.

PROLOGO

LA GRANDE NEBBIA

Cronache di Ravelldhur

8° ciclo della Nebbia Anno 142

La Nebbia ha avuto una perturbazione oggi; qualcosa l’ha scossa, un nuovo focolaio di magia? Sarebbe un cambiamento. Qualcosa, o qualcuno, finalmente porterebbe di nuovo Equilibrio nel mondo. Non dovrei parlare così… se gli sgherri del Mago mi sentissero! Tuttavia non penso si avventurerebbero fin qui, dato che non lo hanno fatto finora; e oltre l’Eremo delle Succubi, non arrivano più notizie da anni ormai, non ricordo nemmeno quanti, né del Re Morto, né della sua progenie di Demoni Succubi, meno che mai dal Mago, di cui non si sente più parlare da quasi un millennio.

Ma lui è lì e attende. E finché ci sarà, nessuno sarà al sicuro dalla Decimadria.

La Nebbia ha fame, come non ne aveva da migliaia di anni… Che sia questa l’occasione che aspettavamo?

L’Equilibrio di Tenwar sta davvero tornando? Devo indagare…

La pesante porta di legno si schiuse con un tonfo, e una tremenda raffica di vento gelido irruppe nella stanza, portando con sé schegge di ghiaccio e neve.

La lanterna che illuminava la stanza, però, non si spense. La fiamma si limitò a tremolare, come quando un bambino emette un soffio troppo incerto, scuotendola appena.

Il vecchio chiuse il libro su cui stava scrivendo, un pesante tomo di pelle nera dal piatto intarsiato, morbido al tatto grazie a una fitta peluria; lo poggiò sul tavolo e prese dallo scaffale dietro di lui un pungolo di metallo e una boccetta di quello che sembrava inchiostro blu. Intinse la punta del pungolo e andò alla porta. Sul legno dell’anta vi era disegnato un simbolo magico, fatto da un cerchio che circoscriveva una stella a

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sette punte, e a ogni punta corrispondeva una runa. Parte di quel simbolo era consumato, alcune rune illeggibili.

Ricalcò le parti mancanti con il liquido blu e quando finì, il simbolo brillò di una luce intensa.

Richiuse la porta, si voltò e tornò ai suoi affari: aprì di nuovo il tomo, alle prime pagine questa volta, e lesse:

Cronache di Ravelldhur

1° Ciclo della Nebbia Anno 351

All’inizio dei Tempi, i tre continenti della Terra di Ravelldhur erano abitati da Uomini, Figli di Fheyar e Succubi, spiriti demoniaci risputati dalle più oscure lande di Oukoun, Inferi oscuri e tenebrosi, dove i demoni giacciono in attesa di essere richiamati sulla Terra per cibarsi di nuove anime.

Gli Uomini e i Figli di Fheyar occupavano la maggior parte delle terre, e alle Succubi rimaneva soltanto l’estrema parte orientale del mondo.

Nessuno ricorda quando le Succubi invasero le terre dei mortali, guidate dal Re Morto, portando fuoco e distruzione.

Così, i Sacerdoti pregarono Tenwar, Dio dell’Equilibrio, di liberarli da quel flagello e lui, dall’alto del cielo, afferrò una manciata di stelle e le sparse come grano sulla Terra, tramutandole in un esercito di potentissimi Draghi, cento per ogni razza, capeggiati da Alamir, il più potente tra loro.

I Draghi discesero dal cielo e s’insediarono nelle montagne di Eserfenn, che da quel momento presero il nome di Alamirdran, che significa Casa di Alamir. Da lì scesero a frotte per fronteggiare le Succubi, e tutte le creature malvagie scatenate dal male risvegliato.

I Draghi, con l’aiuto dei mortali, sconfissero le Succubi, ricacciandole nelle terre orientali che divennero una landa desolata e putrescente, conosciuta oggi come L’Eremo delle Succubi, dove nessuno osa avventurarsi.

S’insediarono all’interno di Hymnar, l’Albero sacro, infettandolo con il loro potere. Da quel momento fu conosciuto come Valirogh, l’Albero della Corruzione.

Ma la vittoria richiese un pesante tributo. Il potere dei Draghi e i loro terrificanti soffi di fuoco, ghiaccio, magia e potere delle stelle, si condensò e divenne un’immensa nebbia che si sparse e serpeggiò per

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ogni terra che avevano toccato durante quella tremenda battaglia. Così il mondo di Ravelldhur fu spaccato a metà.

La Nebbia avvolse nelle sue spire la terra di Aelhaen-ymh appartenente agli Elfi e Meydenoth, dove risiedevano per la maggior parte gli Umani, spingendosi a nord fino alla foresta di Haluryn, e inglobando le cime più basse delle montagne di Alamirdran.

La maggior parte dei Draghi rimase fuori dalla Nebbia, ma tutti quelli che abitavano le montagne più a sud, restarono intrappolati. A est, invece, raggiunse e circondò Valirogh. Tutto ciò che rimase fuori dalla Nebbia cominciò a vagare nel vuoto cosmico.

Mezzo mondo fu perduto in un solo giorno, e ora la Nebbia rappresenta il confine di Ravelldhur, l’unica barriera che impedisce al Vuoto di inghiottire ciò che resta delle terre e del mare.

I Draghi avevano assicurato che si sarebbe diradata quando il regno sarebbe tornato al suo equilibrio, dando la possibilità al mondo di ricrescere e ridestarsi in un nuovo splendore, ma ciò non avvenne, e per trecento anni le generazioni di Aelhaen-ymh, Meydenoth e Alamirdran impararono a convivere con questo isolamento.

Accadde qualcosa a un certo punto: sorse un Mago, nessuno sa chi fosse o da quale terra venisse, se dal mondo dei mortali o dagli Inferi di Oukoun; tutto ciò che si sa per certo è che in qualche modo riuscì ad acquisire talmente tanto potere da comandare la Nebbia e infettarla con la sua volontà.

Da quel momento la Nebbia acquisì una sinistra e malvagia coscienza. Chiunque, in qualunque luogo, tentasse di ribellarsi al Mago, veniva sopraffatto dalla Nebbia. Circondando le terre, essa poteva vedere tutto e raggiungere tutti, sempre.

I Draghi, pian piano si disinteressarono ai problemi dei mortali, e nell’oscurità delle loro montagne ripopolarono la loro specie e non andarono più via, poiché la Nebbia bloccava anche loro e mai Tenwar li richiamò indietro, poiché secondo i Sapienti di Naythen, per l’Equilibrio del mondo i Draghi costituiscono uno scudo contro la Nebbia.

Da quel momento però i Draghi guardarono gli uomini con sfiducia, astio e odio persino per quella loro prigionia nelle montagne e per la Nebbia che a loro dire era solo e soltanto una stregoneria per tenerli imprigionati. Si isolarono sempre di più, negando qualunque alleanza e rispetto.

Con il passare dei secoli, l’eleganza e la magnificenza di quelle creature degenerò in un’incontenibile bestialità. Persero l’uso della parola e della magia, e il loro aspetto mutò. Le montagne di Alamirdran così,

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divennero un luogo pericoloso e inaccessibile, e i mortali sopravvissero adattandosi nelle rimanenti terre del sud. Molti perirono, da ambo le parti, negli anni della Guerra del Mago, ma poi, ogni razza si adattò a una fragile convivenza.

E ora aspettiamo… aspettiamo che l’Equilibrio di Tenwar torni a far risplendere il sole al di qua della Nebbia.

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CAPITOLO 1 SENZA LINGUA

Freddo. Ecco ciò che sentì; soltanto freddo e dolore. Quando aprì gli occhi, di scatto, una luce accecante lo ferì. La sua pelle ardeva come se fosse attraversata da mille lame.

Provò a urlare ma non ci riuscì. La sua bocca si deformò soltanto in una silente smorfia, le labbra si contrassero, il capo si chinò all’indietro, poggiato su un appuntito manto d’erba e la schiena s’inarcò. Poi espirò, poggiando di nuovo la schiena a terra. Finalmente il respiro tornò normale, più calmo e ritmico. Sbatté le palpebre per abituarsi alla luce, sollevò un braccio portandolo all’altezza del viso, e osservò quelle cinque dita di carne che si muovevano a comando. Strinse il pugno e lo rilassò, si fece forza e diede una spinta, sollevandosi sulla schiena.

Osservò il suo corpo nudo, i muscoli tesi e rigidi per lo spasmo di poco prima. Provò ad alzarsi e la sensazione fu sgradevole, strana, ma ci si abituò subito. Era come se non avesse mai camminato. Si toccò la testa, era irsuta, i capelli stopposi. Si guardò intorno e si rese conto che la sua mente comprendeva ciò che stava guardando: un prato verde, un tappeto d’erba sconfinato e brullo, una foresta poco lontano, un cielo plumbeo e velato sulla sua testa e… un’ombra sotto di lui. Qualcosa che turbinava e si muoveva rapido. Colto da panico improvviso, si voltò di scatto e quasi balzò all’indietro vedendo un gigantesco e sconfinato muro di nebbia che vorticava. Era un oceano grigio verticale, alto chissà quante migliaia di volte più di lui, di una vastità a perdita d’occhio. Non ne vedeva la fine, né riusciva a individuare alcunché dall’altra parte. Delle propaggini più dense si formavano e si rimescolavano, morbide, leggere. Ma a un tratto, un tremito e quei tentacoli schizzarono verso di lui. Indietreggiò, il cuore palpitava all’impazzata. Cominciò a correre, senza voltarsi, gettando una furtiva occhiata al prato per vedere se l’ombra mulinante stesse guadagnando terreno. Si risolse a correre più in fretta, senza badare alle punture dell’erba e ai sassi nascosti sotto di essa che gli

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ferivano i piedi, cercando di dominare il terrore e le membra per correre più veloce.

Avanzò per due miglia, almeno, prima di vedere i confini della foresta avvicinarsi sempre di più. Un altro sguardo. Niente più ombra; la Nebbia non lo stava seguendo, era rimasta lì, tempestosa e turbinante nella sua immobilità.

Allora rallentò, voltando appena la testa all’indietro: la Nebbia si era allontanata, aveva perso terreno. Rallentò ancora, osservando la propaggine ritirarsi fino al banco retrostante.

L’uomo fece ancora qualche passo frettoloso all’indietro, verso la foresta, tenendo d’occhio la Nebbia, poi si voltò, sicuro che non fosse più una minaccia e penetrò nel folto della vegetazione. Si rese conto che calpestando pietre appuntite, rami e foglie, non sentiva dolore, almeno non come prima, ma solo un tocco leggero. Arrivò nei pressi di un grande albero dal tronco contorto e i rami nodosi. Sul tronco vi erano buchi e sporgenze, tanto che sembrava un volto sorridente. La chioma era ampia e larga. Si sedette su una roccia liscia lì vicino e riprese fiato. Gli doleva il ventre e la gola era riarsa. Sentì l’immediato bisogno di mangiare e bere qualcosa. Si alzò e guardò verso i rami dell’albero; cercò finché vide un globo rosso che pendeva da un ramo, lucido e brillante. Lo staccò, era morbido al tatto. Provò ad addentarlo e la polpa del frutto gli esplose sotto le labbra. Era molto saporito. Continuò a mangiarlo con avidità, ingoiando anche il nocciolo. Ne colse un altro e lo divorò, poi un terzo. Qualcosa all’improvviso precipitò dall’alto, colpendolo alla testa. Trasalì e guardò su, oltre i rami e le foglie, cercando di capire cosa l’avesse colpito. Da un punto all’interno del fitto fogliame, un altro oggetto schizzò verso di lui. Questa volta riuscì ad afferrarlo al volo. Era una ghianda. Un fruscìo improvviso e una creatura alata emerse da quel punto, bucando la chioma. Un corpo esile e affusolato con due zampe sottili, articolate, e una testa munita di un lungo becco sottile e adunco. Volava sbattendo le ali così in fretta che sembravano invisibili. La bestia si fermò a mezz’aria e picchiò verso l’uomo che istintivamente protese le mani, afferrandola al volo. Continuava a sbattere le ali ma lui la teneva salda. La osservò con attenzione: era un uccello dai colori vivaci e con una lunga coda piumata.

«Leva le tue luride zampacce, uomo!» esclamò una voce, e lui trasalì per la sorpresa. Avvicinò al suo volto la creatura, per osservare quella testa minuta più da vicino. Non gli era parso che potesse parlare, e non aveva

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neanche mosso il becco. La creatura emise un lungo gorgoglio. Non poteva essere stata lei a parlare. A un tratto, una lama spuntò dal dorso dell’uccello, segando la pelle della mano dell’uomo. Lui emise un gemito e d’istinto lasciò la presa. La creatura riprese a volare.

«Un po’ più forte, gigante, e avrei avuto il tuo dito» continuò la voce. L’uomo seguì con lo sguardo la creatura e quando riprese quota e virò per tornare all’attacco, riuscì a notare un altro piccolo essere che lo cavalcava. Era un ometto minuscolo che agitava una altrettanto piccola spada. Ordinò all’uccello di volare in picchiata contro l’uomo, il quale più volte schivò gli attacchi, finché urtò la schiena contro il tronco e l’uccello gli fu davanti al viso. L’ometto puntò la spada contro di lui e disse: «Arrenditi o, per il Sacro Agylfen, ti taglio la gola.»

Lui lo guardava, in silenzio, cercando di capire come modulare quei suoni che sentiva pronunciare all’ometto.

«Mangiavi i frutti di Agylfen, sono sacri! Non lo sai che è proibito per voi umani? Cosa ci fai qui?»

Non ricevette risposta. Il piccoletto lo squadrò dall’alto in basso. «Sei uno strano umano, certo, diverso da tutti quelli che abitano nei dintorni di Enwhart o Daeryan. Sei di Rethuin? E… perché sei nudo?»

Ripose la spada, vedendo che quello non reagiva, e si massaggiò il mento, confuso.

«Non devi essere di queste parti. Ma allora se non sei di qui, non puoi che arrivare da Kolthor. Avresti percorso millecinquecento leghe, nudo e senza cibo? No, impossibile! Ci sono molte domande a cui dovresti rispondere ma a quanto pare non parli.» Lo fissò con uno sguardo indagatore, poi ordinò al volatile di abbassarsi di quota e afferrò il picciolo del frutto che l’uomo stava mangiando. Fece sollevare in volo la sua cavalcatura, mantenendolo a fatica e glielo porse. Quello lo prese con cautela e diede un morso. Vedendo che l’ometto sorrideva e annuiva, continuò a mangiare. Quando ebbe finito, l’altro disse: «Bene, Senza Lingua, io mi chiamo Thilduin, figlio di Thildren, Folletto della Foresta di Haluryn, Guardiano del Sacro Agylfen e Campione Cavalca miridho.»

A quelle parole, l’uomo rimase ancora più confuso, poiché quei termini gli erano sconosciuti.

Il Folletto continuò: «Seguimi ora, ti porterò dalla Strega di Haluryn, lei riuscirà a scoprire chi sei e da dove vieni.»

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L’uomo annuì. Se ci fosse stato qualcuno in grado di spiegargli cosa gli era capitato e come mai si trovasse in un prato senza alcun ricordo, l’avrebbe incontrato.

Il miridho cavalcato da Thilduin volava veloce, e l’uomo cercò di stargli dietro meglio che poté. Saltò una roccia, schivò un ramo, aggirò un tronco. Nonostante gli ostacoli, riusciva a tener testa al Folletto il quale, girando di tanto in tanto la testa, spronava la cavalcatura ad andare ancora più veloce.

Alla fine della corsa, l’uomo si fermò vedendo il miridho sospeso in aria e Thilduin a braccia conserte che lo attendeva.

«Sei rapido, Senza Lingua, mai visto nessuno inseguire un miridho per cinque miglia senza mai rallentare. La faccenda diventa interessante.» Sorrise e allungò il braccio sinistro, indicando una fitta cappa di rami pendenti.

«La strega è oltre quelle fronde» disse «seguimi.» Il miridho attraversò il muro di rami e l’uomo vi si avvicinò, aprendosi un varco con le mani. Si trovò in una valle coperta da un tappeto d’era verde e soffice; alberi sparuti punteggiavano la zona, e una piccola abitazione di legno si ergeva vicino a un declivio che pian piano cominciava a salire, inerpicandosi sulle colline.

Il Folletto esordì: «Benvenuto a Valle Narya. Non troverai un luogo così in tutta Ravelldhur.»

Fece procedere il miridho lentamente, quasi per consentirgli di guardarsi attorno e rendersi conto dell’ambiente.

Oltrepassata la cinta d’alberi che introduceva nella valle, lo straniero riuscì subito a percepire una sensazione di pace, come se nulla potesse toccare quel luogo che pareva incontaminato da qualunque forma di male. Riusciva a scorgere animali erbivori che spuntavano dalla vegetazione e che si spingevano nella valle per cibarsi di frutti, erba, radici, bacche e abbeverarsi nelle polle d’acqua limpida e fresca.

La casa di legno si avvicinava sempre di più, e ora lo straniero riusciva a distinguere una figura seduta su un ceppo e curva su un paiolo, mentre rimescolava energicamente qualcosa al suo interno.

«Aspetta qui» disse Thilduin, spronando il miridho e spingendolo verso la figura.

Gli occhi dello straniero cominciavano a riabituarsi alla luce e ai colori e, anche da quella distanza, riuscì a distinguere in quella sagoma scura, i lineamenti di una donna.

Aveva folti capelli scarmigliati, gettati sulla schiena, e un abito verde muschio cinto da una catena di metallo a cui erano appesi vari ninnoli e

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oggetti, tra cui il teschio di un piccolo animale, anelli intrecciati, un sacchetto di cuoio e una daga dalla lama ricurva, che riposava in un fodero verde con decorazioni floreali impresse nel cuoio.

Aveva la pelle brunita dal sole e uno sguardo vispo, gli occhi taglienti.

Lo colpì il colore delle iridi, di un viola intenso, quasi innaturale. Era come se qualcuno le avesse incastonato due gemme sotto le palpebre. Sorrideva mentre parlava con la minuscola creatura, e il miridho le muoveva le ciocche di capelli che aveva sulle spalle con quel vibrare frenetico di ali.

A un certo punto della conversazione lei guardò lo straniero, mentre Thilduin ruotava la sua cavalcatura.

La donna si alzò e avanzò verso di lui. Quando le fu dinanzi, sorrise di nuovo e disse: «Salve straniero.»

Lui rispose con un cenno del capo.

«Come ti chiami?»

L’uomo fece per aprire la bocca ma non ne scaturì nulla. «Non sai parlare?» chiese lei, aggrottando la fronte.

Lui la guardò senza battere ciglio.

«Il nome può aspettare» commentò la donna, dando di sfuggita, ma senza mascherarlo, un’occhiata alla sua intera nudità.

Lui non capì cosa volesse dire quell’ammiccamento e non sentì nemmeno la necessità di coprirsi.

«Visto?» esordì sottovoce il Folletto «cosa ti dicevo? È strano!»

Lui continuava a non capire.

«Seguimi.» La donna gli fece un cenno e si diresse verso la casa.

Il Folletto le volò dietro. «Non è come gli altri» sussurrò. «Questo lo vedremo.»

Lui prese a seguirli.

La casa era una piccola baracca di legno scuro, la corteccia degli alberi da cui era ricavata era ancora attaccata ai tronchi, e in qualche punto stava venendo via.

A un angolo della porta, fatta di assi più rifinite e levigate, vi era un pomello di ottone ossidato che formava macchie simili alle venature del marmo.

Sotto una tettoia giacevano ciocchi di legna tagliata, ben ordinati, mentre sul tetto vide un secondo piano, piccolo, composto solo da una stanza che si affacciava di lato sul tetto spiovente, grazie a una finestra opaca. Dal comignolo fuoriusciva un rivolo di fumo. Sembrava accogliente.

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Quando entrò, percepì subito un forte odore di erbe e spezie e un altro paiolo, più piccolo, ribolliva nel camino. Vi era un tavolo rotondo al centro dell’unica stanza. C’erano tante di quelle cianfrusaglie e un disordine tale che lo sguardo dello straniero si perse in ogni angolo e anfratto della casa: vide tutto ma non riuscì a distinguere nulla. Eppure, tutto era funzionale e accessibile. Sembrava che ogni cosa fosse accatastata in quel modo per un preciso scopo e con un preciso e indecifrabile ordine.

«Aspetta qui» disse lei, scomparendo dietro una catasta di libri. Si udì lo scricchiolio di cerniere e un’anta di legno che si apriva, poi la donna riemerse con degli abiti logori.

«Convengo che siano un tantino dimessi, ma almeno potrai camminare in paese senza dare spettacolo» abbozzò un sorriso.

Lo straniero li prese e li indossò. Erano più piccoli della sua corporatura robusta, e quando vi infilò le gambe e le braccia, adattandoli al suo corpo, sentì un paio di strappi che lacerarono ancora di più l’abito già in brandelli.

La donna ridacchiò assieme a Thilduin, poi corse a prendere un giustacuore, una cintura e degli stivali. «Meglio» asserì, guardando il risultato «molto meglio. Dunque: io mi chiamo Hellybeth» continuò, mentre girava per casa afferrando vari oggetti. Prima prese due tazze e una teiera, in cui riscaldò dell’acqua sul fuoco del camino, accanto al paiolo; poi un piccolo contenitore di legno da cui pizzicò una manciata di foglie sbriciolate che fece cadere nelle tazze.

«Il mio piccolo amico cavaliere qui è…»

«Lo sa già il mio nome» la interruppe il Folletto. «Bene» annuì lei «almeno rammenti le buone maniere.»

L’acqua fu subito pronta, e Hellybeth ne verso un po’ nelle due tazze, riempiendo anche un minuscolo bicchiere per Thilduin.

Il Folletto scese dal miridho e prese la tazza, versandoci un’altra essenza che portava con sé in un taschino del panciotto. Sedette sul contenitore di legno e cominciò a sorseggiare assieme alla strega.

Lo straniero li guardò, poi fece lo stesso. Ebbe una sensazione di dolore, poi sollievo, infine piacere per quella bevanda calda che gli scendeva in gola.

«Questo e un buon pasto, oltre a qualche ora di sonno, ti aiuteranno di certo. Nel frattempo, cercherò di capire chi sei e da dove vieni.»

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Prese un vassoio e cominciò ad andare in giro per la casa, aprendo sportelli ovunque e mettendo alimenti sul vassoio. Quando ritornò aveva portato dei biscotti, del pane nero, un po’ di burro, del formaggio e prosciutto a tocchetti. Prese anche un vassoio di frutta che aveva in bella vista sulla credenza, in un vano vuoto tra la parte inferiore chiusa da due sportelli di legno decorato e la parte superiore, una vetrina piena di stoviglie e posate esposte come fossero oggetti rari. Lui guardò per un momento i due vassoi, poi si fiondò su entrambi, cominciando a divorare famelico tutto ciò su cui metteva le mani. «Aveva proprio fame» ridacchiò Hellybeth, guardando Thilduin. «Sì, l’ho interrotto mentre mangiava un frutto sacro.» La donna lo guardò sconvolta. «Cosa? E nessuno lo ha fermato?» «Nessuno pare averlo percepito. Io l’ho visto perché mi aggiravo nei rami più bassi in cerca di bacche.»

«Mmh. Questo sì che è strano! Assieme a tutto il resto» commentò Hellybeth, pensierosa. «Mangia, straniero, hai bisogno di forze.»

«L’ho chiamato Senza Lingua» disse Thilduin «Senza Lingua» gli fece eco Hellybeth. «Aynuglar nella lingua del Piccolo Popolo, se non erro.»

Thilduin annuì con aria sapiente e compiaciuta. «Bene. Tu da oggi sarai Aynuglar, il Senza Lingua, ti piace?»

Lo straniero annuì, un sorriso appena accennato mentre masticava un pezzo di pane nero e formaggio. «Bene. Ora va’ a riposare, domattina parleremo ancora.»

Lo condusse a una scala di legno che correva lungo la parete nord della casa e portava al secondo piano dove vi era un giaciglio, un comodino e un piccolo lavatoio con un catino e il necessario per la pulizia, mentre dall’altra parte Hellybeth aveva addirittura trovato spazio per una libreria, su cui vi erano una decina di libri e altri utensili, brocche, recipienti e qualche ninnolo.

«Puoi dormire qui» disse, indicando il letto.

Aynuglar fece un giro della stanza e la ringraziò con il solito cenno del capo.

Lei ridiscese e scomparve oltre la botola.

Aynuglar si guardò intorno ancora una volta, indugiando con più attenzione sulle scaffalature. Vide i libri e ne prese uno. La coperta era di tessuto rosso, sdrucito e con qualche ammaccatura che rivelava il legno al di sotto di esso. Sul dorso vi era un simbolo strano, con linee intrecciate e tratti che s’intersecavano. Lo sfogliò e provò a leggere.

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Stranamente ci riusciva. Non sapeva nemmeno di poterlo o di saperlo fare.

Il titolo del libro recitava “Pozioni e unguenti di Haluryn, tutti gli ingredienti e le risorse della Foresta dei Sortilegi”. Guardò verso destra, e notò una brocca per l’acqua e un piccolo bacile, strumenti per radersi e per acconciare barba e capelli, il necessario per un uomo. Quella dimora lasciava intendere la presenza maschile, di cui un altro indizio erano gli abiti e il giustacuore che aveva addosso.

Su un altro scaffale vi erano ampolle e uno strano strumento metallico fatto di dischi e cannule.

Poi la sua attenzione fu attirata da un altro oggetto, nascosto tra le cianfrusaglie: un piccolo diadema raffigurante una creatura simile a un rettile ma con ali di pipistrello e zampe massicce e piena di corna e aculei. Sul suo dorso vi era un uomo con una spada protesa in avanti.

“Un Drago e il suo cavaliere”, gli suggerì la mente e subito dopo si trovò a riflettere sulla naturalezza con la quale gli era venuta quella definizione e sull’altrettanta stranezza della coppia Uomo e Drago. Diede un’altra rapida occhiata alla stanza, ma non per molto; le sue palpebre cominciavano a farsi pesanti, per cui l’ultimo elemento che ispezionò da vicino fu il letto. Si distese e si addormentò.

«Che ne pensi?» chiese Thilduin.

La sua interlocutrice stava svuotando il contenuto del calderone che aveva lasciato a bollire fuori della capanna, travasandolo in bottiglie e ampolle più piccole.

Hellybeth scrollò le spalle. «Non è di queste parti, questo è certo.»

«Sì, ma da dove arriva? Non ci sono molte opzioni.»

«Più di quante crederesti in effetti. Pensavo al Mantello o a qualche città o villaggio sulle montagne innevate al confine con l’Eremo delle Succubi.»

«Così lontano?» Thilduin la guardò scettico. «E poi cosa ti dice che ci siano città da quelle parti?»

«Di questo sono certa, anche se non abbiamo mai visto nessuno discendere da quelle zone. Il Mantello di ghiaccio non si può attraversare in sicurezza.»

«E lui come avrebbe fatto?»

«Era da solo, a quanto ne sappiamo. Una persona sola può viaggiare più in fretta e nascondersi meglio; poi, hai sentito quanto è caldo?»

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«Che vuoi dire?»

«Il suo corpo. Ha una temperatura molto elevata, fuori dal comune, mai visto nessuno emettere un tale calore.»

Thilduin rimase alcuni istanti in silenzio, a riflettere, poi chiese: «Pensi che abbia facoltà magiche?»

«Voglio appurarlo domani, ma credo di sì; magari sopite a causa della sua perdita di memoria, ma credo che ci siano, da qualche parte.»

«Sarebbe un problema per lui, se venissero fuori.»

«Lo so» annuì. «Deve restare qui. Lo proteggeremo.»

«Perché ti sta tanto a cuore lo straniero senza lingua?»

«Perché a te stanno tanto a cuore scoiattoli, volpi e tutte le bestie del tuo bosco?»

«Perché sono creature innocenti e vanno protette dalla malvagità.»

«E perché non le proteggi dai predatori che vogliono divorarle?»

«Perché Fheyar ha stabilito così. La Natura vuole che alcune bestie si divorino tra loro, e come figlio di Fheyar non posso e non voglio oppormi.»

«Quindi capisci perché io, come figlia di Tenwar, abbia a cuore quelli della mia specie.»

«Ma gli uomini hanno una volontà: la volontà di fare del male, non hanno leggi naturali a spingerli.»

«Ed è per questo che vanno protetti. Perché i Folletti Scuotiterra non rispettano le leggi di Fheyar come fate voi Cavalca miridho? Sono anche loro suoi figli, no?»

«Mmh. Comincio a dubitarne. Devono essere figli illegittimi.»

Entrambi sorrisero, poi Hellybeth si fece di nuovo seria. «Ci sono cose a questo mondo che non sono naturali. Una di queste è la malvagità umana, ma abbiamo imparato a convivere con i nostri istinti e la nostra volontà di fare del male. Ma ciò che c’è a est, oltre l’Eremo e oltre Bardagh, è molto più di questo. È la volontà del male, un eccesso senza compromessi, una violazione della natura senza precedenti. È da questo che voglio proteggere lui e tutti coloro che hanno il dono magico.»

Thilduin annuì.

«Coraggio, ci siamo. Sono pronta» concluse suggellando l’ultima fiala riempita con il liquido violaceo del calderone.

Si portarono sul retro della casa dove c’era un carro, già carico di ceste di frutta e verdura, legna, pelli e barili di vino. Hellybeth mise in un angolo la cassetta con tutte le ampolle che aveva riempito, ben coperte e bloccate tra due casse, poi condusse uno stallone vicino al carro e lo legò

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ai traversi. Montò a cassetta e condusse il carro su una via di terra battuta che attraversava Valle Narya e s’immergeva nella foresta.

Dopo qualche miglio, oltrepassate le colline, la strada diventava lastricata, segno che la foresta era quasi al termine. Già si potevano udire in lontananza il vociare del paese, l’odore del legno trattato da cui avevano fabbricato le case, e l’inconfondibile odore di stalla delle bestie addomesticate.

Fuori dalla foresta, la strada raggiungeva un crocevia con quattro cartelli montati su un palo di legno e orientati in tre direzioni diverse: Daeryan, un miglio, direzione sud; Rethuin, centoventicinque miglia, direzione est; Finndhur, duecentottanta miglia ed Enwhart, duecentocinquantasei miglia, direzione ovest.

Hellybeth spronò il cavallo verso Daeryan, e dopo pochi minuti vide le mura e il portone di legno aperto. Salutò le due guardie all’ingresso e proseguì per la via principale.

Lungo la strada incrociò guerrieri in armatura e abiti neri, con una runa bianca sul corpetto e una maschera nera, senza feritoie per gli occhi o per la bocca, simbolo dell’Ordine dei Velati.

Camminavano tra i cittadini con il compito di catturare e giudicare chiunque infrangesse una delle Leggi del Mago.

Hellybeth proseguiva lentamente, osservata dal plotone di Velati, mentre gli abitanti la accoglievano e salutavano con gioia; lei, assieme a Thilduin, fermava il carro e distribuiva frutta e verdura. Ogni tanto qualche bambino incrociava il carro e il Folletto era solito lanciare loro una mela o svolazzargli intorno. Alle volte, quando lei indugiava a parlare con qualcuno, raccontava le meraviglie della Foresta di Haluryn. Ma quel giorno avevano un altro compito, più importante.

Raggiunsero la piazza, gremita di gente e avventurieri giunti dagli altri paesi vicini, per commerciare o ristorarsi alla locanda.

Hellybeth vide due degli inservienti del locandiere che l’aspettavano accanto a una bancarella. Lei gli si avvicinò e disse: «Potete scaricare il carro.»

I due ragazzi eseguirono e cominciarono a tirar giù le botti di vino e le pelli. Quando rivelarono la cassetta con le pozioni, lei la prese e chiese sottovoce: «Ci sono tutti?»

Loro annuirono e uno fece cenno di seguirla, trasportando uno dei barili più piccoli.

Scese i quattro gradini della piazza e attraversò la strada, girò l’angolo e raggiunse la locanda Focolare d’inverno. Il locandiere era intento a servire gli avventori. Quando vide i due entrare, esclamò: «Oh, che

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meraviglia, è arrivato il vino! Accomodatevi, mia signora, e grazie infinite.»

«Di nulla, Dorf» Hellybeth sorrise. «Dove posso poggiare questi funghi?»

«Al solito posto, mia cara, grazie» rispose l’uomo, mentre afferrava il barile dal garzone e lo poggiava di traverso su un sostegno concavo. Lo stappò e continuò a servire, mentre il garzone serviva arrosto e stufato. Hellybeth portò la cassetta con le ampolle, diligentemente coperte da un panno di stoffa, nel retrobottega. Chiuse la porta e scese le scale raggiungendo la dispensa. Spostò una pila di casse rivelando una botola. La aprì e scese.

Ad attenderla c’erano quindici persone tra Umani ed Elfi, maschi e femmine di entrambe le razze.

«Sia benedetta Hellybeth!» la accolse una donna.

«Ecco qui, fate presto» disse e distribuì un’ampolla per ciascuno. «Appena avranno il primo sintomo, fategliela bere. Tre gocce al giorno, da almeno una settimana prima della Decimadria» spiegò la maga. «Funzionerà?» chiese un uomo.

«Lo spero davvero. Seldhur è potente e scaltro, non so se si lascerà ingannare. Pregerò Tenwar perché voi o i vostri figli siate risparmiati quest’anno.»

La ringraziarono, prendendole le mani e stringendole come se quel tocco potesse benedirli, molto più dei sacerdoti di Tenwar del tempio cittadino. Hellybeth andò via e si fermò alla locanda per bere un boccale di birra assieme a Thilduin; gli altri uscirono da una porta secondaria, badando a non essere visti o notati dalle Guardie Velate.

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CAPITOLO 2

L’ORDINE DEI VELATI

Aynuglar aprì gli occhi. Aveva braccia e gambe doloranti e la schiena pulsava come se lo avessero colpito con un randello. Era certo di aver sognato qualcosa, ma non ricordava niente. Si alzò e si sciacquò il viso con l’acqua del catino, poi udì un rumore: il carro di Hellybeth che tornava. Scese le scale e uscì.

Lei cominciò a tirar giù i sacchi di viveri scambiati alla locanda con la propria merce. Mentre prendeva un barile di birra, sentì un corpo possente dietro di lei e vide due mani afferrare il barile e aiutarla con il peso.

«Ti ringrazio Aynuglar» gli sorrise. Poggiarono a terra il barile e lei notò che la blusa che indossava aveva degli strappi lungo le maniche.

«Cos’è successo?» chiese

Lui si guardò le braccia e dal suo viso Hellybeth comprese che non si era nemmeno accorto del danno. Aynuglar si limitò a scuotere la testa. Subito dopo fu distratto da qualcosa. Guardò verso sud, osservando le fronte degli alberi appena cullate dal vento. «Cosa c’è?» gli domandò Hellybeth, cercando di capire cosa stesse contemplando. «Certo che sei strano!» sbottò alla fine, ma il Senza Lingua le mise una mano sulla bocca e indicò il carro e il cavallo. «Cavalli?» chiese lei e lui annuì. Allora la donna corse in casa, trascinandolo con sé. Prese un bacile d’acqua, lo riempì e versò il contenuto di un’ampolla, sussurrando delle parole che Aynuglar non riuscì a comprendere. L’acqua gorgogliò e al posto del loro riflesso comparve la vegetazione della foresta e all’interno quattro uomini a cavallo, con armature nere e lo stemma dell’Ordine dei Velati. «Oh, Inferi!» esclamò Hellybeth andando di nuovo fuori. «Resta accanto a me e… tieni questo» disse prendendo un forcone e mettendoglielo in mano, poi prese del fango e gli sporcò i vestiti. Lei si rifugiò all’interno della baracca.

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Dopo poco, la vegetazione si aprì e i quattro cavalieri attraversarono la valle.

Hellybeth uscì di casa quando fu il momento, fingendo di averli uditi solo allora, mentre Aynuglar sbucò da dietro la casa con il forcone in mano con qualche filo di paglia infilzato da un covone.

«Hellybeth di Haluryn» esordì un cavaliere, scendendo da cavallo.

«Buongiorno capitano Hulldhor» salutò, facendo un mezzo inchino con il capo. «Qual buon vento vi porta alla mia umile magione?»

Lui non rispose e avanzò.

Le Guardie Nere, come le chiamavano in paese, erano un ordine di guerrieri istituito dal Re Morto per controllare e far rispettare le Leggi del Mago a tutti i cittadini di Ravelldhur. Avevano armature nere, cappucci e non toglievano mai le maschere nere, composte da una rete metallica dalla trama sottilissima che non lasciava trasparire nulla di chi le indossava ma che permetteva loro di respirare. Vedevano grazie a un incantesimo applicato nella parte interna della maschera, che agiva direttamente sugli occhi, dandogli la facoltà di vedere anche i riverberi e le tracce lasciate dalla magia.

Il capitano avanzava in silenzio. Quando le si avvicinò, disse con tono minaccioso: «Uso magico non autorizzato!»

«Ci sarà di certo un errore, capitano» rispose lei, con un gelo e una serietà che Aynuglar fino ad allora non aveva mai visto su quel volto così solare.

«Siamo qui per appurarlo» convenne l’uomo, e senza voltarsi fece un cenno con la mano.

I tre cavalieri che lo accompagnavano scesero da cavallo e cominciarono ad aggirarsi per la casa e per il podere circostante, la legnaia e il magazzino degli attrezzi.

Il capitano invece indietreggiò e rimontò a cavallo. Il suo equipaggiamento si distingueva da quello di tutti gli altri soldati semplici, grazie a fregi dorati sul mantello e sull’armatura. «Capitano, venite a vedere…» urlò un soldato dal piano superiore. Hellybeth sudò freddo, anche se non aveva la minima idea di cosa avesse potuto trovare quel soldato. Seguì il capitano facendo cenno ad Aynuglar di rimanere lì.

Salirono al piano superiore. Il capitano guardò in giro per la stanza. Il soldato si trovava accanto al giaciglio dove aveva dormito il Senza Lingua in attesa del suo capitano. Quando lo vide comparire in cima alla stretta scala di legno, orgoglioso della scoperta, indicò il letto.

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Hulldhor salì e osservò il giaciglio scomposto. Notò una densa nube di pulviscolo rosso che vorticava sinuosa.

«Un potere magico latente» sussurrò. «Di chi è? A chi appartiene?»

Hellybeth lo fissò costernata. «Non lo so, capitano, ve lo giuro, non c’è nessuno in grado di fare magie qui.» «Nessuno consapevole forse.»

Scostò il mantello dal braccio sinistro e rovistò nella borsa da cui trasse un pendente, simile a un medaglione d’oro che aveva al centro una lastra di cristallo opaco che non rifletteva nulla, e al cui interno si agitava e rimestava una sostanza simile alla Nebbia.

«Capitano, non vorrete esporre la mia casa alla Nebbia?» Hellybeth lo fissò spaventata. «Distruggerà tutto, non ho altro!»

«No, non tutto» Hulldhor sorrise. «Solo chi usa magia senza l’autorizzazione del Necromaestro Velato.»

Protese in avanti il medaglione e la Nebbia vorticò più rapida cominciando a sgorgare dall’oggetto in piccoli rivoli che si aggrapparono alla cornice del medaglione come se fosse un uomo scheletrico che emerge da un fosso.

Proprio in quel momento, la finestra dell’abitazione s’infranse in un fragore di vetri rotti. D’istinto i soldati sguainarono le spade. Poi videro la causa del danno: un sasso che giaceva a terra.

Un soldato guardò fuori e per poco non fu travolto da un essere minuscolo che cavalcava un volatile grande come un braccio.

«Dannato Folletto!» inveì il capitano. «Sbarazzatevene svelti!»

Hulldhor ridiscese le scale, seguito da Hellybeth, mentre il Cavalca miridho, con una risata e qualche piroetta, lasciava la stanza.

«Ecco il vostro mago misterioso, capitano» disse Hellybeth, cercando di non far trasparire il suo sollievo.

«Non credete di cavarvela così facilmente, strega!»

«Capitano! Strega è un termine così altisonante per una povera donna che prepara soltanto sieri e pomate con le erbe della foresta. La strega è Haluryn stessa, se mai voleste additare un simile epiteto a una foresta secolare.»

«Perché no! Fosse per me la farei bruciare oggi stesso, così tutte dannate bestie che vi abitano non avrebbero scampo, come i vostri amici Folletti. In ogni caso, ho perso già abbastanza tempo in questo tugurio.»

«Lieta che le vostre preoccupazioni siano state fugate, capitano Hulldhor.»

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«Non vi dispiacerà, a questo proposito, se lascio due dei miei soldati qui presso la vostra valle?»

«Sarebbe un onore, mio signore» rispose, mentre il capitano già indicava due dei quattro soldati che lo seguivano.

«Piantate qui l’accampamento e vigilate su tutto. Al minimo uso non autorizzato della magia, utilizzate lo Specchio.» Prese di nuovo il medaglione circolare e lo passò a uno dei due.

Poi rimontò a cavallo e andò via con gli altri rimasti. Hellybeth corse dentro casa, facendo cenno al Senza Lingua di seguirlo; lo portò al piano superiore e lo strattonò per un braccio. «Cosa hai fatto?»

Lui aggrottò la fronte e scosse la testa.

«Hai frugato tra i miei oggetti? Cosa hai preso? Sai usare la magia? Non sai che è proibito? Da quale terra vieni?»

Lui sospirò ed emise un gemito come se stesse per proferire parola, ma ciò che ne uscì fu solo uno strano rantolo. Il primo da quando aveva messo piede a Valle Narya.

Poi si diresse verso lo scaffale e prese di nuovo il ninnolo a forma di Drago con il cavaliere.

Lo portò alla donna e in quel momento i suoi occhi si riempirono di mestizia. Avanzò lentamente e prese l’oggetto dalle mani dell’uomo, sfiorandogli i dorsi come per raccogliere il pendente nel modo più rispettoso possibile.

«Era di mio marito. Questo mi ricorda di non nutrire speranze verso il futuro, ma di vivere il presente.»

Chiuse gli occhi, come per trattenere le lacrime, poi sospirò, mise al suo posto il Drago e disse: «Da quando il Mago è venuto a Ravelldhur, tutti gli altri maghi, stregoni e chiunque praticasse la magia è stato ucciso o dato in pasto alla Nebbia. E non solo: ci fu una guerra, in cui perirono quasi tutti i cavalieri dei draghi, l’unica speranza per sconfiggere la Nebbia. Il Mago li uccise tutti tranne due, stipulando un accordo con la popolazione: avrebbero dovuto rispettare le leggi del Mago e non usare la magia, pena, la morte. Ogni anno ricorre la Decimadria che ci ricorda il nostro patto.»

Hellybeth guardò Aynuglar e capì che quella storia era nuova per lui, il che la sorprese. «Sul serio non ricordi nulla di tutto questo?»

Lui scosse di nuovo la testa.

«Eppure, se il capitano Hulldhor è venuto fin qui, deve essere successo qualcosa. E poiché noi eravamo al villaggio, non puoi che essere stato tu.»

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«Io…» disse Aynuglar.

Hellybeth trasalì: «Questa sì che è bella, allora parli!» «Io… iden oun.»

La donna sbatté le palpebre, confusa. «Che lingua è?»

La sua voce era spezzata e rauca, come se parlasse per la prima volta dopo anni.

«Onirien.»

«Onirien?» ripeté Hellybeth «vuoi dire sogno?» Lui annuì.

«Parli Enoshar? Sei un enigma senza fine, Aynuglar» ridacchiò. «Credo che ormai non abbia senso che mi esponga per te, visto che mi hanno preso di mira dalle alte sfere dei Velati. Quindi, mio caro, preparati perché faremo un viaggio. Prima però, occorre liberarci di quelle due seccature che il capitano ci ha lasciato.»

Nell’accampamento i due guerrieri si stavano sfidando a duello, per esercizio.

Aynuglar era fuori a osservarli, braccia conserte appoggiato allo stipite della porta mentre Hellybeth era affaccendata in cucina e preparava da mangiare per tutti.

Il metallo tintinnava, facendo eco nella valle. Ogni tanto uno sparuto volatile lasciava spaventato il ramo su cui si trovava e spiccava un volo nervoso, scomparendo tra le nubi.

«Perché non ti unisci a noi, uomo silenzioso?» esordì uno dei guerrieri. Aynuglar scosse la testa.

«Avanti!» insistette l’altro. «È solo un confronto amichevole, non temerai di ritrovarti con la faccia nell’erba?» sorrise provocatorio. Aynuglar allora si scostò dall’asse e avanzò.

Il soldato fece cenno al compagno di dargli la spada, e quello la lasciò cadere sul manto erboso.

Aynuglar la raccolse e la soppesò. Poi avanzò verso l’avversario, che si mise in guardia e attese che facesse la sua prima mossa.

Lui non assunse nessuna posizione particolare, aveva la spada rivolta in basso, come se fosse più un fastidio che uno strumento utile a difendersi. Il soldato affondò, un colpo lento, per saggiare il contendente, il quale torse il busto e schivò senza troppe preoccupazioni; quindi, l’altro aumentò la velocità: due colpi in diagonale, schivati entrambi.

«Bene! Ci sai fare, vedo!» esclamò e scattò in avanti, assestando una serie di fendenti e affondi che però non andarono a segno.

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Cominciò a spazientirsi e tentò le sue manovre e mosse più efficaci: piroettò e balzò in avanti, scartò di lato e poi all’indietro; nulla, tutte a vuoto.

In un ultimo assalto, Aynuglar ruotò su se stesso e si ritrovò alle spalle del guerriero riuscendo, come si scaccia una mosca, a colpirlo sulla schiena con il piatto della spada.

I gemiti di fatica del soldato attirarono Hellybeth fuori della capanna. Vide quello straniero muoversi rapido come un felino selvatico, senza sforzo, evitando colpi su colpi.

Alla fine, l’avversario fece cenno al compagno di combattere assieme a lui. L’altro prese una spada di riserva e affiancò il commilitone.

La situazione non mutò molto, sebbene Aynuglar fu messo alla prova questa volta dal doppio dei colpi che gli arrivarono contro dovendo, per la prima volta, utilizzare anche la spada per parare i loro attacchi.

Schivò e passò sotto un fendente alto che quasi colpì l’altro guerriero, ruotò su se stesso e schivò, inarcando la schiena. Quasi non si accorse di un colpo che gli arrivò dall’alto e istintivamente parò con il braccio, come se avesse uno scudo.

Hellybeth sobbalzò, aspettandosi di udire il suono sordo delle ossa che si rompono e invece udì soltanto un sordo tonfo, come se la spada si fosse infranta sulla pietra.

La lama si scheggiò. Aynuglar ne approfittò e ruotò il braccio tanto da afferrare la spada avversaria e strappargliela di mano. Puntò entrambe le spade alle gole dei due sfidanti.

«Morti!» esclamò e gettò via entrambe le armi, lasciando per un momento i soldati impietriti da quella dimostrazione.

«Come ci sei riuscito, per il Mago!»

«Tanto esercizio a cacciare i Folletti» intervenne Hellybeth. «Ora tutti in casa, il pranzo è pronto!»

«Grazie, mia signora, non abbiamo bisogno del cibo umano, abbiamo le nostre razioni.»

«Certo, che sciocca» sorrise, imbarazzata. «Vi auguro buona notte, miei signori.»

Rientrò in fretta nella capanna.

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CAPITOLO 3 LA SPADA E IL

LAGO

«Hellybeth non burlarti di me, ti prego!» disse Thilduin mentre seguiva il carro sul suo miridho.

«Ti dico che è andata proprio così: quei due non riuscivano a tenergli testa, si muoveva come un tremito-bianco; ha schivato tutti i loro colpi e poi…»

«Poi?» incalzò il Folletto.

«Ha bloccato un colpo di spada con il braccio! E non indossava alcun tipo di armatura, guarda.» Afferrò il braccio destro di Aynuglar e lo liberò dalla manica della blusa.

La pelle era liscia e senza alcun segno; aveva soltanto una piccola screpolatura sull’epidermide, sembrava una ferita quasi rimarginata.

«Nulla di rotto, nemmeno un graffio. La sua pelle ha tintinnato come se fosse fatta di metallo.»

Thilduin guardò l’uomo con circospezione. «Per questo lo stai portando dal Vecchio della Voce?»

«Chi altri potrebbe dirci qualcosa in più?»

«E… i due fantocci che il capitano ti ha lasciato in casa?»

Hellybeth sorrise. «Ho bruciato fiori di Erebo nell’olio delle lanterne e le ho appese accanto alle loro tende. Mi sono detta che anche se non tolgono mai la maschera, respirano come tutti noi.»

Il Folletto rise compiaciuto. «Si sveglieranno tra qualche giorno allora.» «Giorno in cui spero di essere tornata e che non notino la mia assenza.»

Spronò quindi il cavallo e aumentò l’andatura.

«Ah, dimenticavo… Ora Senza Lingua parla!»

«Be’, era ora!» sentenziò Thilduin.

«Comprendo» commentò Aynuglar «sen theur enoshar, Hellybethan glossat.»

«Vedi?» disse Hellybeth. «È un miscuglio di linguaggi: parte Cunaico, parte Enoshar. Un’altra stranezza cui il Vecchio dovrà rispondere.»

«Cos’ha detto quindi?»

«Dice che comprende tutto quello che diciamo ma lui parla Enoshar, come gli ho detto io!» sorrise lei.

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Quando raggiunsero Daeryan, percorsero la via principale per poi dirottare in un piccolo viottolo, chiuso da una grande porta di legno scorrevole con una scritta che campeggiava sull’architrave: “Benka, Fabbro & Maniscalco” con due grosse spade incrociate sopra un ferro di cavallo.

Hellybeth fermò il carro all’ingresso e scese, entrando nella bottega di Benka. Era un’officina che occupava tutta l’ampiezza del vicolo e dalla parte opposta aveva una seconda apertura che dava su un podere, un giardino e una casetta di legno e paglia dove viveva con sua moglie Ithis e il figlio Mhellor, il quale stava duellando con una ragazza sua coetanea nel frutteto.

I colpi delle spade di legno che cozzavano tra loro si udivano chiaramente quando Benka poggiò sull’incudine il pesante martello con il quale stava forgiando una spada, e alzò gli occhi per guardare chi fosse entrato.

Vedendo la giovane e piacente donna, si asciugò il sudore dalla fronte e si pulì le mani sul camice, strofinando i dorsi e poi i palmi. Girò intorno all’incudine e la raggiunse.

«Buongiorno, mia signora Hellybeth, è un onore avervi qui.»

«L’onore è mio, mastro Benka, come sempre quando contemplo uno dei tuoi lavori.»

I suoi modi erano sempre così affabili che chiunque in paese aspettava sempre il suo arrivo.

«Troppo gentile, mia signora. In cosa posso servirvi?»

«Il mio cavallo. Vorrei che gli fornissi dei nuovi ferri, resistenti per un viaggio.»

«Attraverserete rocce? Pianure? Colline?»

«Solo la via maestra, forse con qualche piccola deviazione lungo il Tahirrin.»

«Andate al Cuore del Drago blu? Vedrete il Vecchio della Voce?» chiese meravigliato e con una visibile eccitazione nella voce, ma poi aggiunse, quasi vergognandosene: «Perdonate, mia signora, non sono affari miei.»

«Benka» disse lei, sorridendogli «smettila di rivolgerti a me come a una nobildonna di Naythen. Sì, sono diretta al Lago della Voce. Vorrei interpellare il Vecchio perché aiuti questo mio amico.» Indicò Aynuglar che stava rimirando gli oggetti nella bottega ed era arrivato quasi all’altro ingresso, accompagnato da Thilduin che gli svolazzava intorno con il suo fidato miridho.

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Si trattava di una rastrelliera piena di armi appena forgiate. Non era un esperto, ma solo a guardarle, gli sembrava che la finitura, i materiali utilizzati e la cura con cui erano state costruite fossero più raffinate del lavoro di un semplice fabbro di paese.

Aynuglar non avrebbe potuto spiegare come lo sapeva, ma aveva la netta sensazione di conoscere molto più sull’argomento di quanto la sua mente voleva fargli credere. Una volta recuperati i suoi ricordi, forse avrebbe avuto anche questa risposta. D’improvviso nella sua testa ci fu un ronzio. Si massaggiò le tempie e scosse il capo, come per scrollarsi di dosso quella sensazione fastidiosa. Gli sembrò che qualcosa o qualcuno gli stesse parlando, ma erano voci indistinte, un suono soffocato da rumore e caos. Era fermo vicino a una vecchia incudine dismessa, sulla quale vi era inciso un simbolo: un guerriero che cavalcava un Drago. L’effige era identica al ninnolo trovato in casa di Hellybeth. Stava per avvicinarsi all’incudine, quando fu distolto dalla squillante voce di Thilduin: «Infilzato, giovane malandrino!» Aynuglar si voltò di scatto, come se si aspettasse un attacco da qualche creatura o da un altro di quei soldati in nero, ma ciò che vide fu solo il miridho con Thilduin sul dorso che s’infilava in una siepe e subito dopo un risolino e due ragazzetti minuti che sbucavano fuori da lì.

«Prima o poi ti coglierò di sorpresa!» ammiccò il giovane, mentre il Folletto si pavoneggiava affermando il contrario.

Aynuglar non si era nemmeno reso conto che quei due ragazzi che aveva visto lottare insieme avevano ormai smesso da un po’, forse quando avevano notato l’arrivo di Hellybeth e del suo compagno Folletto e si erano acquattati nella siepe.

«Senza Lingua, lui è Mhellor e questa giovane e promettente guerriera è Jillianor» disse Thilduin.

Vedendoli così da vicino, Aynuglar non poté fare a meno di notare gli occhi della ragazza: erano di un verde intenso e profondo, screziati di marrone, e lui parve perdersi in quello sguardo.

«Anch’io sono un promettente guerriero e un giorno lo diventerò» si apostrofò Mhellor.

«Ne sei certo?» incalzò la ragazza. «Dovrai faticare ancora molto prima di battermi!»

«Cos’hai detto?» sbottò lui, sfoderando la spada di legno. Te la farò pagare… dopo!»

Poi si voltò verso Aynuglar e disse: «Perché ti ha chiamato Senza Lingua?»

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Aynuglar si toccò la gola, poi disse: «Eno, en glossen.» Mhellor guardò Thilduin. «È Enoshar credo. Ritengo abbia detto che lui non sa parlare, perciò lo chiamiamo Senza Lingua, Aynuglar, nell’idioma del Piccolo popolo.»

«Sei un combattente?» chiese Mhellor, rapito da quella stranezza. Aynuglar scosse la testa.

«Certo che lo è, ha tenuto testa a due Velati!» s’intromise Hellybeth. «Sul serio? Mi insegneresti?»

Aynuglar si guardò intorno, poi vide la spada di Jillianor e tese la mano per chiederla in prestito.

Lei gliela lanciò e lui l’afferrò al volo dal manico.

Mhellor cominciò ad attaccare. In un batter d’occhio l’altra spada di legno era alla gola del ragazzo, poi al petto, alla schiena, puntata contro di lui, senza dargli la possibilità di sferrare più di un colpo, mentre Aynuglar diceva ogni volta: «Morto! Morto! Nouvos morto.»

«Morto di nuovo!» tradusse a senso Thilduin.

«Ora tocca a me!» urlò Jillianor, prendendo la spada dell’amico e cominciando a duellare.

Il risultato fu lo stesso, solo che lei era davvero più abile e riuscì a sferrare due colpi che andarono quasi a segno, prima di ritrovarsi morta con la spada alla gola.

«Bravi, entrambi!» commentò alla fine Aynuglar.

«Tu sei straordinario!» esclamò Mhellor. «Potresti sbaragliare tutti i cavalieri Velati in un solo duello. Certo, poi ci sarebbe il Necromaestro, quello è tutta un’altra storia.»

«Chi è?» chiese Aynuglar.

«Aynuglar, dobbiamo andare» chiamò Hellybeth. Mhellor e Jillianor trasalirono. «Dama Hellybeth!» dissero in coro, correndole incontro.

La abbracciarono come se fosse la loro madre, e lei ricambiò con trasporto.

«Oggi avevate qualcos’altro a cui porre attenzione, dico bene ragazzi?» disse, facendo un cenno verso Aynuglar.

«Ma dove lo hai trovato?» chiese Mhellor.

«Lo ha trovato Thilduin e lo ha portato da me. Non ricorda nulla. Devo portarlo dalla Voce affinché recuperi la memoria.»

«Dalla voce?» chiese Mhellor strabuzzando gli occhi.

«Veniamo con te!» propose subito Jillianor.

«Oh, non se ne parla, giovanotti» intervenne Benka. «Salutate Hellybeth e lo straniero e rientrate in casa.»

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«Padre! Ti prego. Tu non eri più grande di noi quando sei andato dalla Voce.»

Benka scosse la testa. «Non è la stessa cosa; erano tempi diversi, di tumulto…»

«Anche noi abbiamo diritto d’interpellarla.»

«Vi prego, mastro Benka» intervenne Jillianor. Benka guardò a lungo la ragazza. «Per mio figlio ho parlato, giovane Jillianor, ma per te non potrei farlo, spetta a tuo padre, quindi non prendere le sue parti, è inutile.»

Lei abbassò la testa rammaricata, mentre Mhellor con la fronte corrugata e lo sguardo deciso stava per dire qualcosa che però gli morì in gola quando Hellybeth disse: «Tuo padre ha ragione, Mhellor. Andrai a interpellare la Voce quando sarà il momento. Questo viaggio potrebbe rivelarsi pericoloso.»

A sedici anni, c’erano già uomini sposati e con almeno una battaglia alle spalle e lui invece, fino ad allora aveva solo fatto il garzone e qualche combattimento con il padre, con Jillianor o in alternativa con un uomo di paglia nel frutteto. Questo avrebbe voluto dire, ma ancora una volta non vi riuscì.

Si grattò la fronte, qualcosa gli prudeva. Il sangue gli ribolliva nelle vene. Collera? Risentimento? Al momento non poteva dirlo.

«Come volete, dannazione! È stato un onore, Aynuglar» si accomiatò con tono serio, alzando la testa per incrociare il suo sguardo, l’unico, a suo parere che non lo stesse guardando come un ragazzino.

L’uomo silenzioso lo osservò e gli poggiò una mano su una spalla; poi guardò Jillianor e le fece un cenno di saluto con il capo e un accenno di sorriso sulle labbra.

«Perdonatelo, mia signora.»

«Non essere troppo duro con lui, Benka» disse Hellybeth «è normale che a questo punto desideri l’avventura, lo stai addestrando come un guerriero.»

«Lo so, e non potrò trattenerlo per sempre.»

«L’hai finita?» gli domandò poi.

«Sì» annuì, con un sorriso mesto. «Gliela darò appena andrete via. Volevo attendere il suo Giorno della Memoria, ma non credo che me lo concederà. Chissà perché temo che da un momento all’altro scappi di casa per sempre, come quando me la fa sotto il naso per venire a trovarti.»

Hellybeth sorrise. «Devo ammettere che quei due colgono sempre di sorpresa anche me. Spero non si caccino nei guai per questo. Dargli ora

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quella spada è una buona idea. A presto, mastro Benka, questo per i ferri.» Prese cinque monete d’oro dalla borsa. Benka agitò subito le mani, imbarazzato. «No, vi prego, fate tanto per noi.»

«Questo lo vedremo dopo la Decimadria. Intanto, accettateli.» ***

Il carro era ormai lontano quando mastro Benka chiamò Mhellor e Jillianor.

«Mhellor, mi dispiace per averti proibito di andare con Hellybeth, ma devi capire le mie ragioni. Una di queste è nascosta sotto la paglia, dietro l’incudine di Eduk. Coraggio, va’.»

Mhellor era perplesso ma al contempo eccitato da quell’improvviso e inaspettato enigma che suo padre – uomo semplice, che amava la famiglia e il suo lavoro – gli poneva. Riuscì a formulare solo questi pensieri nel brevissimo tragitto che lo separava dall’incudine del suo trisavolo Eduk il valoroso, un possente guerriero e uno degli ultimi Cavalieri di Drago che avesse solcato i cieli di Ravelldhur.

Suo padre gli aveva raccontato – la sua storia preferita – di come Eduk e Hymkahr, suo compagno d’armi e amico fidato, con i loro possenti Draghi dell’acqua, avessero combattuto nella seconda guerra del Mago, sconfiggendo e scacciando tutte le Succubi presenti a Ravelldhur e di come, alla fine, fossero riusciti a strappare un accordo con il Mago. Una pace duratura anche se a un prezzo orribile: quell’atto feroce e malvagio che chiamavano Decimadria!

Fu in quell’occasione che sorse l’Ordine dei Velati da una parte e l’Ordine delle Spade Bianche dall’altra, unica protezione contro i Velati del Mago. L’equilibrio tra le due parti fu garantito anche dagli ultimi due Draghi sopravvissuti alla guerra: Arhar-famhenay, un bellissimo e gigantesco Drago del cielo apparteneva ai primi e il temibile Drago di magma Aghnograrh e il suo cavaliere, il Re Morto, un essere terrificante e malvagio, proveniente dalle profondità più buie e tenebrose di Oukoun, come si vociferava tra la popolazione.

Mhellor raggiunse l’incudine del trisnonno, utilizzata per forgiare armi dopo la fine della guerra, quando molti soldati furono congedati e la forgiatura delle armi fu resa legale solo per i servitori del mago e le milizie cittadine autorizzate, oltre che per le Spade Bianche.

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La sublime arte della forgiatura passò da Eduk a suo figlio Uruk e poi a Benka e da quest’ultimo sarebbe passata a Mhellor, anche se lui avrebbe di gran lunga preferito usarle le spade; tuttavia – si diceva ogni volta che questo pensiero lo assaliva – servirà sempre qualcuno che le forgi, e se nella capitale si poteva contare sulle grandi e laboriose fucine dei Nani di Hogmorn, oppure sulle forge elfiche di Yve’hennah, chi avrebbe creato spade di qualità per i piccoli paesi interni? Chi li avrebbe difesi dalle angherie dei Guerrieri Velati?

Questo Mhellor si diceva, ma ora era come se nulla avesse più importanza, tranne ciò che prese dietro l’incudine di Eduk: un contenitore di legno, stretto e lungo, che poteva contenere soltanto… Tornò indietro, con gli occhi lucidi, ma sforzandosi di non piangere. Se non fosse stata una spada, non avrebbe dovuto mostrarsi debole e frignare come un ragazzino. Ormai era un uomo.

Porse la cassa al padre, il quale la prese e l’aprì.

Jillianor era eccitata, proprio come Mhellor, anche se il dono non era per lei. Gli prese la mano mentre il padre schiudeva il coperchio, con il contenuto rivolto verso di sé.

Poi Benka alzò gli occhi, guardò suo figlio e la giovane, e disse: «Non me ne fate pentire, vi prego.» Poi poggiò la cassa sulla sua incudine e ne prese il contenuto, mostrandolo ai ragazzi.

Era una meravigliosa spada del metallo più lucido e luccicante che avesse mai visto. Dall’elsa e dalla lama si liberava uno strano riverbero verde, prodotto dal luccichio di una pietra simile a uno smeraldo, striata di nero, presente al centro dell’elsa a croce, leggermente ricurva e decorata con intarsi e intrecci. Il manico era di osso e il pomolo dello stesso metallo della lama era circolare e recava l’incisione di un Drago. La lama era larga ma sottilissima, elegante, con una punta affusolata. Alla base il metallo era più spesso e aveva un simbolo runico inciso sopra. Benka fece cadere la lama sulla mano sinistra aperta che l’attendeva parallela alla destra che reggeva il manico, e la porse a Mhellor. «Quando andai al cospetto della Voce, mi disse che avrei forgiato degli oggetti in nome del Sacro Equilibrio, e mi comandò di raccogliere due ampolle di acqua dalle sponde del Cuore del Drago Blu, al tramonto. Poi, dall’acqua emerse un pezzo di osso di Drago della terra, e due scaglie luccicanti come smeraldi. Mi disse di raccoglierli. Così feci, poi ritornai a casa e nel mese che seguì forgiai questa, seguendo le istruzioni che la Voce continuava a darmi. Capii che sarebbe rimasta con me fino alla fine del lavoro.»

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Il ragazzo la prese con venerazione, la soppesò e senza toglierle gli occhi di dosso, la roteò e provò qualche fendente. La lama rilasciava una scia verde mentre la agitava. «Questa è Canto del Lago, figlio mio, ed è per te. Abbine cura e, mi raccomando, non mostrarla mai alla presenza di un Guerriero Velato, finché non sarai pronto a usarla.»

Mhellor lo guardò con gli occhi lucidi. «Te lo prometto, padre.»

«Questo invece» continuò poi Benka «è Sogno del Lago.» Prese dalla stessa cassa che conteneva la spada, un bellissimo medaglione con la seconda scaglia, tagliata come un eptagono, con le sette punte circondate da una corona d’oro su cui vi erano altri simboli runici. La porse a Jillianor.

La giovane rimase di stucco. «Mastro Benka ma… dite sul serio? Io non…»

«Prendila, ti prego. Sei legata a mio figlio, ormai è evidente. Con questi oggetti, lo sarete ancora di più. Le vostre intenzioni si sono palesate e l’arrivo dello straniero è stato l’ultimo tassello che mi ha convinto che il tempo per voi di emergere come guerrieri e maghi, è giunto!»

Mhellor fissò il genitore a lungo. «Ma, padre, infrangeremmo la prima legge del Mago, non ci possono essere altri servitori della Magia tranne i suoi.»

«È vero» convenne l’uomo. «Per questo vi dico che dovrete stare molto attenti. Ora non sono più responsabile delle vostre vite. Jillianor, per te è diverso» si rivolse alla ragazza. «Tu puoi rifiutare se ritieni che la tua famiglia non accetti questo fardello.»

La ragazza lo guardò con determinazione. «Mastro Benka, parlerò con mio padre ma la decisione è già presa: sarei tentata di rinunciare e continuare a vivere nella nostra fattoria. Ma il mio cuore mi dice che non posso. Non è ciò che voglio. Per chi crede in Tenwar e nel suo Sacro Equilibrio, direbbe che questo è un suo segno e che lui ha tracciato una via dinanzi ai miei piedi. Per chi invece non crede, significa accettare di combattere per la libertà e contro ogni sopruso di chi vuole governare con tirannia e malvagità; significa combattere ogni forma d’ingiustizia… quindi, in ogni caso, lo accetto.»

L’uomo sorrise. «Sono lieto di sentirlo.»

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***

La strada proseguiva lenta e placida lungo la Via Maestra, anche se il carro di Hellybeth era l’unico mezzo di trasporto a mantenere un’andatura più sostenuta.

Tutti i mercanti o gli avventurieri che incontrarono lungo la via ricevettero un fugace saluto, prima di vedere il carro scomparire dietro di loro o sorpassarli in uno scalpiccio roboante, che poi si dissolveva poco dopo.

Fecero abbeverare i cavalli un paio di volte in altrettante stazioni si sosta, lungo il cammino verso Rethuin, dove si fermarono un’ultima volta per approvvigionarsi, poi dritti al porto.

Pagata la tassa di due monete, furono traghettati sull’altra sponda; rimasero sul carro per tutto il viaggio e poi, sbarcati all’attracco vicino a Ghorfhenn, proseguirono di nuovo sulla Via Maestra fino alle mura della città. Lì la strada biforcava: da una parte andava verso ovest, collegando i paesi vicini fino a Ythuin; la diramazione sud, invece, entrava a Ghorfhenn.

Loro andarono a est. Lasciarono la Via Maestra e si avventurarono su un piccolo sentiero in terra battuta, quasi invisibile. Era la via più breve per le sponde del Tahirrin, il fiume che attraversava tutto Meydenoth e che s’immergeva nelle fredde acque dell’omonimo lago, chiamato anche il Lago della Voce, oppure Cuore del Drago Blu, la meta dei tre pellegrini che ora spronavano i due cavalli con i poderosi ferri di Benka. Era una via tranquilla, frequentata da pochi. Gli agricoltori nei campi, lungo il cammino, alzavano lo sguardo per osservare la carovana, soffermandosi sul curioso volatile cavalcato da quell’altrettanto bizzarra e minuscola creatura. Il Folletto attirò anche l’attenzione e l’ingenua curiosità di alcuni bambini e ragazzini che si avvicinarono al carro per osservare meglio. Thilduin prese a svolazzare intorno ad alcuni di loro, giocherellando con i più piccoli che si misero a ridere e saltare, agitando le braccia per cercare di afferrare il miridho. «Thilduin» chiamò Hellybeth, e il Folletto girò il miridho e tornò verso il carro. Lei fece un cenno del capo davanti a sé per indicare qualcosa. Lui guardò e vide il luccichio lontano delle sponde del Tahirrin e, subito prima, una lunga scia di persone incolonnate che terminava a un attracco e un piccolo molo di legno. La chiatta stava tornando, il nocchiero era un uomo anziano, vestito di abiti logori che tirava la piattaforma tramite una corda che collegava il molo a un isolotto al centro del lago. «Quanto ci vorrà?» chiese Thilduin «Un bel po’, temo» ammise la donna, mentre accostavano il carro sotto la chioma di un grande albero e legavano i cavalli a un ramo. Una volta a

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terra, si avvicinarono a una delle guardie cittadine che sorvegliavano la fila e gli porsero la stessa domanda.

«Tre o quattro giorni, mia signora» fu la risposta. «È da qualche settimana che ci sono queste torme, tutti che desiderano ascoltare la Voce.»

«Non c’è modo di oltrepassarla?»

«Temo di no. O meglio, dipende…» «Da cosa?»

«Dalla vostra urgenza e da quanto oro avete a disposizione.»

Hellybeth guardò i suoi compagni di viaggio, poi di nuovo la guardia. «E se avessimo entrambe?»

«Allora potreste andare con la Lancia azzurra.» «Cosa sarebbe?»

«L’imbarcazione che usano i nobili di Vaer-Annen. Parte dal molo della città e raggiunge le sponde dell’isola; da lì attraverso la via della Voce raggiungerete immediatamente la dimora del Vecchio, e lui vi riceverà prima dei cittadini.»

«Ma non è giusto!»

«Con l’oro tutto diventa giusto, mia signora. È così da quando la Nebbia ha creato il mondo.»

«La Nebbia non ha…» non terminò la frase. Inutile disquisire sulla cosmogonia di Ravelldhur in un momento come quello. «E se andassimo a nuoto?»

Il soldato sorrise. «Ammesso che aveste la forza di nuotare per cinque miglia in queste acque in cui anche una piuma affonderebbe, il lago non ve lo permetterebbe. Se foste fortunati, vi risputerebbe a riva, altrimenti finireste inghiottiti nelle sue acque.»

«Non credevo che il lago fosse vivo.»

Il soldato scrollò le spalle. «E la Voce da dove arriva secondo voi?»

«Da Tenwar, ritengono molti!»

Il soldato sbuffò. «Questo dimostra quanto ne sapete voi Alamirdiani. È il lago a parlare, e il Vecchio è l’unico che riesce a udirne la voce.»

«Grazie soldato.» Si limitò a dire Hellybeth, poi tornò al carro insieme ai compagni.

«Qualche settimana: è poco prima del tuo arrivo» disse la donna ad Aynuglar. «Tutto ciò che ti ruota attorno ha dell’arcano. Purtroppo, dobbiamo sottostare a questa condizione, non possiamo aspettare giorni, o tutto sarà stato inutile. Se i due soldati dovessero svegliarsi prima del nostro ritorno, sarebbe la fine. Capirebbero che li abbiamo addormentati di proposito e ci inseguirebbero.»

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«Vuoi pagare i nobili, quindi?» chiese il Folletto.

«Ho duecento monete con me. Dovrebbero bastare.»

«Non vorrai spenderle tutte?»

«Se è necessario!»

«No vale fen eme» esordì Aynuglar. «Certo che ne vale la pena per te, amico mio! Tu sei la cosa più strana capitata qui da centocinquanta anni, dopo l’ultima volta che Arharfamhenay è stato avvistato in cielo. Forse sei il primo barlume di speranza per spezzare il giogo del Mago da quando furono istituite le sue inique leggi.»

Lui sospirò. «È deciso» concluse lei «procediamo.»

La città era viva e frenetica, un tripudio di gente di razze diverse, tra cui alcuni figli di Fheyar come Elfi, Gnomi e Folletti Cavalca miridho come Thilduin oppure Scuotiterra, dalla pelle e gli abiti più scuri, che cavalcavano creature terrestri e vivevano nelle profondità di cunicoli e caverne.

I cavalieri dell’Ordine dei Velati erano ovunque in squadre di dieci uomini, ma non potevano spegnere la vitalità dei cittadini, degli avventori e dei mercanti; questa città nulla aveva a che spartire con la guardinga quiescenza degli abitanti di Daeryan. Vaer-Annen era enorme in confronto al borgo da cui provenivano, e per tutto il tragitto che li separava dal molo, Senza Lingua camminò quasi barcollando, a causa dell’insopportabile vociare e di ogni movimento o passo che gli sembrava accelerato e senza controllo. Hellybeth chiese informazioni sulla strada per il molo dei nobili, ma arrivarci fu semplice. La Via Maestra correva dritta come un fuso, e terminava esattamente all’attracco della Lancia azzurra. In lontananza si scorgeva la terra dell’isolotto del Vecchio della Voce. I nobili di Vaer-Annen accettarono di condividere il viaggio con i tre compagni, al modico prezzo di novanta monete d’oro. Aynuglar vide Hellybeth discutere con un uomo dalla corporatura robusta e vestito con abiti ampi e sgargianti, e un buffo copricapo a strisce rosse e blu che terminava con un pennacchio a forma di coda di freccia che gli pendeva da un lato della testa. Questi andava avanti e indietro da Hellybeth alla lettiga del suo padrone, un altro uomo molto più corpulento e alto, disteso su un triclinio di legno e oro, il Governatore di Vaer-Annen. La trattativa fu conclusa, e i tre salirono a bordo.

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Gli fu riservato un posto in piedi lungo i bordi della chiatta, larga circa dieci volte quella popolana.

Il nocchiero manovrava un argano, spingendo due manovelle agganciate a un mulinello che faceva muovere l’imbarcazione senza sforzo.

L’argano permetteva di coprire distanze molto più grandi e in minor tempo. In meno di un’ora, sarebbero giunti all’isola.

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CAPITOLO 4 LA DECIMADRIA

Quando furono sull’acqua, finalmente il silenzio ritornò. Il lago era placido in modo innaturale. Anche le increspature della chiatta sembravano svanire subito, senza propagarsi oltre qualche metro. Aynuglar sentì di nuovo quel ronzio. Questa volta però le voci erano più chiare, limpide come la superficie del lago che non rifletteva il cielo di nebbia che li sovrastava, ma era di un azzurro brillante. Hellybeth si accorse che Aynuglar era turbato da qualcosa e gli chiese cosa fosse.

«Voci!» spiegò «molte voci… o una sola.»

«Stai parlando solo in Enoshar ora» disse la donna. Lui scosse la testa. «Cosa senti?»

«Non comprendo… Benvenuto figlio del fuoco; il tuo destino è tracciato, è più importante di quanto pensi. Il ghiaccio non è malvagio. Segui la strada congelata.»

«Tu senti la Voce! Ma è impossibile» esclamò Hellybeth, stupita. «Sentivo qualcosa anche all’abitazione del fabbro. Ma lì non sono riuscito a comprendere nulla.»

«Perché non me lo hai detto?»

Scrollò le spalle. «Pensavo… non importante.» Lei sospirò. «Tra poco lo scopriremo.»

Più la barca si avvicinava, più Aynuglar continuava a percepire la Voce. Ora sentiva tutto ciò che diceva a coloro i quali le avevano posto un quesito: “Non temere, i tuoi campi saranno rigogliosi”; “Non giocare più d’azzardo con quell’uomo o perderai tutto”; “Non avrai mai fortuna, devi cavartela con le tue sole forze”; “Conserva e proteggi i tuoi beni”; “Tuo figlio guarirà, se ti rivolgerai agli Gnomi”. Consigli per gente semplice che sperava solo di sopravvivere il più a lungo possibile in un luogo ostile.

“Aynuglar…” Sentì nella sua mente.

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Tu sei Aynuglar, ma anche qualcun altro! Prima del tuo risveglio ricorda, combatti e risorgi! Vai dall’Eremita sulla montagna…”.

«Aynuglar che ti prende?» la voce di Hellybeth lo fece trasalire. L’uomo si prese la testa tra le mani. «È sempre più forte.»

Lei lo guardò con apprensione e gli mise una mano sulla spalla. «Coraggio, siamo arrivati.»

I nobili scesero dalla barca con tutta la loro corte ad accompagnarli e a creare un varco tra la folla. Le guardie li tennero lontani, mentre i loro signori prendevano prepotentemente il posto che sarebbe spettato ad altri.

«Come può il popolo accettare tutto questo? Tutti hanno il diritto di ascoltare la Voce» commentò Aynuglar.

«È così da sempre, mio caro» rispose Hellybeth, con un amaro sorriso sulle labbra. «Non puoi farci nulla. Loro hanno il potere dell’oro con cui possono comprare obbedienza, fedeltà e spada.»

«Non se c’è una spada più forte…»

«Ma non una spada solitaria. So cosa pensi, ma ora non puoi fare nulla. Io non ho potuto fiatare quando mio marito veniva trucidato nella Caccia ai Cavalieri di Drago.»

«Ma se avessi potuto?»

«Non è così semplice.»

«Cosa c’è di complicato?» ma poi fu distratto di nuovo dalla Voce. “Se continuo a dare aiuto ai Velati, le mie ricchezze cresceranno? Come faccio ad avere la donna del Maestro della Biblioteca?”.

“Quando il popolo cercherà aiuto nel tuo palazzo, non rifiutare; il tuo desiderio carnale nei confronti di quella donna sarà appagato con la violenza. Non farlo, o costruirai pezzo dopo pezzo la tua rovina”.

Era la voce del Governatore. Uscì dalla casa urlando e imprecando: «Ce ne andiamo! Questa della Voce è tutta una montatura. Maledetto Vecchio, me la pagherai. Nessuno si prende gioco di me!»

Aynuglar scattò in un impeto irrefrenabile e si diresse verso di lui. La sua mano afferrò rapida la gola dell’uomo: «È solo questo che ti preme?» gli chiese, disgustato.

«Aynuglar!» urlò Hellybeth, fiondandosi verso di lui mentre le guardie sguainavano le loro armi. «Ti prego no, ti uccideranno!» cercò di calmarlo.

«Lascialo, bifolco!» urlò un soldato, mentre altri due lo tenevano di mira con le balestre.

Aynuglar mollò la presa e il nobile riprese a respirare.

«Lurido bastardo, avrò la tua testa!» imprecò, tossendo.

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«Nessuno verserà sangue nella mia casa» esclamò una voce alle loro spalle.

Guardando oltre la montagna di abiti di lusso del nobile, Aynuglar vide un gracile uomo, vestito di stracci non meno logori dei suoi, con barba e capelli canuti ma folti, e uno sguardo tagliente. Sarebbe passato per uno dei villici che si recavano a udire la Voce, se non fosse stato per un sontuoso anello al dito indice della mano destra, con una grossa pietra azzurra romboidale.

«Tu sarai il prossimo!» urlò il Governatore, con voce strozzata e ancora piegato su se stesso, mentre si massaggiava la gola. «Soldati!» ordinò poi, e quelli sollevarono le balestre pronti ad attaccare Aynuglar e il Vecchio. Ma dal lago, una sferzata di vento soffiò, increspando le acque. Due propaggini liquide, come tentacoli, si sollevarono e andarono a frapporsi tra gli armigeri e il Vecchio, sollevati come due serpenti eretti in procinto di attaccare.

«Nessuno» ripeté il Vecchio «verserà sangue nella mia casa!»

«Ho detto attaccate!» continuò a inveire il nobile.

Un dardo fu scoccato e subito dopo il secondo, ma le due fruste d’acqua scattarono altrettanto velocemente, intercettando prima i quadrelli della balestra e poi i soldati che li avevano scoccati.

Colpirono le balestre, piombando dall’alto, e disarmarono i due guerrieri. Questi indietreggiarono sguainando le spade.

«Salite sulla vostra barca e andatevene!» ordinò, poi si voltò e rientrò in casa, mentre le due code d’acqua ondeggiavano minacciose, come se avessero coscienza.

«Mio signore» disse il consigliere, cercando di far rialzare il suo padrone «ora non è il momento, siamo in svantaggio tattico e militare.»

Quello ringhiò: «Hai ragione… maledizione! Ma torneremo. Il Necromaestro sarà informato di questo. E tu…» continuò rivolto ad Aynuglar «potrai nasconderti quanto vuoi, ma io ti troverò, tu e quella megera!»

Hellybeth chiuse gli occhi e aggrottò la fronte.

«Anni di anonimato e poi un manifesto con la mia faccia in una delle città più importanti del mondo, in meno di un’ora!»

Nel frattempo il Vecchio, dall’interno della casa, li invitò ad accomodarsi.

Aynuglar, Hellybeth e Thilduin entrarono e notarono la piccola dimora che si sviluppava su tre piani, ognuno minuscolo ed essenziale.

L’ingresso dava su una stanza luminosa, con due finestre a sinistra e a destra, e un piccolo camino sulla parete frontale. Un esiguo tavolo

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occupava il centro della stanza, e qualche mensola fissata alle pareti reggeva del pentolame e alcuni contenitori; a terra vi era una cassa con delle provviste. All’esterno della casa, alcune ceste di doni che la gente delle campagne recava in segno di gratitudine per la Voce, erano accatastate in modo ordinato su altri scaffali posti sotto una tettoia. In un angolo, quasi nascosta, vi era una piccola fontana da cui sgorgava limpida acqua lacustre, e sul tavolo vi erano due ciotole piene.

«Vi prego, sedetevi» disse il Vecchio. Sembrava cieco, i suoi occhi erano del tutto bianchi, ma si muovevano e guardavano i tre ospiti come se ci vedessero alla perfezione.

«La Voce mi permette di vedere» spiegò, interpretando i loro pensieri. «Mio signore, vi prego» iniziò Hellybeth.

«No mia cara» la interruppe lui «qui non vi è nessun signore, puoi chiamarmi Nahure.»

«Nahure, vi prego, siamo qui perché quest’uomo non ricorda nulla del suo passato. È venuto da me in circostanze strane e ogni cosa che fa è un enigma senza soluzione per noi. L’unica speranza siete voi e la Voce.» Lui sorrise. «Le stelle, per chi non le conosce, sono gli spiriti dei nostri antenati che ci guardano. Ma se si osserva con attenzione, è possibile vedere i loro fuochi ardere nel cielo. Così gli enigmi sono come una matassa di filo, più o meno intricati, ma il bandolo è sempre lì, basta seguire il filo a ritroso e l’enigma si scioglierà. Lui per te è un mistero perché non comprendi ciò che ti è stato nascosto.»

«Come la Nebbia ha nascosto le stelle? È di questo che parlate?»

«Capirai tutto a suo tempo. Ora tu, Senza Lingua, dovrai fare una scelta.»

«Come sapete il suo nome?» chiese Thilduin. «Non sareste qui se non fossi in grado di ascoltare la Voce, dico bene? E la Voce sa molte cose» si schiarì la gola prima di continuare: «Dunque, questa ciotola» spinse una scodella verso Aynuglar «ti farà recuperare subito ciò che hai perduto: la parola e una coscienza più ampia di te. La seconda» spinse anche l’altra verso di lui «ti ridarà la memoria, ricorderai chi eri e ti darà consapevolezza di chi potresti ancora essere. Starà a te poi decidere come utilizzare queste conoscenze. Oltre a ciò, immagino che tu sappia già cosa devi fare.»

«Parole confuse» rispose Aynuglar, scuotendo il capo.

«Bevi e tutto ti sarà più chiaro. Una coppa per conoscere te stesso, libero nel presente; l’altra per legarti di nuovo al passato.»

Aynuglar prese la prima coppa e bevve. Aggrottò la fronte e serrò gli occhi e i pugni; era come se una freccia lo avesse trafitto. Sentì di nuovo

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il dolore lancinante che aveva provato al suo risveglio nei campi, vicino alla Nebbia, quando era nudo, sperduto e afasico. Poi, pian piano tutto cominciò a diradarsi, come quando il mondo ricompare lentamente davanti agli occhi di chi osserva il sole per troppo tempo e ne rimane abbagliato. Aynuglar non comprese il motivo di questa considerazione dal momento che il sole, in quelle terre, era sempre offuscato dalla Nebbia e di rado si affacciava in un suo spiraglio. Il giorno, infatti, durava poco lì a Ravelldhur, mentre la notte era lunga, estenuante, fatta di tante sfumature di grigio e blu, ma era un blu sporco, opaco, ovattato da quel cielo innaturale, sempre in movimento.

La sua gola ora non faceva più così male e si rese conto di poter parlare con maggiore fluidità.

La sua lingua non era più confusa; percepiva più linguaggi: non solo l’Enoshar, ma anche il Cunaico, ovvero la lingua comune a tutti i popoli del mondo, dopo che un gruppo di esseri mortali decise di unificarli sotto un unico stendardo; e una terza lingua, il Gheradi, ma ciò che questa significava, al momento era meglio tenerlo nascosto ai suoi amici. L’acqua del Vecchio gli aveva anche riportato alla mente alcune delle conoscenze di quel mondo. Ora sapeva le dicerie e le leggende che si narravano da quelle parti, come la venuta della Nebbia nei primi anni di vita del mondo, le guerre del Mago, la sconfitta dei Draghi e il loro esilio sulle montagne e la loro successiva involuzione e aggressività, gli ultimi Cavalieri di Drago e il Patto del Mago. Ma erano conoscenze incerte, non empiriche; era come se qualcuno gli avesse insegnato tutto questo in un’unica grande lezione, oppure lo avesse letto da un tomo preso a caso da una biblioteca. Condivise i suoi pensieri con Hellybeth e i presenti – senza menzionare il Gheradi – e loro lo osservarono con grande confusione. «Ora parli molto meglio, Senza Lingua, sono compiaciuta» sorrise la donna. «Hai ricordi di chi eri e come sei finito vicino alla Nebbia? Da dove vieni? Dove stavi andando?»

Lui scosse la testa e osservò la seconda ciotola: «Se voglio saperlo, questo è il modo» disse e l’afferrò tra le mani portandosela alla bocca. Ripensò per un momento alle parole del vecchio “incatenato al passato” o “libero nel presente”. E se scoprire chi era e cosa stesse facendo si fosse rivelato qualcosa di sgradito? Se fosse una persona malvagia? D’altra parte, però, i ricordi del passato non avrebbero mai potuto cancellare l’esperienza del presente, quei giorni trascorsi con Hellybeth, imparando la dura realtà in cui gli abitanti di Meydenoth e Alamirdran

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vivevano, sotto la minaccia costante dei Velati, e occlusi da una cupola di Nebbia vorticante e viva. Però doveva sapere. Quindi portò alle labbra la coppa…

Un suono di corno lo fece trasalire. La ciotola quasi gli cadde di mano e qualche goccia di limpida acqua si versò sul tavolo. Un secondo suono più lungo riecheggiò sul lago e poi un terzo.

«No!» esclamò Hellybeth «la Decimadria. Mancano cinque giorni!» Corse fuori e guardò a destra e sinistra, poi verso il cielo. La Nebbia si stava muovendo più in fretta. Il cielo era sconquassato da nuvole grigie che strisciavano e vorticavano senza sosta, come un mucchio di serpenti sotto il pelo dell’acqua. All’orizzonte invece si vedevano cirri, nembi, cumuli avanzare e farsi strada nei campi, per le strade, ovunque.

«Non possiamo indugiare, dobbiamo tornare indietro in città o verremo sopraffatti.»

«Se rimanete qui, sarete al sicuro» li rassicurò il Vecchio.

«Grazie Nahure, ma è importante che io mi trovi tra la gente quando avverrà, mi capisci?»

«La gente già ti ama per le pozioni che prepari per loro.»

Aynuglar trasalì e vide il volto della donna fare un’espressione di sorpresa e terrore.

«Vi prego…» disse.

Nahure la rassicurò: «Nessuno lo saprà mai. Non da me almeno» sorrise e li guardò per alcuni istanti prima di dire: «Andate, il lago vi scorterà in fretta fino alle mura.»

«Grazie» rispose Hellybeth, e lasciarono la sua casa.

Aynuglar prese una borraccia da uno scaffale e vi versò il contenuto della ciotola. Guardò il Vecchio e gli fece un cenno di saluto con il capo, poi uscì.

Il Tahirrin li riportò al molo di Vaer-Annen. Videro una fiumana di persone, accatastate tra loro che tentavano di entrare in città. Le guardie delle porte, inutilmente, tentavano di ammansire la folla, quel suono improvviso di corno aveva creato un panico incontrollabile. Per la frenesia di raggiungere il centro cittadino, la gente si accalcava, spingeva, cadeva, calpestava altri e cadeva di nuovo. Si sentivano urla e gemiti dei feriti e i pianti dei bambini che, loro malgrado, erano stati strappati dalle mani dei genitori.

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Hellybeth e Aynuglar si accodarono a quella torma, assecondando il fiume in piena di cittadini. Tutti, per la Decimadria, si dovevano radunare nelle strade e nei vicoli, davanti alle porte delle case e in piazza.

Il peggio – una volta attraversato il grande portale di legno dell’ingresso – era passato; subito dopo le persone si smistarono nelle loro zone, ormai note, assegnate e mai cambiate dal primo anno della Decimadria. Le strade cominciarono a riempirsi, mentre la Nebbia già stava percorrendo i vicoli, insinuandosi per le strade e i viottoli, riempiendo la piazza e inghiottendo le case.

Molti, mentre cercavano di raggiungere la propria posizione, caddero vittime della Nebbia. Sfiorando anche solo per un istante un cirro di quel fumo demoniaco, venivano catturati in un baleno, e trascinati all’interno del banco; dopodiché scomparivano, le loro urla si dissolvevano nel fumo e di loro non si sapeva più nulla.

Vi era un enorme palo di legno al centro della piazza di Vaer-Annen come ve ne era uno al centro di ogni piazza di ogni città; era munito di tre giganteschi specchi dai quali la Nebbia di solito sgorgava e poi si propagava e invadeva la città, lenta e minacciosa. Una morte serpeggiante che con il suo strisciare monotono e silenzioso aveva il primo scopo d’intimidire e terrorizzare la popolazione e dare loro il tempo di sistemarsi a dovere e offrire alla Nebbia il campionario umano da cui scegliere i giusti ingredienti per il suo pasto annuale. Perché la Nebbia, e il Mago tramite quella, non rapivano a caso: sceglievano sempre dieci individui che sviluppavano inconsciamente un potenziale magico dentro di loro. Se ci fosse stata un’accademia di magia, questo potenziale sarebbe stato coltivato e sarebbe sorto un nuovo mago o stregone o veggente o negromante, ma con le Leggi del Mago, non era possibile. Così, una volta l’anno, la Nebbia prendeva nelle sue spire gli individui di ogni città che avevano sviluppato la magia. Quell’anno, però, c’era qualcosa di diverso nella Nebbia. Era famelica, violenta ed era sopraggiunta anche dall’esterno della città, muovendosi addirittura dai confini del mondo, dalle grandi Mura Bianche, oltre che attraverso gli specchi.

Già centinaia di persone erano cadute nelle sue spire, prima che tutti si fossero messi in fila.

Aynuglar e Hellybeth riuscirono a raggiungere la piazza cittadina, e si allinearono con il resto della folla che aveva anche invaso le strade che si diramavano dalla piazza. Dovevano mettersi uno accanto all’altro, da un lato e dall’altro delle strade. La Nebbia ci passava in mezzo e sceglieva.

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Quando tutti furono fermi e ci fu di nuovo quiete, la città era immersa nella Nebbia. I contorni delle case si vedevano a mala pena, erano rimasti soltanto i corridoi delle persone in fila.

A un tratto, il centro della piazza si agitò; qualcosa o qualcuno stava spostando la Nebbia senza che questa reagisse. Poi emersero dalla cappa grigiastra quattro cavalieri Velati e dietro di loro un quinto, vestito con un abito scuro, lungo, che gli copriva tutto il corpo, una tunica nera ornata degli stessi fregi e rune delle corazze dei cavalieri. Non si riusciva a capire se indossasse anche lui la maschera solita dei Velati, perché il suo volto era totalmente in ombra, e la testa era coperta da un cappuccio nero che gli arrivava quasi fino a dove avrebbe dovuto essere il naso.

Le mani erano scheletriche, di un bianco cadaverico mentre teneva le redini, e il busto era piegato in avanti, in una sorta di gobba raccapricciante che dava a quell’essere un aspetto terrificante e abnorme. Ogni tanto s’intravedeva sotto il cappuccio un riverbero inspiegabile, quasi come se i suoi occhi brillassero a contatto con il bagliore innaturale che la Nebbia emanava. Il sole e il cielo erano stati oscurati.

L’essere incappucciato si fermò, mentre gli altri cavalieri erano già scesi da cavallo. Uno di loro disse con voce solenne: «Il Necromaestro Velato, Seldhur.»

Seldhur scese a fatica da cavallo, e cominciò a caracollare verso la folla, zoppicando, curvo e con le mani protese in avanti, mettendo in mostra delle unghie nere simili ad artigli.

Il gelo del terrore calò tra la folla. Erano anni che il Necromaestro non raggiungeva Vaer-Annen. Egli interveniva quando qualcuno contravveniva in modo grave a una delle Leggi del Mago, oppure quando si doveva sedare una rivolta.

Caso che si verificò cinque anni prima. Nessuno si aspettava un incubo simile. La calura umida di quei giorni insopportabili sotto la cupola di Nebbia scomparve subito e cedette il posto a un freddo improvviso, debilitante. Se non fosse stato così innaturale, sarebbe anche stato gradito dalla popolazione, che così avrebbe trovato un attimo di refrigerio e pace. Ma la quiete e la serenità non è fatta per Ravelldhur e quel freddo giunse come una grandine di macigni.

Il Necromaestro Seldhur emerse dalla Nebbia. Cercava un uomo che da qualche tempo aveva instillato pensieri di ribellione tra la folla. Era riuscito a convincere il Governatore di allora che vi era una speranza di annientare una volta per tutte la tirannia del Mago e della sua terribile Nebbia. Quell’uomo, di cui nessuno più ricordava il nome, sosteneva che

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la Voce gli avesse suggerito di navigare fino ad Aelhaen-ymh, il terzo continente di Ravelldhur, ormai distrutto e ridotto a un arcipelago dopo la prima guerra del Mago, e lì attaccare la capitale Urgrak, un’antica città ormai abitata solo da feroci mostri e uno dei centri di addestramento dei Velati, al fine di distruggere un artefatto magico nel quale si diceva risiedesse il nucleo e la volontà della Nebbia. In quel modo, essa sarebbe divenuta un’essenza senza criterio, impossibilitata ad attaccare e priva della coscienza. Così sarebbe stato facile disperderla. Ma tutto ciò non avvenne mai.

Seldhur scovò l’uomo e la sua punizione fu esemplare. Gli divorò la mente e lui dimenticò ogni cosa, persino chi fosse. Assieme a lui la stessa sorte toccò al Governatore, mentre a tutta la popolazione fu cancellato il ricordo del nome di quell’uomo e dell’artefatto che voleva distruggere e il motivo per il quale volesse farlo. Mantenne, invece, il ricordo del suo proposito di ribellione e della fine a lui destinata, come monito per future insurrezioni.

Da quel giorno, nessuno più osò farlo.

«Il seme della ribellione è di nuovo tra voi, abitanti di Vaer-Annen» sibilò il Necromaestro con una voce sottile, ma altrettanto terrificante. «Non avete forse vissuto in pace da quando la Nebbia è giunta nel mondo? Non godete forse di prosperità e serenità da quando il Mago ha stabilito le sue leggi? Il solo tributo che vi si chiede è la Decimadria. Dieci di voi hanno l’onore di nutrire la Nebbia, e con essa il Mago. Non è un sacrificio ragionevole in cambio della libertà?»

Si guardò intorno, leggendo sguardi di terrore tra la folla. Attese alcuni istanti prima di continuare: «Eppure… qualcuno al nord ha tradito, e ora è qui. Ma non percepisco la sua presenza.» Si avvicinò alla folla e uno dopo l’altro iniziò a scrutare le loro menti, annusandoli come un cane fiuta la preda.

La sua mano scheletrica si muoveva ritmicamente, come le zampe di un ragno, e ognuno poteva sentire la sua nefasta influenza invadere la propria testa.

«Nessuno ha tradito, mio signore» disse qualcuno dalla folla. Seldhur si voltò di scatto, raggiungendo l’uomo che aveva parlato. Non camminò, ma levitò di alcuni centimetri per coprire la distanza in fretta, come uno spettro. Accostò il suo volto in ombra a quello dell’uomo, e puntò l’indice contro di lui: «Sarò io a stabilirlo» sibilò sinistro. Il cittadino cominciò a sentire un dolore lancinante alla tempia, come se qualcuno lo stesse trafiggendo con un fuso arroventato.

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«Due Cavalieri Velati di Daeryan sono stati aggrediti…» disse senza mai distogliere lo sguardo dall’uomo «aggrediti con la magia! Il più grave crimine secondo la Legge. La magia proveniva dalla capanna di quella donna che chiamano la strega di Haluryn, Hellybeth» la sua voce si fece più rauca e acuta a quelle parole, e voltò di scatto la testa verso un punto imprecisato della folla.

Hellybeth raggelò. Sentì la mente del Necromaestro individuarla subito tra la gente; era come se qualcuno la stesse lapidando nuda in quella piazza gremita.

Seldhur levitò di nuovo, aprendosi la strada tra i cittadini che si scansavano al suo passaggio. Molti finirono inghiottiti dalla Nebbia in quel frangente.

Aynuglar, d’istinto, afferrò Hellybeth per un braccio e la trascinò dietro di sé.

Seldhur si arrestò davanti al Senza Lingua, inchiodando il suo volto su di lui. Era pietrificato e lo fissava in modo inquietante.

Aynuglar lo fissò di rimando, i suoi occhi erano gelidi, cristallini, la fronte corrugata e un volto marmoreo, pronto alla sfida.

Trascorse un’infinità di tempo, poi Seldhur disse, con la sua solita voce melliflua ma raggelante: «Non percepisco nulla in te, straniero. Chi sei?» Lui tacque.

«Tu sei estraneo di queste terre. Vieni da est? Dalle montagne innevate? O dalle Terre paludose? La Legge del Mago è uguale in ogni luogo. La magia è bandita, nessuno la utilizza, tranne chi il Mago ha designato. E voi avete violato questa sacra legge.»

Aynuglar sostenne lo sguardo e rimase in silenzio, continuando a tenere il braccio di Hellybeth.

Seldhur si avvicinò ancora e respirò a fondo, come se volesse carpire meglio il suo odore.

Mosse il capo verso destra, come se avesse intuito qualcosa, poi fece un passo indietro.

Aynuglar spostò rapidamente lo sguardo. Folla dappertutto, Nebbia a occultare la visuale, la sagoma di quattro Cavalieri Velati accanto al Necromaestro, e questi che indietreggiava sempre più verso di loro.

«Catturateli, tutti e due» sibilò alla fine, e dalla Nebbia avanzarono due guerrieri, uno con una rete e l’altro con una spada.

Aynuglar evitò la rete lanciata verso di lui, aperta come una piovra; l’afferrò per un lembo e riuscì a strattonare il guerriero che la teneva, traendolo verso di sé e spingendolo sul secondo che lo stava caricando con la spada, sollevata sulla testa. Il compagno lo urtò e quello perse

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l’equilibrio. Aynuglar lo colpì alle spalle, con la pianta del piede, facendoli volare entrambi sulla folla.

Gli altri due intervennero. Senza Lingua parò un colpo di spada con il braccio, e di nuovo quel clangore strano sulla sua pelle riecheggiò nella piazza.

Ben presto si sollevarono urla e schiamazzi. La folla aveva assalito le guardie a terra e puntava allo stregone, ma questi urlò. Fu un urlo assordante, uno stridio misto a un ruggito; il suo grido sibilò come una tormenta nel vento.

Sollevò la mano, e dal palmo si liberò un globo nero che volò in aria scomparendo alla vista. Un istante dopo calò sulla popolazione una tempesta di fulmini neri.

La gente, terrorizzata, fuggì in ogni direzione cercando di evitare i fulmini, e la Nebbia li catturava senza sosta e senza pietà. Hellybeth cercò riparo assieme a un gruppo di cittadini, mentre Aynuglar combatteva con i quattro guerrieri che si erano raggruppati, e contro la Nebbia che tentava di catturarlo. Sembrava che nulla potesse ferirlo. Le armi continuavano a colpirlo, lui gemeva dal dolore ma sembrava quasi che avesse ricevuto un pugno da un ragazzino piuttosto che un fendente di spada da un guerriero.

Tentacoli di Nebbia lo ghermivano, ma lui se li strappava di dosso come se fossero delicate felci o lembi di una tenda.

Un affondo lo raggiunse alla schiena, ma la punta della lama si fermò non trovando varchi nella sua carne.

La blusa che indossava era lacerata in più punti. Aynuglar se la strappò di dosso, gettandola sul volto di uno dei quattro e colpendolo con un pugno. Si sentì un sordo rumore di qualcosa che si spezza sotto un oggetto pesante e massiccio, e il guerriero cadde a terra, sputando sangue. La maschera che portava si era frantumata, e il suo volto era martoriato e ferito come se a colpirlo non fosse stato il pugno di un uomo nudo ma una mazza chiodata. Dalla maschera rotta fuoriuscì un fumo nero, che sembrava avere le fattezze di un essere alato che si disperse e scomparve nella Nebbia.

Il corpo di Aynuglar era ricoperto di una epidermide rossa fiammeggiante, e da placche metalliche simili a un’armatura, adornate e decorate con rune e linee intrecciate che creavano complicati disegni; sembrava quasi manifattura elfica. Le braccia e il corpo avevano spuntoni di quello che sembrava rubino, e ben presto anche le gambe ne furono ricoperte, strappando i calzoni di tessuto.

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Ora si sentiva soltanto il metallo che cozzava contro quell’epidermide di gemme.

A un certo punto la Nebbia si diradò, e Seldhur ricomparve. Aveva le braccia sollevate mentre tutti i caduti a causa dei fulmini si stavano risollevando, ma non erano vivi, erano morti eppure si stavano risollevando. Necronhar li chiamavano, ovvero morti risorti dalla tomba. Dall’ombra sul volto di Seldhur brillavano due punti gialli, due tizzoni ardenti al posto degli occhi, e i cadaveri rianimati avevano quello stesso brillio nelle loro orbite altrimenti vuote e inespressive. Ringhiando e mostrando nuovi denti deformati dalla magia e resi da essa più appuntiti e forti, cominciarono ad avanzare, prima lentamente, poi a passo spedito, verso Aynuglar. I guerrieri si fecero da parte e l’orda dei morti avanzò verso la popolazione sopravvissuta e verso l’uomo con la pelle di metallo.

Aynuglar parò un morso con il braccio, sollevando da terra l’uomo e schiacciandogli la testa contro il suolo, ma gli altri presto lo sopraffecero. Era sommerso da una valanga di Necronhar che lo colpivano e mordevano. Il viso era martoriato dalle ferite, mentre quella strana pelle coriacea continuava a crescere, coprendogli il collo fino al viso. Ma era lenta e molti colpi andarono a segno. Poi, d’un tratto, un’onda di energia li spazzò via da lui.

Aynuglar si rialzò a fatica e si voltò. Vide Hellybeth con la mano destra aperta e protesa verso di lui. «Fuggiamo!» urlò la donna. «Al carro! Non devono prenderti.» Lui indietreggiò mentre un’altra onda più potente della prima spazzò via tutti i non-morti e parte della Nebbia creando un muro divisorio. Aynuglar raggiunse Hellybeth e insieme fuggirono verso le porte della città. Sentirono un cittadino chiamare: «Straniero!» Aynuglar si voltò e vide che questi gli aveva lanciato una spada che afferrò al volo. «Grazie» disse poi il cittadino, guardandoli andare via. Seldhur, dall’altra parte del muro di energia, contrastò quella forza e in pochi istanti la frantumò, in una tremenda deflagrazione che divelse il pavimento della piazza e distrusse le case circostanti; quando la polvere e i fumi si assestarono, ormai non vi era più nessuno vivo.

Lui avanzò con cautela, contemplando le macerie e i cadaveri. Poi sentì un flebile rantolo e una tosse rauca. Raggiunse la fonte di quel rumore. L’uomo che aveva dato la sua spada al Senza Lingua era disteso a terra, con il petto bloccato da un pezzo di muratura di una casa. Il Necromaestro gli si avvicinò, e con un gesto della mano spostò la pietra dal suo torace. L’uomo tossì sangue ma riuscì ugualmente a sussurrare:

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«Siete… sconfitto! Non abbiamo… dimenticato l’Uomo Senza Nome. Le vostre… stregonerie non vi serviranno…»

Ma prima che potesse continuare, Seldhur gli aveva serrato la testa con le mani. Non disse nulla. Guardò soltanto la vita e la mente di quell’uomo scivolare via, mentre lui se ne dissetava come da una fonte d’acqua fresca.

Poi lasciò la presa, si voltò verso i Velati e disse: «Richiamate tutti i Velati di Urgrak e divideteli per ogni città o villaggio da Vaer-Annen a Naythen.»

«Sì, mio signore» rispose uno dei Cavalieri. Seldhur lo afferrò per un braccio: «A Naythen nessuno dovrà sapere di oggi.»

Quello annuì e andò via assieme ai suoi compagni. Seldhur sollevò le braccia al cielo e urlò carico di collera: «Fuggite pure, ma non fuggirete a lungo: io vi offro un dono, un dono di fuoco, ossa e artigli.» Poi si voltò verso nord. «Ecco, questi sono i volti di coloro che voglio: trovateli, non vi fermerete di fronte a nulla, distruggeteli!»

La sua voce si perse nel vento, ma fu la sua mente a viaggiare veloce e raggiungere qualcosa. Qualcosa che da nord, rispose al suo richiamo.

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CAPITOLO

INDICE
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PROLOGO LA GRANDE NEBBIA
7
1
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5
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12
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13
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14
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LA
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SENZA LINGUA
11 CAPITOLO
L’ORDINE DEI VELATI
22 CAPITOLO
LA SPADA E IL LAGO
28 CAPITOLO
LA DECIMADRIA
40 CAPITOLO
LANDE GHIACCIATE
53 CAPITOLO
LA CANZONE DEL BARDO
68 CAPITOLO
LA VIA CONGELATA ........................................ 80 CAPITOLO
L’EREMITA DI ARONDRAS ............................. 95 CAPITOLO
VENTI DI SPERANZA ...................................... 116 CAPITOLO
LE SPADE BIANCHE
140 CAPITOLO
NEL NOME DEL MAGO
159 CAPITOLO
MOSSE STRATEGICHE
179 CAPITOLO
CENERE E FIAMME
202 CAPITOLO
L’EQUILIBRIO DEGLI OPPOSTI
223 EPILOGO
PRIMA ALBA
235

AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI

La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.

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