Il Libro della Resurrezione, Adriana Barattelli

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In uscita il 0/ /20 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine VHWWHPEUH e inizio RWWREUH 2020 ( ,99 euro)

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ADRIANA BARATTELLI

IL LIBRO DELLA RESURREZIONE

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni www.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ IL LIBRO DELLA RESURREZIONE Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-414-4 Copertina: immagine di Edoardo Rendano Prima edizione Settembre 2020


Al vero Pietro Leone: la parte migliore di me.



“Quante volte abbiamo bisogno che l’Amore ci dica: perché cercate tra i morti colui che è vivo? I problemi, le preoccupazioni di tutti i giorni tendono a farci chiudere in noi stessi, nella tristezza, nell’amarezza … e lì sta la morte. Non cerchiamo Colui che è vivo!”

(Omelia pronunciata da Papa Francesco il 30 marzo 2013 durante la veglia pasquale)



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PREMESSA

Questo scritto nasce dal mio essere una lettrice compulsiva senza più libri da leggere. I miei autori preferiti sono o troppo cari, o morti, oppure tali da pubblicare un libro ogni due anni. Non poteva certo bastarmi. In più ho notato che spesso alcuni scrittori sono anche molto dotati, ma assolutamente poco garbati! Voglio riaffermare l’uso di questa parola – garbato – che si sente sempre meno nelle nostre conversazioni: essa stessa ma, soprattutto il comportamento che sottende. Probabilmente perché vengo da una generazione che ha fatto della sgarberia, dell’andare contro le regole e dell’eccesso i motivi fondanti il proprio periodo, ritengo che invece ora se ne senta profondamente la mancanza. Non sono sicura di essere riuscita nell’intento, ma garantisco per l’impegno. Ecco, per me leggere è la migliore esperienza possibile e per goderne appieno non dobbiamo svenderla inframezzandola con volgarità e non sto pensando solo al turpiloquio. Sono comunque una convinta assertrice della coerenza logica: certe pratiche e consuetudini sociali esistono nella vita di ciascuno di noi e non parlarne non sarebbe, a mio parere, eticamente corretto. Un eloquio esageratamente e gratuitamente osceno invece non rientra proprio nelle mie corde, per cui ho da subito evitato la scurrilità. Ho così iniziato a scrivere il libro che avrei sempre voluto leggere. Facendo un po’ di ricerche ho notato che il primo consiglio a chi vuole intraprendere questa attività, è di focalizzarsi subito sugli eventuali fruitori: ma questo era facilissimo! Il mio lettore tipo ero io stessa: un po’ di Storia, sentimenti à gogò e una buona dose di ironia e autoironia. Ecco la mia personalissima ricetta. Dovendomi concentrare su questi complicati must, ho ritenuto opportuno


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facilitarmi il compito su altri versanti. Ho pensato così di prendere in prestito nomi e struttura della mia famiglia, in modo da non dovermi arrovellare il cervello inventando tutto ex novo. Chiedo quindi già da ora perdono a tutti i miei parenti per aver usato i loro nomi nell’inventare i personaggi. È abbastanza difficile descrivere qualcosa che si ha sottomano, ma per me è impossibile allo stato attuale, inventare nomi, caratteri, atteggiamenti, comportamenti e parallelamente gestire in modo adeguato l’intreccio. Ci tengo però a precisare che gli attori della mia storia hanno in comune con le persone reali solo il nome. In più, lo confesso, ho preso qualche loro caratteristica particolare e l’ho enfatizzata fino a farla diventare la predominante, se non l’unica. Nessuno si è salvato dalla mia grafomania: mio marito, i miei fratelli, mia mamma, mia nonna e tutti gli zii e cugini sono entrati, anche se in modo distorto, nel racconto. Si potrà notare che nel descriverli ci sia una preponderanza degli aspetti non propriamente positivi, ma secondo me è abbastanza logico: le doti più interessanti e intriganti sono quasi sempre dei difetti. Oltre a questo... che noia parlare sempre e solo di belli e buoni - kaloskagathos direbbe mio figlio! Famiglia, vi prego, non voletemene, voi non siete così, o perlomeno non solo! Vi voglio bene! Il secondo gruppo di persone a cui voglio prioritariamente chiedere scusa dopo i miei familiari sono i torinesi. Sono romana e amo in maniera indescrivibile e profonda la mia città: potrei aver detto io la frase “Roma o morte”, ma mi sono innamorata anche di Torino. Non si può non amarla! È perfetta. È la vera, nobile signora d’Italia. Camminando per le sue vie, per le sue piazze che hanno tutto il diritto di chiamarsi Piazza Carlo Alberto, si rimane come fulminati dalla presenza della Storia. E la Storia, quella con la esse maiuscola, è un’altra delle mie passioni. La Storia vive, si respira nei palazzi, nei vicoli, nelle strade romanamente diritte, insomma in tutta Torino. Ho letto – ovviamente! – e sono impazzita per tutte le storie magiche legate a questa fantastica città. Il mio è quindi il tributo di un’appassionata. So già che i torinesi purosangue inorridiranno per alcune inesattezze che solo


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chi vive da sempre in un posto può rilevare. L’ho fatto anch’io. Mentre leggevo “Angeli e Demoni” avrei voluto avere sottomano l’autore. L’avrei portato in giro per Roma. Così avrebbe dovuto ammettere che in Piazza Barberini NON c’è nessuna statua con cavaliere e cavallo o che da via Bissolati NON si può vedere la chiesa di Santa Maria della Vittoria perché la strada è in salita e l’edificio in questione, su Via XX Settembre, è troppo defilato rispetto all’incrocio. Sono certa di aver commesso anche io delle sciocchezze del genere. Spero che quanto ho scritto venga visto per quello che è: un segno d’amore e rispetto. Detto questo devo ammettere che la storia e i personaggi sono un prodotto della mia fantasia e che quindi qualunque riferimento a persone o cose realmente esistite è puramente e assolutamente casuale. Buona lettura!


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CAPITOLO PRIMO

Eh, sì, doveva cambiare! Quel modo di fare troppo autonomo e anche la sua agiatezza fino a quel giorno non le erano certo serviti per vivere una vita felice. Era indipendente, mentalmente ed economicamente, ma anche molto, molto sola. Questo non era mai stato un problema per lei. Anzi aveva sempre visto la solitudine come una meta, un obiettivo da raggiungere e mantenere. La sua famiglia, numerosa, cinica, assolutamente rumorosa e fin troppo presente, le aveva fatto da sempre immaginare la meraviglia di una vita solitaria, silenziosa e senza alcun aggancio con il resto dell’umanità. Circa un paio di anni prima però quel suo modo di vivere senza chiedere, ma anche senza dare, le era divenuto insopportabile. A quale scopo alzarsi ogni mattina, cercare di dare un senso alle proprie giornate per non farle scorrere via come l’acqua tranquilla di un torrente? Come era nel suo carattere aveva reagito e dato una sterzata significativa. Cominciò allora ad analizzare gli aspetti salienti della sua esistenza. Non poteva di sicuro lamentarsi. Non era certo un’ereditiera, ma una tranquilla benestante sì. Da un punto di vista fisico il suo aspetto non era di quelli che rimaneva impresso nella mente delle persone. In poche parole, niente di trascendentale: piacevolmente formosa, per non dire rotondetta, capelli scuri, occhi azzurri quasi del colore del ghiaccio, alta un po’ più della media. Tutti gli altri suoi lineamenti erano talmente delicati che quasi sparivano. L’elemento che però spiccava e che non permetteva a nessuno di ignorarla era certamente la sua personalità: uno spirito libero, fiero e, al contrario della Donna Prassede di manzoniana memoria, con idee personali e anche un


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po’ stravaganti su tutto e tutti e che su tutto e tutti venivano riversate praticamente di continuo. Certo il fatto di essere donna, nubile – i maligni avrebbero detto zitella – in quegli anni di inizio ‘900 non aiutava. Obiettivamente erano stati fatti degli enormi passi avanti nell’emancipazione del genere femminile, ma la strada era ancora lunga anzi, per dirsela tutta, era a malapena iniziata. Se eri una donna era impensabile vivere utilizzando la libertà e l’autodeterminazione di cui il Signore aveva fatto dono a ogni essere umano, senza alcuna distinzione di estrazione sociale, razza o sesso. Questo portava al discorso più complicato e con le implicazioni più serie: per farsi rispettare e avere il proprio spazio bisognava essere disposte a sacrificare molte comodità e venire a dei compromessi, se si apparteneva al sesso debole. Già questa specificazione portava con sé alcune ovvie conclusioni: era gioco forza che quindi dovesse essercene almeno uno forte, e di solito erano sempre gli appartenenti a quest’ultimo gruppo quelli che dettavano le regole valide anche per tutti gli altri. Ragionamenti come questo portavano di solito Adriana a tirare fuori il peggio di se stessa e provocavano risposte poco tolleranti nella maggior parte delle persone, senza alcuna distinzione di età o sesso. Solo per le più convinte suffragette era arbitrario considerare il predominio maschile in campi come la matematica, le scienze, o anche l’automobilismo e l’aviazione. Non parliamo quindi dei semplici rapporti tra persone in un’Italia dove secoli di nichilismo maschilista avevano fatto attecchire e prosperare la discriminazione più forte e radicata. Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, come faceva sempre per una questione di carattere, grazie alla propria posizione sociale la sua libertà aveva subito ben pochi legacci. Da diversi anni aveva accettato le restrizioni necessarie perché compatibili con lo scopo di fondo, ossia vivere la propria vita senza dipendere da nessuno e concedendo il minimo per ottenerlo. Si era così trovata un lavoro, o meglio un’occupazione, che le fosse congeniale e nella quale poter riversare parte delle proprie


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energie: aveva allora preso anche il diploma da maestra e, quando riusciva, insegnava ai figli dei lavoratori della FIAT di Torino. Questa grande fabbrica di automobili rappresentava da sola il nuovo secolo appena iniziato: si costruivano e si vendevano sogni! Cosa è infatti un’autovettura se non un sistema che annulla le distanze tra le persone e le cose? Questa era la definizione più vicina alla parola sogno che Adriana potesse immaginare. Certo non era stato facile farsi accettare dalle famiglie operaie. La stragrande maggioranza della forza lavoro veniva dal meridione e si portava dietro un bagaglio fatto di fame, miseria, speranze tradite e voglia di riscatto. La quasi totalità era analfabeta e, per così dire, fiera di esserlo, come se questa condizione segnasse una linea di demarcazione tra loro e i padroni, quelli che sapevano leggere, scrivere e far di conto e che avevano sempre usato queste loro conoscenze come mezzo di sopraffazione e strapotere. Una volta però stabilito un contatto umano con loro, non c’era voluto molto a convincerli che leggere e scrivere non era un privilegio legato alla classe sociale in cui si aveva la sorte di nascere, ma un’opportunità che ogni individuo aveva già in sé per il fatto stesso di essere un uomo, o una donna. Così aveva cominciato a frequentare quel nuovo universo sociale che era il proletariato, ma non aveva mai avuto la forza di entrarvi veramente e più che altro non era mai riuscita, almeno fino ad allora, a comprenderlo e apprezzarlo per quello che poteva essere per lei: un’opportunità di crescita e una grande occasione per fare nuove ed entusiasmanti esperienze. Era ancora persa nei suoi ragionamenti quando, come un macigno, la sua famiglia le si parò davanti. Vivere all’interno di una grande famiglia patriarcale all’esterno, rigorosamente matriarcale all’interno, non era mai stato semplice per lei. Probabilmente non solo per lei. Ricordava ancora quando bambina era ritornata nella casa materna. Sua madre e suo padre avevano cercato di scrollarsi di dosso un simile fardello e si erano trasferiti in un’altra città, ma la lunga mano della Famijia – era così che la chiamava il nonno – li


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aveva fatti ritornare all’ovile, sconfitti e con il capo coperto di cenere. Se cercava nei suoi ricordi, però doveva ammettere che vivere in una grande casa con zii e zie dietro ogni angolo, non era poi male per una ragazzina. Non si correva mai il rischio di rimanere da soli e il carattere allegro di gran parte dei suoi familiari rendeva piacevole il trascorrere dei giorni. Per esempio ricordava ancora lo scherzo, risalente ormai a parecchi anni prima, che il padre aveva fatto alla sorella minore della madre. Lalla, così la chiamavano in casa, aveva all’epoca poco meno di venti anni e una passione inveterata per Vittorio, il fratello minore di Adriana, e per l’arredamento. Da quando aveva compiuto i sedici anni, Lalla aveva fatto dello spostamento dei mobili la sua ragione di vita. Niente e nessuno poteva arginare lo tsunami che quasi settimanalmente stravolgeva la casa. Ovviamente, mentre erano in atto le grandi manovre la ragazza indossava quello che aveva eletto come sua divisa da lavoro: dei pantaloni di iuta blu – jeans li chiamavano – che ne evidenziavano notevolmente le forme, insieme a una camicia maschile stretta con un nodo in vita così da far intravedere l’ombelico; il tutto era poi completato da un grosso foulard intorno alla testa per tenere il più possibile sotto controllo i ricci castano chiaro. L’insieme era sicuramente abbastanza provocante, ma era dettato esclusivamente dalla praticità, non era certo nato per essere mostrato a persone estranee. Proprio sull’istigazione latente che quel modo di vestire poteva scatenare nei rappresentanti del sesso maschile presenti, stavano discutendo Lalla e il genitore di Adriana. Secondo quest’ultimo abbigliarsi in modo così poco urbano – in realtà il termine usato faceva riferimento a occupazioni femminili non adatte a giovani di buona famiglia – quando in casa c’era un continuo andirivieni di ragazzi che rimanevano basiti ammirando a bocca aperta le forme generose messe in mostra dalla ragazza, era assolutamente poco corretto. Concordava anche Pietro, il più piccolo dei suoi zii. Lalla continuava a dire che in casa sua poteva vestirsi come voleva e che soprattutto i suoi abiti non offendevano di certo la decenza. Una


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parola tira l’altra e così si era arrivati alla povera ragazza sollevata di peso dai due uomini e catapultata all’interno della Super Fiat nero e azzurro del padre. La macchina, ultima reminiscenza della voglia di autonomia dei genitori, era decappottabile e, per così dire, si faceva notare. Come tocco finale c’era poi anche lei, Adriana, bambina, ma sempre presente. Vestita con un vecchio abito da sera viola i cui bordi strusciavano abbondantemente in terra, un ombrellino parasole tutto pizzi e merletti e le scarpe della madre. Attirata dalle grida della ragazza mentre stava giocando con le sue bambole e vista l’opportunità per un’uscita non prevista, si era subito aggregata ai due uomini che avevano deciso di verificare quanto fosse decoroso l’abbigliamento della giovane. Si erano quindi recati tutti insieme e nonostante le proteste della ragazza, presso uno dei più esclusivi caffè di Torino, il caffè Baratti & Milano. Lì il padre e lo zio si erano fatti servire dei corroboranti bicerin e avevano offerto a un’imbarazzatissima Lalla una tazza fumante di cioccolato con la panna. Avevano immediatamente attirato l’attenzione di tutta la clientela presente: due signori alti, slanciati, eleganti, con i visi distesi e divertiti che offrivano una consumazione a una rappresentante del gentil sesso paonazza, in una tenuta ai limiti della decenza e, a completare la rappresentazione, una ragazzina con il travestimento da sala giochi: abito lungo, ombrellino e scarpe fuori misura! Questo era uno dei ricordi più belli e spensierati che avesse mai avuto della sua infanzia. Eh, già una vera e propria gatta da pelare la sua famiglia. Innanzitutto erano tanti, troppi e poi non erano assolutamente normali. In effetti aveva sempre avuto dei problemi anche solo nel citare la parola normale e famiglia nella stessa frase per colpa dei parenti. Si poteva iniziare dal capostipite, ossia dal nonno, che comandava tutta la brigata non comandando praticamente nulla. Infatti la vera eminenza grigia, il fulcro e nodo centrale da cui poi tutto si dipartiva, era sua nonna. Da quando aveva memoria, sua nonna era sempre stata vecchia, determinata e di poche parole.


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Comandava su tutto e tutti senza che nessuno avesse mai anche solo provato a intralciarla. Tutto era chiaro e prefissato nella sua mente: chi doveva fare cosa perché si potesse procedere e progredire. In particolare i sette figli dovevano ognuno avere il proprio posto e la propria funzione all’interno del grande organismo della Famiija. A cominciare dalla maggiore, Wanda, appassionata di pittura e in genere di qualunque attività artistica. Era in grado di produrre senza alcuna apparente difficoltà, un romantico e rilassante acquarello, un ricercato centrino a tombolo, un vaso in ceramica con le più svariate e impensabili sfumature. Esempio ne era l’enorme affresco che troneggiava nel grande salone della residenza Barbieri. Immortalava tutta la famiglia mentre trascorreva un tranquillo e sereno pomeriggio sul terrazzo di casa. Ovviamente per riprodurre quello spaccato familiare Wanda aveva lavorato molto con la fantasia: i sorrisi dolci e timidi sui volti delle ragazze, la nobiltà che si percepiva nei gesti dei ragazzi e il silenzioso e pacato orgoglio che lasciavano trasparire i due capostipiti, erano l’esatto contrario di quanto caratterizzava le loro sporadiche, ma assolutamente chiassose riunioni familiari. Probabilmente la primogenita avrebbe voluto esprimere tutta se stessa nella famiglia che le sarebbe piaciuto far nascere, ma non era questo quanto aveva stabilito per lei l’incontenibile genitrice. Essendo la più grande, la matriarca le aveva previsto un futuro di servitù. Qualcuno avrebbe dovuto pur occuparsi di tutti i figli e le figlie e gestire la casa, visto che la nonna aveva i suoi obblighi sociali da soddisfare! Il fatto che incidentalmente questi obblighi fossero sicuramente più interessanti di governare quotidianamente l’alloggio, era solo un dettaglio di scarsa importanza. Così Wanda si era ritrovata, pur non volendo ciò, a gestire il personale di servizio e tutte quelle seccature piccole e ripetitive che si incontrano nell’amministrazione di un nucleo familiare. Non potendo ribellarsi, nessuno aveva mai osato tanto, la ragazza aveva quindi ben presto accantonato l’idea di sposarsi e si era dedicata con tutta se stessa nel rendere splendente e sfavillante l’alloggio


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familiare e tutti i suoi rappresentanti. Unica pecca in una vita scandita da grandi e piccole pulizie e controllo quasi maniacale di familiari e domestici, era il fumo. Il comandante in capo, cioè la nonna, non vedeva di buon occhio che una donna, in particolare sua figlia, fumasse. Su questo punto però Wanda si era opposta, aveva lottato e alla fine era riuscita a spuntarla: avrebbe potuto fumare, ma mai in presenza dei genitori o nelle occasioni mondane. Questa concessione, abbastanza inutile e di assai scarsa importanza, era invece vista dalla donna come una vittoria clamorosa e come una giustificazione per tutta la sua vita triste e solitaria. Ma il bello deve ancora venire. Come interpretare e più che altro come inquadrare il secondogenito nonché primo maschio e quindi erede di nome, titolo e sostanze della casata? Aveva avuto un nome bello e che faceva ben sperare: Angelo. Le buone notizie però finivano lì. Angelo infatti, considerato da tutti l’Erede del blasone e del titolo senza mai esserselo dovuto guadagnare, accoglieva ogni novità e più in generale ogni evento come inamovibile e soprattutto come non dipendente dal proprio personale intervento. Coccolato da madre, padre e sorella maggiore, faceva capricci a ogni piè sospinto e aveva maturato una serie di manie compulsive e ossessive. Per esempio durante la Grande Guerra era stato chiamato a rappresentare la famiglia nelle operazioni belliche, per poter dare a quest’ultima la possibilità di avere un eroe – possibilmente con una medaglia o due – da esibire in società. Non era andata proprio come previsto dai due instancabili progenitori: Angelo non era riuscito a distinguersi in battaglia, probabilmente non ne aveva neanche le capacità; anzi era stato subito preso e mandato in un campo di prigionia in Germania. Il clima poco salubre e una certa gracilità evidentemente non solo caratteriale lo avevano trasformato in un vero e proprio relitto umano. A controbilanciare l’aumento del suo scialbore fisico, l’ampollosità verbale era se possibile lievitata, rendendolo veramente difficile da sopportare.


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Le fisime di Angelo erano tutte leggere se prese singolarmente, ma assolutamente atroci quando associate insieme e portate all’estremo. Era infatti sicuramente accettabile aver maturato una sorta di idiosincrasia alla polvere, come strascico della prigionia e della vita poco salutare di quel periodo, ma tossire e stropicciarsi gli occhi ogni volta che gli capitava di vedere in fotografia o su un quadro una strada o un prato, non rendeva di certo Angelo simpatico a quanti gli stavano vicino. Una menzione a parte merita sicuramente la sua degna sposa: Cesarina. Era questa una donna le cui doti fisiche, anche se indiscutibilmente notevoli, non erano mai percepite come tali dagli altri a causa di un’aura incontrovertibilmente sbagliata che la circondava. Convinta assertrice del predominio della forma sulla sostanza, usava la sua bellezza come un’arma che quindi doveva essere tenuta carica e ben oliata. Passava dalle tre alle quattro ore al giorno nella stanza da bagno, dove si prendeva cura di ogni più piccola parte del proprio corpo facendo in modo di rendere tutto l’insieme gradevole e… spendibile. Si può ben immaginare che effetto avesse potuto causare una donna simile su un uomo immaturo e insicuro come Angelo. Cesarina in famiglia era tollerata in quanto moglie dell’erede, ma considerata realisticamente sciocca e inaffidabile. In particolare la sua inettitudine nel gioco delle carte, un altro must in casa di Adriana, era continuo motivo di vergogna. I sorrisetti maliziosi dei conoscenti non sfuggivano a nessuno, soprattutto ad Angelo che della moglie era innamorato in modo quasi maniacale. L’uomo era portato a difenderla contro chiunque – ed erano in tanti – avesse osato mettere in dubbio una qualunque delle sue dubbie doti . Un esempio emblematico di questo atteggiamento cavalleresco in modo esagerato si era avuto a un importante evento mondano e alla presenza di tutta la Torino bene. Al termine della cena si era passati in salotto e lì si era cominciato a giocare a bridge. Angelo non sopportando più le occhiate di commiserazione nei confronti di Cesarina, alla fine era scoppiato e rivolgendosi alla sua compagna le aveva detto:


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«Cecè, non ti preoccupare, dimmi pure quanti punti hai, qual è il tuo colore più lungo e segui le mie indicazioni – signori, sono convinto che accetterete questo piccolo strappo alle regole!». Quindi rivolgendosi alla donna aveva continuato sottovoce: «Tanto non potranno capirci… parleremo in codice!». A questo punto in tono stentoreo aveva annunciato: «E ora… Al grido di Savoia!». Ovviamente tutti ormai sapevano le carte di Cesarina, per nessuno era stata quindi una sorpresa che avesse giocato il re di quadri! Inutile dire che la partita si era conclusa con la preannunciata débâcle e che tutti fossero tornati a casa con le facce scure e con un forte e neanche tanto nascosto malcontento. Come si dice, in quella famiglia il più normale era il cane: ebbene in quella di Angelo non avevano un cane! C’è da dire che tutto sommato, Angelo e Cesarina avrebbero anche potuto essere felici a modo loro e nel loro privatissimo universo se non avessero deciso – o meglio se la nonna non avesse deciso per loro – che dovevano avere un erede: un prosecutore di una tale genia non poteva assolutamente mancare. A nessuno era venuto in mente che forse non era poi così fondamentale che qualcuno dovesse proseguire all’infinito i caratteri di una simile schiatta. Così entrò a fare parte della famiglia Massimo. Da subito si capì che se quella era un’indicazione sul futuro, le cose non si mettevano affatto bene. Fin da piccolo fu chiaro che il bambino avesse dei problemi: non riusciva a camminare o a stare dritto e aveva delle enormi difficoltà respiratorie. La peggiore notizia però si ebbe quando arrivò all’età scolare: oltre a tutti gli altri, infatti presentava anche dei grossi deficit cognitivi. Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso: i detentori del titolo, gli eredi di nome e patrimonio non avrebbero potuto trasmettere e tramandare nulla perché la loro promessa di immortalità, il figlio, era risultato inadeguato. Questa di fatto fu la prima grande sconfitta della famiglia: non era possibile continuare come prima perché non era più certo il futuro, la sopravvivenza.


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Una simile disgrazia avrebbe sicuramente atterrato una persona con un’indole più rinunciataria della nonna. Lei invece, e in questo mostrava una grande affinità con Adriana, si era rialzata dall’enorme batosta ricevuta, si era rimboccata le maniche e aveva puntato l’obiettivo successivo. Se Massimo non poteva essere il virgulto che aveva sperato, ne avrebbe trovato un altro. Nella fattispecie the winner is … Vittorio: il fratello di Adriana di un anno più piccolo. Era un ragazzo allegro, alto, con gli occhi azzurri – il marchio di famiglia – di un colore straordinario: un pervinca molto forte che quando rideva si allargavano e occupavano quasi tutta l’orbita oculare. Impossibile resistere al fascino di quello sguardo, per non parlare poi di tutto il resto. Vittorio era bello, ma in modo molto maschio e, sembrava, poco consapevole. Era anche simpatico – impossibile non ridere alle sue battute – e convincente così da far sempre approvare le sue decisioni. Delle notevoli capacità affabulatorie ne avevano fatto le spese nel tempo schiere infinite di ragazze, banchieri e affaristi in generale. Perché sì, il fratello di Adriana usava la capacità di empatia con gli altri a proprio uso e consumo: chi era venuto a contatto con lui ne aveva pagato il prezzo. Si era sposato molto giovane e la moglie, almeno per un certo periodo, era stata l’unica ad averla avuta vinta con lui. L’unione era stata coronata dalla nascita di Germana. Dalla venuta al mondo della bambina, Barbara – questo il nome della donna – aveva però cominciato a rivelare un lato nascosto del proprio carattere, davvero particolare: si esibiva quasi quotidianamente in scenate di una gelosia opprimente verso ogni persona che si trovasse a interagire con il marito. L’armonia della famiglia cominciò così a incrinarsi e quando la piccola non aveva ancora compiuto due anni esplose in un modo assolutamente inaspettato. La giovane madre, dall’oggi al domani, andò via di casa lasciando marito e figlia con un lapidario biglietto in cui diceva poche parole, sufficienti però a mettere una bella pietra tombale su matrimonio e famiglia. Solo


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alcuni anni dopo si seppe del suo trasferimento in America Latina insieme a un affermato industriale di origini paraguaiane. Libero dalle catene di un rapporto che ormai non poteva più generare nulla di positivo, Vittorio aveva ripreso con la solita vita da equilibrista. Il problema grosso con lui era che sembrava più furbo, smaliziato e con meno principi morali di quanto fosse in realtà. Nulla mette sul chi vive una persona, soprattutto se le si chiede di investire dei soldi, di una faccia di bronzo simpatica e apparentemente un po’ superficiale. Così in varie occasioni la famiglia dovette intervenire e tacitare tutte quelle persone che minacciavano scandali in diversi settori, da quello immobiliare a quello commerciale, ma che avevano come unico denominatore comune lui, Vittorio. Dopo i trenta anni mise finalmente la testa a posto, anche se continuava a essere controllato a vista dalla nonna in prima battuta, poi da Germano. Germano – chissà perché certi nomi risultano ricorrenti in alcuni gruppi – era il nome del fratello più piccolo di Adriana. E Germano si era sempre dimostrato un hermano ossia un fratello per lei e un cardine centrale in tutta la complicata struttura della sua famiglia. Pur essendo il cucciolo di casa e il nipote preferito di Wanda, fin da piccolo aveva dimostrato uno spirito riflessivo e aperto al ragionamento. In particolare usava qualunque esperienza come una reale opportunità di crescita e questo, c’è da dire, aveva portato a dei risultati più che soddisfacenti. In realtà, soddisfacente non era la parola che Adriana avrebbe usato per riassumere il fratello: straordinariamente lucido e caparbio quel tanto che bastava, ma con una sottile vena di autoironia che rendeva piacevole e appagante la sua compagnia. Ecco questo lo avrebbe descritto con maggiore precisione. Anche Germano si era sposato presto con una compagna di scuola con la quale condivideva oltre che il cuore, una grande passione per la finanza in generale. Annabella, sua moglie, aveva mantenuto le aspettative e per la verità le aveva superate tutte e di gran lunga. Emancipata grazie alla propria posizione sociale, aveva potuto dedicarsi al settore che si occupava dell’aumento degli utili e degli investimenti all’interno


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dell’azienda di famiglia. Questo campo era del tutto precluso per una donna, ma la lungimiranza e la diplomazia, nonché l’aspetto gradevole e raffinato, l’avevano portata a conquistarsi una posizione che ormai nessuno avrebbe osato contrastare. A coronare la perfetta sintonia della famiglia junior, erano arrivati Rachele e Niccolò, due frugoletti biondi e paffuti con il sorriso accattivante del padre e lo sguardo sfavillante e intelligente della madre. A questo punto non si poteva non parlare dei genitori di Adriana: Lidia, la terzogenita, e Vittoriano. Quando quest’ultimo frequentava ancora le superiori era rimasto fulminato da una ragazza che redarguiva un coetaneo e ne era rimasto innamorato per tutta la sua, purtroppo non lunga, vita. Avevano convolato a nozze solo dopo che Lidia era rimasta incinta e questo era stato il primo motivo di attrito che aveva portato i due sposini a trasferirsi in un’altra città. Ma la vita della coppia era stata messa notevolmente in crisi dai rovesci finanziari che avevano coinvolto la famiglia di Vittoriano. In particolare alcuni affari imprenditoriali gestiti dal patrigno, amministratore dei beni della madre, si erano rivelati un vero fallimento. Il giovanotto si era trovato dall’oggi al domani non più in grado di fare fronte agli impegni che aveva preso con i propri soci in affari. Da persona corretta quale era, aveva ripianato tutte le pendenze e poi era stato costretto a fare ritorno nella domus della consorte chiedendo scusa e accettando di entrare nell’impresa familiare. Una tragica malattia lo tolse di lì a poco all’affetto dei suoi cari e soprattutto dell’amata moglie, che non riuscì mai a farsene una ragione e che in sua memoria rifiutò almeno due altre proposte di matrimonio. Un sospiro lungo e mesto accompagnava come al solito i ricordi legati al padre. Allora per pensare ad altro tornò di nuovo con la mente ai suoi congiunti: come non parlare del quarto figlio, Mario? Si poteva notare che la precisione di Annunziata – questo era il nome di battesimo della nonna – emergeva anche nel rispetto della


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cadenza con la quale aveva messo al mondo i suoi figli: sempre alternando un maschio e una femmina. Questo ragazzo intraprendente, diretto e solare si era fatto da subito un nome di primo piano nella gestione commerciale dell’impresa di famiglia. Sapeva trattare con tutti, dando a tutti e a tutto l’importanza che meritava. Niente era insignificante, neanche uno starnuto, se poteva servire per dare un servizio migliore alla propria clientela. Questo atteggiamento permeava ogni azione di Mario e come tale era percepito da clienti e fornitori. Lo si poteva paragonare al gigante buono delle fiabe: sempre disponibile, positivo e in grado con la stessa semplicità di aggiustare il differenziale di un’autovettura, oppure di asciugare le lacrime e consolare con parole dolci e rassicuranti un bambino disperato per aver rotto il proprio giocattolo preferito. La sua abilità di paciere era stata sovente messa a dura prova con una famiglia come la loro: andare d’accordo e vivere in armonia non era mai stata una priorità in casa. Anche Mario si era sposato e probabilmente perché gli opposti si attraggono, sua moglie Anna non poteva essere più diversa da lui. Lei era tanto attenta al bon ton e a quello che diceva la gente, quanto lui non se ne curava minimamente. La loro vita sociale era un continuo turbinio di feste, perché la donna non avrebbe mai perso un evento mondano anche a costo di dover calpestare il marito e in un paio di occasioni Adriana avrebbe giurato che stava per accadere! Purtroppo l’affabilità e la simpatia non sono mai state sinonimo di longevità, né l’empatia può essere usata come una vincita da ritirare alla cassa, così il caro, sensibile e disponibile Mario se ne era andato nel giro di pochi anni dopo un’estenuante malattia. Anna si era così trovata a dover gestire molto di più della riunione annuale dei Lions o della festa per la prima al Teatro Regio, con risultati a dire poco catastrofici. A fare le spese di questa nuova e insostenibile situazione era stata, non volendo considerare l’intero orbe terracqueo anche solo


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minimamente toccato dalla situazione di famiglia, la sorella immediatamente più giovane di Mario, Maria Teresa. Fin da piccola si era mostrata particolarmente portata per tutte quelle attività manuali in grado di produrre oggetti, soprattutto capi d’abbigliamento estrosi e divertenti. Il nonno e la nonna invece di apprezzare e incentivare questa particolarissima dote della figlia, non perdevano occasione per denigrarla, valutando molto poco le capacità pratiche in cui Maria Teresa eccelleva, a scapito di quelle scientifiche dove la ragazza arrancava clamorosamente. Per i genitori la giovane faceva sempre la scelta sbagliata. Così, per esempio, da adolescente aveva voluto a tutti i costi imparare a suonare la fisarmonica e quando eseguiva un brano le si vedevano brillare gli occhi e sorridere beatamente come mai prima. Alla nonna però, era bastato vederla mentre si esibiva, per bloccare sul nascere quella passione; secondo la capostipite per suonare un simile strumento si assumeva una posizione molto poco femminile e non conveniente per una ragazza del suo rango. Aveva concluso la reprimenda sequestrando il congegno e bruciandolo nella grossa stufa di casa, nonostante i pianti disperati della figlia. Il fuoco che aveva arso Rebecca – questo era il nome che le aveva dato – aveva incenerito anche quel poco di rispetto che ancora la giovane aveva per entrambi i genitori. Sentendosi ormai libera di effettuare qualunque azione, Maria Teresa aveva abbandonato la casa di famiglia e aveva preso a girare per tutta l’Europa, dandosi alla pazza gioia e comunicando con la madre solo per chiederle delle continue sovvenzioni. Annunziata, che probabilmente si sentiva in parte responsabile delle scelte estreme attuate dalla ragazza, alla fine accondiscendeva sempre alle sue richieste. Dopo qualche anno la quintogenita aveva annunciato a tutta la famiglia di essersi sposata con un compositore di musica popolare conosciuto nella verde Irlanda, Anthony O’Reely. Da allora la avevano sentita assai raramente e l’unica corrispondenza tra di loro era stata quella relativa ai canonici biglietti di auguri, due volte l’anno.


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Quando era mancato Mario, la famiglia si era trovata in un imbarazzo tanto grave che Annunziata era stata costretta a scendere a patti con quella figlia che pure aveva dimostrato scarso attaccamento alla casa. Dopo un’attenta valutazione, infatti, il marito di Maria Teresa era sembrato l’unico familiare in grado di occupare la posizione che era stata dello zio di Adriana. L’alternativa era di cercare al di fuori della famiglia, ma su questo la nonna era stata irremovibile. Tony, molto abile e competente in campo musicale, purtroppo si rivelò assolutamente incapace in quello imprenditoriale. Mentre la situazione dell’azienda si deteriorava a un ritmo impressionante, l’uomo non sembrava avvedersene, o comunque interessarsene. Si stava correndo il rischio di andare verso il fallimento e Maria Teresa si comportava come se quella catastrofe fosse stata dal primo momento il suo obiettivo. Alla fine la nonna si decise e lo licenziò. Tony non la prese bene, proprio per niente. Secondo lui erano stati i Barbieri a cercarlo e poi se ne volevano disfare come di un attrezzo ormai inutile. Al termine di una riunione burrascosa e alla presenza dell’intero consiglio di amministrazione Maria Teresa e Tony se ne erano andati sbattendo, non solo metaforicamente, la porta e di loro si era persa ogni traccia. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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INDICE

PREMESSA .................................................................................. 7 CAPITOLO PRIMO ................................................................... 11 CAPITOLO SECONDO ............................................................. 30 CAPITOLO TERZO ................................................................... 37 CAPITOLO QUARTO ............................................................... 47 CAPITOLO QUINTO ................................................................ 52 CAPITOLO SESTO.................................................................... 57 CAPITOLO SETTIMO .............................................................. 63 CAPITOLO OTTAVO ............................................................... 68 CAPITOLO NONO .................................................................... 76 CAPITOLO DECIMO ................................................................ 82 CAPITOLO UNDICESIMO....................................................... 87 CAPITOLO DODICESIMO....................................................... 94 CAPITOLO TREDICESIMO ................................................... 102 CAPITOLO QUATTORDICESIMO ....................................... 109 EPILOGO ................................................................................. 118 CHIARIMENTI ........................................................................ 123



AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Terza edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2020) www.0111edizioni.com

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