Il filo rosso, Carmine De Mizio

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In uscita il 0/ /20 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine DSULOH e inizio PDJJLR 2020 ( ,99 euro)

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CARMINE DE MIZIO

IL FILO ROSSO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ IL FILO ROSSO Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-384-0 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Aprile 2020


A Maria Vittoria, la mia prima lettrice. Alla mia famiglia.



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CAPITOLO I

Pisa, 15 gennaio 2019, ore 3.00 La via era deserta. In realtà tutta la città era deserta, però ogni via, vicolo o piazza emanavano un sentore di vita, seppur inquietante. Respiravano e il loro respiro saliva man mano dal suolo, dal fiume in nubi di umidità semitrasparente che camminavano a mezz’aria come spettri sinistri, nunzi inanimi di una tragedia ignota. Nessuno per strada; nessuno tranne Aldo. Solo e infreddolito vagava tra i fasci di luce dei lampioni dalla luce arancione sfocata che si rifletteva sulle pietre del basolato, bagnate dalla recente pioggia. Accese una sigaretta, l’ennesima: aveva perso il conto delle sigarette più o meno quando aveva perso il conto del tempo, molte ore prima, quando era iniziato il suo errare notturno. Il fumo che usciva dalla sua bocca era densissimo, mescolato a quello della reazione del suo respiro con l’aria fredda nascondeva a tratti la testa del giovane in una nuvola dai contorni di un argento sfumato che conferiva ai tratti del volto in un’aura quasi onirica. Proprio quando cominciò a sentire le gambe stanche, il primo segnale di vita che riuscì a percepire dopo molto tempo, vide nelle vicinanze una panchina. Si sedette, senza accorgersi che era bagnata, e cadde nuovamente nella trance delle sue meditazioni. La sigaretta finì e la gettò a terra, dove, lanciando l’ultimo barlume ardente, sfrigolò per un secondo in una piccola pozza d’acqua e poi si spense.


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Allora appoggiò i gomiti sulle ginocchia, prese la testa tra le mani e sentì un forte dolore, come un livido sulla nuca. Passarono alcuni minuti, la mano istintivamente si portò verso la tasca interna della giacca e ne tirò fuori un’altra sigaretta che in un istante era già tra le labbra, accesa, un piccolo tizzone rosso nel buio più totale del giardinetto dove riposava Aldo. Il luogo, l’ora e il viso trasognato erano tre validi elementi per farlo apparire come una persona sospetta o quantomeno poco raccomandabile. E così sembrarono pensarla i due carabinieri di turno che passavano da quelle parti proprio in quel momento. Accostata la vettura di servizio, scese un giovanotto di circa venticinque anni, alto, magro, che si avvicinò e disse: «Documenti, prego». Anche se il cuore cominciò a battergli all’impazzata, Aldo mantenne la calma e, fingendo indifferenza e cercando di cancellare la sua espressione stralunata dai tratti, estrasse la patente di guida dal portafogli e la porse al militare. «A lei». «Signor Lascemi» continuò il carabiniere, dopo aver letto nome e cognome di Aldo sul documento, «come mai in giro a quest’ora?». «Avevo bisogno di aria fresca». «Diciamo pure fredda» ironizzò l’appuntato, con un malcelato intento investigatore nello sguardo. «Ha bevuto?». «No». «Droga? Ne ha fatto uso?». «No, mai in vita mia. Ma c’è qualche problema? Se è così, me lo dica subito, sennò le chiederei gentilmente di lasciarmi in pace». Le parole erano educate, ma il tono era quello di chi stava per perdere la pazienza. Almeno così la intese il collega del giovane carabiniere, un maresciallo di mezza età, con grossi baffi neri, leggermente brizzolati che proprio allora scese dalla volante: «Stiamo solo facendo il nostro dovere, non è il caso di alterarsi». «Nessuno qui è alterato, scusate» si giustificò Aldo.


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«Capisce che una persona sola a quest’ora e in questo giardino dà un po’ da pensare. Lo sa, lei, che questa zona non è proprio delle più tranquille durante la notte?». Ovviamente Aldo non lo sapeva e se anche l’avesse saputo quella notte non era nello stato d’animo più adatto a ricordarlo. Anzi, possiamo con buona ragionevolezza sostenere che probabilmente, fino all’arrivo dei militari non era nemmeno conscio del quartiere in cui era andato a finire nel suo vagabondare. «Ha ragione, signor commissario…». «Maresciallo» lo corresse l’altro. «…maresciallo, ho solo avuto una giornata molto dura e difficile e fare due passi mi era parsa la cosa migliore per scaricare lo stress. Forse avete ragione entrambi, sarà meglio che rientri a casa, anche perché camminando camminando mi sono allontanato davvero troppo da casa mia ed è già piuttosto tardi, menomale che domani non lavoro» sorrise, per cercare di stemperare un po’ l’atmosfera, che il suo precedente atteggiamento aggressivo aveva rischiato di far diventare troppo tesa. «Forse andare a dormire è la cosa migliore. Sicuramente meglio che stare qui a fumare tutta la notte, giovanotto! Butta quella sigaretta, dai retta a me, sarà almeno la terza che ti accendi da quando ci siamo fermati a parlare con te». Detto questo i due carabinieri comunicarono via radio alla centrale i dati di Aldo e lo salutarono. Rimasto solo si prese nuovamente la testa tra le mani come mezz’ora prima e sentì nuovamente lo stesso dolore e una sensazione di caldo umido tra le mani. Le guardò e vide che erano un po’ macchiate di sangue. Evidentemente la ferita alla testa aveva ripreso a sanguinare. La tamponò come meglio poté con un fazzolettino di carta e, ringraziando in cuor suo che i due carabinieri non l’avessero notata, così come non avevano notato le macchie di sangue provocate dalla stessa ferita sul colletto bianco della sua camicia, si alzò dalla panchina e si diresse verso casa.


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Mentre camminava sentiva la tensione e il turbamento provocati dall’incontro con le forze dell’ordine svanire lentamente dentro di lui e quella paura si trasformò in un lieve sudore. Era contento però di non aver mostrato apparentemente alcuna emozione, anche se quell’accesso di collera stava per tradirlo. Adesso la temperatura si era abbassata e faceva molto freddo, sentiva correre lungo tutto il corpo i brividi, il contatto tra la pelle e il sudore lo infastidiva molto, sentiva come un fuoco muoversi sotto la pelle, che quasi lo graffiava, percorreva tutto l’arco della colonna vertebrale per poi diradarsi sulle spalle, fredde come la morte. Cominciò a tremare, e anche se ripeteva tra sé e sé “Non hai niente da temere”, tremava sempre di più. Giunse sul ponte e si affacciò a guardare le acque increspate dal vento che si era alzato da poco. Il fiume era ingrossato per le forti piogge e la corrente lenta, ma maestosa sembrava portare via gli ultimi spiragli di speranza del povero Aldo. A un certo punto il gorgoglio si unì a un suono mezzo gutturale che uscì dalle labbra del giovane, ma che sembrava partorito dalla terra tanto era primordiale. Un riso cinico e ironico allo stesso tempo, lieve e quasi involontario. «La droga» disse, «volevano sapere se avessi con me della droga. Perché non mi hanno chiesto se avessi ucciso un uomo?». La folgore e il tuono esplosero contemporaneamente alle lacrime di Aldo, al suo grido soffocato e straziato. Dio piangeva insieme a suo figlio che si credeva perduto. Poi il ragazzo si coprì la testa col cappuccio nero e, un’ombra nel buio più profondo delle ore che precedono l’alba, diresse il suo passo veloce verso casa.


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CAPITOLO II

La campagna toscana non finisce mai di stupire e riempire lo sguardo. Colli morbidi e armoniosi che si susseguono l’un l’altro come onde di un mare sereno cangiante in tutte le tonalità del verde, giallo, rosso, lilla. Le viti che si perdono in lontananza, gli ulivi maestosi come un esercito di saggi maestri e filosofi dell’antichità. Su uno di questi colli si incastona Poggio Greppo, poche migliaia di anime, un piccolo borgo dalla lunga storia, una manciata di case di pietra dai tetti rossi, un palazzo comunale da fare invidia alle grandi città toscane e ai suoi signori nel medioevo. Aldo e la sua fidanzata Barbara, archeologi dell’Università di Pisa, da anni studiavano il territorio di Poggio Greppo e dopo lunghe ricerche erano riusciti a trovare pochi, ma sufficienti finanziamenti per intraprendere uno scavo in uno dei poderi della campagna che si stende ai piedi del meraviglioso borgo. Anni trascorsi in biblioteca, in archivio a sfogliare antichi resoconti e carte topografiche; a trascorrere mesi girando per i campi per le ricognizioni necessarie, spesso rischiando anche qualcosa dall’incontro con contadini non troppo contenti di vederli passeggiare nelle loro proprietà e non tenendo in nessun conto le carte che autorizzavano tali attività. Era già nota la frequentazione antica del territorio, però tutti i pochi dati provenivano da notizie e scavi effettuati tra la metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, quando la disciplina archeologica non aveva ancora codificato i parametri adeguati a ottenere il massimo delle informazioni dallo scavo. Perciò i lavori che avrebbero diretto Aldo e Barbara sarebbero


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stati una delle prime vere ricerche scientifiche della zona: dallo studio incrociato di tutti i dati avevano individuato in un campo del Podere Tufaccio una probabile necropoli. Ottenuti durante l’inverno precedente i permessi di scavo dalla Soprintendenza, in verità assai entusiasta e favorevole, gli ultimi cinque o sei mesi li avevano trascorsi organizzando la campagna con i fondi messi a disposizione dall’università e dal piccolo comune. Mesi in cui avevano fatto la spola tra Pisa e Poggio Greppo almeno due volte al mese, talvolta rimanendo a dormire in una piccola casetta messa a disposizione dall’amministrazione. Mesi in cui entusiasmo e passione li avevano ripagati di ogni fatica. Poggio Greppo, 4 giugno 2018 Il primo lunedì di quel mese di giugno era un giorno meraviglioso. La luce dell’alba indorava i profili stondati delle colline che si stagliavano pigramente e sornione nella loro maestà. Il ruscello che correva sotto la finestra del piccolo appartamento dove soggiornavano i due archeologi sembrò voler dare loro il buongiorno con il lieve rumore delle frasche che muoveva con il suo scorrere piuttosto impetuoso. Aldo spense la sveglia e chiamò Barbara, la voce che tradiva un po’ di emozione: «Sei pronta per scavare?» scherzò e si diresse nella piccola cucina a preparare il caffè, con un’energia triplicata rispetto al solito. Fecero colazione abbastanza velocemente, si prepararono e, con le borse da lavoro in spalla, si diressero alla macchina che il sole cominciava a essere già sorto del tutto da dietro i colli orientali e spandeva la sua luce su tutta la valle. Mezz’ora dopo il pullman avrebbe scaricato il resto dell’equipe, quasi del tutto formata da studenti, nella piazza principale del paese, dove Aldo e Barbara li avrebbero accolti e condotti fino al


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podere dove era stato già precedentemente apprestato il cantiere di scavo. «Avremo dimenticato qualcosa?» la classica domanda di Aldo, grattandosi la nera barba non troppo lunga, gesto tipico di quando pensava profondamente. «Direi proprio di no, stai tranquillo, è una settimana che riguardiamo la lista del necessario e sono sicura che abbiamo davvero pensato a tutto» lo tranquillizzò Barbara, sorridente, mentre si legava i lunghi capelli neri. Il paese non era ancora sveglio, solo un gatto si stiracchiava appollaiato su un muretto già baciato dal sole. Arrivati alla fermata del pullman Aldo spense il motore della macchina e scese a fumare. «Andiamo bene» ironizzò Barbara. «Sono le 6.30 di mattina e sei già alla terza sigaretta. Se lo scavo si presenterà particolarmente complicato che farai, comincerai a fumare una stecca al giorno per lo stress?». Aldo sorrise, una luce particolare lampeggiò nei suoi occhi. Da dietro la curva apparve il pullman e scesero sei dei ragazzi impegnati nello scavo. Pochi istanti dopo si fermò accanto a loro un’automobile, guidata da un altro studente. «Bene se siamo tutti, ragazzi, dividetevi tra le due macchine e dirigiamoci allo scavo!» disse Barbara. «C’entrano tutti i bagagli? Purtroppo dovremo stringerci un po’… Lucio, seguimi e stai attento, la strada è un tantino dissestata, metterà alla prova gli ammortizzatori, anche perché le macchine sono pesanti visto che sono cariche» aggiunse con una certa fretta Aldo. E partirono. Dopo una ventina di minuti giunsero a uno spiazzo sterrato dove lasciarono le macchine, sulla destra si vedeva una recinzione arancione, il loro cantiere di scavo, e alle spalle di questo, a poche centinaia di metri, un boschetto. Sullo stesso spiazzo era un piccolo capanno in lamiera che fungeva da


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magazzino degli attrezzi e che già da giorni era stato organizzato con tutti gli strumenti necessari. Aldo si avvicinò al capanno con le chiavi in mano, pronto a entrare, ma non appena toccò la porta, questa si aprì, poiché era solamente accostata. «Barbara, avevamo lasciato la porta aperta l’ultima volta?» un tono di sgomento nelle sue parole. «Ma come? No, sono sicura che l’avevamo chiusa». «Sono sicuro anche io, in effetti. Che dici, saranno stati dei vandali? O peggio ancora, il signor Costanzi che ci odia da quando gli abbiamo fatto vincolare il campo?». «Non credo che Costanzi sia così stupido, però tutto può essere, sai…». Purtroppo in cuor suo Aldo nutriva un brutto presentimento, ma lo attribuì alla tensione per il primo giorno di lavoro e così entrò, divise gli strumenti tra i ragazzi e tutti quanti si diressero verso il cantiere. Anche Barbara aveva una brutta sensazione, ma per non turbare ulteriormente Aldo, che sembrava già piuttosto stressato, non gli disse niente e tentò di minimizzare. Varcato l’ingresso della recinzione, però, il presentimento divenne cruda realtà. Come orrende ferite sanguinanti cinque buche irregolari si aprivano nel terreno, una soprattutto molto più profonda delle altre. Cinque squarci nei sogni dei due giovani archeologi. Cinque orribili colpi al bene pubblico. Allora un solo pensiero, una sola certezza si fece largo nella mente di Aldo e Barbara: tombaroli. Rabbia, frustrazione, la sensazione di un castello di sogni che si infrange e che cade addosso: tutti questi sentimenti provarono in cuor loro i due giovani archeologi e, declinati in forme più o meno simili, anche gli studenti. Per un attimo la terra sembrò anche mancare loro sotto i piedi, tanto che Aldo si sedette su una roccia che emergeva dal terreno e Barbara gli appoggiò le braccia sulle spalle e si abbandonò.


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Qualche lacrima, amara da bruciare gli occhi, velò il loro sguardo. Il tempo era troppo prezioso per piangersi addosso. E soprattutto l’ira non porta a niente se meditata tra sé senza agire. «Tutti alle macchine» disse Barbara. «Posiamo gli strumenti in baracca e poi tutti in macchina ragazzi, per favore». Aldo, che aveva capito le intenzioni della compagna, non appena tutti furono sistemati, mise in moto l’auto e, seguito da Lucio con a bordo gli altri ragazzi, si diresse verso la foresteria dove avrebbero trovato alloggio gli studenti, distante solo pochi minuti. Questa era un vecchio casale che a lungo era rimasto abbandonato e che il comune, in vista della missione di scavo aveva provveduto a ristrutturare e a mettere a norma. Una grande corte polverosa si apriva davanti al corpo di fabbrica principale, quella che era stata la casa del padrone: una costruzione in pietra su due piani, quello superiore accessibile da una doppia scalinata in pietra bianca che faceva un armonioso contrasto con la facciata grigio rossastra, a quello inferiore si accedeva invece da una porta ad arco incastrata tra le due rampe. Di lato una casa più bassa, col tetto a doppio spiovente che guardava le finestre più alte della casa padronale. Questi erano gli antichi alloggi della servitù, risalenti ai tempi in cui in una stanza piccola si viveva anche in dieci persone. Staccate da questo corpo centrale correvano più a nord le stalle, ancora in totale abbandono, con i ruderi dei muri non più coperti dai tetti crollati che in alcuni punti assumevano la forma di dita lapidee rivolte verso il cielo. Aldo entrando a velocità sostenuta nell’aia alzò una densa nuvola di polvere che impiegò alcuni secondi per dissolversi, lasciando intorno solo il silenzio. «Ragazzi, questa è la foresteria in cui alloggerete. Seguitemi, che vi mostro velocemente le stanze principali. Io e Aldo ci dobbiamo recare urgentemente al commissariato per la denuncia» continuò


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Barbara dopo aver aperto la porta del primo piano della costruzione più grande. «Appena avremo finito, speriamo il prima possibile, torneremo qui e organizzeremo il lavoro per i prossimi giorni. Non abbattiamoci, sarà dura, non dico di no, dovremo cercare di limitare al massimo i danni dei tombaroli, ma nessuno potrà impedirci di portare avanti una campagna di scavo con i fiocchi». Con queste parole cercava di dare forza più a se stessa e ad Aldo che non ai ragazzi, che da quando erano saliti in macchina di ritorno dal cantiere non avevano più aperto bocca. Aldo gettò via stizzito la sigaretta ormai finita, poi ci ripensò, si chinò, raccolse il mozzicone e se lo infilò in tasca. “Non bisogna smettere di essere umani nonostante le circostanze” pensò guardando la bellezza del paesaggio che lo circondava. «Ragazzi in questa borsa troverete della frutta e dei dolci, li avevamo preparati per la pausa di metà mattina» disse appoggiando una borsa frigo su un grosso tavolo di noce nell’ingresso. «Di là a destra trovate la cucina, in dispensa c’è il caffè e una moka, l’acqua è dietro la porta…». «Insomma, ragazzi» lo interruppe un po’ spazientita, ma senza rabbia, Barbara, «sentitevi a casa, ovviamente senza esagerare, perché siamo pur sempre ospiti. Qui fuori la campagna è bellissima e le giornate non sono ancora troppo calde e se posso darvi un consiglio, siccome la denuncia e il sopralluogo con le forze dell’ordine in cantiere ci porteranno via un sacco di tempo, andate a fare una passeggiata qui nei dintorni». Detto questo i due uscirono chiudendosi la porta alle spalle. «Guido io» disse lei. «Va bene. Speriamo di trovare il maresciallo Del Fiore, ti ricordi quando l’abbiamo conosciuto al bar? Sembra una persona in gamba». «Già, l’avevamo invitato a venirci a trovare sullo scavo. Ora volente o nolente dovrà venire» ironizzò amaramente mentre, uscendo dalla strada sterrata imboccava la strada verso il paese.


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CAPITOLO III

Caserma dei carabinieri di Poggio Greppo, un’ora dopo Lo stupore del maresciallo Del Fiore fu grande nel vedere i due giovani archeologi. Non erano molti i problemi che dovevano affrontare le forze dell’ordine in quel piccolo paese: poche migliaia di abitanti, possiamo affermare che, tra parentele e amicizie, si conoscevano tutti bene o male. I casi più eclatanti degli ultimi dieci anni almeno erano stati un furto di bestiame e una controversia tra contadini, terminata con il taglio di alcuni ulivi nel terreno del signor Olivieri, il cui colpevole era stato individuato senza troppe indagini nel confinante, che da anni meditava uno spregio nei confronti del fattore che, a suo dire, non si curava di non far sconfinare le vacche al pascolo. È facile immaginare quindi quale meraviglia si fosse impadronita dei pochi carabinieri che erano di turno quella mattina nella piccola caserma, ubicata in alcune sale al piano terreno del meraviglioso palazzo comunale del XIII secolo, una maestosa struttura in pietra locale, di un grigio marrone, la cui facciata era incastonata con lapidi e lastre in marmo recanti gli elogi dei signori locali e dagli stemmi delle famiglie eminenti del medioevo. Il maresciallo era assiso su una panca di legno nell’atrio del palazzo, in compagnia di un giovane appuntato con il quale sorseggiava il secondo caffè della mattina, gentilmente offerto dal suo sottoposto. Quasi sicuramente stavano commentando la novità del paese, ovvero gli scavi che l’università aveva deciso di fare, perché quando Aldo e Barbara varcarono la vasta soglia in


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pietra, si guardarono come due medium improvvisati che si stupiscano di essere riusciti davvero a evocare le anime o semplicemente come due pettegoli inesperti che temano di essere stati uditi. Comunque fosse, gli archeologi erano le ultime due persone che immaginavano di poter incontrare quel giorno. «Buongiorno dottoressa, buongiorno dottore» cominciò. «C’è stato qualche problema? Altrimenti non mi spiego la vostra presenza qui, non è un luogo da visita di piacere, per quanto questo palazzo sia meraviglioso, voi sapete sicuramente che la sua costruzione risale al 1210, quando Ildebrando…». «Sì, un grande problema!» lo interruppe bruscamente Aldo, a cui la storia del palazzo, che tra l’altro conosceva quasi a memoria per averla studiata durante le sue ricerche e per essergli stata raccontata da almeno duecento persone durante le sue visite in paese, interessava davvero poco in quel momento. «Lo sapevo, Costanzi vi ha fatto qualche dispetto! Detto tra noi dottori, non ha preso per niente bene la vostra presenza, per lui siete degli invasori. Che ci volete fare, i contadini di qui sono attaccati alla terra come ai figli e anche se in quel pezzo di terra lui non ci fa assolutamente niente, neanche il recinto delle galline che progetta da almeno cinque anni e per il quale ha i permessi almeno da tre, per lui è come se gli aveste sequestrato la casa. Ha divelto la recinzione? Vi ha lasciato qualche cumulo di letame davanti alla porta del capanno degli attrezzi? Aspettate, seguitemi nel mio ufficio e provvederò subito a contattarlo per intimargli di troncare sul nascere questa guerra: vi chiederei solo di non denunciarlo, sa qui ci conosciamo tutti, sarebbe un enorme dispiacere per tutto il paese, vi assicuro che una mia telefonata metterà a posto tutto». Ammutoliti dalla parlantina del maresciallo, i due archeologi spalancarono gli occhi e poi sorrisero, non senza un po’ di tristezza per l’accaduto, mista a una serenità scaturita dalla genuinità dei rapporti che sanno ancora esistere in alcuni luoghi


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del mondo. Poi Barbara, con maggiore gentilezza di quella mostrata poco prima dal suo fidanzato e collega disse: «Maresciallo, accomodiamoci in ufficio, la situazione è un tantino più grave di quel che immagina». «D’accordo» asserì il militare spaventato dal tono e dalle espressioni serie dei due. «Appuntato Chierici, gentilmente, porteresti due caffè ai dottori? Grazie». Fece strada, mostrò il suo ufficio agli archeologi e li fece accomodare. In un silenzio che contrastava fortemente con l’atteggiamento mostrato poco prima, si tolse la giacca e il cappello, stava sudando: aprì la finestra alle sue spalle, nascose goffamente e con imbarazzo un posacenere, con il viso di un bambino monello sorpreso durante uno scherzo, e infine accese il computer. «Bene, signori» disse sedendosi di fronte a loro, strizzando i già piccoli occhi seminascosti da due sopracciglia folte. Il viso, già rubicondo di natura, sembrò assumere una sfumatura ancora più rossastra, i baffi sottili e il pizzetto lo facevano rassomigliare a un moschettiere, seppure un po’ troppo paffuto. «Ora con calma raccontatemi quanto è successo». In quel momento, dalla porta lasciata aperta, entrò senza bussare un giovane ragazzo, di circa vent’anni, il cameriere del bar della piazza, in mano un vassoio con due caffè e due pasticcini. «Ha detto Lello omaggio della casa agli archeologi», e uscì borbottando un saluto. I due non ebbero quasi il tempo di ringraziare che il ragazzo era già sparito chiudendosi alle spalle la porta di legno scuro. «Maresciallo, purtroppo abbiamo avuto visite dai tombaroli» esordì con irruenza Aldo, dopo aver bevuto in due soli sorsi il caffè, amaro come sempre, gli occhi castani, già piuttosto grandi, dilatati in maniera quasi innaturale dalla rabbia. «Cosa? Ma com’è possibile? Fino a venerdì io e i miei colleghi siamo passati almeno una volta al giorno a controllare che tutto fosse apposto al podere, come ci avevate chiesto voi».


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«Sì» lo interruppe Aldo, «ormai sono un po’ di mesi che la notizia dello scavo si è diffusa, per questo avevamo chiesto qualche controllo, vedo che siete stati anche più solerti del necessario se mi dice che controllavate quasi ogni giorno il terreno. Allora credo che siamo davanti a un gruppo molto più organizzato di quanto credessi, se gli è bastato un fine settimana per procedere». Aldo seguiva già un proprio filo logico, senza però aver messo coerentemente al corrente i suoi interlocutori, mentre con gesti nervosi alternativamente si passava la mano tra i corti capelli, si lisciava la barba del mento, si grattava la punta del naso piuttosto pronunciato e dritto o si tormentava con il pollice e l’indice della sinistra gli zigomi. «Aspetti, dottore, cerchiamo di fare un po’ di ordine, sennò mi confondo». E aprì sul computer una mappa satellitare della zona dello scavo. «Il maresciallo ha ragione, Aldo, calmiamoci e ricostruiamo passo per passo tutto». I grandi occhi scuri di Barbara brillavano di un’energia immane, quell’energia che solo una persona molto sicura di sé sa avere, un’energia che riesce a far mantenere la calma anche nei momenti più difficili come questi e organizzare con precisione un piano d’azione. Quello stesso sguardo seppe essere allo stesso tempo tranquillizzante, rivolgendo una carezza intangibile al suo compagno, che vedeva tormentato. «Ottimo dottoressa. Appuntato Chierici!» gridò. «Per favore aiutami a stendere un verbale». «Agli ordini, maresciallo» disse l’appuntato, che giunse in pochi istanti con un portatile già acceso e si sedette a una piccola scrivania nell’angolo destro della stanza, vicino alla finestra e sotto un grande stemma marmoreo del XV secolo. «Allora, maresciallo» esordì Barbara, «questa mattina, dopo aver recuperato i ragazzi alle 6.45 alla fermata dell’autobus, ci siamo diretti a Podere Tufaccio e subito ci siamo accorti che qualcosa


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non andava perché la porta del capanno degli attrezzi era aperta, mentre l’ultima volta che siamo stati lì per finire di portare gli strumenti l’abbiamo sicuramente lasciata chiusa a chiave. Non abbiamo notato, però, disordine all’interno e anche gli strumenti erano al loro posto e sempre puliti, quindi non credo si siano serviti di quelli per lo scavo clandestino». Intanto il maresciallo seguiva attentamente, appuntando su un taccuino nero a cui aveva strappato preventivamente un paio di liste della spesa, alcune parti del racconto. Dall’altra parte della stanza Chierici, invece, scriveva ogni parola senza alzare mai gli occhi dal computer. «Poi ci siamo diretti nel terreno dello scavo, la recinzione era al suo posto, non era divelta o tagliata e anche la porta di legno era accostata e chiusa con il catenaccio che avevamo messo quando abbiamo allestito e messo in sicurezza il cantiere. Appena entrati, però, abbiamo trovato cinque buche, quattro poco profonde, forse dei sondaggi, e una, quella più a nord e dove doveva iniziare il nostro scavo, molto grande, di almeno un metro di profondità. Non abbiamo toccato niente e non abbiamo verificato ancora l’entità del danno per non inquinare la scena e permettervi di fare gli adeguati rilievi. Dopo di che abbiamo accompagnato i ragazzi dell’università in foresteria, in Contrada Faggi, e siamo venuti qui da voi». Aldo era stupito della precisione del racconto quasi quanto il maresciallo, nemmeno nella sua mente si erano fissati così bene i dettagli della situazione e quando Barbara terminò, strinse forte la mano sull’avambraccio di lei e fissò il suo sguardo sul carabiniere, in cerca di una risposta. La risposta arrivò imminente: «Andiamo insieme a fare un sopralluogo».


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CAPITOLO IV

Podere Tufaccio, Poggio Greppo La strada per giungere al terreno dello scavo si apre come un piccolo anfratto in un bosco di castagni sulla via provinciale, nascondendosi allo sguardo indiscreto della cosiddetta “civiltà”, come a volersi proteggere da quella. Prima si attraversa una selva di luci e ombre, di figure mostruose e mitologiche create dalle chiome degli alberi, lo sterrato si svolge tutto curve come una pergamena vergata dalla mano di un sacerdote pagano, le cui strane raffigurazioni altro non sono che simboli e rituali di un’iniziazione che permette l’accesso a un mondo ignoto. Superati i primi chilometri, lo spazio si apre, lo sguardo si allarga ad abbracciare l’intera vallata che ora si stende a destra e a sinistra della strada, a lungo, fino alle colline in fondo all’orizzonte che sembrano lontane, lontanissime, che sembrano nascondere alle loro spalle l’infinito in persona. Tutto sembra dire che l’uomo in quelle terre è in piena armonia con la natura, è l’esteta che modella i campi con le sue colture, i suoi casali, i suoi castelli. Poco prima di giungere al cantiere, sulla destra si dirama un piccolo viottolino in salita che conduce alla tenuta del signor Costanzi, unico proprietario del podere. Un casale enorme in pietra e mattoni chiuso da un grosso cancello in ferro battuto posto in cima a una collinetta ai piedi della quale si stendono alcuni padiglioni, le cantine e le stalle dei cavalli. Ma noi continuiamo a procedere verso il cantiere, seguiamo le due automobili, quella del maresciallo e quella dei due archeologi. Si giunge così a uno slargo sulla sinistra della strada,


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da cui si domina un’immensa uliveta e al centro di questo spazio era il piccolo capanno in lamiera con gli strumenti. Le auto si fermarono ai lati di questo. Il primo a scendere fu il maresciallo che corse subito a esaminare la serratura del deposito attorno al quale girò due o tre volte, sempre con lo sguardo rivolto a terra in cerca di qualche indizio. Sembrava un po’ a disagio, oramai erano anni che non indagava su un vero reato e temeva di non essere in grado di individuare le tracce che l’avrebbero potuto indirizzare verso il colpevole. Almeno questa fu l’impressione che quel volto teso fece ad Aldo, la cui rabbia in caserma era già piuttosto sostenuta, ma che ora, sul luogo del misfatto, era un climax crescente: passo dopo passo, sguardo dopo sguardo, man mano che ripercorreva nella sua mente e in loco gli eventi di quella mattina, il suo volto si contraeva sempre più, la fronte si imperlava di sudore, si grattava nervosamente ora una spalla, ora una gamba e quando gettava fuori le boccate di fumo di sigaretta dava l’idea di essere una bestia infernale. Barbara notò questa trasformazione e cercò di calmarlo sussurrandogli qualcosa all’orecchio, accompagnando le parole con una carezza dolce. Se non riuscì a placare del tutto la sua ira, almeno gli permise di contenerla e di riacquistare la tranquillità necessaria alla situazione. Il maresciallo intanto aveva raccolto due o tre oggetti e li aveva repertati e aspettava che qualcuno gli aprisse la porta del capanno. Giunse quindi Barbara, girò la chiave nella serratura e mostrò al carabiniere il piccolo stanzino: questi entrò, stette all’interno qualche minuto, scattò alcune foto e uscì nuovamente. Dopodiché analizzò attentamente la serratura e fece notare ai due archeologi alcuni segni proprio ai lati della toppa. «Il capanno è nuovo, giusto?». «Sì» rispose Barbara. «Quante volte avete aperto questa porta?».


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«Compreso adesso, be’ direi altre cinque volte: due per portare gli strumenti e due questa mattina». «Vedete questi due segni qui ai lati della toppa? Sono piccoli, ma molto profondi, devono essere stati fatti da uno strumento di metallo che ha graffiato la superficie. Sicuramente è stata forzata la serratura». «Capisco…». «Andiamo a vedere il cantiere». Si diressero quindi dall’altra parte della stradina, superarono un roveto e giunsero alla rete metallica che recintava lo scavo in maniera continua, tranne che in un punto, dove si impostava una porticina ottenuta con alcune assi di legno inchiodate, chiusa con un catenaccio di ferro e un lucchetto. «Questa porta invece, maresciallo, stamattina era chiusa perfettamente» disse Aldo mentre apriva il lucchetto. Entrarono. Un gruppetto di corvi volò via proprio in quell’istante, il fruscio delle ali fece rabbrividire i tre. «Lo sa, maresciallo, che gli Etruschi leggevano il destino e la volontà degli dèi anche analizzando il volo degli uccelli? Che dice, questi guardiani del nostro scavo sono di buon auspicio?» tentò di ironizzare Aldo. Si affacciarono sul ciglio delle varie fosse scavate dai tombaroli. Il maresciallo scattava convulsamente foto su foto. Poi si tolse la giacca, si rimboccò le maniche della camicia e si inginocchiò sulla fossa più grande. All’interno di questa era steso un foglio o telo di plastica azzurra, che avevano già notato i due archeologi la mattina, ma che avevano lasciato al suo posto. Del Fiore ne alzò un lembo e scoprì il fondo della buca, da cui raccolse una serie di mozziconi di sigaretta, un ciondolino d’argento e alcuni piccoli frammenti di vetro. «Come sospettavo anche queste sigarette non sono della stessa marca di quelle che fuma lei, dottore, ma sono le stesse che erano anche intorno al capanno degli attrezzi. Potremmo cavarne qualcosa. Anche il ciondolino ci può essere d’aiuto: se lo porta al


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collo qualcuno del paese in meno di un’ora lo sapremo». Sorrise. «Vi ho già detto che ci conosciamo tutti. Invece i frammenti di vetro che vedete in questa busta non so ancora se appartengono a una lampadina rotta, eventualità che implicherebbe che i delinquenti abbiano operato alla luce di una lampada, cosa che non credo, è un oggetto troppo ingombrante da portarsi dietro, visto che avranno già avuto con sé degli strumenti per scavare, dato che i vostri non sono stati toccati. È più probabile che avessero delle torce o delle lucine elettriche di quelle che si mettono sulla fronte, come i geologi o i minatori, e che a uno di loro sia caduta e si sia rotta». I due ragazzi erano stupiti della quantità di supposizioni che era riuscito a trarre Del Fiore in quei pochi minuti di sopralluogo. Aldo era ancor più meravigliato, in quanto solo poco prima aveva nutrito seri dubbi non tanto sulle capacità investigative del maresciallo, quanto sul suo grado di allenamento, per così dire. «Se mi seguite di nuovo in caserma, vorrei mettervi al corrente della mia prima impressione, ma prima voglio controllare della documentazione di un caso analogo di qualche anno fa». Intanto con il cellulare stava inviando al giovane appuntato la foto del ciondolino d’argento. «Scommettete che appena saremo in caserma sapremo il nome del proprietario? Sempre che sia di Poggio Greppo». Mentre il maresciallo parlava erano arrivati alle macchine; questi salì senza nemmeno salutare, perso nel suo ragionamento, mise in moto e con una sgommata partì a gran velocità. I due ragazzi si guardarono e non poterono fare a meno di ridere dell’ingenuo entusiasmo dell’investigatore. Un veloce bacio e poi seguirono la scia di polvere lasciata da chi li precedeva. Passando davanti alla stradina che conduce alla tenuta videro stagliarsi sulla collina contro sole un’ombra scura. Un uomo che impugnava una forca nella destra e alla quale si appoggiava, in testa una coppola, l’altra mano chiusa a pugno e piantata sul fianco, le gambe larghe. I tratti del volto non erano riconoscibili


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in quanto la luce alle sue spalle li lasciava in ombra. Quel demone infero, cui assomigliava per la posa minacciosa e l’attributo che portava in mano, li seguiva con lo sguardo da quando erano sbucati da dietro la curva alla sua destra e continuò finché la macchina non sparì dalla parte opposta, coperta dalla vegetazione e dalla discesa. Anche se non erano in grado di vedere i suoi occhi, tutto il quadro lasciava trasparire minacciosità e astio. I due non poterono fare a meno di rabbrividire, per la seconda volta nell’arco di nemmeno un’ora, e di accelerare per uscire il prima possibile dal raggio di quell’aura negativa. «Una birra che c’è il suo zampino in questa storia» disse Aldo. «Facciamo anche una cena, scommessa accettata!» aggiunse Barbara. Il signor Costanzi, infatti, non si era mai dimostrato troppo contento di dover ospitare in un suo terreno uno scavo archeologico. Le ragioni di questa opposizione non erano mai state troppo chiare e in realtà Aldo e Barbara non avevano mai creduto troppo alla favola romantica dell’amore paterno del contadino per la propria terra, sostenuta da Del Fiore, probabilmente la maggiore paura era quella di vedersi espropriata una parte di terreno, che pure Costanzi non aveva mai utilizzato né per coltivarla né per alcun tipo di apprestamento. Solo la mediazione del sindaco, cugino del Costanzi e grande sostenitore di quel progetto, era riuscito a convincerlo a concedere il permesso di operare nella sua proprietà. In cuor loro i due, in maniera irrazionale, nutrivano dei dubbi nei confronti di quell’uomo, non sapevano neanche loro dovuti a che cosa, semplicemente il suo atteggiamento lo facevano sembrare una persona che nascondesse qualcosa. Non escludevano che dietro a quella opposizione ci potesse essere qualcosa di quasi misterioso.


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Ma l’abbiamo detto, queste altro non erano che mere supposizioni scambiate al tavolino di un bar, davanti a un caffè, con accanto le cartelline piene della documentazione per organizzare lo scavo. Ora quel dubbio, prima solo serpeggiante nelle loro teste, aveva nuovamente fatto capolino nei loro pensieri in contemporanea e rapidamente, indice non solo della sfiducia che ispirava il fattore, ma anche della complicità dei due archeologi, sicuri che quella profanazione altro non fosse che uno spregio compiuto da un livoroso.


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CAPITOLO V

«Sì, accomodatevi dottori!». Del Fiore era arrampicato su una sedia in ufficio con in mano un faldone polveroso preso dallo scaffale più alto della sua libreria. Sceso che fu lo ripose, anzi lo gettò con veemenza su un’altra pila di documenti che adesso occupavano la scrivania, sgombra solo poche ore prima. Una nuvola di polvere si sollevò e il maresciallo cominciò a cercare convulsamente qualcosa da sotto quella montagna di fogli ingialliti. Finalmente lo trovò, era il posacenere che durante il primo colloquio aveva nascosto, ma che ora, vuoi la concitazione del lavoro, vuoi l’entusiasmo per la scoperta appena fatta, si rendeva nuovamente necessario. «Mi perdonerete, ne ho proprio bisogno» e si accese una sigaretta, mentre con uno sguardo complice ammiccò al giovane Aldo per dargli il permesso di fare altrettanto. «Sappiamo benissimo tutti che è vietato, ma purtroppo quando il lavoro è troppo o troppo complicato fumare mi permette di non accumulare lo stress». «Non si preoccupi maresciallo» lo tranquillizzò Barbara, «ci sono abituata». «Bene allora non perdiamoci in altre chiacchere, vi mostro quanto ho scoperto. Come ricordavo bene, circa vent’anni fa, quando ero un giovane carabiniere entrato in servizio da soli pochi mesi, nelle campagne poco fuori Poggio Greppo, andando verso nord, il contadino proprietario del terreno una mattina trovò un enorme buco nel campo, che solo fino al giorno precedente, giurò questi, non era presente. Il che significa che durante la notte una banda di criminali, di tombaroli, aveva agito con estrema


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velocità e vigore, dato che la fossa si presentò di notevoli dimensioni. Capisco che un dettaglio del genere può sembrare troppo poco per pensare all’opera della stessa banda anche in questo caso, visto anche che sono trascorsi un po’ di anni, però ascoltate ancora quanto ho da dirvi. Del Fiore era un fiume in piena, i ragazzi erano attoniti e non aprirono bocca». «Infatti non è tutto, se leggete bene il verbale noterete che sul posto non fu rinvenuto quasi niente, se non una serie mostruosa di mozziconi di sigaretta, della stessa marca di quelle che ho repertato poco fa con voi al podere. Evidentemente uno di questi signori ha il nostro stesso problema, dottore, quando deve concentrarsi sul lavoro ha bisogno di aria fresca». Sorrise a queste ultime parole. «Ovviamente, gli indizi per ricondurre il tutto a questo gruppo sono ancora miseri, però possono essere una buona base di partenza per imbastire la nostra indagine. La storia però non è finita: dopo alcuni mesi che gli stavamo alle calcagna, lo ricordo come fosse ieri perché fu il mio primo caso, riuscimmo ad acchiappare quei delinquenti, che purtroppo avevano già piazzato quasi tutta la refurtiva a una casa d’aste inglese, la quale fu altrettanto veloce a vendere i pezzi e a uscirne pulita da questa inchiesta. Erano tre, due fratelli e un cugino, della frazione più a valle del nostro comune. Sicuramente però avevano ricevuto l’aiuto di qualcuno molto bene addentro al mondo antico, perché gli archeologi della soprintendenza che eseguirono uno scavo di emergenza per rimediare il più possibile ai danni, rinvennero poi una serie di tombe etrusche. Anzi dissero anche che da alcuni mesi stavano lavorando proprio a una serie di indagini sul territorio e avevano individuato in quell’area un luogo promettente per uno scavo. Ripeto, qualcuno secondo me sapeva che scavare lì avrebbe portato a rinvenimenti certi, anche perché ci troviamo in aperta campagna e fare un buco a caso e trovare qualcosa richiede una fortuna sfacciata, variabile troppo incerta per quelli che sicuramente sono tombaroli fin troppo


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professionisti nel loro lavoro. Vero è che una certa fortuna pure l’ebbero questi signori, in quanto quel poco materiale che non erano riusciti ancora a vendere e che fu recuperato, i vostri colleghi l’hanno attribuito a una tomba molto ricca, parlavano di un signore etrusco addirittura, anzi alla fine dello scavo, durato qualche anno, quella saccheggiata rimane la tomba più ricca di tutta la piccola necropoli. I criminali, come vi ho già detto, furono tutti arrestati, incastrati da una serie di prove e indizi che non vi sto a elencare. Ebbero il tempo di assaggiare appena l’ottima cucina del carcere che furono liberati. Ciò che il processo non riuscì mai a mettere in luce fu il nome del collaboratore esterno, colui che ha rubato o passato le informazioni in mano agli archeologi e che ha indirizzato gli scavatori clandestini nel punto preciso. L’unico nome che fu possibile strappargli fu quello della casa d’aste a cui dicevano di essersi rivolti per vendere il bottino, ma all’epoca ci fu imposto, non posso fare nomi ahimè, di lasciare perdere l’indagine su di questa, che agli atti del processo risultò estranea ai fatti e anzi minacciò ai tre imputati una denuncia per diffamazione. Ora vi confesserò una cosa che solo poche persone e molto vicine a me sanno: ero molto giovane all’epoca, forse avrò avuto l’età dei vostri studenti o poco più; ero un entusiasta molto più di adesso, avevo una visione quasi romantica del mio lavoro, amavo e amo tutt’ora il mio paese e il mio territorio e quella storia dei tombaroli mi aveva lasciato troppo l’amaro in bocca e troppi dubbi. Decisi di proseguire per conto mio una piccola indagine e riuscii a ottenere alcune informazioni sulla Dompbell’s Antiquities, la casa d’aste tirata in ballo dai tre: ovviamente, come molte di loro, è spesso coinvolta in compravendite al limite del lecito. Nel suo catalogo comparivano numerosissimi reperti di provenienza italiana, ma la cosa non stupisce. Quello che mi stupì, invece, fu lo scoprire che pochi giorni dopo lo scavo clandestino fu indetta un’asta speciale, di quelle a numero chiuso e a cui si poteva accedere solo se membro onorario della loro associazione o su invito di uno di


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questi. Cercai di avere la lista dei partecipanti, ma purtroppo senza un’indagine ufficiale fu per me impossibile, in quanto non avrei potuto prendere alcun tipo di contatto con l’Interpol. L’ultima cosa che so dirvi è che il trio non cambiò mestiere: in questi vent’anni hanno periodicamente affiancato ai loro mestieri leciti questa professione illecita, facendo avanti e indietro in carcere, nel quale hanno sempre soggiornato molto poco. L’idea che mi sto facendo è che lavorino su commissione, non come i soliti tombaroli che scavano e tramite qualche ricettatore smerciano qualche vaso antico o qualche statuina. Sono stati arrestati almeno altre cinque volte, sempre per scavi illeciti in questa zona, tra le nostre colline e la valle. Non hanno più fatto il nome della Dompbell’s, però, fatto strano, a ogni processo sono stati assistiti da fior fiore di avvocati, venuti direttamente da Firenze o da Roma, gente che si occupa degli affari di politici e imprenditori, per capirci, e grazie ai quali non hanno quasi mai soggiornato al fresco più di una stagione. A voi, dottori, trarre le dovute conclusioni». Detto ciò si accese la terza sigaretta da quando aveva iniziato a parlare e bevve tutto d’un fiato una bottiglietta d’acqua da mezzo litro. «Non so che dire maresciallo, gli indizi sembrano parlare chiaro» disse Barbara. Aldo, quello che, per temperamento, tra i due aveva riposto meno fiducia nelle capacità investigative di Del Fiore, tutto a un tratto si ricredette e in cuor suo si riaccese la speranza. «Be’, che aspetta, li mandi a prendere subito». «Non si preoccupi dottore, ho già mandato due volanti a prelevare quelli che per ora, ricordiamolo, sono solo due indiziati» fece per placare l’animo piuttosto caldo dell’archeologo. «In questa fase delle indagini bisogna mantenere la calma e muoversi con mente lucida e sgombra da ogni pregiudizio e preconcetto, per non correre il rischio di prendere grossi abbagli e perdere tempo prezioso. Si rischia di correre


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dietro a dei presunti colpevoli, mentre quelli veri hanno modo di organizzarsi, far perdere le proprie tracce e far sparire tutta la refurtiva». «Però maresciallo mi sembra che sia eccesso di garantismo parlare di questi signori come di “presunti colpevoli”. Ha detto stesso lei che non si contano i precedenti, tutti commessi in un raggio di poche decine di chilometri, senza parlare di altrettanti scavi clandestini, che per quello che ne sappiamo potrebbero essere altrettanti, se non di più». «Certo, lei ha pienamente ragione e le posso garantire, parola d’onore, che può stare tranquillo circa le indagini. Vi chiedo solo collaborazione in due modi: il primo mantenendo il sangue freddo, la tranquillità è d’obbligo in ogni indagine. In seconda istanza vi chiederei di redigermi una piccola relazione riguardo il vostro lavoro, tutto ciò che può servire a un inquirente: nomi di coloro che hanno avuto accesso ai dati e alla documentazione riguardo il progetto di scavo e di tutti i vostri collaboratori più stretti. Infine al più presto tornate in cantiere e cercate di capire in cosa si sono imbattuti i tombaroli, cercate di capire che tipo di oggetti possono aver portato via, per riuscire a monitorare più precisamente il mercato più o meno lecito delle opere d’arte. Non vi chiedo ovviamente di farmi una lista precisa degli oggetti trafugati, che sarebbe impossibile, vi chiedo solo qualche dato, tutto può essere utile: una datazione, un oggetto che sapete essere sempre presente in quel tipo di tomba e che manca… insomma fate anche voi la vostra indagine e aggiornatemi». I due archeologi accordarono la loro collaborazione e si alzarono in piedi, strinsero la mano a Del Fiore e poi si diressero verso l’uscita. Il tempo di uscire con l’automobile dalle mura cittadine, che davanti al commissariato si fermarono le due gazzelle dei carabinieri: ne uscirono quattro militari che scortarono i tre presunti colpevoli fino all’ufficio del maresciallo. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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INDICE

Capitolo I ...................................................................................... 5 Capitolo II ..................................................................................... 9 Capitolo III .................................................................................. 15 Capitolo IV ................................................................................. 20 Capitolo V ................................................................................... 26 Capitolo VI ................................................................................. 31 Capitolo VII ................................................................................ 39 Capitolo VIII ............................................................................... 48 Capitolo IX ................................................................................. 56 Capitolo X ................................................................................... 65 Capitolo XI ................................................................................. 71 Capitolo XII ................................................................................ 78 Capitolo XIII ............................................................................... 85 Capitolo XIV............................................................................... 89 Capitolo XV ................................................................................ 94 Capitolo XVI............................................................................. 101 Capitolo XVII ........................................................................... 105


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Capitolo XVIII .......................................................................... 120 Capitolo XIX............................................................................. 134 Capitolo XX .............................................................................. 141 Capitolo XXI............................................................................. 152 Capitolo XXII ........................................................................... 154


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AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Terza edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2020) www.0111edizioni.com

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