Il Congresso, Alessandro Cuppini

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ALESSANDRO CUPINI

IL CONGRESSO

ZeroUnoUndici Edizioni


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IL CONGRESSO Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-537-0 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Giugno 2022


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Era una serata molto particolare, la prima di quel tipo che mi capitava di organizzare a Bombay. Era un venerdì d’aprile dei primi anni ‘90. La mia ditta aveva acquisito un ordine importante in India, lo stavamo inseguendo da oltre un anno con la NTPC, l’Ente Elettrico nazionale. Si trattava di un impianto da miliardi di rupie, il cui compimento sarebbe avvenuto nell’arco di cinque anni. Cinque anni di lavoro garantito, di forniture dall’Italia, di attività di montaggio, di avviamento impianto, senza contare i ricambi e l’assistenza post-vendita al cliente per molti anni a seguire. Un ordine preso contro la concorrenza statunitense e tedesca, che avrebbe aumentato il prestigio internazionale della ditta, e convogliato richieste d’offerta e presumibilmente ordini anche da altri clienti asiatici, senza dimenticare i buoni utili che avrebbe portato alle casse aziendali. Un fantastico successo ottenuto contro tutte le fosche previsioni della Direzione Generale, una mia vittoria personale per la tenacia con cui avevo perseguito l’affare. Bene. Ero felice per il compenso che mi aspettavo di ricevere, anche se il mio mestiere non era di quelli a provvigione, per la carriera che avrei senza dubbio fatto all’interno dell’azienda, ma soprattutto per il successo, per il profumo impagabile che il successo rappresentava per un ambizioso come sono. Tutti gli alti papaveri si erano scomodati per assistere alla cerimonia della firma dell’ordine: oltre all’Amministratore Delegato e Direttore Generale, erano presenti il Presidente e mezzo Consiglio d’Amministrazione. La cosa mi faceva un po’ rabbia, perché era chiaro che alcuni avevano preso l’occasione per farsi un viaggetto a spese della ditta in India, ed erano venuti accompagnati dalle mogli (uno, un commendatore dall’aria di vecchio gaudente, senza nessun pudore s’era portato la splendida segretaria): l’idea era quella di rimanere in India allungando il weekend, e tornare in Italia il martedì mattina.


«Cosa vuoi farci?» mi aveva detto Rossini, il nuovo Amministratore Delegato che aveva sostituito Silva, tuttora in carcere in India per l’omicidio di Sardelli. «Sì, ma intanto la nuova commessa parte con un costo imprevisto, quello delle spese di rappresentanza sostenute per questi signori, con mogli e segretarie al seguito. Perché immagino che questi costi li andrai a scaricare sulla commessa, non è così?» «E dove vuoi che li scarichi se no?» rispose Rossini con un sorriso furbo. «Appunto! Non venirti a lamentare tra cinque anni se il margine non è più quello che ci aspettiamo ora: se si comincia così…» Tuttavia questa faccenda non riusciva turbare il senso di sollievo per il lavoro compiuto e di soddisfazione per un’avventura conclusasi felicemente. A Bombay (a quel tempo la città si chiamava ancora con l’antico nome coloniale) il Taj Mahal è il più antico e il più caratteristico albergo per stranieri, inaugurato quando i viceré inglesi governavano l’India intera alternando molto bastone a poche carote. Era stato voluto dal mitico capo della famiglia Tata ai primi del ’900, per confutare l’argomentazione di un ufficiale inglese che sosteneva che in India non c’erano alberghi adatti alle abitudini occidentali. Le migliori suite nella vecchia ala dell’hotel erano arredate con mobili d’epoca in stile indiano, e si affacciavano sul lungomare di fronte alla Gate of India, simbolo della città. Era ancora l’albergo favorito dagli inglesi e dai turisti europei in cerca di esotismo a buon mercato. Be’, si fa per dire, perché proprio a buon mercato il Taj Mahal non lo era mai stato. Entrando dal vecchio ingresso laterale di marmo bianco e nero nell’atrio dagli ampi scaloni, si respirava un profumo d’oriente che, per quanto a ben guardare fosse in parte artificiale, faceva una bellissima impressione sugli ospiti. Anche il personale, dai fattorini ai multilingue addetti alla Reception, contribuiva al fascino dell’albergo: tutti professionisti di altissima classe e sufficientemente servili da far sentire gli ospiti come se fossero ai tempi del Raj. A parte Rossini e il Presidente con signora che erano ospiti nel mio cottage a Chowpatty, gli altri visitatori li avevo alloggiati al sesto piano del Taj. Con grande soddisfazione di tutti, signore comprese, dal momento che si trovavano a due passi dai negozi classici per lo shopping, subito dietro l’albergo.


5 La meglio società di Bombay aveva due punti di ritrovo immancabili: il Club del Cricket e il Club del Taj Mahal. Benché non fossi molto portato per le serate mondane e ne avevo più che a sufficienza di quelle organizzate dalle varie Ambasciate o Consolati per le occasioni più fatue, mi ero subito reso conto fin dai primi giorni di mia residenza a Bombay che non potevo fare a meno di farmi socio di almeno uno dei due Club. Gli indiani hanno ereditato dagli inglesi questa tradizione del Club, che presenta il vantaggio per chi vive di contatti come me, di avere occasione di incontro con molte persone potenzialmente utili per il mio lavoro. La scelta fu molto semplice: poiché di cricket non capivo un acca mi ero fatto socio del Club del Taj Mahal, e non me ne ero mai pentito: altissimo prestigio della sede, consoci di livello internazionale, servizio di assoluta prima classe. Il lato negativo era l’alto costo della quota annuale, ma tutto sommato era ben spesa. Il Club consisteva di alcune sale nell’ala nuova al primo piano dell’albergo, quasi totalmente a esso destinato. L’ambiente era tipicamente britannico, la filosofia decisamente maschile: un bar ben fornito, giornali e riviste per ogni dove, comode poltrone di cuoio, nessun divieto di fumare, compresi la pipa e i sigari. Alle pareti trofei di caccia, come corna di gazzelle incrociate e teste imbalsamate di tigre a fauci spalancate, e vecchie stampe di località turistiche indiane e di residenze di campagna inglesi. Perfino un incongruo caminetto! Mai usato, naturalmente. Era frequente incontrare nelle sue sale non solo il fior fiore dell’imprenditoria e della politica indiana, ma anche personaggi del jetset o importanti personalità della cultura, dello spettacolo o dello sport. Alle pareti del bar erano appesi i loro autografi sui menu, a ricordo magari semplicemente di una bella cena in compagnia, ma anche di storiche serate in cui erano stati siglati importanti accordi commerciali o decisioni politiche. Al posto d’onore una foto con dedica della regina madre, lasciata benevolmente in cambio della gratuità di una cena. Nel programma di visita degli ospiti era prevista per il sabato sera una cena formale assieme ai pezzi grossi del Cliente, e l’avevo organizzata al Club. Tre sale erano destinate ai banchetti. Il cibo veniva preparato da uno dei quattro ristoranti dell’albergo e portato al Club in carrelli riscaldati a vapore, tramite un montacarichi. Conoscevo lo chef, al quale mi ero raccomandato per un menu non speziato e con specialità indiane adatte al delicato palato delle signore. Oltre agli ospiti italiani,


quattro uomini e tre signore, avevo invitato il Direttore Generale dell’NTPC di Bombay e signora, assieme a tre suoi Direttori di Divisione accompagnati dalle mogli. E poi tre miei amici indiani, ai quali volevo partecipare il mio personale successo, e che sarebbero stati i soli a gioirne veramente: il capo della polizia di Bombay, Kavi Sehgal con signora, e miss Arianna Mathis, dell’Ambasciata britannica. Alle 7 di sera mi ritrovai con Rossini, il Presidente e signora sotto il portico del mio cottage, per andare al Club. Lì ci avrebbero raggiunti gli altri ospiti. Nonostante fossero solo i primi giorni di aprile ci investì un’ondata di calore e di umidità, come fosse una colata di miele. L’aria che veniva dal mare era più simile al vapore che alla brezza, e non ci si camminava dentro, pareva di guadarla. La moglie del Presidente boccheggiava: «Dio mio! Ma è sempre così, qui?» «Succede…» risposi. Non mi era simpatica, né lei né il marito, e speravo non si vedesse troppo. «Chissà a luglio!» Ci ritrovammo tutti al bar del Club alle 19,30. Un martini, o un whisky per i più coraggiosi, aiutò ad aprire le conversazioni. Arianna, elegante e spigliata in qualunque compagnia si trovasse, stava intrattenendo le signore italiane nel suo buffo italiano imparato in due anni di permanenza all’Ambasciata di Roma. Il mio compito invece era quello di far legare gli amici e i clienti indiani con gli ospiti dall’Italia, in modo che non si formassero due isole indipendenti senza comunicare tra loro. Dopo un’ora di chiacchiere e aperitivi entrammo nella saletta che avevo riservato. La cena iniziò tra le mille titubanze delle signore italiane di fronte agli snack: samosa, pakora, frittatine ripiene, poori e insalata calda. «Solo un assaggino…» dicevano. Ma poi ne prendevano una seconda volta. Lo chef mi aveva dato retta, fortunatamente, e tutto era di quella dolce piccantezza stuzzicante che invita a bere un bicchiere di più. Qualcuno degli indiani dell’NTPC si abboffava in modo vergognoso, ma questo capitava in tutti i ricevimenti. Ci sedemmo a tavola. L’agnello ad aprile è freschissimo, ed è tradizione cucinarlo in mille ricette diverse: avevamo concordato con lo


7 chef due piatti che sapevo avrebbero ottenuto successo tra gli italiani: il brasato di agnello con verdure al forno e il biryani di agnello, cioè il riso con lo zafferano guarnito di bocconcini di agnello. Di contorno, gnocchetti di ceci in salsa di yogurt. Fu un successone. Rossini teneva banco, allegro e chiacchierone e con un inglese approssimativo. Per il suo carattere nervoso si mangiava le parole quando parlava in italiano (‘Risparmia anche sulle parole!’, scherzava un mio collega), e questo vezzo l’aveva anche quando usava l’inglese. Io ero seduto a fianco della moglie del Direttore Generale dell’NTPC, una signora dalla pelle molto chiara e dai bellissimi lampeggianti occhi neri, che non fece che parlarmi dei problemi scolastici della figlia. Per fortuna alla mia sinistra avevo un’amica, la signora Sehgal, che mi diede una gran mano a tenerle testa. Di fronte avevo Mr. Shanker, il Direttore Acquisti dell’NTPC di Bombay; alto e secco, scuro di pelle, e con due occhi sottili e fermi come quelli delle tartarughe. Era stato un avversario duro nella negoziazione: inizialmente sembrava fare il tifo per un concorrente, ma era tutto un trucco per alzare la posta, che era poi la percentuale che lui pure intascava. Per tutta la cena badò ad abboffarsi di pesce e a bere il pessimo vino indiano. La sua conversazione era noiosa quasi quanto quella della signora che avevo a fianco. Gli occhi di tartaruga di Shanker mi fissavano fermi e attenti tra due fessure di palpebre; nella loro fissità contrastavano straordinariamente con la mobilità di tutti i muscoli facciali impegnati in una masticazione laboriosa: perfino la fronte e le sopracciglia si muovevano mentre mangiava, impegnate anch’esse dal movimento delle mandibole. Terminammo la cena trionfalmente con i poori ripieni di halva di lenticchie, specie di fagottini fritti deliziosamente addolciti con uva sultanina, e infine l’immancabile dessert di mandorle e pistacchi. Ci fu un brindisi finale, con i complimenti alla nostra ditta del Direttore dell’NTPC, e l’augurio di nuove cooperazioni tra le nostre società. Pensai a quello che si era intascato quel tizio per garantirci l’ordine, e automaticamente lo divisi per il numero di parole, non più di venti, della frase augurale che si era compiaciuto di proferire. Parole d’oro, Mr. Chanigar! Ringraziammo e ci stringemmo la mano. Il capocameriere ci fece una bordata di foto-ricordo dell’avvenimento, faceva parte del servizio;


Rossini le voleva pubblicare sul giornalino aziendale, che era uno dei suoi pallini. Sulla porta della sala salutavo gli ospiti man mano che uscivano. Shanker s’era messo in bocca due boli di paan e mi sorrise con i denti diventati rosso sangue. Gli occhi però erano gelidi, ridotti a due fessure. Moriva dal desiderio di sputare l’eccesso di saliva, e dopo che mi ebbe stretto la mano e fu uscito vidi il getto schizzare di rosso un’imponente pianta grassa a destra della porta: «Un vero gentleman!» pensai. Kavi Sehgal, il capo della Polizia di Bombay, mi si avvicinò. Aveva preso posto a un’estremità del tavolo e perciò non ci eravamo scambiati una parola per tutta la durata della cena. «Grazie per la bella serata» mi disse. «Sono io che ringrazio voi: non so come avrei fatto in certi momenti senza l’aiuto di sua moglie.» risposi convinto. Kavi rise. «So che sono giorni impegnativi per lei, ma avrei bisogno di parlarle.» «Domani sono impegnato come guida turistica dei miei ospiti italiani. Li accompagno a Delhi per una visita alla capitale. Rimango fino a lunedì, rientrando in serata, mentre loro nella notte prendono l’aereo per l’Italia. Ci possiamo vedere martedì sera dopo il lavoro, al mio cottage per una birra. È troppo tardi?» Kavi scosse la testa: «No, così va bene. A martedì, allora.» Ci salutammo e uscimmo. La serata era stranamente nuvolosa. Il caldo umido ci colpì come una mazzata sul petto e sulla testa. Delhi è una città affascinante ma non facile per il turista. Uno dei motivi è che nei suoi dintorni è compreso l’imperdibile monumento nazionale indiano, il mausoleo del Taj Mahal, dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Il fatto è che il termine dintorni in India ha un significato alquanto esteso: nel caso, si trattava di quattrocentocinquanta chilometri di stradaccia trafficata e piena di buche. Il lunedì pomeriggio, dopo la visita, eravamo tutti piuttosto stanchi. In serata salutai i miei ospiti con sollievo e tornai a Bombay con un aereo della sera. Martedì fui impegnato all’NTPC per qualche documento di formalizzazione dell’ordine. Avevo appuntamento con quattro dei


9 funzionari tra cui Shanker, dagli occhi di tartaruga. Lavoro noioso ma indispensabile per l’adempimento delle complesse pratiche burocratiche indiane, sia statali che interne all’NTPC. In pomeriggio feci un salto in ufficio per sbrigare la routine. Poi telefonai a Kavi e concordammo di vederci alle 5.30 in piscina da me. Il caldo umido, molto in anticipo sulla stagione, che caratterizzava quei primi giorni di aprile mi aveva colto impreparato e fu un sollievo buttarmi in piscina. Avevo appena finito le mie prime due vasche, quelle che iniziano a rilassare i muscoli della schiena e delle braccia, quando vidi spuntare Kavi con un asciugamano sotto il braccio: «Ho pensato di approfittare per farmi una nuotata» mi disse con un sorriso. «Ha fatto bene e le farà bene. Si vada a cambiare.» Ormai ci conoscevamo da un bel pezzo, Kavi e io: avevamo condiviso la scomoda cabina del Kolkata nel Sundarbans ai tempi della cattura del delfino del Gange, e avevamo vissuto altre avventure emozionanti insieme; eppure continuavamo a darci formalmente del lei, pur se ci chiamavamo per nome. Capivo che era difficile da comprendere per un italiano e anche per un inglese, per il quale l’appellativo per nome equivale al nostro tu. Ma in India ogni sfumatura è importante e le cose stavano esattamente così: eravamo amici, ci chiamavamo per nome ma l’atteggiamento reciproco era di rispettosa e amichevole confidenza che non sconfinava mai nell’intimità, come quella che deriva dal tu italiano. A lui andava bene così e a me pure. Dopo un po’ di nuoto ci sedemmo nelle sedie a sdraio sotto il ficus, e Shadshiva, il cuoco, ci servì qualche stuzzichino con due Kingfisher. Il sole stava per tramontare e le ombre lunghe degli alberi si allungavano sulla piscina. Arun, il merlo indiano, scorazzava tra i rami del ficus ogni tanto pronunciando le sue frasi preferite: «Hai caldo? Crepa!» Oppure quella in lingua marathi che gli aveva insegnato il negoziante che me l’aveva venduto e che non ero riuscito a fargli dimenticare: «Che ne dice di trenta rupie?» Kavi guardava il giardino intorno, un’orgia di prolificazione verde, innocente e senza vergogna, così come piaceva a me e come teneva Ashok, che mi aveva capito. «Così si fa» approvò. «Un vero giardino indiano.» Bevve un sorso di birra, poi disse:


«Senta, ho bisogno del suo aiuto. So che la settimana prossima andrà a Delhi per un Congresso che dura tutta la settimana.» Era vero. Si trattava di un Congresso internazionale molto importante nel campo della nefrologia. Erano presenti celebri scienziati e ricercatori di tutto il mondo che avrebbero presentato relazioni e memorie sullo stato delle loro indagini. Un paio di essi erano stati proposti in passato per il Nobel per le loro scoperte nel campo degli effetti dei traumi infantili sulla funzionalità dei reni e sugli effetti a lunga scadenza del trapianto sull’apparato cardiocircolatorio. La nostra ditta, che aveva una Divisione che si interessava di Biomedicale, era molto interessata e sarei stato presente al Congresso per tutta la settimana con l’intento di capire l’evoluzione del settore e di contattare ricercatori, scienziati e manager che potessero esserci utili per collaborazioni nello sviluppo di nuovi prodotti e possibilmente futuri ordini di apparecchiature. Tuttavia della cosa non avevo parlato con Kavi. Poteva darsi che ne avesse parlato con Rossini alla cena al Taj Mahal, anche se mi pareva improbabile. Perciò chiesi: «E lei come lo sa?» «Ho visto il suo nome nella lista dei partecipanti.» «E per quale misterioso motivo lei si interessa ai partecipanti a un Congresso di nefrologia?» Kavi rispose a una domanda con una domanda, un vezzo del suo carattere che un po’ mi irritava. Ma forse era una deformazione professionale comune a tutti i poliziotti, di qualunque livello fossero nella gerarchia poliziesca. «Conosce un certo professor Staunton?» «Non di persona. Ho visto il suo nome nella stessa lista dei partecipanti. Conto di conoscerlo durante il Congresso perché so che è uno dei più importanti esperti nel campo dei trapianti e delle apparecchiature biomedicali sostitutive.» Kavi fece segnò di sì con la testa e continuò: «Ho motivo di credere che non sia una persona del tutto limpida. È un luminare della chirurgia del rene, una personalità notissima in tutto l’ambiente scientifico per i suoi studi in campo nefrologico. Lavora al Laboratorio Mitchell di Boston, uno dei più importanti al mondo. Un laboratorio che ha creato personalmente vent’anni fa, dimostrando notevoli capacità imprenditoriali oltre che scientifiche.»


11 «Molti dei premi Nobel, e lui è un candidato al prossimo, sono abilissimi organizzatori più che scienziati» chiosai. «E infatti», continuò Kavi, «Staunton si è sempre dimostrato molto abile nel reperimento dei fondi indispensabili per ricerche che diventano anno dopo anno sempre più costose in termini di uomini e materiali. Ma forse ultimamente i soldi cominciano a scarseggiare e lui ne ha un disperato bisogno per terminare una sua ricerca fondamentale, che avrebbe certamente il suo peso nell’assegnazione del Nobel per la medicina dell’anno prossimo o, più probabilmente, di qualcuno degli anni successivi. Recentemente con una comunicazione riservata la polizia di Boston ci ha chiesto informazioni su Kanha Singh, un cittadino indiano col quale sembrava che Staunton fosse in contatto non si sa per quali motivi. Gli americani avevano avuto la notizia in maniera anonima per cui non ne escludevano l’inattendibilità. Ci chiedevano solo di verificare, e non si erano nemmeno disturbati a controllare se sulle schede dell’Interpol compariva il nome di Kanha Singh. Se l’avessero fatto avrebbero visto che è un delinquente di levatura internazionale, ritenuto il capo della mafia di Delhi, e che si interessa di mille affari tutti illeciti: dal riciclaggio di denaro sporco al traffico di droga, dalla pornografia, in termini di pubblicazioni, produzione di film illegali a Bollywood e oggettistica, alle scommesse clandestine. Singh ha affari in tutto il mondo ed è quindi possibilissimo che si estendano anche agli Stati Uniti. È anche in stretto contatto col suo collega Kohli, che è il corrispettivo capomafia qui di Bombay. Oggi ho parlato col capo della polizia di Delhi, che si chiama Raj. Lo conosco da anni e ne ho molta stima. Lui mi ha detto che a sentire un suo informatore anche Kohli, il boss di Bombay, conosce Staunton. Ma anche questo informatore sembra un tipo non sempre attendibile. Quando Raj ha saputo che il professor Staunton sarebbe venuto in India per il Congresso…» «Come l’ha saputo?» intervenni. «Staunton ha chiesto il visto al nostro Consolato di Boston. È normale routine la verifica del nominativo nei nostri elenchi. Questi sono divisi in tre parti: ‘Ricercati perché incriminati’, con una sottosezione per i ‘Grandi Ricercati’, Poi ‘Ricercati perché sospetti’, e infine ‘Ricercati perché informati sui fatti’. Sulla base dei sospetti della polizia di Boston Raj aveva inserito il nome di Staunton in quest’ultima categoria. Una persona da tenere d’occhio, insomma. Il Consolato ha chiesto


autorizzazione a concedere il visto e Raj ha deciso per il sì, con l’idea di approfittare dell’occasione della sua presenza in India per verificare con un controllo discreto dei suoi movimenti se veramente era in contatto col capomafia di Delhi Kanha Singh. Perché se così era, Staunton non avrebbe certamente perso l’occasione di incontrarlo. Mi ha anche avvertito di stare all’erta pure noi, visto che era possibile che venisse anche a Bombay. E poi mi ha chiesto di aiutarlo nelle indagini che intendeva svolgere e mi ha invitato a raggiungerlo nella settimana del Congresso. Il mio ruolo ufficialmente sarebbe quello di collegamento con la struttura di Bombay, ma in realtà come mi ha confessato gli avrei dato una mano perché è un periodo di grande carico di lavoro per lui. Il suo compito è in effetti molto più gravoso del mio: trattandosi della capitale, alla usuale lotta contro la criminalità si aggiunge un ruolo di protezione dell’ambiente internazionale costituito dai dipendenti delle varie ambasciate che impegna molto la polizia locale. Il governo centrale, infatti, non vuole avere problemi e difficoltà diplomatiche con altri paesi. Dunque gli ho garantito il mio aiuto, ma solo a partire da martedì sera.» Kavi si fermò un istante per bere un po’ di birra. «Queste sono le premesse, ora veniamo al dunque. Lei conosce il carattere e il tipo del poliziotto indiano. Uno come Naik, tanto per intenderci.» Naik era il vice di Kavi, un tipo sveglio e sbrigativo, sempre in movimento, che avevo soprannominato ‘Vengaconmè’ perché sembrava non riuscisse a dire due parole senza portare l’interlocutore in un altro posto da quello in cui si trovava, anticipando l’azione con quel suo caratteristico intercalare. Sehgal continuò: «Lei lo conosce. Un tipo in gamba, certamente. Ma se lo vede mentre parla con uno di quei luminari? Magari dicendogli ‘Vengaconmè’?» Sorrisi. Evidentemente non ero il solo ad aver notato quel piccolo difetto di Naik. «No, non è il tipo» convenni. «Nessun poliziotto è il tipo. Siamo troppo riconoscibili, ‘alla puzza’ dicono quelli che arrestiamo. Non è colpa nostra, abbiamo normalmente a che fare con grassatori, assassini brutali, con sfruttatori o ladruncoli, non con raffinati ladri internazionali o grandi truffatori. Perciò ci manca l’esperienza, lo stile, la classe. E poi: a che titolo potremmo mischiarci


13 con i congressisti se non capiamo un acca di quello di cui si sta parlando? Chiunque di noi sarebbe scoperto in cinque minuti e se uno si fa riconoscere, il sospettato si mette sulla difensiva e addio sorpresa. Ne ho parlato con Raj e lui si è dichiarato d’accordo con me. E così ho pensato a lei. Ha già una splendida copertura dal momento che al Congresso ci partecipa a pieno titolo professionale. Dovrebbe nello stesso tempo darci una mano, con la certezza di avere tutto il nostro appoggio, mio e di Raj, dall’esterno.» «Ma come potrei esservi d’aiuto?» chiesi perplesso ma anche interessato. «Lei ha sufficiente occhio clinico per capire quando una persona si comporta in modo sospetto. Dovrebbe tener d’occhio Staunton, quello che fa, con chi parla, quando e perché si assenta, e dove va. Insomma, io mi auguro che tutto questo si risolva in una bolla di sapone, e cioè che Staunton faccia la normale vita del congressista: contatti scientifici coi colleghi, relazioni e discussioni tecniche, grandi mangiate la sera, magari qualche serata con le puttanelle dell’albergo. Per poi ripartire dopo una settimana per gli States. Se così fosse vorrebbe dire che il nostro allarme è ingiustificato, e potremmo anche tranquillizzare gli americani. Ma se così non fosse, e se si comporta in maniera diversa, abbiamo il dovere di intervenire. Non è certamente il primo Congresso a cui lei partecipa, e sa bene qual è il normale comportamento dei congressisti, anche dei futuri premi Nobel. Perciò non dovrebbe essere difficile per lei segnalarci le anomalie che nota nel comportamento di Staunton. Al resto penseremo noi: siamo abilissimi nel pedinare, fermare, interrogare e torchiare i sospettati; in questo non ci batte nessuno.» Assentii mentre a mia volta prendevo un sorso di birra: all’improvviso aveva sentito la gola secca. Ma il ruolo cominciava a piacermi e poteva rappresentare un diversivo che mi avrebbe aiutato a sopportare la routine del lavoro di congressista. Kavi continuò: «Non sarà solo, naturalmente. Abbiamo concordato con la Direzione dello Sheraton, l’albergo dove si svolgerà il Congresso, di sostituire con due dei nostri le guardie private dell’albergo che usualmente sono presenti nella sala Congressi e nella hall per motivi di sicurezza. Il loro compito è quello di assisterla e saranno ai suoi ordini per ogni necessità.» «Perbacco, che onore!» dissi.


«Saranno in contatto tramite un walkie-talkie con noi all’esterno, nelle vicinanze dell’albergo. Ho visto che lei ha intenzione di partire domenica sera.» «Nulla le sfugge!» Kavi sorrise: «Ho chiesto all’Air India la lista delle prenotazioni dei voli da Bombay a Delhi per la prossima settimana. Non è stato difficile…» «Per lei no, evidentemente. Sì, parto alle 7 di sera di domenica prossima.» «Sarebbe meglio se anticipasse il volo al sabato, in modo da essere in albergo fin dalla mattina. Staunton arriva il venerdì notte, o meglio il sabato mattina, alle 3.20 da Francoforte. Non credo che avrà contatti a quell’ora con nessuno, se ne andrà presumibilmente subito a letto. Comunque lo scorteremo discretamente dall’aeroporto fino in albergo. Il telefono della sua stanza naturalmente è sotto controllo. La mattina Staunton si sveglierà per mezzogiorno o giù di lì. Ecco, lei dovrebbe già essere installato e attivo per quell’ora.» Significava partire alle 8 al più tardi per Delhi e, soprattutto, rinunciare al riposo del fine settimana del quale avevo molto bisogno dopo tre settimane di lavoro intenso. Ma la cosa mi attirava e dissi subito di sì. «Non è facile per lei trovare un posto sull’aereo per Delhi delle 7.50 di sabato. Ci penso io: domani le farò avere la conferma del cambio di prenotazione assieme a un po’ di documentazione riservata su Staunton, su Kanha Singh e su Man Mohan Kohli, i due boss di Delhi e Bombay. Lei così si potrà fare un’idea dei personaggi. Sono carte tratte dal mio archivio e non dovrebbero uscire dall’ufficio. Ma so di potermi fidare, le chiuda in cassaforte quando non le legge. E soprattutto non le deve portare a Delhi: guai se qualcuno frugando nel suo bagaglio, in aeroporto o in albergo, le scoprisse. Perciò passerò venerdì sera per ritirarle e per le ultime istruzioni. Sabato all’arrivo a Delhi la verrà a prendere Raj. In una saletta dell’aeroporto avrete un breve colloquio in cui prenderete accordi operativi. Poi lei se ne andrà in albergo e comincerà la sua personale indagine. Come le ho detto io sarò a Delhi a partire da martedì sera.» Nei giorni seguenti e fino a giovedì, di sera mi dedicai alla lettura delle carte che Kavi mi aveva mandato, in una busta con su scritto RiservatoConfidenziale in lettere grosse e rosse. E così mi impratichii con quelli


15 che erano i metodi di indagine e di archiviazione dati della polizia di Bombay, probabilmente analoghi a quelli di tutte le polizie del mondo. In una cartellina archiviata come S.NC.2.1.348 e intitolata a Jerome T. Staunton, erano raccolte in ordine cronologico decine di appunti, note, dati e fotografie relativi al soggetto. Uno dei primi documenti proveniva dagli USA ed era la comunicazione di cui mi aveva parlato Kavi: una segnalazione anonima aveva collegato Staunton con Kanha Singh. Da subito erano stati messi sotto controllo i telefoni di Staunton, privato e al Mitchell Laboratory. Ma senza nessun risultato: l’uomo era prudente e se aveva contatti con i suoi amici indiani lo faceva da telefoni occasionali. Il professore era un cinquantenne di bell’aspetto, stando all’immagine tratta da una fotina pubblicata assieme a un suo articolo su una rivista scientifica. Aveva fondato il Mitchell Laboratory ventitre anni prima a Boston e da subito aveva avuto a disposizione ingenti capitali da parte di finanziatori privati. Negli ultimi due anni però il bilancio del Laboratorio si era chiuso in rosso ed era stato necessario un rifinanziamento da parte dei soci, di cui quello di riferimento era proprio Staunton. Rimasi sorpreso dalla quantità di quattrini di cui ogni anno aveva bisogno il Mitchell per sopravvivere: si trattava di parecchie decine di milioni di dollari. Molti di questi soldi provenivano dalle donazioni da parte di Fondazioni private, una pratica che negli Stati Uniti è molto diffusa. Ma una gran parte provenivano dai trapianti di rene: la Clinica annessa al Laboratorio aveva una sala operatoria molto efficiente e moderna, e Staunton si faceva pagare salato. Ultimamente però, a detta di una nota della polizia di Boston, aveva dovuto soffrire la concorrenza di altre cliniche più a buon mercato anche se non così note come quella di Staunton, e il prezzo richiesto per un intervento era necessariamente calato. Questa era una delle spiegazioni dell’improvvisa mancanza di quattrini degli ultimi due anni. Le ricerche che Staunton svolgeva nel Laboratorio erano abbastanza segrete, anche se gli addetti ai lavori le conoscevano nei loro termini generali. Una in particolare, relativa al meccanismo di funzionamento chimico-biologico del rene, era così rivoluzionaria che i primi risultati pubblicati negli ultimi cinque anni avevano fatto intravedere una nuova frontiera nella conoscenza della funzionalità biologica dell’organo. Questi studi avevano attirato l’attenzione della Commissione che annualmente assegna i premi Nobel e già l’anno precedente il professor


Staunton era stato segnalato, anche se poi alla fine il premio era andato a una coppia di ricercatori inglesi. Ma i suoi successi crescenti lo avevano riproposto all’attenzione della Commissione ed era opinione comune che prima o poi il premio gli avrebbe dovuto essere assegnato. Molte attrezzature di tipo biomedicale erano state messe a punto da società esterne che lavoravano in stretto contatto col Mitchell Laboratory, e questo aspetto della faccenda interessava me e la Divisione Biomedicale della mia ditta: sarebbe stato un grande successo per noi riuscire a entrare nel novero delle ditte fornitrici di un laboratorio così prestigioso, guidato da un premio Nobel in pectore. Una pubblicità strepitosa e una referenza formidabile. Staunton perciò, indipendentemente dall’incarico che mi aveva affidato Sehgal, era tra i miei obiettivi che, su suggerimento del Direttore della Divisione Biomedicale, avevo stabilito di perseguire nel corso della settimana di Congresso a Delhi. L’avrei avvicinato comunque e con un buon motivo; dunque anche dal punto di vista di Kavi sarei stato effettivamente un ottimo controllore del professore senza destare sospetti. La cartella di Singh era un guazzabuglio di reati uno più grave dell’altro. Aveva iniziato presto ad avere guai con la giustizia: a 12 anni aveva inferto una coltellata a un coetaneo per motivi oscuri, ed era stato ospitato nel riformatorio di Mysore, da dove era uscito tre anni dopo più delinquente che mai. Era tornato a Delhi, sua città natale, e aveva fatto una veloce carriera nell’organizzazione mafiosa che controllava il flusso di droga dalla Thailandia e Afghanistan verso il mercato occidentale. Si distingueva per i metodi sanguinari che avevano segnato una svolta nell’atteggiamento della mafia di Delhi. Singh non esitava a uccidere innocenti se questo gli permetteva di raggiungere i suoi scopi. Una delle sue ultime imprese era l’eliminazione del capo di una gang rivale avvenuto recentemente tramite una bomba collegata al sistema d’accensione della sua auto. L’esplosione aveva ucciso anche l’autista e quattro passanti che non c’entravano per nulla. Un effetto collaterale che per Singh era del tutto trascurabile. Negli ultimi anni alla droga si era aggiunto l’altrettanto profittevole mercato della pornografia, con esportazioni illegali anche nei paesi arabi, altro punto di smercio importante per questo genere di prodotti. Singh aveva in seguito trovato per primo in India un’altra notevole fonte di reddito: la cosiddetta


17 protezione, cioè l’obbligo del pagamento del pizzo da parte dei commercianti all’ingrosso e al minuto di Delhi. ‘I siciliani hanno fatto scuola’, pensai. Ora Singh aveva quarantun anni ed era il re incontrastato del malaffare a Delhi. La carriera di Man Mohan Kohli, suo omologo a Bombay, era pressappoco identica. Anche lui quarantunenne, anche lui aveva passato qualche anno in riformatorio. Gli affari che curava erano dello stesso tipo di quelli di Singh, con l’aggiunta dell’esportazione illegale dal momento che la sua banda controllava il porto commerciale. Questo reato riguardava gli oggetti animati e inanimati più vari: dagli animali rari e protetti ai reperti archeologici, dai preziosi rubati al denaro sporco, dalle bambine avviate alla prostituzione alle donne rapite per gli harem degli sceicchi arabi. Ai tempi del caso del delfino del Gange avevo avuto modo di sfiorare il mondo delle esportazioni illegali ricavandone una triste impressione di corrotta efficienza. I due criminali, quello di Delhi e quello di Bombay, si conoscevano e si erano scambiati favori in passato: Singh aveva il controllo dei funzionari governativi a Delhi, e Kohli quello del più grande porto indiano. Dall’esame della documentazione però non era per niente chiaro come i due fossero legati a Staunton. Ma proprio per cercare di capire questo aspetto ero stato arruolato. Venerdì sera dopo cena venne a trovarmi KKS, come familiarmente, ma dietro le spalle, veniva chiamato Sehgal dai suoi collaboratori. «Tutto a posto? Pronto a fare il congressista?» mi chiese. «Su questo non c’è dubbio. È il ruolo del poliziotto che non sono sicuro di…» «Ah! Non si preoccupi per questo» mi interruppe. Ma in realtà ero tranquillo, anche perché, argomentavo, martedì sera ci sarebbe stato anche lui a Delhi a darmi una mano se ne avessi avuto bisogno. Gli chiesi qualche chiarimento sulla documentazione, che poi gli restituii. Ci salutammo e ci demmo appuntamento di lì a qualche giorno.


2

Arrivato a Delhi, mentre mi avviavo verso l’uscita dell’aeroporto mi si avvicinò un tizio in borghese con una ventiquattrore in mano. Poteva sembrare uno dei passeggeri dell’aereo appena arrivato da Bombay. Mi sussurrò: «Mi segua.» E si mise a camminare adagio due o tre passi davanti a me. Lo riconobbi dalla descrizione che me ne aveva fatto Kavi: era Raj, un tipo magro, alto e distinto, dai capelli neri con qualche filo bianco sfumati sul collo e accuratamente pettinati con la riga. Indossava un vestito di buon taglio e una camicia bianca con una cravatta grigia. L’aspetto smentiva l’opinione che i poliziotti si riconoscevano dalla puzza: Raj sembrava piuttosto un impiegato di banca che il capo della polizia di Delhi. Deviò dal flusso di passeggeri avviati verso l’uscita, e lo seguii in un corridoio laterale fino a una saletta che aveva chiesto in prestito all’amministrazione aeroportuale per un’oretta. Qui si presentò e mi presentò i due agenti che sarebbero stati a turno di servizio all’albergo durante il congresso, vestiti con la divisa dell’hotel. Ci sedemmo e Raj tirò fuori una dettagliatissima mappa di Delhi che mi consegnò; su di essa erano stati circondati con un grosso frego di matita rossa l’albergo e alcuni luoghi turistici, come Connaught Place e la zona del Forte, tanto per distrarre eventuali spioni. Ma poi mi fece notare alcuni riferimenti, piccoli segni a matita sul bordo della mappa che sembravano occasionali, ma che permettevano di identificare sia la posizione di due pattuglie di stanza all’esterno dell’albergo 24 ore su 24 in due strade defilate, sia il più vicino posto di polizia, sia infine le case private di Raj e del suo vice. Mi mostrò anche una mappa dell’albergo. La stanza che Raj mi aveva fatto destinare dalla Reception era la n.703 al settimo piano dello Sheraton, mentre quella di Staunton era la 704. Una parete era in comune tra le due stanze ed era particolarmente sottile; appoggiando l’orecchio a essa Raj mi disse che si poteva udire le parole di una conversazione tenuta a un tono di voce normale. Non avrei dovuto


19 preoccuparmi di ascoltare le telefonate perché l’apparecchio della 704 era naturalmente già stato messo sotto controllo da loro. Mi chiesi se anche quello della 703 lo fosse, era tipico dei metodi inquisitori della polizia indiana; ma poi scacciai il pensiero: anche se fosse stato, io non avevo niente da nascondere. Ma a parte il telefono, la parete poco isolata poteva essere utile per ascoltare le conversazioni dei visitatori che Staunton eventualmente avesse ricevuto. Raj mi raccomandò di muovermi in silenzio nella mia stanza, di ascoltare la radio o la televisione a volume particolarmente basso, di evitare se possibile di ricevere persone in stanza o di telefonare a voce alta: i rumori e le voci dalla mia stanza erano naturalmente udibili anche dalla 704, e questo avrebbe reso cauto Staunton, se per caso aveva qualcosa da nascondere. Non mi veniva fornito nessuno di quelli strumenti diabolici che permettevano di auscultare il muro facilitando la comprensione delle conversazioni per non compromettermi nel caso qualcuno avesse perquisito la mia stanza: non ero un poliziotto professionista, nessuno voleva mettere a rischio la mia vita. A rischio la vita? Mi parve un’esagerazione, ma non dissi nulla, anche se forse l’espressione del viso fece capire la mia perplessità. Raj continuò: «Per lo stesso motivo non le viene fornito nulla della comune attrezzatura di un poliziotto, come sfollagente, manette o peggio ancora armi. Lei è un semplice fiancheggiatore (Raj usò proprio questo termine) che dà una mano.» Mi chiesi se la severità con la quale mi trattava facesse parte del carattere dell’uomo o fosse un atteggiamento per mascherare una sua debolezza o addirittura la timidezza. Non c’era segno di familiarità né di gratitudine per quello che in fondo era un favore che fornivo per intercessione di Sehgal alla sua struttura. Per un attimo fui tentato di rifiutare, e fu solo pensando all’impegno che avevo preso con Kavi che mi morsi la lingua e tacqui. Raj era certamente molto preoccupato per l’intrusione di un dilettante in un’indagine di polizia, mi dissi cercando una giustificazione, molto più di Kavi. E dal suo punto di vista poteva anche aver ragione: lui non mi conosceva; probabilmente era stato Kavi a insistere per quella soluzione non ortodossa, e Raj aveva accettato con riluttanza. In fin dei conti ero un cittadino straniero residente in India e se fossero sorti dei


problemi ci sarebbe andato di mezzo lui che naturalmente avrebbe fatto volentieri a meno di grane internazionali. Raj continuava con le sue raccomandazioni. Dovevo attenermi a stringenti criteri di prudenza: non scrivere nulla e usare solo la parola per comunicare, ma non per telefono. Se notavo qualcosa di sospetto o volevo comunque comunicare qualcosa, dovevo avvisare i due poliziotti che si sarebbero messi in contatto con le pattuglie all’esterno. Era sorprendente; continuavo a domandarmi se fosse giustificata tutta quella messinscena o non fosse piuttosto una cautela esagerata. Chiesi: «Come farò a comunicare con gli agenti che ho bisogno di parlare con loro?» Non erano ancora tempi da cellulare quelli, soprattutto in India. Raj rispose: «Deve semplicemente guardare distrattamente verso uno dei due grattandosi un orecchio, quello rivolto verso l’agente in modo che possa vedere chiaramente il suo gesto. Poi dopo un minuto alzarsi e andare alla toilette, questa qui.» Raj indicò sulla mappa dell’albergo quella alla destra della sala dove il Congresso si sarebbe svolto. «Aspetti lì che la raggiunga il poliziotto. Lui uscirà dalla sala dalla porta principale ed entrerà nella toilette dall’entrata di sicurezza sul retro, per non generare sospetti. Non dica nulla finché lui non le dirà: ‘Parli’, perché prima dovrà fare una verifica della zona per essere sicuri che nessuno sia all’ascolto, nascosto nei bagni. Parli a bassa voce e usi i nomi propri il meno possibile, i nostri come quelli degli altri. Cerchi di dare comunicazioni chiare ma senza riferimenti precisi.» Questa volta Raj non poté ignorare lo scetticismo della mia faccia, e rabbiosamente aggiunse: «Tutto questo è per la sua incolumità, perciò per favore segua con scrupolo le disposizioni. La segnalazione della polizia di Boston può essere un falso allarme oppure una cosa seria, non lo sappiamo, ma comunque non è un gioco. Singh è spietato e vendicativo, e non si fermerà certamente di fronte al fatto che lei è un cittadino straniero se dovesse capire che intralcia i suoi piani. Io invece voglio evitare che la sua persona sia messa in mezzo nella nostra guerra con la malavita di Delhi.» Dunque avevo visto giusto: Raj era preoccupato.


21 Mi disse di uscire dalla saletta e di andare all’albergo con un taxi. Lui e i due poliziotti avrebbero aspettato qualche minuto ancora prima di andarsene: voleva evitare che fossimo visti insieme, la prudenza non era mai troppa. Gli alberghi Sheraton hanno la stessa struttura in tutto il mondo, e quello di Delhi non faceva eccezione. Al piano terra aveva due grandi sale per Congressi, di cui una era stata prenotata per tutta la settimana dalla I.N.S., la Società Nefrologica Indiana organizzatrice del Convegno, di concerto con la I.M.A., la Associazione Medica Indiana. Alla Reception mentre l’impiegata mi consegnava la chiave della camera 703 chiesi se il professor Staunton era già arrivato. Mi rispose di sì, nella notte. Salii al settimo piano, chiusi piano la porta della camera e prima ancora di disfare la valigia appoggiai l’orecchio sulla parete in comune con la stanza 704. Sorrisi di me stesso e di come mi scoprivo immedesimato nella parte di detective dilettante. Nessun rumore proveniva dalla stanza di Staunton. Scesi nella hall e andai al banco della segreteria del Congresso per confermare il mio arrivo e ritirare la borsa e i soliti gadget. Presso la porta c’era un agente della Sicurezza interna nella divisa dell’albergo: era uno dei due poliziotti che avevo appena conosciuto. Appesa a una bacheca c’era l’elenco delle gite che come d’uso erano state previste per i congressisti e le loro mogli. La partecipazione di molti a questi congressi è offerta dalle società farmaceutiche e alcuni spesso partecipano al solo scopo turistico. Dunque questo aspetto dell’organizzazione è particolarmente importante ai fini del successo del Congresso. E infatti le proposte erano molte e tutte interessanti. Si andava dalla semplice visita guidata ai principali monumenti della città, quattro ore in tutto, fino alla spudorata Gita nelle valli himalayane, cinque giorni e quattro pernottamenti. Scorsi gli elenchi dei partecipanti a ogni proposta; e scoprii che un certo Mr. S. T. McGrevy era onnipresente in quasi tutte le iniziative: probabilmente nell’iscriversi si era rammaricato di non poter partecipare ad alcune a causa della contemporaneità con altre! Naturalmente cercavo il nome di Staunton, e lo trovai: era tra i partecipanti a una gita in pullman al Mausoleo del Taj Mahal, prevista per la domenica. Mi affrettai a iscrivermi anch’io, benché poco


entusiasta di farmi quei quattrocentocinquanta chilometri, tra andata e ritorno. Tornai nella hall. C’erano ancora pochi congressisti in giro: molti sarebbero arrivati nel pomeriggio, altri la domenica o il lunedì mattina. Però quelli che venivano dal Canada e dagli Stati Uniti erano già tutti venuti: data la grande differenza di fuso orario forse avevano voluto avere a disposizione uno o due giorni per recuperare il jetlag. Gironzolai qua e là e attaccai discorso con qualcuno. Uno di questi, un professore dell’Indiana di nome Smithson, si mostrò interessato a collaborazioni con la nostra ditta, e ci scambiammo i biglietti da visita. Avrei fornito il suo nome al collega capo della Divisione Biomedicale. Lo invitai a prendere un tè e ci sedemmo in un separé che permetteva di parlare tranquillamente. Era un tipo amichevole e collaborativo, per cui dopo una decina di minuti gli feci una richiesta che aveva il duplice scopo di conoscere i nomi dei contatti utili per la mia azienda e di verificare l’opinione che il professore aveva del collega Staunton: «Lei ha capito il motivo per cui uno come me partecipa a questo congresso pur non essendo un medico né un biologo: lo scopo è quello di entrare in contatto con questo mondo nel quale la mia ditta pensa di avere buone possibilità di successo. Dunque sono molto interessato a conoscere i responsabili dei Laboratori di ricerca e sono certo che lei mi potrebbe aiutare. A parte il suo, quali altri Laboratori sono importanti negli Stati Uniti e potrebbero rappresentare una buona chance per me?» «Bene, ce ne sono parecchi» mi rispose Smithson. E me ne elencò una mezza dozzina che in parte peraltro conoscevo già. Prendevo appunti dei nomi e degli indirizzi che mi forniva. Alla fine concluse: «Ma il più importante di tutti è il Mitchell Laboratory di Boston.» Non potevo far finta di ignorare quel nome famoso in tutto il mondo; perciò risposi: «Ah, certo. Quello del professor Staunton.» «Già.» «Ho visto che è tra i partecipanti al Congresso, lo avvicinerò senz’altro in questi giorni. Ma, mi dica, che tipo è?» Smithson abbassò la voce di un mezzo tono: «È il fondatore e il direttore del Mitchell. Quindi non si può dire che non abbia qualità sia di imprenditore che di ricercatore. È stato il primo a inaugurare una nuova forma di finanziamento che consiste nei proventi derivanti da una clinica annessa al laboratorio di ricerca. È un


23 ospedale specializzato negli interventi di trapianto di rene e ha un’ottima fama. Ci lavorano una decina di medici e chirurghi. In questo modo negli anni si è potuto finanziare ricerche costosissime che, come saprà, lo hanno messo talmente in evidenza nel nostro mondo da renderlo un candidato con buone probabilità di successo per il premio Nobel. Dunque un manager brillante, come le dicevo.» Vidi che il professore era un po’ riluttante a esprimere pienamente la sua opinione, ed era logico: ero ancora uno sconosciuto per lui. Ma io sono abilissimo nell’ottenere confidenza anche dai nuovi conoscenti, fa parte del mio mestiere. E con la più innocente aria di questo mondo chiesi: «Ma la persona non la convince del tutto, non è così?» Vidi un lampo di imbarazzo nei suoi occhi sereni di americano abituato alla sincerità. Perciò rincarai la dose: «Non sarebbe il primo che me lo rivela, d’altronde» mentii. Fu quella la molla che gli diede la spinta definitiva a confidarsi: «A essere sincero è così. Staunton ha metodi che definire non ortodossi è un eufemismo, e che certamente non sono i miei. L’ambizione è propria dell’uomo e in particolare dell’uomo di scienza. Il desiderio di emergere assieme alla curiosità della scoperta sono le sue qualità principali. Non nascondo che anch’io sono molto ambizioso e desideroso di successo, ma esiste comunque un’etica in ogni professione, tanto più in quella medica, che deve limitare e governare l’ambizione. Altrimenti sarebbe facile ingannare la fiducia che il paziente ripone in noi quando, afflitto da una malattia che lo fa amaramente soffrire come una qualunque di quelle ai reni, ci si rivolge per trovare sollievo e guarigione. Ecco, quelli tra noi privi di scrupoli, non sono molti per fortuna, hanno la tendenza ad approfittare di questa situazione di privilegio, contrariamente a quello che l’etica appunto, ma anche il giuramento di Ippocrate, impongono. Si dice che Staunton sia uno di questi, e che non esiterebbe a calpestare il cadavere del suo miglior amico pur di raggiungere l’obiettivo che si è prefisso. So di episodi che preferisco non raccontare perché so che sono veri ma non ho nessuna prova, naturalmente. Sono episodi che stanno tra lo squallido e il piratesco. Io queste cose non le ammetto. Non sono così.» Lo guardai negli occhi limpidi e non feci fatica a credergli. Ero incerto se sollecitarlo con altre domande o tacere, come in attesa. Scelsi la seconda opzione e infatti il professor Smithson non aveva ancora finito:


«Staunton è molto chiacchierato nel nostro ambiente, sia per il suo spregiudicato metodo di reperimento fondi tramite la sua clinica che dal punto di vista per così dire ‘tecnico’ di ricercatore. I suoi modi gli hanno procurato molti nemici.» Intervenni con una battuta: «Si dice: ‘Molti nemici molto onore’…» Ma la conclusione di Smithson fu fulminante: «Lui l’onore non sa nemmeno dove stia di casa.» Arrivò l’una e andai alla Cafeteria per uno spuntino veloce. Ero seduto davanti a un’insalata al tonno quando vidi entrare il mio uomo. Lo riconobbi subito prima ancora di leggere il nome, Prof. J. T. Staunton, sul cartellino che portava al taschino della camicia. Aveva l’aspetto giovanile della fotina, e uno stile d’abbigliamento molto americano: stretti calzoni neri, corti alla caviglia, camicia bianca a maniche corte di poliestere, di quelle che non si stirano, e una sottile cravatta nera. Entrò con passo elastico nella Cafeteria in compagnia di un altro congressista col quale chiacchierava animatamente. Si sedettero a un tavolo lontano. Con la scusa di prendere una bustina di senape dal banco mi alzai e passai vicino a loro: riuscii a leggere il nome dell’interlocutore di Staunton: C. N. Ross - Great Britain. Staunton prese un caffè all’americana e una fetta di torta: più una prima colazione che un pranzo, ma era comprensibile: aveva ancora l’ora di Boston in corpo. I due continuarono a chiacchierare disinvoltamente: si capiva che si conoscevano da tempo, forse erano anche amici. Finii la mia insalata e aprii il libro del Congresso. Scorsi l’elenco dei partecipanti finché non trovai Ross: era capo di un importante laboratorio di ricerca a Reading, presso Londra, e avrebbe presentato una sua memoria martedì. Staunton invece era il relatore di una memoria, che avrebbe presentato venerdì, e correlatore di un’altra. Mi alzai, uscii, e mi sedetti su uno dei divani circolari che circondavano le colonne della hall. Tenevo d’occhio la porta della Cafeteria, a quell’ora non c’era in giro quasi nessuno. Presi un giornale e mi misi a leggere. I due uscirono dopo una decina di minuti e si fermarono a chiacchierare non lontano da me. Parlavano dell’interesse che rivestivano alcune memorie che avrebbero dovuto essere presentate nella settimana, della difficoltà di reperire finanziamenti, male comune


25 a tutti i laboratori di qua e di là dell’oceano, e di argomenti tecnici dei quali non capivo un accidente. Dopo un quarto d’ora sentii Staunton dire: «Salgo in camera a prendere la macchina fotografica e scendo subito.» Era probabile che si preparasse a uscire, forse in compagnia di Ross. In questo caso avrebbero preso un taxi. Cambiai di posto e mi sedetti su una poltroncina presso il Bell Captain, il banco presso l’ingresso che forniva agli ospiti dell’albergo servizi come facchinaggio, ricovero provvisorio bagagli e, appunto, prenotazione taxi. Ross era in piedi al centro della hall quando Staunton dopo qualche minuto lo raggiunse e insieme si avviarono verso il Bell Captain. «Posso aiutarla?» chiese l’addetto. «Ci chiama un taxi per favore?» «Per dove, signore?» «La zona del Forte Rosso e della moschea Jami Masjid.» «Certo, signore.» Bene, sarei andato anch’io al Forte e alla moschea, le stesse mete che avevo visitato qualche giorno prima assieme ai miei ospiti italiani. Ma non potevo aspettare che l’addetto sbrigasse i due per chiedergli a mia volta un taxi: benché sapessi dov’erano diretti avrei corso il rischio di perderli data la grande estensione dell’area del Forte e l’affollamento consueto di turisti. E poi avrebbero potuto recarsi prima alla moschea o cambiare idea nel tragitto… No, dovevo fare in modo di seguirli a breve distanza con un altro taxi. Dovevo muovermi in fretta. Mentre l’addetto chiamava con l’interfono un taxi davanti all’ingresso e invitava i due a sedersi comodi nella hall che li avrebbe avvertiti lui, io uscii e al poderoso sikh che fungeva da portiere chiesi di chiamarmi un taxi. Come avevo previsto lui provò a invitarmi a rivolgermi al Bell Captain: «Può rivolgersi all’interno e aspettare comodamente sed…» «Mi chiami un taxi!» ringhiai. «Subito, signore.» Sorpreso ma con calma si avvicinò al microfono presso il suo banco e sbraitò una frase in urdu. Dal parcheggio arrivò prima il mio di quello prenotato da Ross. Salii, e dissi all’autista di fermarsi dopo cento metri. Dopo un minuto l’altro taxi ci superò e ci mettemmo al seguito diretti verso il Forte Rosso. Lungo il percorso mi girai un paio di volte a guardare dal lunotto


posteriore: due o tre auto dietro c’era una Ambassador bianca. Non avevo dubbi: Raj anche se non avevo avvisato il suo agente mi faceva seguire: protezione o controllo? Forse entrambi. I due scesero proprio nella piazza antistante il Forte Rosso e dissero al tassista di aspettarli nel parcheggio a sinistra della porta d’ingresso. Lo stesso feci io e mentre Staunton comprava i biglietti di ingresso aspettai un po’ discosto per non farmi notare. Per fortuna ero circondato da molesti venditori di souvenir e cartoline che formavano come una barriera di protezione attorno a me: nessuno dei due notò la mia presenza. Comprai il biglietto ed entrai attraverso la Porta di Lahore. Doveva essere uno spettacolo unico quando veniva attraversata dall’imperatore, che, a bordo di un elefante vestito di seta e seguito dal corteo dei dignitari a cavallo, usciva in parata nelle strade della vecchia Delhi. Attraversai velocemente il piccolo bazar coperto alloggiato nei locali sotto la Porta, dove una volta si vendevano broccati e gioielli alle dame di corte, ma che ora è ridotto a una squallida congerie di negozietti di souvenir di pessimo gusto. Attraverso una seconda porta entrai nell’enorme piazza d’armi erbosa: in mezzo c’erano Staunton e Ross fermi, con le macchine fotografiche in mano. Iniziammo la visita separati ma congiunti dallo stesso itinerario che seguivo passo passo. C’era abbastanza affollamento di turisti: aprile è uno dei mesi migliori per visitare Delhi. La temperatura era piacevolmente tiepida, tutt’altro clima di quello appiccicoso di Bombay. Era bello camminare tra i viali del vecchio Forte moghul. Lo avevo visitato molte volte e la mia attenzione era perciò totalmente concentrata sui due professori. Attraversammo prati e cortili su cui si affacciavano le brutte caserme costruite dagli inglesi. I due seguivano il flusso dei turisti diretti alla zona più lontana dall’ingresso. Arrivammo al padiglione dove musiche cerimoniali venivano eseguite tre volte al giorno: furono scattate alcune fotografie. Soprattutto Ross pareva molto interessato: aveva una guida in mano e si fermava spesso a leggerla a voce alta a beneficio di Staunton. Questi invece pareva alquanto distratto: si guardava attorno come se cercasse qualcosa o qualcuno, e solo di tanto in tanto puntava la sua macchina con un enorme tele verso qualche particolare secondario dell’architettura del Forte e scattava una foto. Ne dedussi che per lui la visita non era nuova ed era alla ricerca del dettaglio più che dell’insieme.


27 Eravamo nella parte più lontana dall’ingresso, presso la sala aperta da un lato su un immenso cortile; da dietro una splendida balaustra di marmo traforato l’imperatore moghul concedeva quotidianamente udienza alla sua corte, amministrando la giustizia. Qui la tribù dei turisti era abbastanza folta, e molti scattavano foto al trono su cui fino a centocinquant’anni fa sedeva l’imperatore, prima di essere detronizzato dai britannici. Ross era tra questi: con la sua macchina automatica stava inquadrando la sala. Approfittando della sua distrazione Staunton a un tratto girò il capo verso destra e fece un breve movimento del capo, come uno strano cenno d’intesa, a qualcuno in mezzo alla folla. Mi girai di scatto anch’io guardando in mezzo a un gruppo di turisti e indiani. C’era un continuo movimento di persone; alcune figure comparivano per un attimo e poi sparivano come inghiottite nel liquido fluire della folla, coperte da qualcuno che si inframmetteva. Avevo seguito immediatamente con lo sguardo il gesto d’intesa di Staunton, ma naturalmente non notai nessuno che potesse essere in qualche modo collegato con lui: tutti sembravano indaffarati a parlare, a commentare, a discutere, a far foto. Nessuno guardava dalla nostra parte. Mi ero sbagliato? Forse stavo interpretando con troppa partecipazione emotiva il ruolo di detective improvvisato. Da quel momento non persi di vista un attimo Staunton, nella speranza che ripetesse il cenno d’intesa. Entrammo nella sala di marmo bianco dove l’imperatore teneva le sue riunioni private. Tutte le guide riportano che qui iscritto su un muro c’è un celebre distico persiano: «Se c’è un paradiso sulla terra / è qui, è qui, è qui!» Ross lo indicò a Staunton e si mise a cercare l’angolazione giusta per fotografare gli splendidi e arzigogolati caratteri. Intanto Staunton girava la testa attorno, svagato e annoiato, ogni tanto puntando il suo teleobiettivo. Tornammo lentamente attraverso il giardino che una volta era splendidamente alberato e con mille giochi d’acqua, fino all’ingresso. Davanti a me Ross non la smetteva di scattare foto. Uscimmo dalla stessa porta da cui eravamo entrati e fummo assaliti dai soliti fastidiosissimi venditori di cianfrusaglie. Ross chiamò il taxi; per non farmi notare fui costretto a fermarmi presso la baracca di un venditore di cartoline. Comprai una serie di riproduzioni di vecchie foto del Forte e quando salii sul mio taxi i due erano già lontani. Avevo però fatto in


tempo a notare che si erano avviati lungo la trafficata Esplanade Road, la strada che portava alla moschea Jami Masjid. Infatti quando arrivammo sulla piazza antistante la moschea li vidi sui gradini d’ingresso, a naso all’insù che ammiravano le maioliche del portale d’ingresso. Ross come al solito scattava foto, a un ritmo paragonabile a quello dei giapponesi; ma avrei dovuto essergli grato per quella sua passione, che aveva rallentato la visita e permesso a me, pedinatore dilettante, di non perderli. Scesi dal taxi e aspettai che entrassero nella moschea; intanto mi guardavo intorno. Anche qui la folla era notevole: c’erano turisti di tutte le nazioni, soli o in gruppi organizzati. Un gruppo di francesi seguiva la guida che teneva alto un ombrellino bianco, rosso e blu, mentre parlava forte in una specie di megafono. Generalmente si trattava di coppie di pensionati, anziani e provvisti di cappelli per proteggersi dal sole. Erano tutti biondastri o coi capelli bianchi; per questo forse mi saltò all’occhio l’unico senza cappello e scuro di capelli del gruppo. Era un indiano alto e magro nelle ultime posizioni del gruppo. Girò un’occhiata veloce dalla mia parte e allora lo riconobbi: quegli occhi da tartaruga erano inconfondibili. Era Shanker, il Direttore Acquisti della NTPC, quello seduto di fronte a me a cena al Club del Taj Mahal. Che coincidenza! Lo seguii con lo sguardo: sembrava si volesse nascondere per non salutarmi, ma neanche io ci tenevo a incontrarlo. Piuttosto, cosa ci faceva nel gruppo dei turisti francesi? Mi posi la domanda ma me ne dimenticai subito poiché i miei due professori avevano finito di scattare e stavano entrando nella moschea. L’ambiente enorme della Jami Masjid fa sempre impressione anche a chi già l’ha vista come era il mio caso. I due fecero una visita accurata e salirono anche sul minareto sud, da dove si gode uno splendido panorama sulla vecchia Delhi. Io li aspettai nel cortile, naturalmente: impossibile nascondersi in cima a un minareto! Dopo un’oretta uscimmo nel sole della piazza, Staunton e Ross davanti e io a una ventina di metri. In quel momento mi resi conto che i nostri due taxi erano parcheggiati uno a fianco all’altro e i due autisti stavano chiacchierando. Tornai subito nel cortile. Ero sicuro che il mio tassista, che naturalmente si era stupito del mio comportamento da detective da strapazzo, aveva raccontato al collega il mio inseguimento. Nel qual caso era possibile che Staunton venisse a conoscenza del fatto che era


29 stato pedinato. Non potevo seguirli più oltre e lasciai che il loro taxi sparisse dalla visuale per avvicinarmi senza fretta al mio. Avrei dovuto prendere nota della targa del taxi di Staunton e Ross e, arrivati al Forte, ordinare al mio tassista di parcheggiare lontano. Li avevo persi, ero proprio un dilettante! Il sole stava tramontando; riflettei che Staunton era probabilmente ancora molto stanco per il viaggio e per la differenza di fuso orario. Era possibile che i due fossero tornati in albergo, e là mi diressi anch’io. Nella hall infatti c’era Ross, di Staunton nessuna traccia. Non potevo far altro per il momento, perciò andai al settimo piano ed entrai silenziosamente nella mia camera. Appoggiai l’orecchio al muro e sentii chiaramente il commentatore della CNN che parlava di un terrificante incendio scoppiato nel porto di Livorno: il traghetto di linea Moby Prince era entrato in collisione con una petroliera. C’erano molte vittime. Staunton aveva acceso la televisione, qualunque eventuale conversazione anche sussurrata sarebbe stata coperta dal suo rumore. Stavo per staccare l’orecchio quando sentii suonare il telefono e al terzo squillo la voce di Staunton. Dopo ‘Hallo’, non disse nulla per parecchi secondi e alla fine: ‘OK’, concluse, e riattaccò. Un uomo di poche parole. Me ne andai sotto la doccia, mi cambiai e prima di uscire riaccostai l’orecchio alla parete: nessun rumore proveniva dalla 704. Scesi nella hall e mi infilai nella Sala di lettura. Quello era un buon posto per incontrare persone, perché molti aspettando l’ora di cena ne approfittavano per dare un’occhiata ai giornali e al telex che batteva in continuazione notizie da tutto il mondo, oppure per scegliersi un buon libro dalla piccola biblioteca dell’hotel. Infatti a quell’ora c’erano diversi congressisti immersi nella lettura. Stavo prendendo un libro dallo scaffale quando vidi entrare Ross. Prese il Times of India e si diresse verso un divano libero. Mi sedetti al suo fianco e mi misi a leggere. Lui sfogliava distrattamente il giornale leggendo solo i titoli. Dopo cinque minuti lo ripose e gettò un’occhiata attorno. Quello era il momento per attaccare discorso: «L’epidemia di peste pare si stia estendendo nel Gujarat, non è vero?» «Già! Sembra proprio così.» «La città di Surat è solamente a duecentocinquanta chilometri da Bombay…», aggiunsi con aria preoccupata. «Sa, io vivo lì… Permette?»


E mi presentai stringendogli la mano. Poi chiesi ancora: «Pensa che sia pericolosa?» «No, non credo. Tuttavia nonostante le raccomandazioni del governo si sta spargendo un panico ingiustificato.» In effetti c’era stato qualche disordine e perfino un morto negli incidenti. «Già» dissi. «Gente in fuga da Surat ha addirittura rovesciato un’ambulanza, non capisco bene per qual motivo.» Ross era ben informato: «Tuttavia il governo si sta muovendo bene,» rispose, «circoscrivendo alla zona di Surat il problema. La peste è facilmente curabile al giorno d’oggi con buone dosi d’antibiotico. Perciò l’esercito ha bloccato le strade costituendo un cordone sanitario e impedendo la fuga da Surat. I medici distribuiscono dosi massicce d’antibiotico alla popolazione, e l’esercito forza i riottosi a prenderle.» Il colloquio era avviato. Buttai lì una notizia che aveva il potere di affascinare tutti, provocando anche il ribrezzo nelle signore: «Ma il vero motivo dell’epidemia è la cura che certuni si prendono dei topi: lei sa che c’è una setta hindu diffusa particolarmente nel Gujarat che li considera dei, li adora e li nutre? I topi in India sono da sempre un problema, per il numero e l’aggressività, ma se oltre a tutto li si nutre… Di fatto nel Gujarat la peste è endemica.» Ross stava ancora un po’ sulle sue. Ma poi gli spiegai che ero un congressista e quali erano i motivi per cui partecipavo al Congresso: mi ero accorto in quei primi contatti che quello era un argomento potentissimo nei riguardi di tutti quei professori in gran parte afflitti dalla mancanza di fondi: una ditta che intendeva cooperare e finanziare una ricerca era quasi un cliente da curare per bene. Su questo contavo per entrare nella riservatezza un po’ sprezzante del professor Ross; e così fu, lui non era da meno degli altri. Si mostrò interessato alle mie proposte, certamente non ancora impegnative e tutte da verificare; ma intanto aveva perso un po’ della sua sufficienza britannica. Appurai che come immaginavo era la prima volta che si trovava in India. «Ha avuto modo di visitare Delhi?» chiesi. «Oggi ho fatto un breve tour turistico nella zona del Forte Rosso e della moschea.» «Fantastico. Da solo?» «No, con un collega, Staunton.»


31 «Ah, il professor Staunton. È una persona che vorrei avvicinare in questi giorni. Penso possa essere interessato alle mie proposte.» Guardai Ross negli occhi mentre pronunciavo le ultime parole e vidi un leggero cenno di fastidio: era invidia, gelosia o forse anche rancore. «Non so,» rispose prudente. «Ha già talmente tante fonti di finanziamento il suo laboratorio!» Non sarebbe stato certamente lui a favorire Staunton nella ricerca di finanziamenti! «Sì? E quali per esempio?» Era la domanda chiave, quella per cui stavo chiacchierando con Ross da venti minuti. Ero certo che lui sapesse molto dell’argomento: avevano gli stessi obiettivi, lui e Staunton, erano concorrenti, non solo in campo scientifico. E poi più bazzicavo l’ambiente e più mi rendevo conto che era fatto di persone fortemente competitive, abituate a eccellere e ad accettare con difficoltà le sconfitte. Dunque disposte più del consueto all’uso di mezzi anche scorretti pur di raggiungere l’obiettivo. Le invidie e le rivalità sfociavano spesso nel pettegolezzo e nell’astio. A seconda di come avessi posta la domanda chiave e della confidenza che fossi riuscito a ispirare a Ross, avrei avuto una risposta più o meno soddisfacente. Cercai di apparire quanto più svagato e frivolo potessi, come se la domanda l’avessi buttata lì tanto per continuare una distratta conversazione. Ross mi stupì e, come Smithson in precedenza, mi gelò: «Mezzi leciti, come le donazioni di Fondazioni private e i finanziamenti degli enti pubblici, ma anche illeciti.» Accolsi quella dichiarazione con la stessa fatuità con cui avevo posto la domanda: «Perbacco! Anche illeciti! Ma come?» chiesi sorridendo, come incredulo. «Conosco uno dei chirurghi che lavora nella sua clinica perché è stato mio compagno di Università a Yale. Sono rimasto in buoni rapporti con lui, e mi ha raccontato di alcuni episodi oscuri. Non è affatto chiaro se la clinica che ha voluto affiancare al laboratorio...» Ross si interruppe di botto, guardando la porta di ingresso della sala di lettura. Girai la testa in quella direzione e vidi Staunton avvicinarsi rapidamente a noi. Buttai lì in fretta: «E avete visitato anche la moschea Jami Masjid?» Ross colse la palla al balzo:


«Sì, siamo anche saliti sul…oh, salve Staunton.» Staunton lo salutò e mi ignorò. Ross si alzò e, con un: «Ci vediamo», si allontanò rapidamente verso l’uscita, seguendo Staunton. Mi alzai anch’io e li vidi infilarsi nel Ristorante indiano. Benché quello fosse il ristorante che avevo scelto per cenare, deliberatamente lo evitai ed entrai in quello a fianco, dalla cucina internazionale. Inutile insistere: sarebbe parso sospetto e inoltre non avrei certo potuto ottenere più informazioni di quanto non ne avessi già. La maggior parte dei congressisti diffidava della cucina indiana ed era quindi lì, nel ristorante dalla cucina internazionale. Mi sedetti a un tavolo in mezzo alla sala. Di fianco a me due di loro stavano chiacchierando mentre mangiavano una quiche. Ascoltai distrattamente i loro discorsi svagati; così, tanto per farmi un’idea dell’umore degli scienziati e per ricordare a me stesso che in fondo ero lì anche e soprattutto per conto della mia ditta. Cenai in fretta e nella hall cercai con gli occhi il poliziotto di Raj. Lo vidi appoggiato al muro con l’aria annoiata. Mi sedetti su uno dei divani circolari al centro della sala, in modo che mi potesse vedere bene, e mi grattai l’orecchio destro due volte. Aspettai un paio di minuti poi mi diressi verso la toilette. L’addetto alla pulizia dei bagni non c’era; evidentemente nell’organizzare quel complicato metodo di comunicazione Raj aveva ottenuto dall’hotel di poterne fare a meno. Aspettai fingendo di lavarmi le mani. Arrivò il poliziotto che mi ignorò e si mise ad aprire le porte dei bagni e del vano scope, guardando in ogni buco. Poi mi si avvicinò per lavarsi le mani e mi disse: «Dica.» «Ho bisogno di vedere il capo» sussurrai. «Domani però vado ad Agra tutto il giorno.» Fece cenno di sì, si asciugò e uscì dall’uscita di sicurezza il cui allarme evidentemente era stato disinserito. Alle sette di mattina salii con l’ascensore all’ultimo piano dell’albergo, dov’era la sala per la colazione. Guardai fuori dalla grande finestra che si affacciava a nord, dalla parte delle lontanissime montagne: il sole era appena sorto e prometteva di concedere una splendida giornata. Seguendo il profumo di caffè entrai nella sala; Staunton era già lì, solo,


33 alle prese con le immancabili uova strapazzate e la pancetta. Era vestito in maniera casual, adatta all’occasione della gita: maglietta e jeans. Però non se l’era sentita di viaggiare in incognito e aveva il cartellino del Congresso col nome attaccato al taschino della maglietta. Molto americano. Chissà se lo metteva anche sul pigiama quando andava a letto! Bevevo il mio tè tenendolo d’occhio, e feci in modo di alzarmi e uscire contemporaneamente a lui. Ci dirigemmo entrambi, uno dietro l’altro, all’ascensore e poi verso l’uscita, dove il pullman aspettava i gitanti col motore acceso. Staunton aveva una grossa borsa a tracolla; io salii subito dietro di lui. Le prime due file di sedili erano già occupate. Staunton scelse la terza coppia di sedili sul lato destro, e si sedette dalla parte del corridoio. Mi fermai presso di lui un istante fingendo di guardare perplesso verso il fondo del pullman; poi mi chinai leggermente e dissi: «Scusi professor Staunton. Mi fa passare? Sa, non posso stare troppo in fondo nei pullman, perché soffro di mal d’auto.» Staunton si spostò dal lato del finestrino e mi fece sedere. Poi gentilmente mi chiese: «Ho qui delle pastiglie. Ne vuole una?» «Oh, no grazie. Cerco di evitare di prenderne, altrimenti resto intontito per tutto il giorno.» Dopo un attimo di silenzio, aggiunsi: «Più del solito.» Staunton sorrise educatamente alla mia battuta, ma il ghiaccio era rotto e per le prossime quattro ore avrei avuto modo di parlare e studiare il professore a mio agio. Così pensavo, ma non avevo fatto i conti con i problemi di jetlag che ancora evidentemente affliggevano il mio compagno di viaggio: mi ero appena sistemato nel sedile che Staunton chiuse gli occhi e si appisolò. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

1 ...................................................................................... 3 2 .................................................................................... 18 3 .................................................................................... 50 4 .................................................................................... 89 5 .................................................................................. 113 6 .................................................................................. 125


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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