Il bambino che aveva paura della sua ombra, Martina Pepe

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Martina Pepe

IL BAMBINO CHE AVEVA PAURA DELLA SUA OMBRA

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ IL BAMBINO CHE AVEVA PAURA DELLA SUA OMBRA Copyright © 2019 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-340-6 Copertina: immagine Shutterstock.com


A colei che è la mia costante



La speranza mi guida, è ciò che mi fa superare la giornata e specialmente la notte. La speranza che quando sparisci dalla mia vista non sarà stata l’ultima volta che ti ho guardata. A Knight’s Tale



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CAPITOLO 1 UN BAMBINO E UNA CASA MALEDETTA

Tic tac… Tic tac… Tic tac… Come il suono del tempo echeggiava tra le pareti, così anche il frastuono dei tuoni, in una cupa notte invernale. Nella vecchia casa della famiglia Price, scricchiolante e arrugginita, ammuffita e ingiallita, un bambino dormiva sonni agitati, poiché cullato da oscure storie di mostri e fantasmi. Un bambino innocente, che forse in un’altra vita avrebbe corso libero. Libero da verità e ragione, libero dal mondo. Ma che in questa, poiché all’inizio della propria esistenza, aveva posato lo sguardo su ciò che nessuno dovrebbe mai vedere. Altro non poteva fare se non cercare di stare a galla e non cadere nel profondo, vuoto, e buio abisso che è l’infinito. *** Un bambino, una casa maledetta e la potenza dell’infinito. L’infinito dello spazio e del tempo. L’infinito del nulla e del tutto. L’infinito di forze inimmaginabili che avvolgono la mente umana e la espandono in incalcolabili possibilità. Possibilità che si separano come rami di un grande albero, portando a molti sentieri; strade ben delimitate, ma allo stesso tempo nascoste, e perciò visibili solo se le si cerca con la coda dell’occhio. Vie tracciate da destini che si legano e mescolano, come carte di uno stesso mazzo; percorsi segnati con grandi X e custoditi nel segreto… solo per Lui. Lui, il bambino solitario che nella casa maledetta vive in balìa della potenza dell’infinito. Lui che, in una fresca ma soleggiata mattina invernale, correva per il parco della casa facendo volare un grande aquilone rosso nel cielo


8 blu. Ma poi il vento aveva cambiato direzione, e le nuvole si erano intristite, così era rientrato rifugiandosi nella stanza che era la prigione della sua mente e il sollievo della sua anima; le quattro pareti grigie custodi del suo segreto e protettrici del suo dono. Un dono maledetto, impresso d’infinito. Un regalo di cui in principio il bambino non comprese l’essenza. Un grande segreto, che gli fu svelato senza permesso; perché il piccolo umano di undici anni ne aveva bisogno. Lui che temeva l’uomo nero chiuso nell’armadio, i coccodrilli assopiti nella vasca da bagno, gli spiriti maligni intrappolati nei muri, e i troll che vagavano liberi e indisturbati di notte e di giorno dormivano nella credenza in cucina, o quelli erano i folletti? Le fate che sussurravano da sotto le porte, gli orchi che nel buio bussavano alle finestre e gli gnomi che dal camino scivolavano giù per correre a rubare la sua marmellata preferita e lasciarne poi solo il barattolo vuoto! Penserete che per un bambino volare così in alto con le ali della fantasia sia di normale natura, e che l’immaginazione possa giocare brutti scherzi a un solitario piccolo umano. Ma la verità, per quel bambino, è che se la gente intorno a lui avesse tenuto più chiusa la bocca e più aperta la mente, non sarebbero stati incubi di mostri a cullare le sue notti, ma sogni illuminati di sfavillante polvere fatata! Sfortunatamente quella gente aveva uno strano modo di vedere le cose e, non possedendo sigilli, andava ovunque, spargendo intorno ogni genere di maldicenza… Se la testarda cuoca Finnegan avesse cambiato posto di lavoro, abbandonando la casa maledetta, un fuoco demoniaco non l’avrebbe arsa viva, lasciando di lei solo un’ombra scura sul pavimento, a testimonianza dell’anima perduta: questo dicevano le malelingue. E se la donna invece, come il famoso burattino della favola, si fosse semplicemente addormentata davanti al camino acceso? Se il vecchio Jones, chiamato per sostituire un vetro, avesse evitato di mostrasi tanto cortese verso i proprietari della oscura casa, poche ore dopo un mostro verde non l’avrebbe buttato giù dalla finestra. Ma magari l’uomo, per osservare la giovane figlia dei Pambery, che aveva indossato una gonna troppo corta, si era sporto troppo oltre il limite. Di conseguenza, il mostro verde forse era solo la tenda del bagno a cui aveva, invano, tentato di aggrapparsi.


9 In fondo, se il giardiniere della villa, in una fresca sera primaverile, non avesse bevuto un goccio di troppo, non sarebbe andato in giro a raccontare di cesoie, rastrelli e carriole che come “posseduti dal diavolo” avevano preso vita e l’avevano inseguito per il parco. Così come, se il muratore, incaricato di piastrellare il vialetto, avesse lasciato al cemento il tempo di asciugarsi, il giorno dopo non vi avrebbe trovato le impronte dei fantasmi delle povere anime che lì erano decedute. Anche perché si sa che i fantasmi non lasciano impronte! Quella gente… sfortunati paesani che dal pregiudizio dei tempi oscuri si facevano ancora governare, creando così solo falsi miti e paure per le vecchie e sbiadite mura della casa maledetta. Ma la ragione, fortunatamente, regnava all’interno della dimora, e non dando mai troppo peso a quelle storie, la famiglia Price, per molte generazioni, era sempre vissuta lì, in completa e assoluta tranquillità; tra un maggiordomo scivolato dalle scale, poiché sprovvisto dei suoi occhiali non aveva notato l’angolo del tappeto rialzato; una cameriera schiacciata da una pesante libreria, perché per nulla agile a spolverare da un’alta cima; un’ospite inatteso impalato dal marcio legno di una trave della soffitta, perché pensando che dietro il cartello “vietato entrare” vi fosse un grande tesoro aveva ignorato il consiglio. La gente però continuava a parlare e, nonostante tutte le precauzioni, i pettegolezzi trovavano sempre modo di penetrare le barriere poste dalla famiglia… e ciò di sicuro non aveva giovato alla crescita del piccolo David. Il piccolo solitario, cresciuto con l’amore di un uomo scomparso troppo presto, e quello di una donna debole e stanca anche per un solo abbraccio. Il bambino che aveva paura della sua ombra. La fresca, ma soleggiata, mattina invernale – la mattina del giorno in cui la nostra storia ha davvero inizio – stava trascorrendo serena e tranquilla, fino a quando il vento decise di cambiare direzione e il rosso aquilone scese dal cielo blu per arenarsi su un albero, dando segno di non voler danzare tra le nuvole un minuto di più. Fu quello


10 il punto in cui il bambino (che è il protagonista della nostra storia) rientrò in casa. Di lì a poco sarebbe iniziata la lezione di matematica, ma la signora Kinsley non si sarebbe scomposta per un leggero ritardo. Il piccolo Price, a differenza di tutti gli altri suoi coetanei del paese, riceveva un’istruzione privata; fatto che portava sia lati negativi che positivi. Non aveva mai passato neanche un solo giorno in compagnia di altri bambini e non aveva mai partecipato a giochi di cui lui non fosse l’unico partecipante reale, ma in fondo tale separazione non lo aveva mai turbato. Dopotutto se non hai mai avuto qualcosa, ne puoi sentire la mancanza? E poi lo studio a casa, con i migliori e più costosi insegnanti privati, aveva fatto di lui un piccolo genio; un genio incompreso con un segreto chiuso nell’armadio. Il bambino rientrò in casa dalla porta posteriore della cucina, superando a passo leggero l’aula dove la sua insegnante lo attendeva, e corse su nella stanza dei giochi, dove si rifugiava sempre quando sapeva bene di volere ciò che non poteva avere. I suoi grandi e lucenti occhi, che avevano rubato il colore alla terra, vagarono indisturbati in quella stanza, facendosi largo tra i mille oggetti, tappeti, mobili, orologi, ragnatele, bauli e scatoloni; superarono a gran velocità una bambola senza testa e un topo di metallo, si soffermarono un poco su una scatola di colori completamente consumati, e un po’ di più su di una girandola sbiadita dal troppo sole, finendo col perdersi poi in una scacchiera senza re. Lo sguardo vagava libero, ma pochi secondi e subito si fermò nel punto in cui l’Infinito aveva vita. Un bambino, una casa maledetta, una stanza dei giochi, un Infinito senza regole. L’infinito dello spazio e del tempo. L’infinito del nulla e del tutto. Lo sguardo si posò lì, in quel punto dove apparentemente regnava il nulla, ma dove il piccolo sapeva essere il tutto. Lì, dove c’era solo Lui. Lui… un pezzo di curiosità nella normalità, un soffio di verità in un mondo che col tempo si era corrotto da solo. Lui… un gioco senza senso, un colore senza tonalità, un oggetto senza consistenza, un cibo


11 senza sapore. Lui… un semplice quadro dietro la cui tela vi è l’unica cosa che veramente conta. «Il segreto per la vita eterna, il più prezioso tesoro di ogni civiltà, la gemma più rara che Re o Zar abbia mai posseduto, il significato della vita…» Era stato l’uomo-scomparso-troppo-presto a dire quelle parole; il nonno, con la cui compagnia il bambino aveva trascorso ogni minuto della sua tenera infanzia. L’uomo che lo aveva cresciuto per i primi sette anni della sua vita, nutrendolo con storie e racconti fantastici, incredibili e semplicemente impossibili. Racconti che piantavano radici in un segreto. Un segreto che, un alquanto ancor giovane, seppur da poco nonno, signor Lionel Price, aveva giurato di custodire per l’eternità… ma così non fece; perché si rese conto che un tale segreto non poteva correre il rischio di andar perduto, non poteva restare dimenticato a marcire in qualche credenza o abbandonato sul fondo di qualche impolverato cassetto e così, non portando fede a una promessa fatta molto tempo prima, raccontò al bambino del libro, della chiave e del mondo segreto. Un mondo dove nessuno può andare se non viene invitato. Un mondo chiuso nel muro – o almeno questo è quello che per molto tempo aveva creduto il piccolo – un mondo dove i sogni diventano realtà. Dove un libro ricco di magie e misteri non lascia che le parole restino incollate sulle pagine, ma fa sì che esse prendano il volo e si trasformino in ciò che vogliamo, in ciò di cui abbiamo bisogno. Un mondo creato non da noi, ma per noi. Un mondo di cui non siamo Re o Regine, ma di cui siamo i protagonisti. Così nacque il Dono. Il piccolo David si avvicinò pian piano a quella tela di cui aveva imparato ogni singola sfumatura, di cui anche la più piccola sbavatura di colore era ben nitida nella sua mente. La sua mente così semplice e complicata allo stesso tempo, la mente di un bambino cresciuto troppo in fretta, pura ma al contempo inquinata dai brutti sogni. Una mente priva di speranza. Una speranza che ora era chiusa in una chiave, una chiave né magica né


12 incantata, vecchia e arrugginita, un tempo d’oro e ora nera. La chiave di quei vecchi racconti che giace in una busta odorante di muffa, prima sotto la custodia del nonno ora sotto la sua. Il dipinto è a un respiro da lui e se allunga un dito può quasi toccarlo, ma non vuole o non può? Molte volte ha pensato di spostarlo per aprire così quel varco che fin da piccino decora i suoi sogni, ma ogni volta le parole del nonno gli risuonano in testa e finiscono per bloccarlo. «Tieni la chiave al sicuro e aspetta, perché solo quando ti sentirai chiamare, solo allora, la potrai usare e tutto cambierà.» Qualche volta gli sembrava che nel rumore di un piatto che s’infrangeva sul pavimento, nello stridulo aprirsi di una porta senza olio, nel gracchiare di un corvo appollaiato su un ramo del parco, o nel vento che soffiava su quelle decrepite pareti, una voce strillasse il suo nome. Così correva di sopra, afferrava il peluche a orsacchiotto nel quale aveva nascosto la busta con la chiave, e la tirava fuori, ma poi ripensava con attenzione a quel suono e capiva che il suo nome era solo il frutto della gran voglia di andarsene che aveva, allora con la tristezza negli occhi e nel cuore tornava giù, alla vita quotidiana e monotona di ogni dì. Così fece anche quella mattina, dopo che il suo aquilone lo aveva abbandonato e dopo aver passato un po’ di tempo a osservare semplicemente la tela. Fece un passo indietro, uscì dalla stanza dei giochi e si richiuse la porta alle spalle. Prese le scale e ridiscese al piano inferiore per dirigersi alla stanza degli studi, dove una noiosa e lunga lezione di matematica lo attendeva, come ogni martedì. La stanza degli studi, posta al pian terreno, era in realtà la sala della musica, dove un pianoforte e un violino riposavano inutilizzati. Al centro della sala era stato posto un tavolo quadrato, ricoperto dai libri di studio; dalla matematica alla grammatica, dalla scienza alle lingue straniere, dalla chimica avanzata alla gingillometria applicata. Il piccolo David stava scendendo le scale, quando un suono ruppe il silenzio solitario che circondava la casa maledetta. Un forte trillo e per un attimo il bambino solitario si sentì spaesato, ma solo per un attimo, poi cominciò a correre e, senza pensarci, si diresse verso la camera dove raramente entrava, la stanza dove tutti i suoi incubi acquistavano consistenza, dove l’Infinito non aveva forma, dove capì per la prima volta che nel mondo reale i sogni non diventano realtà e da dove ora il cambiamento sarebbe cominciato.


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CAPITOLO 2 IL VECCHIO SCONOSCIUTO DI FAMIGLIA

Mentre nel parco di un’enorme e spettrale casa un bambino giocava con il suo rosso aquilone, dall’altra parte del paese, un uomo veniva svegliato dal suo sonno sereno per un’urgenza che richiedeva la sua e solo sua presenza. In quella mattina invernale una brutta notizia aveva appena bussato alla porta del signor Jon Smith, buttandolo giù dal letto e facendolo precipitare in pigiama ad aprire la porta. «La signora si è aggravata, correte!» Parole pronunciate con ansia da un uomo che stringeva tra le mani una bombetta sulla quale cercava di sfogare l’agitazione, mal riuscendo, però, nell’intento e finendo solo col rovinare il piccolo berretto. Il nervoso domestico aveva percorso la strada dalla villa fino a quella piccola casa, nel centro del paese, lanciando la carrozza a tutta velocità per il sentiero, preparato all’idea di ripercorrerla a ritroso, con altrettanta impazienza, ma quando il signor Smith udì le sue parole, si limitò solo a fargli cenno di entrare, prima di ritirarsi nella propria camera. Il momento era arrivato, il giorno tanto atteso, e tanto temuto, aveva appena bussato alla sua porta e anche se il signor Smith si era preparato a ricevere quelle parole già da tempo, nell’udirle non poté comunque evitare che i battiti del cuore accelerassero violentemente. Ci si aspettava che lui facesse qualcosa, che risolvesse la situazione, che si precipitasse alla villa per salvare la signora? La triste verità era che pur con tutte le sue abilità e competenze nulla poteva fare. Perché se un’anima decide di lasciare il proprio corpo, allora niente può trattenerla.


14 Si chiuse nella camera e, dimenticandosi quasi dell’uomo agitato e nel panico nella stanza adiacente, con molta lentezza si tolse lo stropicciato pigiama per indossare abiti più consoni. Mentre allacciava il cravattino e puliva gli occhiali, la sua mente, distante da quei gesti autonomi, cercava qualcosa a cui aggrapparsi per trovare forza, coraggio e rassegnazione. La calma e la lucidità erano elementi essenziali nel suo lavoro, e di entrambe ne aveva sempre a sufficienza, ma quelle che servivano veramente in quel momento erano componenti non solite della sua indole. Fortunatamente di tutte e tre aveva tenuto una bella scorta da parte, pronta da tirar fuori al momento giusto. Momento che ora sembrava essere arrivato. Ormai pronto per uscire, fissò i suo stessi occhi riflessi nello specchio. Non aveva bisogno di riflettere su cosa fare, perché nulla poteva esser fatto, ma aveva bisogno di pensare a cosa dire. “Oh, Lionel come posso farlo?” sospirò con dolore l’uomo, “se solo tu fossi qui, se solo conoscessi le giuste parole, allora forse potrei non farla soffrire tanto, potrei trovare il modo di farla restare.” Ma se non poteva fare nulla allora, forse, non doveva dire nulla. Doveva solo andare alla villa e stare con lei, tenerle la mano e dirle addio. Uscì dalla camera e trovò l’uomo ancora fermo all’ingresso. Prese il cappotto, il cappello, una piccola borsa di pelle consumata da anni di lavoro e, lasciando che l’altro gli facesse strada, insieme uscirono di casa. Salì sulla carrozza e, anche se l’occasione non era di certo delle più piacevoli, il signor Smith non poté fare a meno di pensare a quanto gli piacesse viaggiare con quel mezzo. La famiglia Price era tra le poche a possederne ancora una. In paese tutti andavano a piedi o con altri piccoli mezzi a ruote, ma nelle grandi città le automobili erano ormai quotidiane. Con le tende aperte i raggi del sole entravano a illuminare il piccolo abitacolo e, per quanto possibile in quel freddo giorno, a scaldarlo. Da lì dentro l’uomo poteva osservare il mondo circostante senza intromettersi, poteva vedere le piccole cose e rubare attimi agli altri abitanti del paese. Ed era così piacevole quella sensazione di far parte di qualcosa, ma al contempo di essere estraneo a tutto il mondo,


15 che per poco dimenticò il motivo di quella corsa in carrozza, almeno finché non giunsero alla grande villa dove mai nessuno voleva entrare. Scese dal mezzo e bussò quattro volte sul grande portone di massiccio legno scuro. Si era aspettato che ad aprire fosse il maggiordomo, invece si ritrovò davanti una donna con il volto nascosto in un giallo fazzoletto. La governante, la cameriera, la tata, non sapeva quale fosse l’appellativo giusto per il suo ruolo, ma in fondo il signor Smith l’aveva sempre chiamata semplicemente Beatrice. Aveva sperato di non vederla subito o, meglio ancora, di non incontrarla affatto in quel triste giorno; un’altra anima da consolare alla quale non sapeva cosa dire. Beatrice si scostò per farlo entrare, alzando appena gli occhi, che nascondevano il familiare verde nel rosso delle lacrime. Mentre la donna richiudeva il portone alle loro spalle, l’uomo colse un tremore in quel piccolo gesto. Un brivido che lo fece pensare non solo al dolore che presto avrebbe invaso le loro anime, ma anche al vuoto che ne sarebbe seguito. Con passi lenti si diressero insieme verso le scale, e a ogni gradino sembrava che rallentassero; entrambi sapevano cosa stava per accadere e nessuno dei due era ancora pronto. Il signor Smith fu tentato più di una volta di dire qualcosa a lei che lavorava alla villa da quando era poco più che una bambina, e che dopo tutti quegli anni era diventata parte della famiglia. Aveva il volto pallido e tirato per il dolore, ma nulla sembrava spegnere il rosso dei suoi capelli; almeno quella fiamma sembrava che non si sarebbe mai estinta. Le mise una mano sulla schiena, a sorreggere i suoi passi, e a quel piccolo gesto si limitò il tentativo del signor Smith di consolare la cameriera. Arrivarono alla camera, che l’uomo avrebbe potuto raggiungere anche da solo, in cui la sua paziente si era rinchiusa, all’inizio per un lieve capogiro, poi per un breve raffreddore e infine per una depressione durata tre anni. Fuori la porta trovarono il maggiordomo, la nuova cuoca, che era sicuro di vedere per la prima volta, e due giovani cameriere che parlavano troppo e non facevano molto altro; gli ultimi domestici


16 rimasti – oltre Beatrice e l’autista, che era in realtà il giardiniere – di quella grande casa. Beatrice si ricompose prima di girare l’angolo e con un solo cenno severo liberò il corridoio. Il signor Smith aprì la porta ed entrò da solo nella stanza. C’era buio, ma si notava comunque il grande letto che occupava gran parte della camera, e su cui un bellissima donna, troppo giovane per quel triste fato, era adagiata. Sospirando e concentrandosi per mantenere il fermo coraggio che non era parte del suo essere, l’uomo si tolse cappello e cappotto e li poggiò su un baule. Se nel resto della casa, su tutto veleggiava uno strato di polvere, quella camera era invece lucente, grazie alle cure di Beatrice. L’uomo scostò le tende e aprì le finestre, di modo che la luce potesse illuminare e la fresca aria accarezzare le guance di entrambi. Prese poi una sedia dall’angolo e spostandola vicino al letto, vi si sedette, stringendo tra le sue la mano di lei. Una mano fredda e pallida, le cui unghie erano corte e ben curate (di sicuro anche quella era opera di Beatrice) e la pelle liscia e morbida. La mano di una donna di appena trent’anni, il cui volto non era mai invecchiato oltre i venti, una mano in cui le vene pulsavano lente e lui la stringeva forte, con una mano molto più grande, ruvida con piccole cicatrici e qualche macchia, ma soprattutto calda. Nonostante l’aria entrasse fredda dalla finestra, all’esterno brillava una bella giornata, con il sole che resisteva all’inverno e splendeva forte e imponente sui rossi tetti di quel piccolo e sperduto villaggio tra i monti. Un paese che per la sua grandezza non appariva neanche sulle cartine geografiche e popolato da gente comune e ospitale. Comune come l’aceto sulle fragole e ospitale verso i parenti lontani e i vicini poco curiosi. Priceville, questo il nome dell’adorabile luogo non turistico, nacque e crebbe, con gli anni e il susseguirsi di molte generazioni, a pochi passi da Villa Price, la prima dimora di quel luogo (la casa in cui la scena ora si svolgeva). All’inizio la grande villa vegliava staccata dal resto del complesso sulla punta della collina, ma presto un sentiero fu costruito e la lunga distanza ridimensionata. Quando accaddero i primi incidenti, nessuno prestò loro grande attenzione.


17 «Avete sentito, la cameriera di Villa Price è caduta dal tetto» esclamava un passante alla folla. «Quella giovane era così sbadata!» rispondeva un altro, e subito il fatto veniva dimenticato. Questo accadde con le prime generazioni, ma mentre il mondo cominciava la sua avanzata nel progresso e imparava ad aprire gli occhi, in quel piccolo e dimenticato luogo le lancette giravano all’indietro. Fu per questo, o per sciocca superstizione, o inspiegabile malvagità, o forse comune noia, che i piccoli incidenti cominciarono a essere annotati su un grande librone – tuttora consultabile nella biblioteca del paese – e pian piano gli abitanti si allontanarono da quel luogo e, qualunque fosse la ragione, la maledizione prese vita. Ora Villa Price non era più l’orgoglio e la gloria di Priceville, ma un peso da cui non potevano staccarsi, la Villa Maledetta la chiamavano; e la stessa distanza, una volta tanto disprezzata, veniva ora rimpianta. I Price non si avventuravano quasi mai in paese, e quando lo facevano nessuno incrociava mai il loro cammino, per timore che la maledizione li contagiasse; solo un uomo prendeva le loro difese ed era completamente immune dalla superstizione, solo un uomo che, ahimè, il paese non poteva allontanare per via del suo ruolo. Colui che riceveva più visite e saluti di chiunque altro. La persona a cui tutti si rivolgevano per dubbi esistenziali o semplici pruriti. Il protettore di quel piccolo e sperduto villaggio tra i monti. Ora quell’uomo era seduto nella Villa Maledetta e stringeva tra le sue la mano fredda e bianca della giovane e morente padrona di casa, Mary Violet, nome tramandato per rammentare un tempo in cui una bambina identica a lei era cresciuta allegra tra quelle stesse mura, altra anima che era stata portata via troppo presto. Il signor Smith aveva visto crescere quella donna e l’aveva sempre considerata come la figlia che non aveva avuto. Le aveva curato il primo colpo di tosse, ricucito il primo graffio, steccato la prima slogatura e, soprattutto, l’aveva fatta nascere. Ricordava, come se fossero state dette in quell’istante, le parole del suo caro amico Lionel, la prima volta che aveva stretto la sua bimba tra le braccia: «Sono stupito di quanto sia bella, un angelo del cielo, con questi grandi occhi azzurri, ricchi della curiosità di scoprire il mondo.»


18 «E già pronti a ricevere la saggezza che tu stesso, ogni giorno, le donerai» aveva aggiunto lui, e insieme i due vecchi amici si erano fatti una lunga e chiassosa risata. Nel ripensare a quei momenti passati, a quei giorni in cui tutto andava bene, il fermo coraggio del signor Smith vacillò. Le stringeva più forte la mano e lo faceva anche da parte dei suoi genitori, i vecchi amici che non c’erano più. Alla fine trovò le parole e accarezzò la memoria della donna con teneri ricordi. Le raccontò del proprio passato, le parlò di quando da ragazzo aveva conosciuto i suoi genitori, prima Lionel e qualche anno dopo Eloise; le disse come si era subito sentito legato a suo padre, come fosse un fratello che non aveva mai saputo di avere. Poi le fece rivivere anche i suoi giorni; cercò di farle sentire la felicità che lei aveva portato nelle vite di tutti loro il giorno in cui era nata. Le raccontò eventi felici e sereni, sperando di restituirle un po’ di gioia di vivere… ma poi nei suoi ricordi la rivide bambina, il giorno in cui un cavallo l’aveva disarcionata e lasciata immobile a terra; un duro colpo alla testa e la meravigliosa macchina che era stata la sua mente perse qualche ingranaggio. Lui era dentro alla casa maledetta a giocare a scacchi con Lionel. Furono i primi a soccorrerla. Da quel giorno gli occhi di lei avevano perso la lucentezza e la spensieratezza con cui si erano aperti la prima volta. La sua anima si era divisa in due, ma con l’affetto della sua famiglia, la giovane Mary era comunque andata avanti, sostenuta dalla tremolante convinzione che la vita è sempre e comunque una cosa meravigliosa. Una convinzione che poi con il tempo era evaporata dalla sua ragione. Quando compì diciannove anni, il Destino decise di farle un regalo, e quello fu il giorno in cui Mary Violet Price incontrò il ragazzo che poi divenne il suo principe azzurro; l’affascinante, giovane e aristocratico Eric Preston, venuto da molto lontano per far visita a parenti mai conosciuti, e che mai ebbe poi occasione di conoscere. Si scontrarono per caso tra le vie del paese e fu subito amore a primo sguardo, un profondo e sincero sentimento che non prese minimamente in considerazione la situazione precaria della mente della giovane innamorata.


19 Pochi giorni dopo le nozze, i due ragazzi, con la benedizione della famiglia di lei, ma non di quella di lui – che si teneva a debita distanza – erano già in dolce attesa. Quei nove mesi, tuttavia, non furono poi così piacevoli e quando finalmente arrivò l’ora, fu più tenebrosa che mai. Poiché mentre in una stanza la dolce Mary, con l’aiuto dell’uomo che ora le stringeva la mano, faceva nascere la vita, nella stanza adiacente sua madre, la cara Eloise, con il suo amato Lionel accanto, se la faceva sfuggire via dalle dita. Così, nel giorno a cui aggettivi non si possono dare, la vita e la morte si scontravano nella stessa casa senza dare spiegazioni. Si dice che nel mondo tutto ha un equilibrio perfetto, nulla accade per coincidenza, e ogni cosa ha una causa e un effetto, anche se noi non lo vediamo, e per rispettare questo equilibrio se qualcuno gira a sinistra, dall’altra parte del mondo, qualcun altro deve girare a destra, e se qualcuno nasce qualcun altro deve morire. Il povero signor Smith aveva studiato a lungo il funzionamento dell’universo e, anche se lo aveva compreso, di certo non lo accettava. Il giorno senza nome, è così che tutti lo ricordano, il giorno che non doveva esistere; come se febbraio per sentirsi più come gli altri, per una volta, avesse provato a prendere un trenta. Il giorno della vita e della morte, della luce e del buio, del bianco e del nero, del bene e del male, del dolce e del salato. Il signor Smith si spostò sul letto e strinse la giovane donna a sé. Le sentiva il battito rallentare sempre più, e per la prima volta in vita sua pensò davvero che quella dimora fosse maledetta per come pian piano, quasi gustandosi di volta in volta la scena, si era presa la vita di ogni persona che ne aveva custodito le chiavi, che vi aveva vissuto o lavorato. L’ultima era stata quella del suo amico Lionel il giorno in cui quella distrutta e quasi inesistente famiglia aveva cessato di vivere, il giorno in cui la troppo segnata dalla vita Mary si era chiusa in se stessa e il più che mai piccolo David, che ora sarebbe rimasto orfano, aveva cominciato a vivere da solo, sognando il giorno in cui l’avrebbero chiamato, in cui tutto avrebbe acquistato un senso, in cui avrebbe di nuovo sentito il nonno accanto a sé. Il povero uomo, che aveva visto quella famiglia che sentiva sua morire, lasciò che le lacrime gli rigassero le guance, sperando che avrebbero fatto colare via anche il dolore che provava. Ma poiché


20 quello sembrava non bastare, l’uomo che non aveva mai dato fiducia ad alcuna entità divina superiore, chiuse gli occhi e per la prima volta pregò. Pregò un Dio in cui non aveva mai creduto, per la donna lì stesa e per il bambino che avrebbe abbandonando. Pregò perché l’anima di lei non si smarrisse nel buio ma raggiungesse un luogo migliore, che fosse una nuvola o il Paradiso; il luogo di cui si era sempre rifiutato di ammettere l’esistenza, ma che per lei sperava davvero esistesse. In quello stesso istante, la dolce Mary aprì gli occhi e girando lo sguardo verso il suo padrino, gli sorrise, un lieve sorriso soffocato a metà dal respiro mancante… e così la giovane donna si addormentò per riunirsi finalmente ai suoi cari perduti. Aveva sentito il calore lasciare quel fragile corpo e aveva visto l’azzurro degli occhi sciogliersi e cristallizzarsi in trasparente ghiaccio. Il signor Smith tirò il campanello che, con un forte trillo, avvertì la casa di quanto era accaduto, ma con il coraggio oramai evaporato, non riuscì a lasciarla andare, e così la tenne stretta a sé ancora per molto. Alla fine fu Beatrice a staccarlo da Mary, a togliergliela dalle braccia e ad adagiarla sulle coperte, sistemandole con cura i capelli sul cuscino. Il signor Smith vacillante, recuperò i suoi pezzi e senza voltarsi uscì dalla stanza. Aveva perso lei e con lei l’ultima parte della famiglia, era solo, era nel nulla, era… Fuori la porta, sull’ultimo gradino della scala che portava al piano superiore, stava una piccola figura rannicchiata. L’uomo avanzò di un passo e la figura tirò fuori la testa dalle braccia. Era un bambino così simile alla donna a cui aveva appena detto addio, un piccolo con gli occhi del colore della terra, che ora lo stava guardando fisso… e fu come se il mondo gli stesse dando una seconda possibilità. Jon Smith avanzò fino al piccolo David, gli s’inginocchiò davanti e disse: «Ciao» con il sorriso più dolce che in quel momento poteva creare «io sono il dottore.»


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CAPITOLO 3 PER FUGGIRE LONTANO E NON TORNARE MAI PIÙ

Il piccolo David, i cui occhi ora avevano perso anche l’ultimo alone d’innocenza e spensieratezza, sedeva sulla panchina, sotto la grande quercia verde, in quella che era l’unica zona curata del parco, dove la natura cresceva incolta, ma secondo un minimo di ordine che non necessitava, pertanto, dell’ausilio del giardiniere. Alte siepi di fiori bianchi decoravano la vista e lunghe ombre erano proiettate dalla chioma della quercia; ombre che coprivano anche la panchina, il bambino e l’uomo che sedeva al suo fianco. Entrambi gli uomini nel silenzio tenevano lo sguardo basso sul prato e nessuno dei due sembrava avere intenzione di dire qualcosa. «Ciao… io sono il dottore» erano state le prime parole che quello sconosciuto gli aveva detto inginocchiandosi davanti a lui e: «vieni con me, dobbiamo parlare» era stata la fine della frase. Così il bambino aveva fatto, si era alzato dalle scale e lo aveva seguito fino alla panchina su cui sedevano ora, e nel silenzio lì erano rimasti. Il dottor Jon Smith era un uomo che dall’aspetto non dimostrava più di quarantacinque anni, ma i cui occhi neri sembravano vedere da più di un secolo (in realtà aveva precisamente cinquantotto anni). Era molto secco e la camicia a quadri che indossava non nascondeva quel dettaglio, uno storto farfallino e una giacca scura con le spalle larghe completavano poi l’abbigliamento. Sul naso stavano in bilico un paio di occhiali. I ricci capelli neri erano striati di grigio e la barba, né lunga né corta, dava al suo aspetto un tocco trasandato, così da farlo sembrare un noioso e comune personaggio. Ma in realtà la sua mente era brillante come poche e come erede di una ricca famiglia, aveva


22 anche molto denaro, troppo a parer suo, che aveva scelto di vivere in una piccola casetta non molto diversa da quella del panettiere del paese. Aveva poi delle dita molto lunghe e affusolate, e per tutto il tempo di quel lungo silenzio non aveva mai smesso di giocherellarci, un piccolo “tic” su cui però il bambino non si concentrò molto. «È strano sai, non essersi mai conosciuti prima. Tutti questi anni e mai una volta ci siamo realmente incontrati» disse finalmente l’uomo interrompendo il silenzio. La sua voce era calma e profonda, con un non so che di rassicurante, ma in sottofondo si udiva un leggero tremolio, probabilmente lasciato dalle lacrime che precedentemente aveva versato per la dolce Mary Violet. Era vero. Era davvero strano; undici anni e mai prima di allora il bambino aveva realmente incontrato quell’uomo: Jon Smith, l’onnipresente amico di famiglia. Ne aveva sentito parlare molte volte, e per questo appena lo aveva visto lo aveva subito riconosciuto, ma mai prima di allora lo aveva incontrato. Molte volte era entrato in una stanza da cui il dottore era appena uscito o viceversa, ma mai si erano presentati o anche solo guardati negli occhi (non contando il giorno in cui l’uomo l’aveva fatto nascere, o le volte in cui era stato troppo piccolo per ricordare). Sembrava quasi che l’universo non volesse farli conoscere, eppure eccoli seduti sulla stessa panchina a condividere lo stesso dolore. «Tua madre era… una creatura delicata. Un’anima troppo buona per questo mondo. Ma non parliamo di lei ora. Parliamo di te. Hai pensato a cosa farai da domani?» Domani. Il bambino si chiese come poteva esistere un domani, quando si rimaneva da soli. Ma in fondo, anche se per lui poteva non esistere, gli altri dovevano andare avanti. «Io… non lo so, signore.» «Non puoi vivere qui da solo.» Quell’uomo voleva seriamente affrontare il discorso in quel momento? Un bambino orfano in una grande casa; no, non poteva vivere lì da solo. Non poteva, e nemmeno voleva. Ma ancor di più sapeva di non poter lasciare quella casa, non poteva abbondare il grande maniero in cui fin dall’inizio dei tempi aveva sempre vissuto un Price, e lui ora era l’ultimo.


23 «No, signore» si limitò a rispondere il bambino. Il dottore, perdendo la leggera esitazione con cui aveva toccato l’argomento, cominciò a parlare, quasi tra sé e sé, di quel che era accaduto e di quel che sarebbe successo in futuro. Domani. Futuro. Quelle parole si protendevano nell’aria con lunghi echi. Il piccolo David un momento ascoltava, ma il secondo dopo si perdeva nel ricordo del volto di sua madre, che quell’uomo con le sue parole aveva rievocato con il racconto di una triste storia di cui lei non avrebbe più fatto parte e in cui lui, così piccolo, avrebbe vissuto in un’enorme casa da solo. C’era una possibilità, tuttavia, per poter aver un lieto fine, ed era proprio il dottore. Le successive parole dell’uomo furono troppo noiose perché gli venisse voglia di ascoltarle, ma pur non prestando molta attenzione, riuscì lo stesso ad afferrare il senso del discorso. Il signor Jon Smith era un uomo rispettabile e poiché tutti conoscevano il suo ruolo in quella famiglia, non gli sarebbe stato difficile diventare il tutore del bambino. Per quanto questa sembrava essere la soluzione più plausibile, e anche l’unica fattibile, avrebbe comunque lasciato che fosse il piccolo Price a decidere. Il bambino si chiese quando l’uomo avesse avuto quell’idea, mentre vedeva sua madre morire, quando aveva incontrato il suo sguardo sulle scale, o solo nel momento di quel lungo silenzio, o magari lo aveva concordato molto prima ancora? In fondo non aveva importanza. Voleva o no vivere con quell’uomo? Era una domanda sciocca… come se avesse davvero potuto scegliere. La parola volere non era quella giusta. L’uomo era un vecchio amico di famiglia, eppure per lui era uno sconosciuto; lo sconosciuto che lo aveva fatto nascere, lo sconosciuto che aveva amato suo nonno come un fratello… avrebbe potuto accettare la sua presenza nella casa? Avrebbe potuto accoglierlo e iniziare con lui una nuova vita? Altre domande a cui non pensava di poter dare più di una risposta. «Sarò lieto di accoglierla nella mia casa» rispose il piccolo Price, cordialmente ma con tono neutro, quando il dottore smise di parlare.


24 “Lo farò” si disse, “non per me, ma per la mia casa alla quale in nessun altro modo potrei dare protezione. Vivrò con questo sconosciuto… in fondo il nonno si fidava di lui.” Allora il dottor Smith, convinto di aver fatto tutto il possibile per il momento, lentamente si alzò dalla panca di legno, diede un dolce buffetto alla guancia del bambino e si allontanò per tornare in paese e comunicare una brutta notizia, ma anche per “svolgere le pratiche”, come disse lui, di quella dolce novità e non doveva preoccuparsi, disse a David, avrebbe parlato lui con Beatrice. Il piccolo David ora sedeva sotto alla grande quercia verde con la sola compagnia del vento, che faceva muovere le foglie cadute; gli girava la testa perché per troppo aveva trattenuto le lacrime e finto di stare bene, ma ora che il dottore l’aveva lasciato, sentiva di potersi liberare e così cominciò a piangere disperatamente e liberamente, come non faceva da molto, come gli sembrava di non aver mai fatto. Il bambino solitario, seduto fuori dalla sua casa maledetta, guardava nell’Infinito… tutto ciò che aveva sempre temuto ora era lì, reale e tangibile, e lui doveva affrontare tutto questo da solo, con il piccolo aiuto di un uomo che conosceva appena, che aveva appena conosciuto. Nella sua mente il magma ribollì, non riuscì più a contenersi, e un vulcano esplose con un forte boato liberando lava, lapilli incandescenti e vecchie istantanee di famiglia. Con lo sguardo perso tra i fiori delle siepi, David rivide la sedia bianca che sua madre amava poggiare in quel punto, dove passava interi pomeriggi, a ricamare fiori su centrini e a canticchiare stonate strofe della ninna nanna che aveva scritto per lui. La sedia non era più in quel punto, sua madre non era più lì… eppure lui la vedeva, la seguiva mentre accarezzava i candidi petali dei fiori a stella che crescevano tra quelle siepi. Non era più lì, eppure lui la sentiva, l’ascoltava mentre intonava quel flebile canto… canto che dietro di sé portava anche il ricordo di grida e tormenti; il terrificante tormento di un nome, un solo nome urlato a gran voce nelle notti in cui la malattia era più forte e della sua cara madre restava molto poco.


25 Quelle erano le notti in cui lui aspettava insonne sulle scale fuori dalla stanza dove raramente entrava, mentre Beatrice cercava di calmare la donna, ma il grido continuava a lungo e del nome, urlato senza fiato, restava l’eco fino all’alba. Il nome di quell’uomo che lui non aveva mai conosciuto. «Eric… Eric…» una eco senza fine e senza inizio. Ma David non voleva pensare a questo ora, voleva solo dimenticare. Dimenticare tutto. Così corse in casa verso la stanza che amava e temeva. Corse su, corse veloce, senza incontrare nessuno, e si rifugiò nella prigione della sua mente. Una volta chiusa la porta, i pensieri malvagi lo invasero e gli incubi acquistarono consistenza. Le luci si spensero, le ombre lasciarono le pareti e i topi si rifugiarono nelle proprie tane. Mary Violet Price era morta. La madre aveva lasciato il suo piccolo e ora il bambino si fece assalire dal panico. Come se le parole di poco prima con il dottore non fossero mai state pronunciate desiderò di scappare via, di andare lontano e non tornare mai più. Avrebbe cominciato una nuova vita, questo sì, ma lo avrebbe fatto a chilometri di distanza da quelle mura maledette. Dalla parte opposta del mondo, su un’isola deserta, o nel cuore di un vulcano. Era deciso e lo avrebbe fatto. Sarebbe fuggito. Ma poi realizzò che non voleva andare ovunque, e che solo in un posto si sarebbe potuto rifugiare, solo in quel luogo si sarebbe sentito a casa, in pace e al sicuro, solo nel mondo-chiuso-nel-muro! Sua madre era appena morta, ma quel pensiero per un po’ passò in secondo piano e poco dopo scomparve del tutto, come le lacrime dal suo viso. Improvvisamente il suo unico pensiero e problema divenne un altro; al nonno il varco per il magico mondo (di cui le storie sempre gli narrava) era stato aperto nel momento in cui l’uomo aveva perso tutto, la notte in cui la cara Eloise era morta, il giorno in cui al rintoccare dell’undicesima ora notturna – la stessa ora in cui David era venuto alla vita – aveva perduto sua moglie e il mondo gli era crollato contro; fu in quell’istante che a Lionel Price venne data l’occasione di trovare le risposte in un libro senza nome, di partire per l’avventura più grande e di vedere cose straordinarie.


26 Allora perché nessuno ora chiamava lui? Lui a cui a soli undici anni si era oscurato l’universo, lui che non aveva più speranza e i cui bei sogni erano svaniti per sempre, lui che non aveva più ragioni per vivere e combattere? “Perché nessuno mi chiama?” urlò all’Infinito il piccolo David Price. Ma l’Infinito non rispose… e allora lasciò che ciò che aveva nel profondo uscisse fuori e, con un silente grido, senza speranza, si fece una nuova amica: la pazzia. Insieme, con un sorriso rubato al giorno che doveva ancora venire e che non sarebbe più arrivato, iniziarono una mitica battaglia senza senso. Il piccolo David e la sua nuova compagna contro chi non poteva difendersi o controbattere. Tutti quei poveri oggetti che troppo a lungo in pace avevano vissuto tra quelle mura. Quei poveri esseri inanimati a cui ora veniva cambiata l’identità; così un vaso dipinto a mano diveniva un mucchietto di cocci, un libro molto antico solo carta straccia, un piccolo peluche sempre in ordine si ritrovava a testa in giù tra gli scatoloni di Natale, che a loro volta si ritrovarono mischiati con quelli contenenti vecchi logori abiti, un candelabro senza prezzo ammaccato e maltrattato veniva lanciato tra i pezzi di vetro di quella che una volta era stata una delicata ballerina… e ogni cosa mutava. Poi David perse anche l’ultima briciola di buon senso e fece l’unica cosa che non avrebbe mai dovuto fare, l’unica cosa che il nonno gli aveva vietato di fare, la cosa che gli cambiò la vita e che forse in seguito – se il Tempo gliene avesse lasciato la memoria – avrebbe considerato come la vera maledizione di quella casa. «Tieni la chiave al sicuro e aspetta, perché solo quando ti sentirai chiamare, solo allora, la potrai usare e tutto cambierà.» Nessuno lo chiamava, ma sua madre era morta… e tutto era già cambiato. Così decise di farlo da solo, decise che era arrivato il momento, che non voleva più aspettare. Afferrò la chiave come molte altre volte aveva fatto, tolse il quadro dal muro e con la disperazione nel cuore inserì quel pezzo di metallo lì, dove sapeva che la serratura sarebbe apparsa. Nel punto in cui il Nulla e il Tutto si mescolavano per custodire il Dono.


27 Penserete che poiché non era il momento nulla accadde… ma non fu così. Il piccolo David scostò la mano dalla chiave ma essa invece di cadere rimase fissa nel muro; una crepa percorse la parete disegnando i contorni di una porticina, la chiave girò nella serratura e un mondo buio si aprì. Sorpresa, stupore, erano emozioni che ora il piccolo non credeva di poter provare e così, senza prestare attenzione ai dettagli, infilò le mani nel buio… e ne estrasse fuori un libro. Allora la porticina si richiuse da sola e la crepa si cicatrizzò, sputando fuori la chiave, che con un tintinnio si ritrovò sul pavimento. Il muro tornò compatto e i sentimenti negativi che si erano impadroniti di lui si sciolsero. Recuperò la chiave da terra e la rimise al suo posto nel morbido peluche, e con un senso di felicità, mischiato al dolore per la madre e al senso di colpa per non aver aspettato la chiamata, il bambino senza speranza corse in camera sua e vi si chiuse dentro.


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CAPITOLO 4 SOLO UN MUCCHIO DI PAGINE BIANCHE… E SOGNI D’ARGENTO

Ora il bambino senza speranza era seduto sul letto a sfogliare quelle pagine; il libro proibito era con questo nome che il nonno l’aveva battezzato. Cosa aveva poi di diverso da tutti gli altri, il piccolo David se lo era sempre chiesto, e se lo chiedeva anche ora, che era tra le sue mani. Si accorgeva che non vi erano custoditi mille segreti, ma solo un mucchio di pagine bianche, anzi ingiallite, e odoranti di troppo tempo trascorso. Una copertina marrone, qualche rifinitura in oro e nulla più, né titolo né parole, solo il silenzio. Il libro proibito… chissà perché?! Il libro della storia che deve ancora essere scritta. A questo punto il nonno interrompeva sempre i suoi racconti, e cominciava a descrivere piccole cose che aveva trovato dall’altra parte. «Presi il libro, lo aprii e cominciai a leggerlo, bastarono poche parole e poi…» Questo era un problema, un imprevisto nel suo piano: come far apparire le parole? David pensò a sua madre e al poco tempo che avevano davvero passato insieme come una famiglia felice. Cercò di ricordare i picnic che facevano ogni giovedì nel parco intorno alla grande villa, cercò di rivedere le visite della domenica allo zoo della grande città, a pochi chilometri dal loro paese. Cercò di rivivere i momenti allegri e normali passati in compagnia di sua madre, nel trascorre della sua tenera infanzia, cercò… ma non li trovò, perché quelle cose loro non le avevano mai fatte.


29 Cercò e quando ricordò le mille cose mai fatte, una lacrima quasi gli uscì, ma la fermò in tempo. Non poteva far vincere la malinconia, doveva restare vigile per concentrarsi sul problema e trovare una soluzione. Doveva… La porta della camera da letto si aprì, e lui fece appena in tempo a nascondere il libro sotto il cuscino, prima che una donna dai capelli rossi entrasse. Non l’aveva sentita bussare, ma dato il grande vassoio che portava tra le mani, probabilmente lei non lo aveva fatto. Poggiò il pranzo, o forse la cena, sul tavolinetto accanto al letto e poi strinse forte il bambino. La donna non aveva una corporatura troppo robusta, nonostante i fianchi larghi, ma il prosperoso seno era comunque sempre di troppo in quei momenti di affetto. La tata lo lasciò andare e lo guardò fisso; qualunque altro bambino sarebbe stato in lacrime, distrutto da quello che qualche ora prima era successo, ma ora lui appariva terribilmente calmo. La donna lo conosceva bene, lo aveva cresciuto, e sapeva che il piccolo si stava solo nascondendo dietro a una maschera, ma sapeva anche che se quel velo fosse stato tolto, lui sarebbe crollato a pezzi, per questo decise di far finta di nulla. Dopotutto, non era la prima volta che affrontavano una situazione simile. La donna si raccomandò con il piccolo che mangiasse qualcosa e poi uscì, promettendogli di tornare più tardi. Lui in risposta abbozzò un’innocente sorriso sulle labbra; quelle stesse sottili labbra che aveva ereditato da sua madre, così come il piccolo naso, la fronte alta e la forma grande degli occhi, l’unico tratto che lo rendeva il figlio di suo padre era il colore scuro del cespuglio indisciplinato dei capelli, dato che i morbidi boccoli di sua madre erano invece dorati, quel biondo dorato che sembrava caratteristica di famiglia, poiché la madre lo aveva ereditato da Lionel che a sua volta lo aveva rubato dai vecchi ritratti dei loro antenati sparsi per la casa. Non appena la porta si richiuse, il bambino rivolse lo sguardo al cuscino, sotto cui spuntava un angolo del libro. Beatrice, o la “signora B” come la chiamava lui, era la governante della casa, ma anche la sua tata. Gestiva la villa da sola e gli altri pochi domestici seguivano i suoi ordini. Il nonno l’aveva sempre trattata come una persona di famiglia e così la vedevano anche tutti gli altri; Beatrice che era essenzialmente parte di Villa Price, e in


30 quanto tale, ovviamente, non era sfuggita alla Maledizione, anzi aveva persino un leggenda personale: una storia di streghe, anime perdute e demoni del fuoco. Tutto solo per il colore dei suoi capelli. Ma fortunatamente a questa storia il bambino non aveva mai dato molto credito e per questo riusciva a guardarla senza immaginarsela con cappelli a punta e occhi bianchi, e anzi riusciva persino a considerarla come una delle poche delizie di quella grigia vita, che l’aveva cresciuto con il sapore delle spezie più dolci… per questo non poté resistere all’afrodisiaco odore della bevanda fumante portata con il vassoio e lasciata al suo fianco e perciò, prima di riportare tutta la sua attenzione al libro, la bevve con un gran sorso. Il piccolo David scese dal letto, recuperando il tomo, e dallo scrittoio vicino allo specchio prese uno stilo e una goccia d’inchiostro. Lasciò cadere la lacrima nera sulla prima pagina, con la speranza che accadesse qualcosa, qualcosa anche di piccolo, ma lei rimase lì, a turbare immobile quel bianco non più candido. Allora richiuse il libro e tenendolo stretto tra le sue esili braccia, andò alla finestra e scostò le tende. Oltre il vetro, il cielo era tinto del rosso del tramonto e la luna e alcune stelle erano già sbocciate. La splendente luna, sovrana della notte, e le argentate stelle, così distanti eppure tanto vicine da farsi vedere… si perdeva sempre nella loro antica ed eterna luce e, sempre in loro compagnia, sognava le parole del nonno, tutte quelle meravigliose storie! Una volta Lionel aveva confessato al nipote che era tornato dal mondo-chiuso-nel-muro, solo per poter raccontare a lui ciò che aveva visto e imparato. Gli aveva narrato anche di come aveva chiesto al libro di costruirsi un rifugio, e di come lui si era infilato nel muro lasciando scivolare fuori una chiave, l’unica che avrebbe potuto far apparire la serratura. Gli disse di aver scelto proprio quel quadro, per proteggere il segreto, per un motivo preciso: perché quella era una delle prime tele che la sua cara moglie aveva accarezzato con il suo morbido pennello da provetta pittrice. Una delle più che rare volte in cui David aveva udito il nome di sua nonna dalle labbra del nonno. Su un’alta scogliera, ricoperta dalla verde e calda brughiera, un piccolo faro rosso veglia sul mare del tempo e illumina la via alla grande nave dalle vele nere. La Perla Nera, qualcuno avrebbe


31 potuto chiamarla, ma la cara Eloise preferiva l’epiteto più romantico di Vita. La Vita che lotta e combatte contro le onde del Passato per entrare nell’oscura e grigia grotta che è il Futuro. Lionel usò la Vita per proteggere il Dono e cominciò a riempire la stanza con mille cianfrusaglie per renderla inagibile. Una volta aveva persino spiegato come quel libro fosse arrivato a lui, aveva detto: «Ero in lacrime, solo e disperato, sarei voluto scappare, ma la parte opposta del mondo non sarebbe stata molto lontana, così feci una “brutta cosa”. Ma le stelle fortunatamente mi stavano osservando e così, senza che io gli chiedessi niente, loro esaudirono il mio desiderio inespresso. Il tempo si fermò e dallo specchio accanto a me uscì il libro e… beh, il resto della storia lo sai.» Non gli aveva mai confessato quale fosse quella “brutta cosa” che aveva fatto, ma d’altronde lui non glielo aveva mai chiesto. I ricordi lo assalirono e per una frazione di secondo l’intero mondo si spense. In quello stesso istante il libro s’impresse della luce rubata. Il piccolo David fissava la copertina marrone, prima buia e spenta, che ora, luccicante, rifletteva ciò che lui aveva dentro. Una luce non brillante, ma che urlava a gran voce: «Vieni da me!» Qualcosa lo stava chiamando, nessuno urlava il suo nome, non era la chiamata che aspettava da anni, era un richiamo diverso, intenso e vibrante. Risuonò per tutta la stanza, e quando fu così forte da raggiungere il confine del cosmo… successe qualcosa. La luce del libro, come una sfera azzurra, fluttuò via e affogò nello specchio della camera, dove tra irreali onde apparve un volto di donna. Un volto dai dolci e quasi familiari tratti, che all’inizio scambiò per il ritratto di sua madre, quando ancora amava la vita e ciò che essa le aveva dato. O almeno ciò vide fin quando il libro, mosso da un vento invisibile, si aprì tra le sue mani e le pagine bianche cominciarono a scriversi da sole, con segni dalla forma indecifrabile, caratteri sconosciuti, lettere mute, che nella sua mente sussurravano nomi, luoghi, avventure. Poi il vento cessò e la prima pagina restò ferma con un’unica parola, pochi segni, un nome… e lui lo sentiva, poteva percepirlo, era il nome di quel volto e da quel momento in poi non avrebbe mai smesso di far parte di lui.


32 Un nome semplice e splendente, come coloro la cui antica ed eterna luce stava ora illuminando le parole. Un nome rapito dal cielo e poi donato a un fiore… Aster. Nello specchio, le onde azzurre si acquietarono e il volto della donna, ingannando il tempo, divenne sempre più giovane fino a che una bambina prese il suo posto. Due bambini ora si fissavano; grandi occhi del colore della terra, separati dal velo di uno specchio, da piccoli occhi con una leggera inclinazione a mandorla dipinti di cenere. Ciglia scure decoravano quel nuovo volto e sulla schiena cadevano lunghe e morbide trecce di fini capelli d’argento. Tra le trecce fiori bianchi sembravano come sbocciare; gli stessi fiori che erano anche sparsi sull’abito, dipinto col colore del cielo nei giorni di pioggia; gli stessi fiori di cui lei portava il nome. I due bambini incontrarono i propri sguardi, ed entrambi percepirono i reciproci pensieri. Lui che dentro ancora piangeva per la madre, pensava al nonno e alle sue mille storie, sognava di leggere quel libro ed era ipnotizzato dalla bambina nello specchio, incerto se stesse vivendo la realtà o un sogno; lei semplicemente affascinata da ciò che vedeva nel riflesso: un bambino solitario, perduto in una casa maledetta, che senza rendersene conto le stava chiedendo aiuto. Quando il piccolo David sentì quello che lei percepiva, arrossì e chiuse gli occhi. Fu solo un attimo, ma quando li riaprì nello specchio c’era solo lui, il libro era chiuso e le pagine erano nuovamente spoglie. David era confuso. Aveva sognato, aveva solo immaginato le parole e il volto nello specchio? Dopotutto, la morte della madre era stata un bello shock. Forse stava diventando pazzo, e ricordando quello che aveva fatto nella stanza dei giochi poco prima, non scartò del tutto l’opzione… uno sbadiglio lo prese alla sprovvista, interrompendo la sua teoria. La sera si stava trasformando in notte, era stata una giornata pesante e improvvisamente si rese conto del tempo che era realmente trascorso, passato veloce quasi come pochi battiti. Quella mattina, come sempre, si era alzato presto per giocare un poco prima delle lezioni abituali e, come sempre, si era trattenuto fuori più del dovuto, ma poi, invece di correre nella stanza degli


33 studi, era salito tranquillo al secondo piano dove si era smarrito fino al momento in cui aveva udito quel forte trillo. Doveva essere metà mattina quando sua madre… poi il tempo era scomparso. Si era seduto sulle scale… aveva atteso… aveva parlato con il dottore… e ora era il tramonto. Il Tempo… che essere bizzarro! Inoltre, non contando la cioccolata calda, non aveva neanche toccato cibo per tutta la giornata, nemmeno una misera colazione, e il suo stomaco – si rese conto – stava cominciando a lamentarsi. Ma il sonno stava arrivando con molta più prepotenza e così, stordito da molte cose, continuando a tenere il libro stretto a sé, crollò sul letto e si addormentò. «David… svegliati.» Una voce chiamava dolcemente, mentre una brezza leggera accarezzava i capelli del bambino addormentato. «Solo un altro po’, mamma» rispose il piccolo, girandosi sotto le coperte. Si girò dando le spalle alla madre… ma no, non poteva essere sua madre. Perché sua madre… lei… c’era qualcosa su di lei che non ricordava. Qualcosa che sapeva essere importate. Forse mi sono confuso, si disse allora da solo, forse a chiamarmi è stata Beatrice. «Svegliati» ripeté flebile la voce, e questa volta non ebbe dubbi, non era Beatrice, era la voce di sua madre. Ma di nuovo si disse che per un motivo ben preciso non poteva essere lei. Se almeno si fosse ricordato qual era quel motivo… Cercò di aprire gli occhi e alzarsi per controllare, quando un peso fece scricchiolare il letto alle sue spalle. Trattenne il fiato. «David… mio dolce amore» chiamò ancora quella voce, e con un altro scricchiolio il letto cedette un poco. Qualcuno si era seduto al suo fianco, alle sue spalle, quel qualcuno che aveva rubato la voce di Mary Violet. Qualcuno… o qualcosa? Provò di nuovo ad aprire gli occhi, a muoversi, ma si sentiva bloccato da un peso senza nome.


34 «David… David, amore mio, vieni dalla mamma.» Il qualcosa si avvicinò ancora di più… e lo sfiorò. Ma lui non poteva alzarsi, non poteva scappare, non poteva guardare. Chiodi invisibili continuavano a tenerlo giù, intrappolato nel suo letto, e lui sussultava, gridava, sudava, ma nulla cambiava. Era bloccato… bloccato nel suo stesso sogno. Un sogno. È solo un sogno, disse a se stesso il bambino che aveva paura della sua ombra. Devo solo aprire gli occhi. E così accadde. Aprì gli occhi… ma non vide nulla, solo il buio… e qualcosa lo afferrò. Un affilato e gelido artiglio… e il piccolo David si svegliò. Era in piedi in una stanza, una camera da letto nella quale non era mai entrato prima. Le quattro pareti in cui sua madre era cresciuta, ma che poi aveva abbandonato per spostarsi nella sua stanza di depressione. Pensiero sul quale però non concentrò troppa attenzione, poiché preso da un secondo quesito. Allora si disse: Strano, ero convinto di star sognando, di essere nel mio letto, eppure ora sono qui, in piedi. Non starò mica diventando sonnambulo? Poi una voce lo chiamò. «David… David, amore vieni dalla mamma» era la stessa voce che aveva sentito prima. Mentre dormiva, nel suo sogno. La voce di sua madre, e quella era la vecchia stanza di sua madre. Il vecchio letto di sua madre e, stesa sopra, addormentata a pochi passi da lui… sua madre. «Mamma» la chiamò allora, ma non ottenne risposta. I lunghi capelli biondi erano sparsi sul cuscino come un ventaglio, i grandi occhi azzurri erano chiusi e dietro le palpebre dolci sogni si rincorrevano. Strano, pensò ancora David, mi ha appena chiamato eppure sembra che dorma tranquilla. Le mani erano giunte sul petto, chiuse a stringere qualcosa, e il suo respiro era così flebile da sembrare quasi inesistente. Inesistente il suo respiro e immobile il suo petto. Le si avvicinò di corsa.


35 Le mani della donna erano così bianche che lo spaventarono e non erano solo loro ad avere quel pallido colorito; la pelle del collo era tanto tirata e trasparente da far vedere ogni vena, che rossa o blu disegnava bellissime ramificazioni. Uguale appariva anche il volto. Le sfiorò la fronte per scostarle una ciocca di capelli che non erano del loro solito biondo solare, ma bianchi e sfibrati. La sfiorò… e raggelò nel sentire che il calore aveva lasciato quel corpo. Bianca come la neve e fredda come la notte. Come la Bella Addormentata nel suo sonno eterno, la dolce Mary Violet giaceva in quel letto. Forse come per la principessa della fiaba un bacio avrebbe potuto svegliarla. Svegliarla e farla alzare da quel letto in cui stava stesa, avvolta dalla gelida luce della morte. «David… David, amore vieni, vieni qui» la voce di sua madre. Ma sua madre era morta e giaceva davanti a lui con la bocca chiusa. «David… David, vieni più vicino» disse con più insistenza la voce. Lui, con il cuore che martellava e la mente invasa dalla paura, fece un passo indietro. La madre aprì gli occhi… e si mise a sedere… afferrò il suo braccio e fece tutto così velocemente che David non riuscì a prendere fiato o a spostarsi. Adesso lei gli stringeva il polso con gelide dita e lunghi artigli che gli scavavano la pelle, mentre vuoti occhi bianchi lo fissavano. Poi la Morte di nuovo parlò: «David… David, mio dolce amore, presto sarai con me.»


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CAPITOLO 5 PROBABILMENTE STANNO DORMENDO!

Tic tac… Tic tac… Tic tac… Mentre il suono del tempo echeggiava tra le pareti, così anche il frastuono dei tuoni, in quella cupa notte invernale. Nella Villa Maledetta il piccolo David dormiva sonni agitati, poiché cullato da oscure storie di mostri e fantasmi. Un bambino innocente che, all’inizio della propria esistenza, aveva posato lo sguardo su ciò che nessuno dovrebbe mai vedere. Dormì solo per poche ore e quando si svegliò il cielo era scuro, la luna brillava alta e il temporale faceva da sottofondo. Si svegliò all’improvviso, il corpo sudato, il fiato corto, il battito accelerato e gli occhi lucidi. Aveva avuto un incubo, uno dei tanti o forse sempre lo stesso. Non lo sapeva perché ogni giorno, al suo risveglio, delle notti buie restava solo il letto sfatto, le gocce fredde del sudore e l’odore della paura. La paura del vuoto e delle ombre. Le stesse ombre che ora, mentre cercava di calmare il respiro, vedeva danzare tutto intorno al suo letto. O forse erano solo i riflessi che la tempesta, che infuriava all’esterno, proiettava in quella buia e fredda camera? Le lenzuola erano tirate fino a sotto il naso e gli occhi erano fissi sul soffitto. Molte notti gli succedeva di dormire solo poche ore e di conseguenza di svegliarsi al buio, e ogni volta restava fermo, fingendo di non esistere, per paura che le ombre smettessero di danzare e si interessassero a lui. Quella notte non faceva eccezione. O forse sì?


37 Non ricordava mai nulla dei suoi sogni, era sempre stato così, eppure ora alcune fantasiose immagini brillavano nella sua testa, cose così irreali che a nulla potevano appartenere se non a un sogno. Un sogno in cui il muro della sua stanza dei giochi si apriva per dare acceso a un mondo buio da cui un libro bianco volava fuori. Un sogno in cui lo specchio della sua camera si trasformava in un lago nel quale si specchiavano una donna e una bambina d’argento. Un sogno che partiva con lui che usava la chiave. Quest’ultima era la parte del sogno più impossibile e senza senso di tutto il resto. Perché mai lui avrebbe girato la chiave senza essere chiamato, lo aveva promesso al nonno. Aveva promesso che avrebbe aspettato e nulla gli avrebbe mai fatto infrangere quella promessa. E nessuno lo aveva ancora chiamato. Ma, dopotutto, i sogni impossibili sono quelli che sempre si fanno quando il peggio accade. O almeno così aveva letto da qualche parte, e a lui il peggio era appena accaduto. Perché sua madre era morta e la sua morte era stata l’ultima goccia che aveva fatto trasbordare il vaso, l’anfora che conteneva la sua sanità mentale. Lentamente voltò la testa e vide che la tazza vuota della cioccolata, che aveva rimesso sul tavolino, era sparita con il resto del vassoio che non aveva toccato. Doveva averlo portato via la signora B, probabilmente era entrata quando lui si era addormentato e prima di uscire l’aveva messo sotto le coperte e gli aveva anche tolto le scarpe. Ma il pigiama era rimasto al suo posto e lo capiva, senza bisogno di grandi movimenti, dal fatto che una manica a righe gli spuntava da sotto la testa. Si era abbandonato al sonno senza quasi accorgersene, con il libro stretto tra le braccia… ma no, quello era parte del sogno e a dimostrazione il libro ora era sparito. Diede un’occhiata e… no, il libro sul letto non c’era. Forse è caduto, sussurrò nella sua mente una voce difficile da ignorare, dato che aveva risuonato con lo stesso tono del nonno. Impossibile, è stato solo un sogno, e non ho alcuna intenzione di affrontare i mostri per controllare sul pavimento, rispose il piccolo David alla voce del nonno. È stato solo un sogno. Un impossibile sogno… ma in fondo le cose possibili sono così noiose!


38 Senza attendere oltre, per evitare di riacquistare la ragione, tirò fuori il naso da sotto le coperte e fingendo di avere un mite coraggio, con i nervi tesi, si mise a sedere. I mostri lo avrebbero assalito, lo avrebbero divorato, lo avrebbero incenerito, ne era certo, così certo che quando ciò non accadde si sentì assai deluso di essere ancora illeso. Le uniche ombre nei paraggi erano quelle che i fulmini producevano, e dei mostri non vi era alcuna traccia. “Probabilmente” si disse il piccolo “stanno dormendo!”. Allora si sporse oltre il letto e lo trovò. Abbandonato sul pavimento, il libro che aveva solo sognato di stringere a sé. Il libro proibito che aspettava di essere recuperato e non gli importava se fosse un sogno o no, l’unica cosa che contava era riprenderlo tra le braccia. Dopo averlo recuperato, dimenticandosi delle mani che sotto il letto aspettavano di afferrarlo, si liberò dalle coperte, poggiò i piedi nudi a terra e di nuovo si diresse alla finestra, ma questa volta le tende erano già tirate e così spalancò le imposte. L’aria era fredda e la pioggia cadeva dritta, con i lampi che illuminavano ogni tanto qualche scorcio di cielo. Si mise seduto sul largo davanzale interno, sul quale solo poche gocce giungevano. Molte volte in pieno giorno si accoccolava in quella posizione. La sua camera era posta al secondo piano e così le camere della servitù. Le padronali e quelle per gli ospiti erano invece poste al primo piano, ma lui aveva preferito una camera vicina alla stanza dei giochi. Al primo piano vi erano anche alcune stanze a uso speciale, come lo studio del nonno. Mentre il pianterreno accoglieva la stanza della musica, la biblioteca, la cucina, la sala da pranzo e un piccolo salottino. In cima a tutto vi era una grande soffitta. David amava affacciarsi dalla grande finestra della camera per ammirare il panorama che comprendeva il davanti della villa e tutti i tetti di Priceville e ora, che per la prima volta l’ammirava di notte, si rese conto che la vista era di gran lunga migliore incorniciata dalle tante piccole luci delle stelle. Sospirò e stringendo il libro, come un uomo che ha vissuto molto a lungo e che ha visto molte cose, si mise a vagare nei suoi giorni passati.


39 Il suo primo e vago ricordo era un’immagine sfocata e annebbiata del padre, quell’uomo mai conosciuto, che in una camera del primo piano lo cullava. Il suo primissimo ricordo legato ai primi tempi della sua esistenza. Un ricordo in bianco e nero, incompleto… Perché lui non rammentava quel che era successo subito dopo… il momento in cui suo padre aveva allargato le braccia, lasciandolo scivolare. Suo padre steso a terra con gli occhi spalancati fissi su di lui, che per un soffio si era ritrovato sul lettino, mentre suo padre sbattendo la testa a terra non si era più rialzato. Era così che la dama vestita di nero si era portata via il genitore. Questo episodio era stato la causa per cui la delicata mente di sua madre si era incrinata, prima della definitiva rottura data dalla scomparsa di Lionel. Questo, senza saperlo, era stato anche il motivo per cui lui stesso si era perso… perché, all’inizio della sua esistenza, aveva posato gli occhi su ciò che nessuno dovrebbe mai vedere, tantomeno un piccolo, puro e innocente bambino: la Morte. Si erano scontrati nel giorno della sua nascita, nel “giorno senza nome”, ma fu solo nel momento della fine di suo padre, solo in quell’istante fugace in cui si trovarono faccia a faccia, che il legame tra di loro divenne indissolubile. Da quel momento in poi, per il resto della sua vita, avevano sempre camminato fianco a fianco, quasi tenendosi per mano, e anche se solo la parte inconscia della sua mente se ne era resa conto, l’invisibile presenza era stata comunque un costante e opprimente peso, che nel buio lo aveva tormentato. Ma ora basta. Basta. D’ora in poi non si sarebbe più fatto spaventare da lei, d’ora in poi non l’avrebbe più temuta, d’ora in poi solo lui avrebbe controllato la sua esistenza. Si alzò in piedi sul davanzale dell’alta finestra e chiuse gli occhi. Scacciò il frastuono dei tuoni, ignorò i brividi freddi che gli facevano venire la pelle d’oca lungo le braccia, e si concentrò solo sullo scrosciare della pioggia e sul profumo dell’erba bagnata, che proveniva dal parco tutto intorno. Per un po’ rimase così, lasciandosi beatamente cullare.


40 Lasciò che quelle sensazioni lo portassero lontano, in un lungo viaggio che terminava in una quieta valle, dove niente e nessuno lo avrebbe più spaventato o controllato, dove lui poteva correre libero. Libero come non era mai stato, ma come da sempre sarebbe dovuto essere. Riaprì gli occhi e tutto era rimasto immobile, tutto a eccezione di se stesso, che senza rendersene conto aveva fatto un passo in avanti. Voltò lo sguardo verso la buia camera e lasciò scivolare il libro sul pavimento, che con un tonfo si aprì nel mezzo. La luce di un azzurro pallido che prima aveva emanato quel tomo, ora tornò ma mutando colore e trasformandosi in oro colato. Di nuovo le pagine bianche si scrissero da sole, ma questa volta con parole chiare e leggibili. Parole dorate che, muovendosi in vortici, descrivevano quello che il bambino stava per fare. Parole che, però, il piccolo David non lesse; poiché appena lasciato il libro si rigirò verso la notte. Un lampo in lontananza illuminò il cielo a giorno e la sua mente, sempre in perenne subbuglio, si vuotò… così fece un altro passo in avanti. La pioggia cominciò a bagnargli i piedi. In quel punto il davanzale era scivoloso e doveva stare attento se non voleva cadere giù. Cadere. Cadere sarebbe stato un bel problema… o forse sarebbe stata la soluzione? Nessuno lo aveva chiamato e il libro proibito non era che un semplice mucchio di pagine ricoperte da strani scarabocchi. Due concetti contro i quali andò a sbattere e che avevano un unico senso: il nonno gli aveva mentito. In tutti quegli anni, tutte quelle storie che gli aveva raccontato non erano state altro che un inganno. Tutte bugie, inventate forse per farlo stare meglio, ma pur sempre falsità. Ora ne era stanco. Stanco di quell’oscuro mondo, stanco della sua solitaria vita, stanco della sua distrutta famiglia e stanco di quella maledetta villa. Non voleva più stare a galla nel buio oceano, e allora forse sì… forse cadere non sarebbe stato tanto male. Forse cadere


41 sarebbe stato il modo migliore per raggiungere un nuovo luogo e ricominciare a vivere. Forse cadere era l’unico modo per andare avanti. Chiuse gli occhi e il tempo si fermò. Il libro, di nuovo mosso dal vento invisibile, si chiuse di botto, la luce dorata delle parole esplose nell’aria in una cascata di polvere fatata e il piccolo David si chiese se anche gli angeli caduti dal cielo, presenti in molte storie che aveva letto, si fossero sentiti così liberi nell’atto di cadere.


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CAPITOLO 6 È SOLO UN SOGNO. RESPIRA

Quando pensi che una cosa così non potrà mai accadere… Quando sogni e poi ti svegli, ma la tua mente è ancora persa, smarrita nei ricordi della notte, rifugiata in mondi che non possono esistere perché troppo lontani dalla realtà. Ma poi ti chiedi: cos’è la realtà? Reale è quello che vivi o quello che ti lasci dietro prima di chiudere gli occhi? E come puoi essere sicuro che una volta riaperti gli occhi quello che vivi non è ancora il mondo dei sogni? Quando ti ritrovi a chiederti come distinguere tra due vite che sembrano entrambe un sogno o una realtà… quando devi fare una scelta… ma poi ti chiedi: perché mai dovrei scegliere? *** Il sole scaldava l’aria e con i suoi lunghi raggi illuminava il risveglio del piccolo David Price. Aveva avuto una notte agitata, turbata da una forte tempesta che aveva fatto da sottofondo alle poche ore in cui si era abbandonato al sonno, ma ora che si era svegliato, la luce si mostrava forte oltre le palpebre dei suoi occhi chiusi. Se ne stava steso sereno, ad ascoltare il battito del proprio cuore, con la mente libera e vuota dai pensieri. Erano rari quei momenti, quegli istanti in cui la sua anima non era offuscata da quesiti e incertezze, così rari e preziosi che non andavano sprecati… e così restava immobile e a nulla pensava, se non al sibilo del proprio respiro. A nulla pensava e a nulla prestava attenzione, nemmeno alle curiose sensazioni che il mondo esterno gli comunicava. Percezioni non ascoltate che sostituivano il morbido materasso su cui si sarebbe


43 dovuto trovare adagiato con un piano duro e terroso, e che portavano al posto delle soffici coperte, che l’avrebbero dovuto accarezzare come una nuvola, umidi fili d’erba. Percezioni ignorate che gli dicevano che steso in quel punto non stava, in realtà, molto comodo. Segnali che però non udiva. Ma, molto probabilmente, se anche li avesse uditi, non sarebbe comunque arrivato a immaginare ciò che, una volta sollevate le palpebre, trovò intorno a sé. Perché nei suoi sogni solo buie scene accompagnavano oscuri mostri e spaventose verità, ma mai soleggiati e verdi prati. Ecco in mezzo a cosa si ritrovò il piccolo David appena aprì gli occhi: un vasto campo fiorito, che si estendeva in ogni direzione molto oltre dove lo sguardo poteva arrivare. Fiori, simili a margherite, dai lunghi petali ognuno con la sua tonalità: bianco, giallo, arancio, ciliegia, lampone, pervinca, viola, rosa, blu, indaco o turchese. Ogni lungo e sottile stelo si librava nell’aria a pochi centimetri dal terreno. Un verde campo di colorati fiori volanti! Prima di aprire gli occhi, David era convinto di essere sveglio, che il sole caldo sulla pelle fosse quello spuntato al mattino successivo ai fulmini e alla pioggia, che entrava dalle imposte aperte… ma doveva essersi confuso, perché quello che aveva davanti null’altro poteva essere se non un sogno. Un anomalo, luminoso e caldo sogno. Si mosse per mettersi in piedi… ma poi dolorosamente perse l’equilibrio e scivolò nuovamente sull’erba; qualcosa lo aveva colpito alla nuca, e d’istinto fece correre una mano sul punto da cui il dolore partiva. I capelli erano umidi e appiccicosi e quando osservò la mano, vide una macchia rosso rubino, da cui una goccia scivolò fluida, posandosi sul petalo di un fiore… e una valanga di immagini gli invasero la vista, facendolo finalmente tornare a pensare. La signora B che entrava nella sua camera e lo stringeva forte… la speziata cioccolata che colava calda lungo la sua gola… una finestra chiusa… la bianca luna e le argentate stelle… una finestra aperta… la pioggia che scivolava sulla sua pelle, i vestiti bagnati pesanti sul corpo, il forte vento che gli faceva correre brividi lungo le braccia… una chiave, un libro, un volto in uno specchio… sua madre, no, una bambina… fiori bianchi dai petali a stella che


44 volavano liberi nel cielo… un libro proibito che dalle sue mani scivolava per adagiarsi sul pavimento… una porta chiusa… una porta aperta… un uomo con gli occhiali che gli sorrideva… una panchina… un orfano e un dottore seduti vicino a parlare di molte cose, a piangere per una donna… sua madre che sedeva sulla sedia bianca in giardino… un aquilone rosso, la signora Kinsley, la stanza dei giochi, un forte trillo, una corsa giù per le scale, una lunga attesa fuori da una porta chiusa… la sedia bianca in giardino ora vuota… la dolce Mary Violet… la chiave, il libro, la finestra chiusa, la finestra aperta, la pioggia, il vento che sbatteva contro il suo corpo abbandonato… il suo corpo che cadeva… Cadeva… ma da dove? E per finire dove, forse su quel prato? No, il prato era solo un sogno. Ma anche tutto il resto era stato solo un sogno… la chiave, il libro… niente era realmente accaduto… sua madre… no, sua madre era morta, purtroppo, di questo ne era certo. A testimonianza, un buco nel petto. Qualcosa mancava, un pezzo sfuggiva al suo puzzle… ma dopotutto questo era solo un sogno, e nei sogni si sa che molti dettagli della realtà sfuggono. O è nella realtà che molti dettagli dei sogni sfuggono? La fitta alla testa si affievolì e la vista tornò pulita. Lo sguardo era ancora posato sulla mano, ma la macchia rossa non c’era più e anche il petalo del fiore sembrava tornato candido. Allora tastò di nuovo il punto in cui il dolore l’aveva perforato, convinto di trovarvi una voragine, ma sotto le dita i capelli erano nel loro solito e perfetto disordine. Si rialzò in piedi e questa volta si mise subito in marcia. Verso nord, disse a se stesso. Ma come trovare il Nord in un cielo con due soli che sorgono e tramontano in direzioni opposte? In una visone azzurra dove in un angolo se ne stanno tre lune e in un altro un buco nero accerchiato da punti rossi? Camminò a passo lento, incuriosito da quel luminoso sogno. Sogno che sembrava terribilmente reale, come la brezza del vento sulla sua pelle. Saltellò divertito, soffiando ai fiori volanti e facendoli spostare di pochi respiri. I fiori che gli ricordarono il suo aquilone, il rosso gioco abbandonato tra i rami di un albero in giardino.


45 “Appena mi sarò svegliato”, si disse “dovrò correre fuori a recuperalo”. Passeggiò, chiedendosi quanto vasto fosse quel luogo i cui unici abitanti erano i fiori. Quel sempre uguale paesaggio dove nessun essere, oltre a lui, stava. Corse veloce, dicendosi che quella solitudine non poteva essere eterna e che prima o poi avrebbe incontrato qualcuno o qualcosa. Vagò strascicando i piedi, consapevole che mai ne sarebbe uscito. Ma proprio quando stava per cedere, la Foresta comparve in lontananza. Quando vide i folti alberi verdi che si stagliavano tra i fiori, rompendo il sempre uguale spettacolo, David riprese a correre, fino a superare il campo infinito e quei pochi alberi, fino a perdersi nella Foresta. Ma di nuovo il paesaggio lo trasse in inganno, e anche questo posto, come il precedente, si rivelò presto troppo vasto e solitario. Non sempre uguale, però, perché gli alberi erano sempre più alti e le cime sempre più lontane, i rami sempre più spogli e le foglie sempre più marroni, finché di verde non vi fu più traccia e l’estate lasciò lo spazio all’autunno… ma poi l’autunno marcì! David camminava, correva, vagava e si perdeva. Lo spazio tra i marci tronchi era sempre più stretto e i vestiti continuavano a impigliarsi tra gli scheletrici rami. Ombre apparivano e scomparivano senza fermarsi a salutarlo e a ogni suono che sentiva, il bambino che aveva paura della sua ombra si ripeteva silenziosamente: è un sogno, è solo un sogno, respira. È un sogno, è solo un sogno, respira. È solo un maledetto sogno. Respira. I piedi nudi, che prima si erano beati nella rugiada del verde prato, ora erano stuzzicati da sassolini appuntiti e rametti secchi. Il cielo da poco visibile scomparve del tutto e il buio calò. I suoni lontani divennero rumori vicini. I rami si allungarono, artigliandolo e strattonandolo. David gridò: «È solo un sogno!» Poi, tra le foglie marce, si ritrovò accucciato con la testa tra le braccia.


46 È curioso quel che ci si ritrova a pensare quando la paura è così forte che il minimo sussurro potrebbe farci morire. Quando non puoi permetterti di pensare a nulla, ma qualcosa devi pure scegliere per sfuggire al terrore. C’era un laghetto nel parco, intorno alla Villa Maledetta, e qualche volta Lionel aveva sfidato il suo nipotino a far abboccare un pesce, ma nonostante i grandi sogni di squali e balene, l’unica cosa che David avesse mai preso con la sua lenza, era stato il logoro scarpone di un domestico, probabilmente uno dei tanti che lì nei secoli erano affogati. La pesca in sé era noiosa, ma il passare i pomeriggi sulla riva con suo nonno non era affatto male, e ora il piccolo David avrebbe dato qualsiasi cosa per un altro di quei pomeriggi. Un fascio di luce andò solleticando il suo sguardo, che alzando gli occhi vide una luminosa ancora tendergli la mano nel buio. Allora si rimise in piedi e senza indugi seguì la luce. Una luce che a ogni passo si faceva sempre più forte, e un secondo raggio si unì al primo e poi un terzo e anche un quarto. La Foresta si aprì, quasi a formare un largo recinto. Un tondo squarcio di prato dove l’erba tornava all’estate e in cui tratti di cielo erano visibili, attraverso i rami più alti degli alberi che erano cresciuti tanto da intrecciarsi e creare un tetto. I fasci di luce che lo avevano guidato, erano proprio i raggi dei soli che dal tetto penetravano nel mistico luogo. Al centro del tondo rifugio, vi era poi una struttura che aveva la stessa forma del luogo che l’accoglieva: un cerchio composto di pietre, su cui incisi erano segni che sembravano molto simili a quelli apparsi nel libro dalla copertina marrone. Simboli, rune o forse lettere, di una lingua sconosciuta, antica e dimenticata da tempo. Ma come faceva David a sapere cosa vi fosse scritto nel libro proibito? Non aveva solo sognato di aprirlo? Forse lo aveva fatto davvero, ma se così fosse stato, allora non stava sognando. Troppi forse e troppi se… Nel cerchio di pietre scritte vi era dell’acqua tinta di un verde intenso, colore dato dal muschio che s’intravedeva sui bordi e che sembrava rifinire tutto l’interno. Un pozzo o una fontana. Il piccolo


47 David si specchiò e il suo verde riflesso era esattamente come sarebbe dovuto essere. La cosa più bella, però, era ciò che stava nel centro del pozzo, sollevata sopra il livello dell’acqua da una piccola roccia: una figura di pietra. Una figura femminile, il cui volto triste aveva palpebre abbassate e labbra socchiuse; orecchie a punta, lunghe tanto da sembrare antenne, spuntavano tra i capelli che le ricadevano sul corpo quasi indistinti dalle pieghe della pietrificata veste, che scivolava fluida, lasciando scoperte solo le braccia e la schiena. Sulla schiena, quelli che sembravano rami spogli sbocciavano dalla grigia carne; rinsecchiti rami che privi di foglie erano ossa, le ossa scarnificate di quelle che un tempo dovevano essere state grandi ali: ali private della propria sostanza. Una statua, anch’essa ricoperta in alcuni punti di muschio, ferma, incantata, inanimata, eppure così reale da sembrare quasi che respirasse. Una bellissima fata, un elfo, una ninfa. O forse un angelo? Una magica, ma triste creatura incantata. Se David fosse stato più vicino l’avrebbe sfiorata con le dita, ma l’acqua gli impediva di raggiungerla. Stava sognando, ci credeva con tutto se stesso. Il prato, la foresta, il pozzo, la triste fata, era tutto un sogno. Così come la voce che ora giungeva dalle sue spalle. «Se chiudi gli occhi ed esprimi un desiderio, si esaudirà.» «Prima non dovrei lanciare una moneta?» «Hai una moneta?» «No.» «Peccato. Sarebbe stato divertente.» «Sarebbe stato stupido. I sogni non si realizzano mai.» «Davvero, e allora io cosa ci faccio qui?» chiese la voce che era solo un sogno. La voce con cui David stava discorrendo senza però accorgersi pienamente della sua esistenza. Fino a quel momento. Allora il piccolo David si girò e il suo volto, sempre rilassato e quasi assente, su cui poche espressioni apparivano, a volte paura, altre incertezza, raramente allegria e ultimamente sprazzi di pazzia, si disegnò in un modo che nessuno avrebbe mai potuto decifrare,


48 poiché mai nessuno lo aveva visto in preda a quel sentimento: felicità. La pura felicità di ritrovare qualcosa a cui non era riuscito a dire addio, qualcosa che credeva perduto per sempre, ma che al contempo aveva sempre sperato di recuperare. Una persona che non vedeva da tanto era in piedi di fronte a lui, una cara persona scomparsa da anni. Un uomo molto alto, con le mani davvero grandi, con folti baffi bianchi sul viso e una testa liscia e scintillante, su cui da giovane era vissuta una alquanto indisciplinata massa di capelli dorati. Un uomo i cui piccoli e tristi occhi color zaffiro narravano di troppe perdite; occhi che ora s’impressero della stessa pura emozione che stava provando anche il piccolo davanti a lui. La felicità di ritrovare un caro perduto. Si strinsero in un forte abbraccio: il piccolo David e Lionel Price; di nuovo insieme per raccontarsi impossibili storie. I sogni si realizzano. Forse è vero, perché il più grande che quel piccolo umano avesse mai desiderato si era ora avverato. E non importava aver o meno tenuto il libro proibito tra le mani, così come non importava aver o meno usato la chiave magica. Nulla contava perché ora il piccolo David aveva di nuovo Lui. Quante domande voleva fargli e quante risposte voleva avere, ma prima che potesse pronunciare anche una sola sillaba, il nonno lo strinse ancor di più. «Guardati. Sei così cresciuto. Ho lasciato un bambino e ora ritrovo un giovane uomo. Sembra solo ieri che ti cullavo per farti addormentare…» Lionel Price s’interruppe per asciugarsi le lacrime, e con un colpo di tosse si spostò per mettersi seduto sulle pietre del pozzo, e arrivare così ad avere lo sguardo all’altezza di quello del nipote. «Quante cose vorrei dirti» riprese l’uomo «ma tutto deve seguire un ordine» aggiunse poi prima di fare un grande respiro.


49 «I cuori puri sono i più rari e i più delicati, i più facili da piegare e spezzare. Ciò che più di tutto può controllarli è l’amore. L’amore che ti annebbia la mente e ti fa fare, a volte, le scelte sbagliate» continuò. Il piccolo David non capiva a cosa il nonno volesse giungere, ma non aveva importanza perché era una storia… e tutte le sue storie erano sempre e comunque meravigliose. Dopo tanto tempo passato a bramarle avrebbe ascoltato qualsiasi cosa. «Dicono che il suo cuore fosse la stella più brillante del firmamento» continuò il nonno indicando la triste fata alle sue spalle «ma le scelte sbagliate, una volta prese, ti portano su sentieri difficili e le soluzioni per ritrovare la retta via quasi mai hanno un lieto fine. La soluzione che lei scelse fu la più dura e insidiosa, ma anche la più forte e coraggiosa. Rimediò al suo errore, salvò il suo popolo, si sacrificò per ciò in cui credeva. Il suo sacrificio, però, non fu la fine, perché la fine fu la punizione che le inflissero, affinché fosse da monito a tutti… che per il tradimento non ci sono seconde occasioni.» Il piccolo David fissava il nonno senza sapere cosa dire. Forse il loro incontro sarebbe dovuto iniziare con il ricordo di sua madre, poiché forse lui neanche sapeva che era morta. Forse avrebbero dovuto discutere della chiave prima ancora di sedersi. Ma il nonno aveva preso in mano le parole e aveva tirato fuori quella strana storia. «Sai, David, molte volte le persone fanno cose folli, cose che in altre circostanze non avrebbero mai neanche pensato di poter fare. Cose cattive e oscure o semplicemente sbagliate. Ogni genere di cose… per amore. Quello che lei fece, fu amare un’anima corrotta dal buio. Un’anima per la quale tradì il suo popolo, e quando si rese conto di ciò che aveva fatto, quando si pentì, fece di tutto per rimediare e ci riuscì. Ma il tradimento era stato compiuto e così, quando tutto finì, una severa punizione le venne inflitta. Una severa punizione, ma dopotutto esiste una punizione che non lo sia? Per questo lei ora è qui, come monito.» Prese una mano del nipote e la mise nella sua, misurando quanto le dita del bambino fossero cresciute dall’ultima volta – e in tre anni cresciute lo erano davvero molto – anche se messe a confronto con le sue sembravano le mani di un neonato. «La prima cosa che dovevi conoscere era la sua storia, perché solo così potrò raccontarti, e tu potrai comprendere, la mia storia. Prima,


50 però, ancora un’altra cosa. Perché questo, tutto questo» disse Lionel Price allargando le braccia «tutto questo è reale. So cosa stai pensando, so di cosa stai cercando di convincerti, so che non ci credi, ma così è… non stai sognando, David, non stai dormendo» continuò il nonno, ora in tono più deciso, afferrandolo per le spalle. «Svegliati David, svegliati e apri gli occhi, perché questo è tutto vero e tu devi capirlo, tu devi vederlo… quindi apri gli occhi David… apri… gli… occhi.» Lionel Price mise tutta la propria convinzione e forza in quelle parole, e David si svegliò, ora cosciente e presente nella sua realtà. Quando pensi che una cosa così non potrà mai accadere… Quando sogni e poi ti svegli, ma la tua mente è ancora persa; smarrita nei ricordi della notte, rifugiata in mondi che non possono esistere perché troppo lontani dalla realtà. Ma poi ti chiedi: cos’è la realtà? Reale è quello che vivi o quello che ti lasci dietro prima di chiudere gli occhi? E poi come puoi essere sicuro che una volta riaperti gli occhi quello che vivi non è ancora il mondo dei sogni? La chiave, il libro, la bambina nello specchio. Tutto era accaduto davvero, ma la mente brillante e stupidamente razionale di David, lo aveva convinto che fosse solo un sogno. Così come la caduta e il risveglio su quel prato, su quel nuovo mondo. Tutto era reale, tutto era presente e tutto era vivo. Vivo come la triste fata, che per punizione al suo tradimento era stata intrappolata in quel freddo involucro di pietra, al cui interno però ancora calda era la sua anima. Vivo come Lionel Price, morto anni prima davanti agli occhi del nipote, ma che di nuovo respirava, di nuovo raccontava le sue storie. Il piccolo David era seduto sulle pietre del pozzo accanto a Lionel Price, che lo guardava con un dolce sorriso. Si era seduto e sfiorava la spalla del nonno con la sua. «Sei davvero tu» disse il bambino che non stava sognando, all’uomo che era reale «sei davvero qui, con me.» «Sì, David. Sono qui. Sono con te. Solo per te.»


51 Avrebbe voluto abbracciarlo ancora, ma forse, per il momento, era meglio di no. «Allora…» cominciò David alzando gli occhi verso il cielo «dove siamo?» «Non sulla Terra, di questo ne sono certo» rispose Lionel seguendo il suo sguardo «nello spazio, da qualche parte, su uno strano mondo.» «Ma non siamo lì… vero?» «No David, non siamo lì.» «Ma ci andremo?» «Ogni cosa a suo tempo, ma sì, ci andrai. Prima però abbiamo un po’ di tempo per noi. Se vuoi.» Se voleva passare un po’ di tempo da solo con suo nonno, dopo aver passato gli ultimi anni con quel solo pensiero fisso nella mente? Il piccolo David guardò l’uomo negli occhi e non rispose, non ce n’era bisogno. )LQH DQWHSULPD &RQWQXD


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