Holga, Maurizio Zuliani

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MAURIZIO ZULIANI

HOLGA

ZeroUnoUndici Edizioni


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HOLGA Copyright © 2019 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-341-3 Copertina: immagine Shutterstock.com


A mia madre



Tre son le parole che ti vorrei dire. Cinque le cose che vorrei fare. Sette le emozioni che vivremo. Ma otto i sentimenti legati all'uno magico. A te che mi sei accanto in ogni momento. Musa ispiratrice, compagna e amica. Collega anche di questa avventura e supporto morale. Per abbattere le paure che tutti abbiamo. Per vederti contenta ... Per vederti ... Per ... Che UN UOMO rimanga. A Betta oggi come ieri diverso dal domani. Non cambiamo.



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CAPITOLO 01 – L’INIZIO

La sveglia sta suonando e, come al solito, mi sembra di aver dormito pochi minuti eppure sono già le 7. Da anni le mie abitudini sono sempre le stesse; metto gli occhiali e mi alzo per guardare fuori dalla finestra. Non ho mai abbassato le tapparelle, mi piace svegliarmi e vedere la luce naturale, forse perché non sopporto quella artificiale, mi innervosisce. La finestra della stanza è posta verso oriente e il sole sembra già alto nonostante l’orario mattutino. Fuori si sente il rumore del traffico, gente obbligata a uscire presto per evitare di arrivare tardi in ufficio, tutti in coda a litigare per guadagnare forse solo pochi minuti, insomma una Milano di tutti i giorni. Accendo lo stereo a volume basso, d’altronde vivo in un monolocale di 35mq con le pareti sottili e non mi va di avere discussioni con il mio vicinato. Mi preparo il caffè, le mie abitudini – specie al mattino - sono difficili da cambiare. Con la tazza ancora fumante mi accendo la prima Camel della giornata gustandomi le note di Birdlandi.1 Il mio nome è Jaco, un omaggio che mio padre ha voluto fare al bassista dei Weather Report, Jaco Pastorius. Fortunatamente mi sono appassionato a questo genere anch’io, altrimenti avrei solamente odiato il mio nome. Rispetto ai miei coetanei sono molto strano in fatto di musica, mi piace il Jazz anche nelle sue varianti, il Rock, il Blues, il Progressive e la Psichedelia; negli ultimi anni mi sono anche appassionato ad alcuni gruppi indipendenti italiani del periodo ’80 – ’90. Mentre il caffè si raffredda penso alla mia vita. Non credo di essere una persona estremamente felice, perlomeno secondo gli standard 1

Birdland è una canzone dei Weather Report del 1977 dall’album Heavy Weather.


8 canonici, però mi sento sereno e in armonia con chi mi sta intorno. Posso considerarmi nella media, fatico ad arrivare a fine mese come la maggior parte delle persone, non ho una compagna fissa al mio fianco, lavoro la sera in un piccolo pub frequentato più da turisti che da autoctoni e rientro a casa a notte inoltrata. Durante il giorno tengo compagnia a Holga, una signora olandese che ho conosciuto qualche anno fa nel locale dove lavoro, spesso la accompagno a fare la spesa o per piccole commissioni, il tutto più per piacere che per dovere. Da bambino mi sarebbe piaciuto frequentare una scuola d’arte, purtroppo gli zii che mi hanno cresciuto hanno preferito farmi studiare ragioneria. I miei genitori sono morti che non avevo neanche un anno, mentre stavano rientrando da una gita organizzata dall’azienda per cui mio padre lavorava come fattorino; i giornali dell’epoca dissero che era stato un colpo di sonno dell’autista dell’autobus. I miei zii ai tempi avevano appena scoperto di non poter avere figli (mio zio Carlo aveva trentatré anni mentre mia zia Stefania trenta). Il nostro rapporto è sempre stato ottimo, non ci sono mai stati problemi tra noi, se non piccole incomprensioni velocemente sanate. Quando, pochi anni fa, ho detto loro che avrei voluto andare a vivere da solo, entrambi mi hanno aiutato a trovare casa, un piccolo monolocale nella zona Navigli di Milano, comunque non lontano da loro. La loro unica preoccupazione è sempre stata che un giorno io potessi sistemarmi (moglie, figli, lavoro). Mia zia vorrebbe vedermi impiegato con un posto fisso, mio zio è solo preoccupato perché trascorro troppe ore con Holga, forse pensa che ci possa essere del tenero fra noi e la differenza di età è tanta, circa cinquant’anni; però, a parte questo, il nostro rapporto è molto simile a quello tra genitori e figli. ***


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Mentre sciacquo la tazzina del caffè suona il telefono, sicuramente sarà zia Stefania che mi invita a pranzo da loro ben sapendo che, nonostante il lavoro notturno, non mi piace stare a letto fino a tardi. «Pronto». «Buongiorno, parlo con il sig. Jacopo Lenti?». «Sì… sono io». «Sono il Commissario Gentile del Commissariato Fatebenefratelli, ho trovato il suo numero a casa della Sig.ra De Groober. Lei è un parente della signora?». «Holga? No, sono un amico, ma è successo qualcosa?». «Che lei sappia la signora aveva parenti?». «Aveva? Cosa significa? È successo qualcosa? Holga sta bene?». «Prima di parlare avrei bisogno di sapere se la signora aveva dei parenti». «No, Holga vive sola, non è sposata né ha parenti, che io sappia». Facevo fatica a parlare. Conosco Holga da tanto tempo e mi trovo bene con lei, mi è sempre stata d’aiuto nei momenti critici che ognuno di noi deve affrontare periodicamente. Sento la voce al telefono ma non riesco a concentrarmi, mi sembra di essere in un incubo. «Signor Lenti! Sig. Lenti! Mi sente?». «Sì, mi scusi, stava dicendo?». «Potrebbe venire con urgenza al Commissariato, preferirei parlare a voce». «Va bene, il tempo di arrivare». Mi butto sotto la doccia e in pochi minuti sono pronto. Corro alla fermata del tram Castelbarco e prendo il 15 che mi porta in Piazza Missori, scendo e mi dirigo alla fermata della metropolitana gialla, esco in Montenapoleone e arrivo velocemente al Commissariato. È la prima volta che vengo convocato in un Commissariato, non sono preoccupato ma stranito dalla situazione. All’ingresso chiedo informazioni sul dove devo recarmi per incontrare il Commissario Gentile; il poliziotto nel gabbiotto mi chiede un documento di identità e telefona a qualcuno.


10 «Sono Villari, c’è il signor Lenti per il Commissario Gentile. Sì, va bene, lo faccio salire». Posa la cornetta, mi indica una scala dicendomi di salire al primo piano e dire, nel primo ufficio a destra, che ero lì per l’affare De Groober. Mentre salgo le scale mi rimbombano in testa le parole del poliziotto, “affare De Groober!”, ma cosa è successo? Vedo una serie di sedie e alcuni poliziotti che parlano tra loro, una voce femminile dall’ufficio sulla destra, quello dove sarei dovuto entrare, chiede se il Signor Lenti è arrivato; titubante mi affaccio alla porta e dico che sono io. La poliziotta, molto gentilmente, mi dice di seguirla; usciamo dalla stanza e arriviamo quasi in fondo al corridoio, bussa a una porta a vetri, oltre la quale non si riesce a vedere nulla. Entriamo in un ufficio piccolo ma funzionale, una scrivania con un computer, tre sedie di fronte, una finestra posta verso il cortile interno, un armadio strabordante di fascicoli e una mensola piena di libri. Alle mie spalle, a lato della porta di ingresso, la voce che mi ha telefonato un’ora fa mi dice: «Signor Lenti? Sono Gentile, ci siamo sentiti al telefono». «Commissario, mi vuole spiegare adesso? Cosa è successo a Holga?». «Mi spiace ma stamattina abbiamo rinvenuto il corpo della sig.ra De Groober su segnalazione della sua vicina». «Chiara? Tutte le mattine va da Holga per farle una puntura per il diabete». «Sì… Chiara Valli… ha telefonato al 112 dicendo che la signora De Groober non rispondeva al campanello per cui ci siamo recati con i vigili del fuoco. Siamo entrati dalla finestra del bagno che era aperta e abbiamo trovato la proprietaria distesa a terra vicino al suo letto, probabilmente un infarto, stiamo aspettando i referti medici. Al collo aveva una medaglietta, quelle che si usano per le emergenze, in cui sono riportati i dati medici, quelli personali, i numeri di emergenza da chiamare in caso di necessità. In questa parte abbiamo trovato solo due numeri, il suo e quello dell’Avvocato Corti, lo conosce?».


11 «Lo conosco di nome e so che ha uno studio in centro, ma non ci siamo mai visti. Holga, la sig.ra De Groober, diceva che era un suo vecchio amico ma non ci ha mai presentati. So che ogni tanto si vedevano. Pensavo fosse un amore di gioventù ma lei ha sempre glissato sull’argomento». «Abbiamo convocato anche lui, a breve dovrebbe arrivare». Per almeno un’ora il Commissario mi fa domande relativamente al mio rapporto con Holga, io fatico a seguirlo perché man mano che racconto penso a Holga e mi rammento piccoli episodi che ci sono capitati. Il Commissario sembra faccia queste domande più per curiosità personale che altro. Suona il telefono di fianco al computer e il Commissario risponde a monosillabi, è appoggiato sulla sedia di pelle nera e con la mano destra continua ad accendere e spegnere un accendino. «Sì va bene, grazie». Appoggia delicatamente il ricevitore e dice: «Ho appena parlato con il medico, la signora De Groober è deceduta per una scheggia di pallottola che aveva da parecchi anni vicino al cuore. Lei ne sa qualcosa?». «No, Holga… cioè la signora De Groober…». Il Commissario mi blocca. «Se le viene più comodo dica soltanto Holga, credo di aver ben compreso che eravate molto amici». «Grazie. Holga mi aveva detto che aveva smesso di lavorare da parecchi anni perché aveva un problema al cuore e quindi non poteva stancarsi troppo. Non pensavo che il problema fosse una pallottola, mi sembra strano». Mentre dico questo mi viene in mente il sorriso di Holga. Era una persona sempre sorridente e cordiale con tutti, simpatica e molto colta. Mi son sempre chiesto come mai vivesse da sola e non si fosse mai sposata. Sicuramente non era una classica pensionata, aveva molta classe e non si faceva mai mancare nulla che desiderasse in quel momento, non viveva nel lusso e solo saltuariamente si dedicava a serate mondane.


12 Le piaceva molto l’arte e aveva la predilezione per Van Gogh, una passione comune che ci aveva fatto avvicinare appena conosciuti. L’anno scorso mi aveva portato ad Amsterdam per visitare il museo perché aveva scoperto che non ero mai andato. Siamo rimasti ad Amsterdam pochi giorni, lei ne ha approfittato per andare in alcune banche dove diceva di avere alcuni conti e un pomeriggio l’ho attesa in albergo perché era andata a trovare un amico. Da ciò che mi diceva, tornava raramente in Olanda, la sua terra natia. Era nata ad Amsterdam ma cresciuta a Utrecht, dopo l’università si era trasferita per lavoro negli Stati Uniti, dopodiché aveva vissuto in Spagna, Francia e infine Italia, dove si era fermata definitivamente. Mentre sono ancora perso nel ricordo di Holga, qualcuno bussa alla porta; mi giro e vedo entrare la poliziotta che mi ha accompagnato, solo adesso vedo che è molto carina. «Commissario, è arrivato l’avvocato Corti». «Lo faccia entrare». Il Commissario si alza e stringe la mano alla persona accompagnata dalla poliziotta, è un signore distinto, molto elegante con il viso tirato, evidentemente anche lui è rimasto turbato dalla notizia. Dopo le presentazioni, l’avvocato Corti chiede di rimanere solo con il Commissario. Esco e mi siedo di fronte all’ufficio. Il corridoio è lungo, stretto e illuminato da neon, ci sono otto porte, in senso alternato sui due lati, tra una stanza e l’altra ci sono piccoli quadri con colori cupi che lasciano un segno di disagio a chi li guarda. Passano davanti a me due poliziotti che stanno parlando di calcio, credo si stiano riferendo alla squadra del Fatebenefratelli, visto che sono convinti che quest’anno il torneo lo avrebbero vinto loro. Gli chiedo se c’è una macchina per il caffè. Si fermano e mi squadrano per bene facendomi sentire a disagio; abbasso lo sguardo e capisco il perché, nella fretta ho preso la prima maglietta che mi è capitata, è verde con la scritta “I love Jamaica” (ricordo del viaggio di nozze di una coppia di amici), pantaloni rossi e scarpe da ginnastica abbastanza vecchie da sembrare sfondate.


13 Sicuramente questo non è un bell’abbigliamento, se poi lo sommiamo a una barba incolta e capelli lunghi sicuramente staranno pensando che sono un delinquente. In ogni caso mi indicano la strada per la macchinetta per il caffè, al pianterreno vicino all’ingresso sulla sinistra. Scendo le scale e incontro la poliziotta che mi ha accompagnato, sta parlando con un collega. È molto carina, poco trucco, capelli biondi legati con un elastico giallo. Mi vede e si avvicina. «Ha finito?». «No. Sono sceso a prendere un caffè, con il Commissario c’è ancora l’avvocato. Se mi indica dov’è la macchinetta vi offro volentieri un caffè». La poliziotta accetta, mentre il collega dice che sta iniziando il turno e quindi deve andare in ufficio. Non so perché l’ho invitata, forse perché per la prima volta in vita mia mi sento solo, sto cominciando a somatizzare che Holga non la rivedrò più. «Credo sia meglio presentarci, io sono Jacopo». «Lo so, ero con il Commissario quando l’ha chiamata a casa. Io sono Giovanna Macchi. Lei era un parente della signora?». Brevemente le riassumo quanto ho già detto al Commissario, nel frattempo inserisco alcune monete nella macchinetta. Il tempo di far scendere il secondo caffè e vedo arrivare il commissario Gentile insieme all’avvocato Corti. «Signor Lenti, l’avvocato mi ha detto alcune cose e sarebbe necessario che lei andasse in ufficio da lui. Per noi la pratica è chiusa, fra qualche giorno la chiameremo per venire a firmare alcune carte, l’avvocato le spiegherà». Saluto tutti e mi dirigo verso l’uscita. La temperatura è alta, siamo a metà settembre ma sembra che l’estate quest’anno non voglia finire. Il sole è cocente e il calore che arriva dall’asfalto è insopportabile. L’avvocato mi guarda negli occhi mentre mi chiede se sono venuto in macchina, gli rispondo che solitamente per arrivare in centro uso i


14 mezzi pubblici perché a Milano è impossibile trovare parcheggio, evito di dirgli che non ho un’auto mia e che talvolta chiedo in prestito quella di zio Carlo. Lui sorride e mi indica dove ha lasciato la sua auto, se non ho nulla in contrario mi accompagna lui in studio. In pochi minuti arriviamo vicino a Piazza San Babila, dal cassettino della Porsche estrae un telecomando e apre un cancello. Entriamo in una meravigliosa corte, al centro c’è un’antica fontana e ai lati sono posteggiate una Range Rover, un’Audi A8 e una Smart. Da una porticina laterale esce un signore che chiede all’avvocato se non si sentisse bene o fosse successo qualcosa. «No Carlo, va tutto bene, non si preoccupi. Devo sbrigare alcune faccende a casa e il signore è con me». Rimango sorpreso. «Mi scusi avvocato, ma non è il suo studio?». «No. Questi palazzi sono della mia famiglia da alcune generazioni. Qui ho la mia abitazione, la sede legale di alcune società internazionali nonché uno studio mio dove tratto affari riservati. Abbia pazienza, fra poco le spiego». Entriamo in un atrio, di fronte c’è un’ampia scalinata, a occhio e croce solo la scala è più grande del mio appartamento. Subito arriva una cameriera e l’avvocato le dice di far preparare qualcosa per pranzo e che io mi sarei fermato con lui. Saliamo al primo piano, sulle pareti ci sono tantissimi quadri d’epoca, sembra una galleria d’arte ambientata qualche secolo fa, sul pavimento tappeti che smorzano il rumore della camminata. Entriamo in una stanza molto spaziosa, questa è sicuramente più grande di casa mia. I finestroni permettono alla luce di illuminare tutta la stanza, due pareti hanno una libreria che arriva fino al soffitto e accanto un divanetto e due poltrone con lo schienale alto. Al centro, vicino al balconcino, una scrivania con un monitor a cristalli liquidi. L’avvocato si siede dietro la scrivania e mi fa cenno di accomodarmi su una delle due sedie di fronte a lui. «Innanzitutto le devo chiedere alcune cose. Prima di tutto vorrei che ci dessimo del tu, quindi vorrei che tu non facessi mai menzione con


15 alcuno, parenti o amici che siano, di questo nostro incontro né di quanto sto per dirti. Tutto quello che dirò dovrà essere nel più assoluto riserbo». «Mi sembra di essere in un film, una casa come questa, una riservatezza così all’estremo. Ma cosa c'entra Holga in tutto questo?». «Ho conosciuto Holga verso la metà, fine degli anni ‘60, studiavamo insieme in Inghilterra». «Ma Holga ha studiato in America!». «Sono tante le cose che non sai di lei. Vedi… Holga ha lasciato un testamento in tuo favore, come erede unico di tutto ciò che le appartiene». «Come un testamento? Perché io? E poi Holga non era ricca, stava bene ma non aveva neanche una casa sua, viveva in affitto». «Calma. Ti ho già detto che sono tante le cose che non sai di lei. Holga ti considerava come il figlio che non ha mai avuto. Le informazioni che abbiamo recuperato su di te ti hanno permesso di poterla frequentare, però lei non avrebbe potuto dirti niente». Non riuscivo a capire cosa volesse dirmi. Holga diceva sempre che nulla è ciò che sembra e che nella vita bisogna saper imparare a non giudicare una persona solo dal suo lato esteriore. Canticchiava spesso un ritornello di una canzone del Rocky Horror Picture Show... Don’t judge a book by its cover2 «Holga ha lavorato fino alla metà degli anni ’90 per la Nato. Era uno dei massimi esperti mondiali di Intelligence nel settore sicurezza; erano i periodi caldi pre e post pericolo rosso in Europa. Tutti quelli che lavoravano nel settore dovevano essere persone capaci, caparbie, intelligenti e, soprattutto, riservate. È stata per anni a capo di una divisione preposta al controllo e analisi dei flussi finanziari internazionali, in questa maniera

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La canzone da cui è tratta la frase è Sweet Transvestite, del 1975, cantata da Tim Curry


16 riuscivamo a capire in anticipo dove ci sarebbe stato un tentativo di golpe e, quindi, intervenire prima che succedesse qualcosa di brutto. Purtroppo, all’interno della sua divisione, qualcuno è riuscito a infiltrarsi, lei lo ha scoperto ma le hanno sparato. Fortunatamente la pallottola che l’ha colpita si è fermata a pochi millimetri dal cuore. Ufficialmente la Dottoressa Joan Lindbergh è deceduta, questo era il vero nome di Holga. Quando si è ripresa ha cambiato nome, si è trasferita in Italia e ha ricominciato una nuova vita. Altri dettagli non posso dirteli per una questione di sicurezza, sia la tua che la nostra… meno sai e meglio è». «In sostanza Holga era una spia?». «Non proprio, spia è un termine che va bene nei romanzi e nei film. Diciamo che faceva parte di un dipartimento sconosciuto ai non addetti ai lavori, spesso anche agli addetti. Non era un’operativa nel senso volgare del termine, lei utilizzava la sua testa anche se, in realtà, era stata addestrata per missioni considerate a rischio. Comunque, Holga conosceva bene le persone e di te aveva una grandissima stima. Per correttezza ti informo che abbiamo fatto controlli su te, i tuoi zii, le persone che frequenti e tutto è risultato positivo, d’altronde Holga non poteva sbagliarsi». Non capivo se essere fiero o deluso. Adesso capivo tante cose. Holga era sempre molto informata su quanto stava accadendo nel mondo, sia politico che finanziario. Pur non guardando molto la televisione, altra cosa che ci accomunava, mi spiegava sempre con molta naturalezza il perché di tanti avvenimenti, riusciva a creare un sottile collegamento tra episodi che, a prima vista, erano isolati con qualcosa di più grosso. Spesso la prendevo in giro chiedendole i numeri del lotto perché riusciva a prevedere accadimenti in funzione del momento storico. Era come se leggesse il futuro sulla base del passato e del presente. «Vedi Jaco, Holga ti ha nominato suo unico erede. Parliamo di parecchi soldi, molti di più di quanto tu possa immaginare. Holga sapeva benissimo che hai la testa sulle spalle, però aveva paura che se te lo avesse detto tu saresti potuto cambiare radicalmente e


17 perdere di colpo tutti i valori che possiedi. Per questo ha organizzato una gestione oculata del patrimonio attraverso una rendita mensile. Parliamo di 50.000 euro netti al mese appoggiati su una banca privata ad Amsterdam». «50.000 euro mensili? Ma sono quasi 100 milioni di vecchie lire! E per quanti mesi? Hai detto mensili, vero?». Non potevo crederci. Non riuscivo a immaginare di avere una simile somma a disposizione neanche per un giorno, figuriamoci ogni mese. «In effetti non esiste un limite di tempo. Diciamo che se avrai dei figli, te lo auguro, e a loro volta anche loro ne avranno, nessuno di loro avrà problemi economici. Questa rendita è particolare perché è indicizzata al costo reale del denaro per cui sarà sempre adeguata al valore odierno». Stavo per svenire, cosa avrei fatto con tutti quei soldi? L’unica certezza è che, volente o nolente, nel bene e nel male, la mia vita non sarebbe stata più la stessa.


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CAPITOLO 02 – UNA NUOVA VITA

Torno a casa e tutto mi sembra diverso, Milano, la gente, i miei vicini e la mia casa di 35mq. Cosa avrei fatto di me? Quanto lasciatomi da Holga mi turbava, passavo da momenti di euforia a momenti di depressione. Nonostante abbia già pranzato da Corti, credo sia giunto il momento di preparami un Gin Tonic, una delle mie vere passioni. Mentre prendo il ghiaccio dal freezer guardo l’orologio fisso sulla parete, sono le 14:30. La mia vita è già cambiata pur non essendo ancora cambiata. Accendo lo stereo, mi sento malinconico e ho bisogno di rilassarmi. Inserisco un CD di Chet Baker e inizio ad ascoltare Stella By Starlight3 nella versione dal vivo del 1987. Prendo una Camel dal tavolino dove appena entrato ho appoggiato sigarette, accendino e chiavi di casa. Verso le 19 dovrei andare al lavoro, guardo la camicia bianca stirata e appesa alla gruccia fuori dall’armadio, i pantaloni neri sullo schienale della sedia; per la prima volta li vedo realmente come una divisa. Come mi sarei comportato con i clienti? Avrei avuto lo stesso atteggiamento rispettoso nei loro confronti o avrei finalmente reagito alle prepotenze di alcuni avventori? Forse è meglio chiamare Luca, il proprietario del pub, e avvisarlo che non sarei andato e cosa era successo a Holga; anche lui aveva stima di lei, cliente quasi abituale per un aperitivo veloce. Sì, forse è meglio rimanere a casa o, comunque, rimanere solo. Dopo dieci minuti, al termine sia della canzone che del Gin Tonic, telefono a Luca e gli racconto quello che è successo; lui è comprensivo e mi dice di prendermi tutto il tempo di cui ho bisogno e non preoccuparmi di nulla, se non di me stesso. 3

Dall’album “Chet Baker in Tokio”, uscito nel 1996 pur essendo stata registrata dal vivo nel 1987.


19 Alle 19 il telefono suona: è Gianna, una mia collega, che ha saputo da Luca quanto accaduto. Non ho voglia di parlare e lei se ne accorge per cui, dopo le solite frasi funebri di rito, mi saluta. Appoggio la cornetta e stacco il telefono dalla presa, ho bisogno di darmi una scossa. Vado in bagno e apro l’acqua della doccia, mentre si scalda inserisco nel lettore Diesel di Finardi4. Decido, quindi, di uscire. Una passeggiata mi farà bene, mentre mi vesto iniziano le note di Non diventare grande mai, canzone sensibile e profetica in questo frangente. Mi viene in mente quando un giorno ho fatto sentire questa canzone a Holga, ricordo le sue parole al termine “Hai tanto tempo per capire cosa significa vivere, devi ancora capire il perché delle cose, quando è il momento di usare l’istinto, quando la ragione, quando reagire e quando mediare. Ogni cosa ha il suo perché. Il tempo ti cambia e cambierà il tuo modo di pensare e di agire. Cerca una spiegazione razionale del perché un uomo si comporta in una certa maniera, prova ad analizzare freddamente il suo pensiero, scopri come è cresciuto, con chi è cresciuto. Non lasciarti trasportare dal tuo senso di giustizia e cerca di comprendere sempre. Ognuno è diverso da ciò che ti sembra, ognuno è diverso da come ti appare”. Per diversi anni ho frequentato una donna senza sapere nulla di lei. Non potevo dire che mi avesse raccontato bugie, solamente evitava di dirmi la verità. Esco da casa e, pur non avendo fame, mi dirigo verso un All you can eat giapponese, gestito da cinesi, dove vado ogni tanto. Il cibo mi sembra insapore, ma la birra Sapporo è fresca. Nel ristorante ci sono pochi clienti; al tavolino all’angolo, vicino alla vetrina, c’è una giovane coppia, lui vestito sportivo, lei elegante, mentre mangiano si guardano negli occhi e spesso sorridono mentre 4

Album del 1977, prodotto da Paolo Tofani, chitarrista conosciuto in Italia per aver militato negli Area


20 parlano a bassa voce. Mi sento triste e solo, la testa mi scoppia e tutto mi infastidisce. Dopo aver girovagato per i navigli soffermandomi a guardare l’acqua dai ponticelli che attraversano le due sponde, prendo una decisione: andrò ad Amsterdam e mi fermerò un po’ di tempo, forse l’aria del nord Europa mi farà bene. Verso mezzanotte decido di andare al pub. Nonostante sia qualche anno che lavoro lì non posso dire di aver stretto amicizie importanti, la nostra frequentazione è basata prettamente sul lavoro. Tante volte abbiamo ipotizzato di andare da qualche parte tutti insieme, ma, alla fine, non si è mai fatto nulla. Gli unici che mi conoscono abbastanza bene sono Luca e Gianna, perché gli altri camerieri sono in genere universitari che, dopo pochi mesi, vanno via per dedicarsi all’agognata laurea. Mentre cammino penso a cosa avrei dovuto fare nel mio futuro prossimo, sicuramente non sarei stato obbligato a lavorare però avrei dovuto trovare qualcosa da fare, altrimenti sarei diventato come i figli di papà che conoscevo perché assidui frequentatori notturni del locale oppure un disadattato che perde tempo e non conclude nulla. Mi sarebbe piaciuto viaggiare ma avevo paura che, alla lunga, sarebbe diventato monotono e sempre uguale, anche se in località diverse. Arrivo davanti al Pub ma decido di tornare a casa, non sono dell’umore per parlare con qualcuno. Mi fermo a un distributore automatico e compro un pacchetto di Camel, pensando a cosa avrei dovuto fare. L’unica certezza, al momento, è che devo aspettare la telefonata del Commissario per sapere quando andare a firmare le carte, poi mettermi d’accordo con la segretaria di Corti che mi avrebbe organizzato l’appuntamento in banca ad Amsterdam. Mi sono comunque dimenticato di chiamare i miei zii e raccontargli di Holga, senza però dire dell’eredità. ***


21 Mentre sono ancora in una fase di dormiveglia, la sveglia inizia a suonare; come d’abitudine mi alzo, metto gli occhiali e mi preparo il caffè. Accendo il computer per vedere su internet se ci sono articoli riguardanti Holga. Cerco nella cronaca milanese ma non trovo nulla. Dopo il caffè e la sigaretta decido di sistemare un po’ casa, non che sia in disordine però fare qualcosa di manuale distoglie la mia mente dai pensieri. A metà mattinata squilla il telefono: è il Commissario Gentile che mi dice di passare in giornata a firmare i documenti; gli chiedo se sarebbe stato un problema venire tra mezzogiorno e l’una e lui risponde di non preoccuparmi, i documenti li avrebbe lasciati alla Macchi, la poliziotta del giorno prima. Poco prima di mezzogiorno esco dalla metropolitana e mi dirigo verso il Fatebenefratelli; all’ingresso c’è il piantone del giorno prima che mi fa segno di andare senza più controllare i documenti. Incontro subito la Macchi. «Ciao Jacopo, Gentile mi ha detto che saresti passato oggi, fortunatamente sei arrivato prima delle 14 perché a quell’ora smonto dal servizio e non mi sarebbe piaciuto farti tornare ancora una volta». «Il Commissario non mi aveva detto che avresti terminato alle 14 altrimenti sarei arrivato subito». «Nessun problema, andiamo nel mio ufficio che ti faccio firmare i documenti». La documentazione da firmare riporta semplicemente quanto accaduto ieri, quanto ho detto al Commissario su Holga. Mi sembra strano che di Corti non si faccia menzione da nessuna parte. Il compilatore ha riportato che Holga, essendo senza parenti, aveva richiesto al proprio avvocato che fossi io a occuparmi delle esequie funebri. Firmo quasi controvoglia, mi sembra di rubare qualcosa. Volente o nolente era come se avessi vinto al superenalotto senza giocarlo.


22 Con grande faccia tosta chiedo a Giovanna se vuole venire a pranzo con me, lei mi ricorda che fino alle 14 non può uscire. Le propongo di incontrarci al bar vicino al commissariato e lei accetta. Pochi minuti dopo le 14 sono seduto al tavolino all’esterno e la vedo arrivare. Indossa una camicia bianca abbinata a una gonna lunga color ocra, è molto diversa da quando indossa l’uniforme, sembra una studentessa. Si siede vicino a me, appoggia la borsetta ed estrae un pacchetto di Camel chiedendomi se mi dia fastidio il fumo. Le rispondo: «Assolutamente no, addirittura fumi le stesse sigarette che fumo io». Lei sorride, si accende la sigaretta e io chiamo il cameriere; ordino una birra per me e una spremuta di arance per lei. «Come stai oggi?». «Meglio di ieri, quanto è successo mi ha abbastanza sconvolto e stanotte praticamente non ho chiuso occhio ma devo farmene una ragione; in ogni caso non vorrei parlare di problemi, facciamo finta che non sia successo nulla e siamo due vecchi amici che si incontrano dopo tanto tempo». Parliamo per tutto il pomeriggio, di lei, di me, del perché sia entrata in polizia, di quali fossero le mie ambizioni e cosa mi sarebbe piaciuto fare davvero nella vita. Alle 19 ci salutiamo, ripromettendoci di passare un altro pomeriggio spensierato. Entro in metropolitana e mi sento finalmente bene, è bastato un pomeriggio di chiacchiere e son riuscito a non pensare a Holga. Guardo i visi delle persone, tristi, stanchi, quasi inespressivi, sembrano ognuno la copia dell’altro pur nella loro diversità. Chissà cosa stanno pensando, chissà dove stanno andando. Con questa idea esco dalla metropolitana e mi dirigo verso il pub per mangiare qualcosa. Appena entro mi siedo sugli sgabelli del bancone, i colleghi mi salutano con un timido sorriso. Luca esce dalla cucina, appoggia il vassoio che ha in mano e viene verso di me. «Ciao Jaco, son felice di vederti». «Ciao Luca, volevo passare ieri ma all’ultimo non me la son sentita».


23 «Capisco, comunque stasera cosa hai intenzione di fare? Io mi sono organizzato chiamando un ragazzo, ma se vuoi lavorare non c’è problema, gli pago la serata e lo lascio andare». Capisco il suo imbarazzo e mi piacerebbe potergli dire che da ieri non avrei più dovuto lavorare, però ho promesso a Corti e alla memoria di Holga che non avrei detto nulla a nessuno. «Ti ringrazio Luca, ma son passato per dirti che vado via. Ho deciso di trasferirmi all’estero per qualche tempo. Ho voglia di crescere e incontrare nuova gente». Lo sguardo che mi lancia Luca è lo stesso di chiunque alle prese con un matto. «Cosa stai dicendo? Cosa andrai a fare? Non ti trovi bene qui da me?». «Non sono diventato matto, solo che sento il bisogno di ricominciare, forse sbaglio ma è il momento giusto per tentare. Male che vada tornerò a elemosinare un posto di lavoro». «Su questo ci puoi contare, allora festeggiamo, tu per il tuo avvenire, io… io non so per cosa però festeggio lo stesso». Ci facciamo preparare da Ivana, una studentessa universitaria che per diletto ha conseguito un attestato da barman, un paio di Gin Tonic con Hendrick’s5 e una fettina di cetriolo. Finito il Gin Tonic preparo uno scatolone con la roba che avevo nel pub, poche cose tra cui alcuni CD e un libro, I fiori del male di Baudelaire, saluto tutti ed esco. Milano al tramonto è una città affascinante, il sole fa capolino tra due palazzi e illumina il Naviglio, coprendo le luci dei locali. Appena entro in casa suonano il campanello. È Anna, la figlia dei miei vicini che è venuta a portarmi una busta che qualche ora fa è stata lasciata davanti alla porta. Sopra c’è scritto solo il mio nome, senza mittente né indicazioni. Anna è una sorellina per me, la conosco da quando aveva diciassette anni, oggi ne ha quasi venti. Siamo diventati subito amici, appena mi 5

Hendrick’s gin è un distillato importato dall’Inghilterra


24 sono trasferito qui. Frequenta il primo anno di giurisprudenza, ha sempre sognato di diventare avvocato. La madre è impiegata alle poste, il padre ha un’edicola in periferia. Faccio accomodare Anna, la ringrazio e apro la lettera. “Caro Jacopo, ti invio questo biglietto aereo per Amsterdam. Ho già chiamato il Dott. Van Der Bijke, direttore della banca, spiegando cosa è successo e quali fossero le disposizioni testamentarie di Holga. L’appuntamento con lui è fra cinque giorni ma l’aereo partirà dopodomani. Credo sia meglio che tu raggiunga Amsterdam qualche giorno prima, giusto per ambientarti e poi Holga diceva che eri rimasto molto colpito dalla città e dalla gente. Per ogni problema o dubbio puoi chiamarmi al numero che ti ho dato. Fatti sentire ogni tanto. Ciao Stefano Corti” Appoggio la lettera sul tavolo, Anna mi guarda poi raccoglie il biglietto aereo e mi chiede come mai sto partendo. Non me la sento di raccontarle la verità, nonostante sia una persona degna di fiducia. «Ho vinto un viaggio in Olanda ma non sapevo quando sarei partito, ieri sera mi han chiamato dicendomi che mi avrebbero fatto recapitare il biglietto. Forse è meglio così, Holga ha avuto un infarto e questa cosa mi ha sconvolto per cui starò via un po’ di tempo e quando tornerò deciderò il da farsi. Ho già avvisato Luca per cui il lavoro non è più un problema». «Mi spiace tanto, sono passata oggi appena ho saputo di Holga, so che eri molto affezionato a lei». Non ho molta voglia di parlare e Anna se ne accorge immediatamente.


25 «Va be’… prima di partire ricordati di venire a salutare la tua sorellina preferita». «Ci puoi contare». Le do un bacio affettuoso sulla guancia mentre la abbraccio, quindi la accompagno alla porta e le ricordo di salutarmi i suoi.


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CAPITOLO 03 – AMSTERDAM

L’aeroporto Schipol di Amsterdam è pieno di gente, nonostante sia ancora mattino presto. Pochi turisti e molti dipendenti di aziende, lo capisco dal fatto che sono tutti eleganti, gli uomini in giacca e cravatta e le donne in tailleur firmati. Sembra una piccola città, in ogni dove ci sono bar e punti di ristoro con specialità diverse, il Casinò è ancora chiuso e alcuni orientali stanno aspettando impazientemente l’orario di apertura. Esco dalla grande porta a vetri, ad attendere i taxi ci sono almeno quindici persone. Quando arriva il mio turno chiedo al tassista di portarmi alla stazione centrale, dove so che ci sono punti turistici per trovare un albergo libero e, soprattutto, compatibile con le mie attuali finanze, d’altronde soltanto fra tre giorni potrò permettermi di essere meno oculato nelle scelte e, magari, concedermi qualche piacere. L’autista mi guarda sorpreso, scruta attentamente il mio semplice abbigliamento e mi suggerisce di prendere il treno direttamente dall’aeroporto, il costo è esiguo e arriverei direttamente dove gli ho chiesto di portarmi. Mi stringe la mano e sorride mettendomi in imbarazzo, devo avere una faccia da squattrinato nonostante abbia cercato un abbigliamento da viaggio consono, jeans e camicia bianca. Arrivato in stazione trovo le indicazioni per l’ufficio turistico. Mi accoglie una ragazza molto carina che, in un italiano perfetto, mi chiede di cosa avessi bisogno. Le spiego che sto cercando un albergo tranquillo, pulito, abbastanza vicino al Museo di Van Gogh e che sia soprattutto economico (d’altronde proprio stamattina, prima di partire, ho guardato l’estratto conto della banca: 1.300 euro! In altre occasioni mi sarei definito benestante, oggi non so). L’albergo che mi suggerisce è una pensione familiare, mi illustra la strada segnandomela su una piccola cartina turistica.


27 Appena arrivato vengo accolto dal proprietario, un olandese di circa sessant’anni che assomiglia molto a un pescatore, forse per i tatuaggi marinareschi sulle braccia fra cui una piccola sirena. Mi accompagna al primo piano, dove c’è una sola stanza. È molto grande e ben illuminata, una grande vetrata si affaccia sul Prinsengracht, non lontano dalla casa di Anna Frank; ci sono quattro posti letto, uno matrimoniale e due singoli. Il bagno è senza finestre e l’aeratore fa parecchio rumore. La luce proveniente da fuori illumina un quadro sopra il letto matrimoniale, mi ricorda un periodo fiammingo, molto cupo, immagine di vita rurale, una famiglia in un salone con la madre che tesse una tela mentre tre bambini giocano vicino al camino. Devo cominciare a organizzarmi, dopodomani andrò in banca, fino ad allora qualcosa devo organizzare. Apro la valigia e prendo i pochi vestiti che ho portato, li metto nell’armadio e penso a cosa fare. Dalla finestra vedo la gente passare, chi in bicicletta, chi a piedi. Sono tutti in maglietta a maniche corte, il che mi fa pensare che la temperatura sia mite come in Italia. Mi sdraio sul letto matrimoniale e rivedo la desolazione del giorno prima, durante il funerale di Holga. Eravamo in pochi, a parte me c’erano i miei zii, Luca, Gianna, Chiara e l’avvocato Corti. La funzione è stata veloce, poi il forno crematorio, il tempo di far raffreddare l’urna e portarla al cimitero. Eppure, anche questa è una forma di vita, nasciamo, cresciamo, facciamo esperienze e poi moriamo; polvere siamo e polvere torniamo, però è tutto triste. Faccio una doccia veloce ed esco, prima destinazione il Museo di Van Gogh, secondo la cartina devo costeggiare il canale per un paio di chilometri e poi andare verso l’esterno. Arrivo verso le 13, non ho fame, mi accodo dietro altri turisti e dopo una decina di minuti entro. Il salone è enorme, colori chiari sulle pareti e sui pavimenti, guardando le altre persone, quasi tutte con una cuffia audio, capisco che bisogna seguire un percorso stabilito; a circa un metro dalle pareti c’è una linea gialla indicante il limite da non oltrepassare,


28 questo per preservare i quadri da possibili danni. Davanti a me un ragazzo orientale, credo giapponese, estrae una piccola macchina fotografica, subito interviene un inserviente facendogli notare che il museo è pieno di avvisi in cui si riporta che è vietato l’utilizzo di apparecchiature fotografiche e video. Scorgo una bimba in braccio a una ragazza, sorridendo le indica un quadro, avvicinandomi mi accorgo che stanno ammirando una delle opere più famose dell’artista: I Girasoli. Non avevo mai notato la struttura completa dell’opera, ho sempre guardato la forza dei colori mentre adesso, osservandolo attentamente, noto che la cornice è parte integrante del quadro, addirittura si potrebbe definire il vero soggetto. Indietreggio leggermente per avere una migliore visione d’insieme, è fantastico. Verso le 16 decido di uscire. È già da qualche ora che sono arrivato e non sono ancora entrato in un coffee-shop, mi dirigo verso il centro e arrivo a Leindsplein dove c’è uno dei più famosi coffe-shop di Amsterdam, il Bulldog. Scendo i pochi scalini e sento un odore intenso di hascisc e marijuana. Alcuni ragazzi sono seduti a un tavolino, si guardano ma non parlano tra loro, chissà da quanto tempo sono dentro. Mi appoggio al bancone e subito il ragazzo mi porta la lista. Non so cosa scegliere, punto alla marijuana e chiedo quale sia la migliore. Il ragazzo sorride e mi porta una bustina trasparente, all’interno c’è della marijuana e alcuni semini. Chiedo anche delle cartine e ordino una spremuta di arancia; dopo aver acceso la canna mi giro verso i tavoli rimanendo seduto sullo sgabello del bancone. Dall’ingresso arrivano due persone, il primo è un signore attempato, capelli bianchi e doppiopetto, il secondo è più giovane, sui trentacinque anni. Si siedono di fianco a me e ordinano da bere. Il più anziano fra i due estrae dalla tasca della giacca una busta contenente dei piccoli pezzi di hascisc. Dalla familiarità con cui si rivolge al ragazzo del bancone penso che siano dei clienti abituali.


29 Finisco la canna e la spremuta e mi viene un po’ di fame, non sembra fame chimica, è da ieri che non tocco cibo. Guardo l’orologio ed è ora di cena. Esco dal Bulldog e sulla mia destra c’è una via piena di locali e pub; il primo che incontro è un ristorante messicano, poi uno olandese e uno italiano. Mi siedo all’esterno del ristorante olandese. Subito mi viene portato un piccolo menù. Ordino la zuppa del giorno (Holga mi diceva sempre che in nord Europa è sempre meglio scegliere un piatto del giorno), quindi un piatto impossibile da pronunciare che la cameriera mi ha vivamente suggerito, un piatto a base di carne e verdure miste, chiudo l’ordinazione con una birra Amstel. Lungo la via passano gruppi di persone mentre il cameriere del ristorante italiano le sprona a entrare e assaggiare la vera pasta italiana. Subito di fronte c’è un pub molto rumoroso, nonostante la porta chiusa si sente il ritmo martellante della musica techno. Assaggio la zuppa e la trovo molto buona, è di colore biancastro e all’interno ci sono pezzi di carne e wurstel, o perlomeno credo siano wurstel. Forse non è stata una scelta azzeccata data la temperatura mite, però mi piace. Ordino una seconda birra che mi viene portata contestualmente al secondo piatto, sembra un gulasch, anche questo non molto indicato, ma almeno la birra è fresca. Mi riprometto di tornare quando sarà inverno. Arriva il conto e chiedo alla cameriera dove posso trovare un locale dove si suoni del buon vecchio e sano jazz. Lei mi indica il fondo della via dicendo che sulla sinistra avrei trovato uno dei locali storici di Amsterdam, famoso in tutto il mondo perché hanno suonato musicisti di fama internazionale. Prima di congedarmi mi dice che ad Amsterdam non è permesso fumare joint al di fuori dei coffeshop, capisco che forse è meglio andare in bagno a sciacquarmi la faccia. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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