Ho ucciso Bambi

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CARLA CUCCHIARELLI

HO UCCISO BAMBI

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HO UCCISO BAMBI Copyright Š 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-450-5 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Settembre 2012 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova


A mia figlia, Valentina



“… Il chip di silicone dentro alla sua testa è stato acceso per caricarsi Nessuno andrà a scuola oggi Lei li farà stare a casa E papà non capisce Diceva sempre che lei era buona come l’oro, ed egli può vedere nessuna ragione perché non ci sono ragioni di quale ragione hai bisogno? Dimmi perché non mi piacciono i lunedì dimmi perché non mi piacciono i lunedì dimmi perché non mi piacciono i lunedì voglio sparare a questo unico giorno…” (“I don’t like Mondays”, Bob Geldof)



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Festa a sorpresa “Nel mio stomaco son sempre solo, nel tuo stomaco sei sempre solo, ciò che sento, ciò che senti, non lo sapranno mai… almeno di’ se il viaggio è unico e se c’è il sole di là, se stai ridendo, io non mi offendo però, perché perché nemmeno una risposta ai miei perché perché non mi fai fare almeno un giro col tuo bel gilet.” (“Hai un momento Dio?”, Ligabue)

«Allora ho deciso. Facciamo domani che è il mio compleanno, almeno chiudiamo in bellezza.» «Era ora Silvia. Festa a sorpresa?» «Già, sarà davvero una sorpresa per tutti.» «Ok. Rivediamo la lista allora.» «D’accordo Debby. Ma che sia l’ultima volta, mi sono rotta di fare progetti. Bisogna agire.» «Sara ce la mettiamo?» «Dai. Come ti viene in mente? Sabato mi ha passato il compito in classe, non rompe mai i coglioni ed è pure simpatica. Cara la mia cocca…» «Ok, meno una. Marina?» «Scherzi? Marina non si tocca. Mi ha portato all’ultimo rave party a Viterbo e tu sai quanto sbavavo per andarci. Marina è un’amica.» «E… Eleonora?» «Dai… la festa è per lei. Miss perfettina si divertirà una cifra.» Debby sorride con la sua aria da gatta soddisfatta. La festa si farà, ne sono certa. Il gioco del sì e del no lo abbiamo già fatto cento volte. Diciamo che è la nostra ultima fissa. Le passo un cannone. L’ho rollato poco fa. Lei, intanto, annota ordinatamente i nomi su un foglio di quaderno che ha diviso in due con una riga storta tracciata a penna, da una parte i sì, dall’altra i no. È seria, pare una bambina diligente che fa i compiti.


8 Invece sta seduta come piace a noi, con le ginocchia incrociate sulla sedia e il busto proteso in avanti. Sembra che sia sdraiata sulla grande scrivania bianca, dove si rincorrono oggetti per il trucco, matite colorate e tre diversi portacenere stracolmi di cicche di sigarette. Chiunque entrando per caso nella mia camera si renderebbe conto di trovarsi nel bunker di un’adolescente occidentale di sesso femminile, di gusti e cultura media. Non ci posso fare nulla, sono una figlia del mio tempo. Io sono the Queen, la regina, e amo il mio mondo. L’ho voluto io così. Due grandi poster di Ligabue dominano le pareti dipinte di rosa, l’apparecchio stereo rimanda musica rock a tutto volume. Per terra - li conto mentalmente - ci sono un paio di pantaloni, due magliette e qualche calzino gettati alla “come capita”. Sul letto, appoggiati su un vassoio, due bicchieri giganti formato coca cola, lì accanto due zainetti semivuoti. Poco distante, sdraiato su un piccolo plaid a forma di cuore rosso, il mio gattino. È un persiano, tutto grigio, me l’ha regalato mio padre un annetto fa ed l’ho chiamato Cocaine. Mio padre ha riso. Che cazzo c’avrà da ridere? Ci siamo, ecco che Debby riparte, va dritta al sodo. «Qual è il punteggio minimo?» «Otto, se non sono almeno otto passeremo per due coglione.» «E per fare strike?» «Ventidue, no meglio ventitré, porta bene. Di ventitré ci possiamo accontentare. Saremo sulle prime pagine di tutti i giornali. Ci pensi? Parleranno di noi per giorni. Diventeremo famose. È vero che il coreano ne ha fatti più di trenta, ma lui era un professionista e in Virginia aveva almeno ventimila studenti a disposizione. Beato lui. Noi ne abbiamo appena un centinaio.» «Be’, il norvegese, non mi ricordo mai come si chiama, ne ha seccati più di novanta.» «Dai, non ti far confondere. Quello non era uno studente e noi non siamo razziste.» Mi viene da ridere mentre lo dico. È vero, non siamo razziste. Ce l’abbiamo solo con Lei e con il mondo. Debora non risponde. Mica mi segue più. Ha afferrato uno specchio professionale per il trucco e sta passandosi l’eyeliner con determinazione. Non è bella Debby, non è in sintonia con i tempi. È troppo grassa, glielo dico sempre, però si veste di nero come me e ha il piccolo segno del femminismo tatuato sulla


9 mano destra. In questo momento, caso più unico che raro, non sta fumando. «Sei sicura che diventeremo famose come quelli del Columbine?» Fa scivolare la domanda con aria distratta. Lo so che ci tiene quanto me. «Dai. Eric e Dylan sono inimitabili. Sono stati i primi.» «Già, ma anche noi saremo le prime. Le prime donne a fare una strage in una scuola. Finalmente dimostreremo che possiamo davvero essere come gli uomini. Cattive come loro. Forti come loro. Fammi vedere le creature. Le hai nascoste tra i libri? Sono lì vero?» Si è alzata di scatto e si è avvicinata alla libreria, rovistando con discrezione tra i miei peluche e i testi che ho catalogato disciplinatamente, con tanto di numero sulla copertina. Uno “Delitti satanici”, due “Le stragi nelle scuole negli ultimi dieci anni”, tre “I disegni dei serial Killer”, quattro “Oggi non ho ancora ammazzato nessuno”, cinque “Come costruire una bomba in casa”. Da due anni non leggo altro. La mattanza non s’improvvisa, si crea. «Quanto sei ordinata! Mi sconvolgi.» «Maniaca vorrai dire, ma solo per i sacri testi. Al resto pensa la filippina. Sai che palle tutto il giorno a pulire? Dai. Fa una vita…» Debora scoppia a ridere come folgorata da un pensiero improvviso. La sua è una risata alta e squillante che somiglia al nitrito di un cavallo. Mi mette sempre allegria. «Vogliamo pensare anche a lei? La mandiamo con tutti gli altri?» «Dai, non scherzare. Almeno il paparino avrà qualcuno su cui contare quando io sarò, come dire, impegnata in altre faccende. Allora ce li hai almeno ventitré nella lista? Dimmi di sì che prendo le creature.» Stavolta tocca a me alzarmi e attraversare la stanza con l’andatura incerta. «Cazzo, mi hai fatto bere troppo» le dico girandomi a guardarla con finta aria di rimprovero, poi riprendo a camminare. Con lei non c’è mai il rischio di contenersi. Intendo dal punto di vista dei ricostituenti. Cibo, fumo e alcol all’ennesima potenza. Raggiungo a stento il grande armadio guardaroba bianco, coperto di scritte multicolori - “Teppismo ultima frontiera” è quella che preferisco - apro uno sportello e mi infilo praticamente dentro al mobile. Sono magra io. Sfido, sono due anni che non mangio. A qualcosa servirà pure il digiuno. Eccomi, riemergo. Ho in mano una grande scatola di cartone


10 giallo che ne contiene un’altra, uguale ma più piccola, che contiene a sua volta un pacchetto avvolto in una sciarpa giallorosa. Debora con un guizzo mi strappa di mano l’involucro. Le due pistole ora sono per terra. Davanti a noi. Debora prende ad accarezzarne una con la punta delle dita, piano, dolcemente. Le piace, Dio se le piace. «È bellissima» dice con l’aria estasiata. Questo è amore. Ci abbracciamo, compiaciute ed emozionate. La stanza si sta lentamente trasformando in un camera a gas, invasa dall’odore acre, molto intenso dell’hashish. Ma chi se ne frega. Abbiamo le creature. «Sei sicura che tuo padre non torna?» «Dai. Ancora? Ma non l’hai capito?» Gioco a fare la modella in mezzo alla stanza, l’espressione impostata e una sigaretta in mano. Debby non è come me, arriva sempre in ritardo al punto. «Quello non si accorgerebbe nemmeno se mi facessi una canna davanti a lui. È fuori! Da quando mia madre se n’è andata, vive come uno zombie. E comunque sta a Milano e torna domani. Un viaggio di lavoro dice, ma ti pare che uno lavora di domenica? C’avrà una storiella con qualche nordica.» Debora continua a giocare con la pistola davanti allo specchio. Allunga il braccio e punta l’arma verso la sua immagine riflessa, mirando al cuore. «Allora, che ne dici? Non ti sembro l’incredibile woman?» «Wonder Woman. Sì, sì. Ecco chi sei. Non vedo l’ora di vedere la faccia di Eleonora domani. Che ne dici di un murder party? Dai, mettiamo altra musica. Che vuoi sentire adesso? Marylin Manson o the Killers?» «Metti quello che vuoi. Sono troppo felice. È troppo bello!» E mentre parla Debora ha preso a ballare stringendo la pistola tra le braccia come se fosse un partner immaginario, disegna piroette nell’aria sorridendo e mostrando la lingua con fare irriverente. Cocaine da tempo, come infastidito dall’odore e dal volume dello stereo, si è spostato in un’altra ala della casa. Ha lasciato solo i suoi peli da persiano nell’aria e sul tappetino. «Te lo giuro Debby. Faremo un figurone.» «Un’altra canna?»


11 Eccola la mia incredibile girl. In un lampo si è seduta di nuovo alla scrivania e sta bruciando con l’accendino la piccola punta di fumo avanzata. È compulsiva. «Secondo me così non arriviamo a domani. Mi si chiudono già gli occhi» dico preoccupata e rassegnata. Quando Debby parte, parte. E non c’è modo di darle un freno, come con il mangiare. Lei fuma e mangia nello stesso modo. Ma non mi va di discutere oggi. «Sono le ultime che facciamo. Che ti frega?» Ci siamo fermate improvvisamente, come colpite da un fulmine, e ora ci guardiamo negli occhi. Morire io non so cosa vuol dire. Ma morire di certo è meglio che vivere. «Morire per un’idea. Per dimostrare che siamo uguali ai maschi. Non sarà mica una stronzata?» «No.» «Dai. Non hai paura?» «No.» «Bene. A proposito di maschi. Hai messo Alessandro nella lista? Non lo reggo. Ha cercato di toccarmi il culo. Gli puzza l’alito, di sicuro pure i piedi. E si veste da vomito. Lo devi fare secco.» «Stai calma Silvia. Abbiamo la lista, la rispetteremo. Adesso ripassiamo il piano. Poco prima della ricreazione tu chiedi di andare in bagno, appena fuori prendi le creature dallo zainetto, ti prepari. Io arrivo e mi dai la mia. Apriamo la porta entriamo in classe e cominciamo a sparare. Se ci va bene almeno due o tre aule le ripuliamo.» «Dai. Sicura che non hai paura?» «Piantala!» «Bene, perché se ci ripensi ti ammazzo io.» Lo penso sul serio. Non possiamo tornare indietro, è tutto già scritto. Lo abbiamo deciso, è la nostra grande occasione, non avremo mai più una chance del genere, però - non posso dirlo a Debora - ho un po’ paura. E se le cose non andassero come abbiamo progettato, se ci fosse anche un solo imprevisto, un errore, un problema non calcolato? Ma non ci devo pensare adesso. Adesso ho il moto perpetuo, ho ripreso a camminare nella stanza con la mia andatura incerta e vorrei essere mille miglia lontana da qui. Guardo fuori dalla finestra, a spiare le abitazioni del palazzo di fronte. Si è fatta l’ora di cena, ci sono donne che


12 apparecchiano la tavola, piccoli gesti affrettati che sanno di casa, di vite tranquille, di abitudine. Vorrei essere là, in una di quelle stanze, giocare a fare la brava bambina con la mamma. Ma io sono una cattiva ragazza. Io non mi fermo, vado. Debora non capisce, mi scuote per un braccio e mi riporta al presente semplicemente passandomi il suo cellulare. Se guardi un telefonino sai subito che tipo è la persona che lo ha scelto. Quello di Debby è rosa, cicciotto, anonimo. Come lei. «Riguardiamoci il video che domani mattina prima di uscire lo mandiamo a Youtube.» «Il finlandese c’ha fregato l’idea.» «Sì ma il nostro è più bello, Silvia. Sei un genio.» «Dai. È stato un giochetto da ragazze.» Davvero un giochetto, fin troppo facile. Ho preso il filmato che avevo girato lo scorso anno nel giardino dell’asilo vicino a casa. Chissà perché quella scena mi ha colpito tanto. Mi dava un senso di pace, di ritrovata tranquillità. C’erano una decina di bambine con i grembiulini bianchi e azzurri a fare un girotondo, cantavano serene. Ridevano come se niente potesse toccarle. Ho rielaborato quel video al computer ore e ore, tentando di fare una dissolvenza. Alla fine ho semplicemente bloccato l’immagine, lasciando lo schermo nero e ho aggiunto il suono degli spari in lontananza, la musica della “Morte del Cigno” e infine la scritta “Mai più differenti”. Dovevo fare la regista, altro che latino e greco. Io sono il cinema. «Un giochetto solo per te!» «Sei sicura che lo trasmetteranno?» «Scherzi? Sei un mito!» Sono di nuovo felice. Lo siamo tutte e due, ci abbracciano, torniamo a sederci alla scrivania e finiamo il Bayles rubato nel mobile bar mentre i nostri occhi piano piano cominciano a chiudersi. Saggio ancora un po’ il terreno. «Così domani avrò diciassette anni e una bella festa con tanto di fuochi d’artificio. La più bella di tutte!» «Ci puoi giurare.» Debby è strafatta e serena, io mi sono alzata di nuovo, mi sento un leone in gabbia. Ora sono davanti al grande cartellone arancione dove sono raccolte le foto di tutta una vita. Il primo vagito in braccio alla mamma, il primo giorno di scuola, il primo fidanzatino, la gita con gli scout, la prima minigonna. Cazzo. Ho voglia di sputare.


13 «Dai. La vedi questa? È mia madre qualche secolo fa, quando sembravamo la famiglia del Mulino Bianco. Io, lei e papà. Patetici. Poi è arrivato quel tizio che se l’è portata via. Domani, proprio domani, fanno due anni che non la vedo. Mi ha fatto pure un fratello che non conosco. E lui è straricco, vive in una villa a Londra. Capisci? Io non ho neanche il motorino… Accidenti, guarda questa foto, me l’ero dimenticata. Guarda bene, sono io a tre anni con una pistola giocattolo in mano.» «Te li immagini quei rompicoglioni degli psicotutto? Diranno che sei nata per questo, che hai la sindrome del serial killer.» «Dai, speriamo che mi prendano per Giovanna D’Arco. Andiamo a letto?» «Sì, mi si chiudono gli occhi.» Ci siamo accomodate sul letto vestite, sopra la coperta, una con la testa da una parte, l’altra sdraiata in senso opposto. «Buon compleanno Silvia.» «Sarà la festa più bella del mondo.» «Te lo giuro. Però promettimi che domani mattina, prima di andare a scuola, caschi il mondo, ci trucchiamo.»


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Giovani e belli “Ma nella fantasia ho l’immagine sua, gli eroi son tutti giovani e belli, gli eroi son tutti giovani e belli.” (“La locomotiva”, Francesco Guccini)

Uno, due, tre, cinque, sette. Il commissario Renato Pascucci ancora non riusciva a crederci. Continuava a pensare a quei corpi distesi a terra, ai volti dei ragazzini sotto choc, ai genitori disperati, agli insegnanti attoniti, storditi dai sensi di colpa e dall’angoscia e si ripeteva che mai, nella sua vita professionale, gli era capitato un caso del genere. Aveva conosciuto assassini e stupratori, ladri aristocratici e piccoli criminali, spacciatori raffinati e badanti truffate, aveva visto accuse partire e tornare al punto di partenza, prostitute bambine e adolescenti violate, ma non si era mai ritrovato davanti a un liceo sconvolto da una strage tra coetanei, per altro minorenni. Mai si era ritrovato davanti a quell’orrore. Una specie di incubo diventato realtà. Giorni e giorni ad ascoltare sempre le stesse parole e a prendersela con il mondo circostante, su e giù tra la scuola e l’ufficio, di corsa, bersagliato dai cronisti. Persino il ministro dell’interno, l’eccellentissimo dottor onorevole Mario Montanari, lo aveva chiamato sul cellulare, di persona, senza passare attraverso la segreteria, per chiedergli una spiegazione e una risoluzione immediata della vicenda. Aveva una voce grave e composta. La voce che ti aspetti da un uomo di governo. Poche frasi secche, decise. “I genitori devono mandare tranquillamente i figli a scuola, lo capisce vero? Non può passare l’idea che ora si possa sparare tranquillamente in classe e nemmeno quella che io debba inviare dei militari all’ingresso di ogni istituto. Metta ordine in questo caso, prima possibile. Scopra almeno come quelle squilibrate hanno trovato le pistole. Qualcuno deve avergliele date, non le pare? Non è così facile procurarsi delle armi in Italia. Non siamo mica negli Stati Uniti. Lì


15 sono abituati alle stragi nei college. Trovi quel criminale che gliele ha date. Prima possibile. Dobbiamo mettere un punto… lo ripeto, prima possibile.” Il commissario aveva abbozzato un “Sarà fatto”, spegnendo il telefonino con un vago senso di fastidio. L’eccellentissimo dottor Montanari non aveva certo detto ufficialmente che il suo incarico era appeso a un filo, non lo aveva minacciato di trasferirlo in una qualche sede lontana, ma il tono non ammetteva repliche. Era tutto implicito. Era implicito che l’opinione pubblica dovesse essere placata, era implicito che sarebbe toccato a lui trovare il modo. Immediatamente. Pascucci aveva alzato le spalle, rassegnato, lasciando sul tavolo il cellulare. Il potere non gli era mai piaciuto, gli ordini nemmeno. E ora, davanti allo specchio, mentre litigava con il nodo della cravatta, Renato pensava, tra rabbia e tenerezza, alla giornata che lo attendeva, alle parole che avrebbe dovuto dire, agli interrogatori che avrebbe dovuto condurre e soprattutto a Silvia e Debora. Al segreto che quelle ragazzine si stavano portando via, senza appello. Alla morte che avevano seminato. Ai loro volti da bambine troppo truccate. Ai loro volti da bambine, nonostante tutto. Per quanto si sforzasse di capire, di cercare un movente, una spiegazione qualsiasi, il mondo in cui era maturata la tragedia rimaneva per lui un enigma. Non riusciva a capire. Più di trent’anni di età, il ruolo sociale e soprattutto la scelta di parte scavavano un solco invalicabile tra di loro. Silvia e Debora erano due ragazzine drogate che sparavano sui compagni di classe, lui era il commissario che scortava i ragazzini, se necessario, davanti al tribunale dei minori. In comune avevano solo l’amore per la musica italiana e il fatto di essere entrati, prepotentemente, da protagonisti, in una pagina di storia cittadina che sarebbe stato impossibile dimenticare. Silvia e Debora e gli altri amici - adolescenti incolpevoli che avrebbero dovuto solo spalancare occhi curiosi sulla vita e che invece li avevano chiusi per sempre - in qualche modo erano diventati leggenda. “Gli eroi son tutti giovani e belli” si ripeteva il commissario che invece si sentiva un uomo drammaticamente banale ed era un po’ più triste guardandosi allo specchio, agghindato come un impiegato di banca. Indossava completi importanti solo per gli eventi eccezionali. Per andare al lavoro, tra la gente, preferiva polo a maniche lunghe o camicie lasciate sportivamente sbottonate, le sole capaci di consentirgli la finta aria dinamica che lo faceva sentire al passo con i tempi, più


16 vicino al mondo con cui doveva confrontarsi. Eppure quel giorno, per il funerale, si era imposto un sobrio abito nero. Era un debito che aveva con i ragazzi. Così agghindato era pronto ad affrontare anche il rischio di essere riconosciuto: nella migliore delle ipotesi ciò gli sarebbe costato una conversazione imbarazzante con familiari, docenti e curiosi. Gli avrebbero chiesto, con aria di circostanza, a che punto erano le indagini a una settimana dalla strage, come era potuto accadere e perché. Il commissario Renato Pascucci, una vita passata a correre dietro a ladri e criminali, a risolvere enigmi e omicidi in una delle zone più benestanti e turistiche della capitale, non avrebbe saputo come rispondere, quali indicazioni fornire, come deviare il discorso. Nella peggiore delle ipotesi, invece, si sarebbe trovato circondato da giornalisti armati di telecamera e microfono, pure loro sempre più giovani, incalzanti, in cerca di uno scoop per sfondare. “Ci dia almeno una battuta” gli dicevano accerchiandolo imploranti. Lui li avrebbe dribblati in corsa, allungando la mano a mo’ di scudo per ripararsi dagli obiettivi, senza dire nemmeno una parola. Sarebbe arrivato il tempo delle dichiarazioni e delle conferenze stampa, dei chiarimenti e delle battute. Occorreva aspettare. Solo aspettare e indagare. “Gli eroi son tutti giovani e belli” si ripeteva e inevitabilmente con il pensiero accarezzava suo figlio, Stefano. Il ricordo era sempre lì. “Ma nella fantasia ho l’immagine sua” aveva scritto Guccini. Anche a lui bastava chiudere gli occhi per veder entrare dalla porta un ragazzone alto, con la chitarra in mano, i capelli biondo cenere arruffati sulla fronte, come se si fosse appena alzato dal letto. Anche lui innamorato della musica come tutti gli adolescenti, pronto a strimpellare fino a notte fonda miscellanee di accordi. “Allora, pa’? Mi porti domenica alla partita?” E lui a ridacchiare, lui che le partite le doveva controllare, vigilando che altri giovanotti dell’età del suo bambino non si facessero male, non venissero alle mani o peggio ancora alle spranghe. “Ancora? Perché non vai con i tuoi amici, Stefano? Lo sai che devo lavorare.” “Ma una volta mi piacerebbe andarci con te.” “Io lavoro, non posso certo prendere le ferie per accompagnarti alla partita. Ti rendi conto che sei diventato grande?” “Hai ragione pa’.”


17 Ecco se ne andava deluso, l’andatura lenta da un bighellone annoiato. A sedici anni cosa puoi fare di più che andare a scuola, sognare le vacanze e un pomeriggio di sole a bearti di goal? Bastava che Renato riaprisse gli occhi poi e tutto lo scenario cambiava, il ricordo cominciava a contorcersi senza speranza, poi si delineava. Arrivava quel pomeriggio, un altro sole, altre parole. Lo avevano portato in macchina d’urgenza all’Aurelia Hospital, in un silenzio ovattato che già diceva tutto. Sedici anni, davvero troppo pochi per andare via. Il commissario non si era mai rassegnato a quell’addio, improvviso, inaspettato, ingiusto. Era rimasto immobile a guardare un lenzuolo sporco di sangue. Anche allora, chissà perché, gli era venuta in mente “La locomotiva”. Aveva rimuginato la canzone di Guccini per anni, gli saliva sempre dalla pancia nei momenti importanti. La rabbia di un uomo contro la locomotiva, contro il progresso che cambia i miti e ruba il lavoro, la rabbia di chi non riesce a trovare un posto nella società. Bisogna essere giovani per sentirla e portarla avanti. Lui l’aveva provata quando studiava legge alla Sapienza e c’era il movimento del ‘77. Sarebbe bastato poco per scivolare dalla parte dei terroristi, di chi lotta contro il potere. Il commissario Renato Pascucci no, lui aveva imboccato la porta giusta, aveva deciso di combattere in nome delle istituzioni, della legge per cambiare le regole. Nel libro dei sogni di un ventenne si vedeva come una specie di Robin Hood pronto a sconfiggere le ingiustizie e punire i ricchi. La sua idea rivoluzionaria, lo sapeva, era stata poi travolta dagli eventi, naufragata dietro alla realtà, le cause perse, le volte che non era riuscito ad assicurare il colpevole alla giustizia o peggio ancora lo aveva visto assolto sui banchi del tribunale. Ma morire a sedici anni no. È allora che si percepisce con forza l’ingiustizia della vita. Quella mattina, sette giorni dopo la “strage delle bambine” - così l’avevano battezzata i giornalisti con titoli a nove colonne - la rabbia della locomotiva era di nuovo tutta sua. Sotto quel treno si sarebbe buttato volentieri per protestare contro l’era di Youtube e dei ragazzini con le armi in mano, una specie di moderno Don Chisciotte che deve lottare contro una realtà che non comprende e che non riesce a fermare. E gli toccava anche, ora, assistere al funerale. Risentire un’altra volta l’odore d’incenso e le campane a morto, rivedere lacrime e abiti neri, compatire genitori sul punto di svenire, prendere su di sé urla e parole non dette. Conosceva bene lo strazio estraniante di quel giorno lungo


18 come tutta una vita. No, non c’era Stefano da piangere stavolta, ma uguali sarebbero stati i “non è possibile” bisbigliati a mezza voce, lo stupore negli sguardi, la sorpresa attonita che porta la morte quando arriva imprevista; un attimo capace di fermare per sempre il domani. Avrebbe trovato in chiesa altri ragazzi, altri occhi inquieti da consolare, altri genitori piegati dal fato o da un Dio crudele. Cinque bare insieme, e così tante lui non le aveva mai viste. Ragazzini e ragazzine di quindici e sedici anni, insieme alla loro docente, una donna che aveva la sua stessa età, appena cinquantadue anni. E per lui la tragedia non sarebbe finita lì. All’obitorio c’era un’altra adolescente ancora da seppellire, quella Debora già condannata dagli eventi, e di certo non le avrebbero riservato un funerale con tanto clamore. Presto poi la avrebbe seguita anche la sua complice, Silvia, la mente della strage. La diagnosi del primario del Santo Spirito era stata chiara: coma irreversibile. Il dottor Spezziani aveva guardato Pascucci negli occhi e gli aveva detto allargando le braccia: “Non si aspetti verità da lei. Non parlerà mai più. È già un miracolo che respiri.” Il commissario aveva sempre più voglia di urlare. Il dolore lo conosceva bene, il dolore di un genitore straziato, di una madre pronta al suicidio pur di non affrontare il distacco, le lacrime che riempiono le ore, i ricordi come una zavorra che non ti lascia più. Empatia, ecco quello che sentiva. Ma cinque dolori devastanti uniti insieme non sapeva come contenerli. Per non parlare della disperazione dei compagni di scuola che sarebbero arrivati in massa a riempire la chiesa di Santa Maria in Traspontina, a due passi dal Vaticano su via della Conciliazione. Persino il papa nell’udienza generale del mercoledì aveva avuto parole di commozione e sdegno per quella strage. “Badate ai vostri giovani, amateli, proteggeteli” aveva sentenziato sollevando le braccia al cielo. Un dramma, così, si diceva Pascucci, non aveva mai nemmeno pensato che potesse accadere, a Roma, in un liceo per bene, frequentato dai figli dei borghesi di Prati-Borgo. Sentiva gli occhi del mondo addosso. Doveva risposte a tutti. «Allora hai davvero deciso di andare?» Sua moglie Paola era entrata silenziosamente nella stanza con in mano una tazzina di caffè. Girava il cucchiaino con aria attentamente distratta. «Per forza.»


19 «Sarà dura.» «Non posso evitarlo.» «Poveri ragazzi, non riesco nemmeno a pensare ai loro genitori. Perché pensi lo abbiano fatto? Voglio dire, cosa spinge due ragazzine a uccidere i loro compagni di classe?» «Non lo so… azzardo… rabbia, dolore, invidia, stupidità, incoscienza. E questo poi per me è davvero l’ultimo dei problemi. Chi ha dato loro le pistole? Come hanno progettato tutto questo? Lo devo scoprire se mai ci riuscirò… mah, spero di trovare qualche risposta, di mettere la parola fine a questo sconvolgimento. Non ne posso più. Lo sai che ieri mi voleva intervistare una troupe di El Arabia, la televisione araba? Ti rendi conto? Ah, lo dico sempre io… gli eroi sono tutti giovani e belli.» Paola gli aveva teso la tazzina e si era seduta sul bordo del letto, i capelli ancora arruffati dal trauma del risveglio, gli occhi semichiusi, la vestaglietta azzurra aperta in modo innocente sul pigiama dello stesso colore. Alzò le sopracciglia sorpresa. Cinquant’anni le erano passati addosso con rancore, come un ciclone. La morte di Stefano aveva fatto il resto. L’aveva spogliata di ogni attrattiva. Così struccata, con le rughe che le segnavano precocemente il volto, somigliava a una di quelle vecchie signore che trovi nei paesi, sedute davanti all’uscio a guardare il passeggio e fare commenti. «Non sono mica eroine.» Renato si era girato a guardarla con stanchezza. Non riuscivano a capirsi. Forse doveva solo arrendersi alla realtà. Non avevano più nulla da dirsi. Stefano si era portato via anche il senso del loro stare insieme. «Veramente parlavo dei loro compagni.» «Anche loro se ne sono andate.» Sua moglie non usava mai la parola “morte”. «Le stragiste? Una è ancora viva. È in coma, in ospedale.» «E i genitori?» «Come noi.» «Non ci provare. Stefano era un bravo ragazzo.» «Già.» Si era alzata con decisione, voleva allontanarsi in fretta dal marito e dalla sua incombente presenza. Paola aveva solo bisogno di un’altra giornata di niente da gustare fino all’ultimo. Quella strage di adolescenti la faceva star male, ancora di più del solito se necessario. Riapriva le ferite, lasciava altre domande senza risposte. Doveva solo


20 trovare il modo di impegnare il tempo. La casa da sistemare, gli abiti da lavare, la spesa al supermercato. Come un automa, andare, venire, abbozzare un sorriso, fingere. Fingere di vivere quando ormai era solo borderline, in perenne oscillazione tra il presente e il passato. Senza futuro. Il futuro se lo era portato via un incidente stradale, una domenica di luglio, al mare. Non le era rimasto nemmeno un motivo per sentirsi in colpa. Anche quel privilegio le era stato negato. Quale poteva essere stato il suo errore, la sua complicità con l’accaduto? Certo, avrebbe potuto rifiutarsi di comprare il motorino al figlio, ma sarebbe stato come nasconderlo sotto una campana di vetro, impedirgli di vivere come un qualsiasi sedicenne. E poi Stefano aveva insistito tanto. “Userò le moto dei miei amici, te lo giuro. Starò seduto dietro sul sellino ed è più pericoloso. Non sono mica un bambino. Indosso sempre il casco, rispetto il codice, non bevo e non mi drogo. Perché non posso essere come gli altri? Tutti i miei amici hanno il motorino. Perché io no?” Era un bravo ragazzo, diceva Paola per consolarsi. Un bravo ragazzo serio. Non lo avevano fermato la droga, una pistola o un errore umano. Solo il destino. Quella domenica, chissà per quale motivo, forse accecato del sole, aveva sbandato con le due ruote, finendo contro un albero sull’Aurelia. Paola era a casa, a guardare la televisione, il marito al lavoro. Li avevano raccolti in volata con la macchina di servizio, avvolti di pietose bugie per tutto il viaggio, portati in ospedale, accompagnati poi in una saletta riservata, vicino ai locali del piccolo pronto soccorso. La notizia, il gelo, l’orrore di quel momento. Non ricordava più cosa aveva detto, né come era caduta in terra. Risentiva solo il suo urlo, quel no gridato contro il cielo. Aveva sperato per tutto il viaggio di trovare Stefano vivo, ferito forse, ma vivo. Il suo bambino da consolare e abbracciare, da stringere e curare. Tutte quelle inutili parole bisbigliate dai colleghi di Renato. Non c’era niente più da sperare. Se non avessi detto sì al motorino, se gli avessi impedito di raggiungere gli amici al mare, se… Tutti i se del mondo non servivano a nulla. Paola lo sapeva, non gli avrebbero restituito il suo bambino. Era stato allora che aveva smesso di credere a Dio. Lo aveva sostituito con psicofarmaci e sonniferi. Li usava la sera per dormire, qualche volta di nascosto anche durante il giorno. Le davano la forza di andare avanti. Imbambolata forse, ma presente.


21 Sei anni dopo, per lei, era come se il tempo si fosse fermato. Stefano le era vicino, aleggiava in casa. Paola non lo avrebbe mai ammesso con nessuno, ma sapeva, sentiva che era ancora vivo. Presente. Qualche volta ne percepiva distintamente la voce in sala, imponente e nasale. “Mamma, hai stirato la felpa blu che sono in ritardo? Dove hai messo i miei calzini?” Non correva più a cercarlo come i primi tempi, quando si aggirava per le stanze con il fiato in gola vagando come un’invasata dietro a quel bisbiglio. Apriva le porte e si guardava intorno. Lo cercava persino sotto le poltrone, dietro alle tende, dentro agli armadi. Stefano era lì lo sentiva, nascosto da qualche parte, pronto a uscire se solo lei avesse trovato il modo per stanarlo. Allora, e solo allora, avrebbe potuto guardarlo di nuovo negli occhi, abbracciarlo, piangere per la gioia, uscire dall’incubo. Invece ogni volta finiva la sua corsa disperata nella camera da letto del figlio. Lì si fermava attonita. Lì si risvegliava dal sogno. Lì abitava il ricordo. Tutto era rimasto come quella domenica, il letto con le lenzuola immacolate, i libri poggiati disordinatamente sulla scrivania, la chitarra in un angolo, il registro delle firme del giorno del funerale. Allora, e solo allora, Paola capiva di nuovo che se ne era andato per sempre e si gettava per terra in lacrime. Quando si rialzava, quando l’uragano di dolore e pazzia la lasciavano libera e la restituivano di nuovo al mondo dei vivi, si sentiva come senza forze e rimetteva la maschera sul volto, per tornare a fare la brava moglie silenziosa e discreta. A Renato non aveva più nulla da dire. Bastava stirargli le camice con più zelo del solito per renderlo felice. Sei anni dopo Paola aveva imparato a dominare sia il marito sia il figlio. Quando sentiva la voce di Stefano rincorrerla per casa portava le mani alle orecchie e si ripeteva che era solo una sua fantasia. Sospendeva ogni attività, rimaneva con il ferro sospeso in mano o la scopa immobile nell’aria e respirava forte, contenendo la voglia di andare incontro a quel bisbiglio, cercare ancora una volta il suo bambino, abbracciarlo, stringerlo a sé, guardarlo negli occhi, sorridere di niente come quando era piccolissimo e gli cambiava il pannolino e lui scalciava nell’aria facendo i versetti dei neonati. Si era convinta che i misteriosi suoni che avvertiva ogni tanto in casa fossero solo un ultimo atto d’amore. Stefano, dalla galassia misteriosa che lo aveva inghiottito, voleva solo farle sapere che non l’aveva abbandonata, che era lì, sempre e comunque, che non aveva tagliato il cordone


22 ombelicale. Allora Paola bisbigliava piano “Ste’ ” e si sedeva sulla poltrona, immobile ma con tutti i sensi vigili, nella speranza di intravedere un’ombra, una luce, un cenno. Lasciava passare le ore sognando che si facesse vivo di nuovo. In silenzio. Le lacrime, le sue lacrime, si fermavano proprio dentro agli occhi, non avevano nemmeno la forza di scendere giù e bagnare le guance. Non diceva più il nome del figlio per esteso, non sussurrava più al marito, come aveva fatto le prime volte, che Stefano era passato a trovarla. Aveva paura di essere presa per pazza, aveva paura di esserlo davvero. Rimaneva immobile, allungando la mano verso il niente. Solo suo figlio poteva prendere quella carezza postuma. «Già» fece eco al marito, sulla porta, scivolando via in fretta senza aggiungere altro. «Non tornerò a pranzo. Forse nemmeno a cena, devo lavorare come un matto in questi giorni» le gridò dietro Renato. Neanche lui si voltò a guardarla. Era distratto. Aveva smesso da tempo di preoccuparsi per la salute mentale della donna, aveva smesso da tempo di occuparsi di lei. I primi tempi sì, i primi giorni dopo la morte di Stefano aveva cercato di abbracciarla, di condividere emozioni e parole. Ma Paola era troppo lontana e lui era, a sua volta, a un passo dalla follia. Per giorni e giorni non si era fatto la barba, non si era lavato, non era andato a lavorare. Aveva scavato un solco sul letto per il tempo passato a fissare il soffitto cercando l’immagine del suo bambino. Lo rivedeva sul campo di calcetto correre con la felicità e lo sforzo fisico stampati sul viso, lo ritrovava con la chitarra in mano che gli chiedeva spiegazioni su un accordo o in macchina a cantare a squarciagola le canzoni di De Andrè dietro a un vecchio musicassette. Renato piangeva, muto. Paola si agitava nella stanza, muta. Non si avvicinava mai. Piangeva e stirava camice. Qualche volta confidava a Renato con aria complice che Stefano era tornato e le parlava. Lui la guardava alzando le sopracciglia. Sfiorarsi mai, l’intimità apparteneva a un’era passata. Aveva paura di toccarla, di prendersi anche il suo male sulle spalle. Aveva paura che potessero contagiarsi a vicenda della malattia che porta la morte. Poi, per un tacito accordo, lei aveva smesso di raccontargli le sue allucinazioni e Renato era tornato al lavoro, vestito da commissario, lavato e profumato. Come se tutto fosse stato un brutto sogno. Solo i suoi capelli erano diventati d’un colpo bianchi, avevano perso consistenza e vigore. E il viso di Paola aveva raccolto i


23 segni del tempo, le rughe si erano sparse d’un tratto intorno agli occhi e alle labbra. La scomparsa di un figlio è qualcosa di devastante, una ferita che spacca in due. Non si guarisce, non si accetta. Si impara solo a convivere con il dolore come si sopravvive a un’amputazione. La sera a casa, dopo la cena, Renato guardava la televisione in sala mentre sua moglie sfaccendava in cucina, con un altro apparecchio acceso su un qualche sceneggiato familiare. La notte il letto era una piazza d’armi dove era impossibile incontrarsi, uno girato verso sinistra, l’altra verso destra. In silenzio avevano scelto anche di non andare mai più al mare. Di non percorrere mai più, nemmeno per caso, l’Aurelia. “Gli eroi sono tutti giovani e belli”. Renato aveva cantato mille volte questa canzone, pensando a Stefano e con questa citazione in mente aveva iniziato a scrivere la sua prima lirica, una sera di fine ottobre. “A te, figlio mio, che eri giovane e bello…” Un commissario che canta canzoni e scrive poesie non è proprio normale, si diceva colpevolizzandosi, ma poi si assolveva. Ci sono commissari che scrivono romanzi e diventano pure famosi e ci sono quelli che vanno a pescare. Lui aveva l’animo dell’artista in un corpo votato per scelta all’ordine e al rispetto della legge. Un Cyrano dei nostri giorni, con la divisa a nascondere la passione interiore. E il poeta che viveva in lui non smetteva di fantasticare. “Non saprò mai come saresti stato da adulto” pensava soffermandosi davanti alla foto di Stefano, una gigantografia che lo ritraeva mentre strimpellava la chitarra. Paola aveva voluto sistemarla proprio in camera da letto, vicino allo specchio. L’intera casa parlava del ragazzo morto. Sua moglie aveva disseminato immagini e ricordi in ogni stanza, persino al bagno, sopra il mobiletto delle medicine aveva costruito un altarino. Ogni giorno la donna accendeva una candela, ogni settimana cambiava il mazzetto di fiori freschi nella camera del ragazzo. C’era sempre una ricorrenza. Diventava impossibile per Renato non andare continuamente con il pensiero a quel figlio di cui non si poteva parlare. Uscì di casa immaginando mentalmente il suo volto. Si somigliavano fisicamente. Come sarebbe stato, oggi, a ventidue anni, quale facoltà avrebbe scelto, avrebbero discusso di politica, per la meta delle vacanze e per le sue amicizie? Ipotizzò il piacere sottile che avrebbe avuto accompagnandolo la mattina agli esami o nel chiedergli complice e solo apparentemente distratto: “Torni a cena stasera?”


24 Dove aveva sbagliato? Perché Stefano non c’era più? E questo pensiero lo rimandò al dolore collettivo che stava per affrontare in chiesa, davanti ad altri genitori con lo stesso male. Doveva a loro un lavoro eccezionale, almeno una certezza. Chi aveva dato le pistole a Silvia e Debora? Come era nato tutto quel putiferio e perché era stato sparso del sangue nelle aule di un liceo romano? Perché? Trovare risposte non avrebbe cambiato il corso della storia, ma forse avrebbe evitato che ci fossero nuove stragi in altre scuole. E poi doveva esserci per forza un colpevole nascosto. Forse più di uno. Già con il pensiero individuava almeno due complici di quell’esecuzione: il proprietario delle armi usate dalle due stragiste e il pusher che dava loro la droga. Salì sull’auto di servizio immerso nei pensieri e si diresse, con il cuore in gola, verso la chiesa. Aveva scelto di arrivare in anticipo, prima dei carri funebri, per non doversi poi far scortare all’interno. Fece lo stesso fatica a entrare tra la folla prima che arrivassero le bare. Bare bianche, trascinate a fatica dai ragazzini sopravvissuti alla strage, toccate al passaggio, sfiorate delicatamente come si fa con le immagini dei santi, baciate dalle lacrime, tra applausi struggenti, intensi. In sottofondo una lentissima nenia suonata alla chitarra. Ci volle qualche minuto prima che la devastante processione percorresse la navata. Una, due, tre, quattro, cinque. Ci volle qualche minuto prima che la chiesa ritrovasse una parvenza di ordine studiato dalla regia dei sacerdoti e dei docenti. Con i genitori delle vittime accasciati ai primi banchi, le mani nelle mani, fino a fondersi in un dolore che non aveva né inizio né fine. Centinaia di persone si accalcavano all’ingresso, l’odore forte dei fiori e dei lumini accesi invadeva l’aria, il bisbigliare sommesso riempiva il grande interno della chiesa. Sulla sinistra, a metà della navata, la statua della Madonna del Carmelo con il bambino in braccio era illuminata da una moltitudine di candele, accese senza sosta da madri e studenti disperati, ma ciò che lasciava davvero senza fiato erano le immagini dei ragazzi che dominavano l’ambiente. Su ogni bara era stata appoggiata una gigantografia. Il fotografo che si occupava delle istantanee di gruppo a scuola aveva realizzato dei piccoli gioielli, un lavoro in tempo record commissionato dalla preside dell’istituto. Il commissario si perse a guardare quei ritratti, riconoscendo in ognuno di loro le “sue vittime”. Eleonora, la prima guardando da destra, rimandava un viso bellissimo, dai lineamenti delicati. Aveva capelli rossi e ricci e occhi di un verde intenso. Quasi tutti gli studenti avevano ripetuto a Pascucci che era lei il


25 vero obiettivo della strage, che Silvia e Debora l’avevano presa di mira dal primo giorno di scuola, minacciata e umiliata. La ragazzina che sorrideva davanti all’obiettivo invece sembrava serena e felice, una giovane adulta consapevole del suo fascino, sicura nell’affrontare la vita. La bara, ai piedi dell’altare, era completamente coperta di rose gialle e margherite bianche. Proprio lì davanti qualcuno aveva appoggiato uno zainetto rosa, accanto alla scritta dei compagni di classe: “Non ti dimenticheremo.” La spianata di feretri era impressionante, Pascucci la guardava come un incubo. Accanto a quella di Eleonora era stata disposta la bara di Luca, anche questa coperta da margherite rosse e gialle. Sopra, la divisa della Roma con cui il giovane probabilmente giocava a pallone. C’era anche la maglia del capitano autografata. Era un ragazzo di origine marocchina Luca, la pelle leggermente scura, i capelli neri folti e ricci, due occhi scuri, intensi, furbi, audaci e vivaci. “Un peperino” si disse il commissario osservando la gigantografia. E poi veniva Alessandro, che invece sembrava un bulletto di quelli che si incontrano all’uscita dell’Olimpico, con la birra in mano e le canne nascoste nel taschino. Aveva un piercing sul sopracciglio destro e la capigliatura arrangiata in su con il gel, secondo la moda del tempo, un sorriso da sfida, occhi spalancati a guardare il fotografo. Ai piedi della bara c’erano dei pattini a rotelle, la scritta degli amici: “Ti aspetteremo sempre, te, i tuoi roller e gli scherzi. Quelli della Mole Adriana”. Il visino minuto di Alessia faceva pensare più a una bambina che a una liceale. Lunghi capelli neri che le incorniciavano il volto, un sorriso timido, l’aria spaventata. Anche per lei in tanti avevano portato dei fiori, ma questa volta girasoli e c’era uno spartito musicale a ingentilire l’addio. Non c’era nessuna fotografia della professoressa Rossigni invece, forse non era stata trovata, forse la sua morte era avvolta da una sorta di riserbo, si sorprese a pensare Pascucci. Di sicuro era passata in secondo piano sui giornali e nei vari speciali televisivi, tutti gli articoli e i servizi erano dedicati agli adolescenti. Il trauma collettivo era ancora nell’aria a sette giorni dalla “strage delle bambine”. Sulla bara della docente, l’unica color mogano, fiori di campo e numerosi post-it gialli, scritti a mano dagli studenti. Il commissario, seduto discretamente sui banchi della navata sinistra, quasi a metà della chiesa per confondersi con la massa, ascoltava in


26 silenzio i bisbigli e la predica incalzante di Don Mario, il parroco, che chiedeva perdono e preghiere per le due assassine. «Anche loro sono delle vittime e hanno già pagato. Una è morta, l’altra sta morendo. A noi rimane il compito amaro di fare mea culpa e riflettere sul livello di barbarie che abbiamo raggiunto.» Renato annuì discretamente, girando leggermente lo sguardo intorno a sé. I ragazzi del quinto E erano seduti subito dopo genitori e parenti, la maggior parte non riusciva a contenere le lacrime. Il corpo docente aveva trovato posto dalla parte opposta della chiesa. Espressioni attonite, volti scavati. Si chiese se fosse il caso di infierire così su persone già tanto provate dagli eventi. Avevano un fardello troppo pesante da portare. Ma il prete proseguiva inflessibile. Era un uomo alto e possente dai capelli bianchi, gli occhiali spessi e la parlantina sicura. Dal pulpito leggeva con vigore professionale pagine e pagine scritte probabilmente a mano, integrandole con spezzoni a braccio. Era un’omelia importante, lo sapeva Don Mario, sarebbe finita sui giornali, avrebbe fatto breccia nei cuori degli studenti. «Dove erano i genitori di queste ragazze quando Silvia e Debora prendevano la pistola e uscivano di casa? Dove erano i docenti quando loro hanno progettato di uccidere? Possibile che nessuno si sia accorto di nulla? Io vi chiedo di essere vigili e attenti nelle scuole, di non chiudere gli occhi davanti a episodi allarmanti. Non vorrei più sentire la parola bullismo, non vorrei più sentire descrivere minacce e piccoli furti come se fossero bravate, episodi goliardici. Ecco dove portano, signori professori, signori genitori. Possibile che i giovani continuino a drogarsi senza che nessuno faccia niente, che i ragazzi si picchino per pochi spiccioli, che si odino perché una ha le scarpe con il tacco alto e si trucca e l’altra invece sceglie di camminare con le scarpe da ginnastica? Ma che razza di mondo è? Possibile che debba sentire ancora parlare di ragazzi offesi per un colore diverso della pelle? Possibile che bande di adolescenti si accaniscono a prendere in giro il più debole, gli rubino la paghetta, si mettano a bruciare dei fogli in classe solo per riprendere tutto con il cellulare e finire con il video su Youtube? E allora chiudetela questa diavoleria moderna, oppure controllate i filmati, filtrateli. Esercitate il vostro compito di educatori. Possibile che debba leggere di adolescenti che si prostituiscono per la ricarica del cellulare? Ci sono ragazze che si fanno fotografare nude a quindici anni, ma vi rendete conto? A quindici anni nude per venti


27 euro? Io vi scongiuro di fare attenzione. Quando chiudiamo gli occhi davanti a tutto questo siamo già colpevoli. Io vi chiedo di fare un passo indietro signori genitori e signori insegnanti. Fermatevi, fermateli. Siamo i primi responsabili dei loro comportamenti, anche solo scegliendo di non vedere, di non commentare, di tacere. Siamo tutti colpevoli.» Renato contenne un movimento nervoso del corpo. Voleva alzarsi e gridare. Rispondere a modo suo. Non era così semplice. Ci sono dei colpevoli in carne e ossa, pensava, gente senza scrupoli che spaccia la droga all’uscita delle scuole, che compra i sogni delle ragazzine per pochi euro, che consegna armi e cocaina, che mette in giro video dove si insegna a fabbricare una bottiglia incendiaria o a sparare, diffondendo la teoria che più si maltratta un povero disgraziato più si diventa eroi. I colpevoli in carne e ossa vanno scoperti e condannati, si ripeteva Renato. Vanno distinti dai complici silenti che semplicemente registrano la cultura dominante e dai genitori distratti che non si accorgono di avere in casa un figlio drogato. Che colpa poteva avere Youtube se non quella di annotare con inflessibile rigidità la progressiva disgregazione di una generazione allo sbando? Non si può fare di tutta l’erba un fascio si diceva, respirando la rabbia che lo avrebbe portato in breve a uscire dalla chiesa e cercare, con ogni mezzo possibile, chi aveva dato le pistole alle due stragiste. Tornò ad ascoltare il sacerdote con attenzione, respirando a fatica l’odore dei fiori e dell’incenso. L’omelia era quasi arrivata al termine, pensò con sollievo. «Se riuscite a capire questo» stava dicendo Don Mario «capirete perché vi sto chiedendo, in questo giorno di infinito dolore, di pregare non solo per queste vittime innocenti che oggi salgono al cospetto di Dio, ma anche per Silvia e Debora, che sono a loro volta delle vittime e che stanno già pagando per questa colpa inenarrabile. Perdono, ecco quello che vi chiedo. Perdonate Silvia e Debora.» Le sue parole caddero nel silenzio. Si sentivano qua e là dei singhiozzi trattenuti. Nessuno osò dire che era troppo presto, nessuna voce si levò per dire “No, non ora.” Genitori, studenti, docenti, curiosi rimasero immobili. Poteva essere un cenno d’assenso o solo di rispetto per il sacerdote, poteva essere persino un chiaro segnale di disprezzo. Renato Pascucci si agitò sul banco, temeva una risposta piena di rancore, un grido, una sceneggiata su cui si sarebbero accaniti i giornalisti presenti sollevando nuove polemiche. Attese qualche minuto, poi si rasserenò.


28 Gli agenti in borghese, disseminati discretamente tra i presenti, tirarono a loro volta un sospiro di sollievo. Non accadde nulla. Uno a uno, invece, cominciarono a prendere la parola gli amici delle vittime chiamati sull’altare per ricordare gli scomparsi. Messaggi di saluto, spezzoni di ricordi, conditi da silenzi e persino qualche timido applauso. Ragazzini e ragazzine dalle facce stralunate, con i foglietti strapazzati nelle mani, nervosamente. L’attenzione del commissario fu colpita solo da due di loro. La prima si presentò come la sorella di Alessia, la vittima dall’aria bambina. Claudia, così si chiamava, rimase ferma, in piedi, sul pulpito, lo sguardo nel vuoto. Sembrava guardare lontano, un punto perso nell’infinito, mentre le lacrime le scendevano senza vergogna. La ragazza impiegò qualche minuto prima di trovare la forza di bisbigliare il suo scarno discorso. Poteva avere due o tre anni in più degli altri studenti, capelli lunghi biondi ad accarezzarle il viso che sembrava una lama, tanto era scavato. Bella di quella bellezza che dà la gioventù, una Madonnina dei dolori, con una minigonna scura portata con disinvoltura sotto un lungo cappotto nero. «Claudia sta a pezzi. Non mangia nulla da una settimana… da quando è morta Alessia» sentì bisbigliare nel banco dietro al suo. «Deve essere terribile perdere una sorella così» rispose un’altra voce con tono di circostanza. Questo soprattutto indusse Pascucci a guardarla con attenzione. Non il peso delle indagini, la voglia di saperne di più dei ragazzi e del loro passato, ma il dolore, l’empatia. «Io non ti ho mai capita Alessia. Eravamo così diverse. Suonavi quel maledetto pianoforte con un amore che non riuscivo a spiegarmi. Mi davi solo fastidio, facevi tanto rumore, stavi sempre lì a pensare alla musica… adesso se tu tornassi ti lascerei in pace. Ti farei suonare sempre. Perdonami, perdonatemi tutti… se avete qualcuno che amate diteglielo, non perdete tempo. Io ad Alessia come glielo dico adesso, che mi mancherà persino la sua terribile musica? Ti voglio bene sorellina mia.» La ragazza scese dal piccolo pulpito stringendosi nelle spalle. Non aveva smesso un momento di piangere mentre leggeva il suo ultimo addio, nel silenzio generale. La morte si porta dietro un nugolo di parole non dette, sensi di colpa che nessuno potrà sanare, dolori che non si ricuciono, questo pensava il commissario ricordando quanto


29 avrebbe voluto a sua volta aver detto di più a suo figlio Stefano che lo amava, disperatamente, come si può amare solo un pezzo di se stessi. Venne infine la volta di una ragazzina che sembrava una pertica, tanto era alta e magra. Era vestita completamente di nero, i pantaloni, il golf, persino il giaccone e l’abbigliamento la faceva sembrare ancora più scheletrica, un altro genere di incarnazione del dolore rispetto a quello che aveva raccontato Claudia. I capelli neri erano tirati indietro, raccolti in una coda alta. Stringeva con forza le mani, racchiudendole in pugni che lasciava scivolare lungo il corpo. Rigida eppure fragile al tempo stesso. Aveva qualcosa nell’aspetto che faceva pensare a una kamikaze pronta a esplodere, con la dinamite nascosta sotto gli abiti, sulla pancia. C’era in lei il senso della morte e al tempo stesso la rabbia, la disperazione e la voglia di farla finita, l’odio e l’amore. Alternava le parole alle lacrime. Ma era nei suoi occhi intensi che si poteva intuire un segreto che non avrebbe mai rivelato, forse neppure a se stessa. Il commissario Pascucci ricordò di averla ascoltata almeno un paio di volte in ufficio anche se non avrebbe saputo indicare il suo nome. Era una compagna di classe di Silvia e Debora. «Sara, sono Sara» la ascoltò dire alla fine con una vocina flebile, amplificata dal microfono «ciao ragazzi. State vicini e fatevi compagnia… noi del quinto E vi vogliamo tanto bene e vi avremo sempre nel cuore, sempre. Eleonora, Luca, Alessia, Alessandro, professoressa Rossigni, ci mancherete. Niente a scuola sarà più lo stesso senza voi, senza Silvia e Debora. Mai e poi mai avrei pensato di salutarvi così. Nessuno avrebbe immaginato. Tutti forse siamo davvero colpevoli, come ha detto il sacerdote… vorrei pregare per i miei amici e per i loro genitori. Spero che un giorno da qualche parte ci ritroveremo… vorrei dire quanto mi dispiace essere qui, ancora viva… che se avessi saputo, se solo avessi capito…» Non aggiunse altro. Si allontanò piangendo per buttarsi tra le braccia di una donna che doveva essere la madre e che singhiozzava a sua volta come un fiume in piena. La navata era ora illuminata da un fascio misterioso di luce che arrivava dall’alto, entrava da un’apertura sulla cupola, baciava i fiori e l’altare. Un coro nascosto di parrocchiani iniziò sommessamente a cantare “Dio è morto” e il commissario Pascucci quasi fece un salto sul banco. C’era ancora Guccini ad accompagnare la sua vita. Si girò e notò che i ragazzi la conoscevano e sapevano le parole a memoria. Anche questo gli sembrò strano. Decise che aveva


30 visto quello che c’era da vedere e che non ne poteva proprio più, era arrivato il momento di uscire, l’odore d’incenso gli dava alla testa, gli riapriva ferite interiori mai curate. Camminò verso il commissariato con i pensieri impazziti e fu felice di non essere riconosciuto da nessuno. Lo attendevano giorni di lavoro massacrante e sapeva che avrebbe portato con sé solo un pensiero dominante: qual è la percezione della morte per un adolescente, cosa prova o pensa decidendo di uccidere un coetaneo, capisce davvero il male che sta facendo o pensa di essere in televisione protagonista di uno sceneggiato? Capisce davvero cosa vuol dire morire? Il male è una catena, ha un effetto domino, parte da un punto e prosegue all’infinito buttando giù tutto quello che incontra. Questo Silvia e Debora, ne era sicuro, non lo avevano neanche immaginato. Nemmeno quella Sara, la piccola kamikaze che qualcosa invece doveva aver percepito. Decise che doveva richiamarla e ascoltarla ancora, entrare nel suo segreto. Qualunque fosse. FINE ANTEPRIMA CONTINUA... A breve anche in App per iPad con audio.


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