Furia omicida, Renato Antonio Mancini

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In uscita il /1/20 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio H LQL]LR IHEEUDLR 2020 ( ,99 euro)

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RENATO ANTONIO MANCINI

FURIA OMICIDA

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ FURIA OMICIDA Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-367-3 Copertina: immagine di Luca Di Marcoberardino


Dedico questo libro alla mia pronipote, a Luca, a mia sorella, a mio nipote, a tutti i miei amici, e ai miei genitori che, con il loro esempio, mi hanno fatto crescere. Infine, a coloro che leggeranno questa storia.



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CAPITOLO I

Il commissario Dante Martinelli, del distretto di polizia numero tre di Torino, era nel suo ufficio e stava rispondendo a una telefonata ricevuta dall’amico universitario americano Karl Owen. L’americano aveva scelto un’università italiana per impararne la lingua. Frequentando lo stesso corso, erano divenuti buoni amici. Il loro legame era rimasto inalterato anche dopo che Karl, laureandosi, era ritornato nel suo Paese. Adesso, i due amici ricoprivano nei propri luoghi d’origine pressappoco le stesse mansioni, lavorando in polizia. Per Dante parlare con Owen era un momento di distrazione, perché la separazione da Carla, la malferma salute della madre e le grane lavorative pesavano sul suo stato psicofisico, aggravando la sua gastrite e la sua nevrosi. «Come va nel tuo distretto?» chiese Karl. «C’è un po’ di tutto: borseggi, risse, stalking, abusi su anziani e bambini, spaccio di droga e ultimamente, ciliegina sulla torta, padri che ammazzano i figli, con la conseguenza che le mogli tentano il suicidio, talvolta riuscendovi. E tu, Karl, come ti trovi col tuo capo?».


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«Oggi bene, Dante. Non è venuto perché ha l’influenza e la febbre a quarantadue. Ma domani si rifarà con qualche strillo in più». Martinelli fece una breve risatina, prima di dire: «I superiori si somigliano tutti, anche se di continenti diversi. Dimmi di Desy. Avete deciso di sposarvi?». «Ci stiamo pensando. Credo che prenderemo presto una decisione. Magari tra sessant’anni, se saremo velocissimi. E Carla si è un po’ ammorbidita?». «Come un baccalà d’acciaio. Non recede da pretendere tutto. Penso che se le studi di notte, per farmi uscire la bile dalle orecchie di giorno». Karl, nella videotelefonata, fissò seriamente l’amico. «Vecchio mio, quando lo troviamo il tempo per un abbraccio?». «Mi piacerebbe moltissimo stare qualche giorno lì. Vedrai che presto troverò il…». Fu interrotto dall’irruzione della segretaria che si era precipitata nel suo ufficio e sventolava un foglio. «Commissario!» quasi urlò. «C’è una rissa con coltelli in un bar. Hanno sequestrato la vigilessa inviata sul luogo». Poi, si ricordò del foglio che continuava a sventolare come una bandierina e lo mise in mano a Martinelli, spiegandogli: «Questo è l’indirizzo».


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A Dante scappò un: «E me pareva!» poi, ricomponendosi, continuò. «Grazie Roberta. Dica a Costanzo e Davide che voglio la pantera pronta tra un minuto». «Comandi» fece la segretaria e corse via. Quindi, Dante rivolse al telefonino un’espressione di impotenza e fece anche spallucce. Karl Owen capì. «Ok, amico. Buon lavoro. A presto» e interruppe la comunicazione. Un dolorino ricordò la gastrite a Dante. Era il regalo per quella ennesima grana. C’era sempre più ignoranza nella delinquenza, pensò Martinelli. Ma, forse, la verità era un’ondata di pazzia generale. Si rincorreva il denaro e il potere, ponendo sottozero il valore della vita umana. Probabilmente anche nel passato era così, ma adesso si esagerava. C’era la tendenza ad applaudire i delinquenti. Tutti i valori erano quindi spariti? Distolse la mente da quei pensieri. Fece un rapido inventario: pistola, caricatori, manette e telefono. Sì, aveva preso tutto. Corse all’uscita dove l’aspettava la pantera col motore acceso. Davide gli aprì la portiera di guida. Quando Martinelli fu salito, in fretta la richiuse, sedendosi sul sedile posteriore. «Buon giorno, commissario» lo salutò Costanzo, seduto vicino a lui. La pantera partì a razzo, facendo stridere le gomme. Martinelli conosceva benissimo tutte le strade della città e, siccome era


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molto abile alla guida, il posto al volante era sempre il suo. Usò una sola volta la sirena in un ingorgo di traffico. Preferiva, se possibile, arrivare sul posto senza annunciarsi. Giunto all’altezza del bar, fermò in doppia fila con i lampeggianti blu in funzione. Erano quattro giovani sbruffoni e delinquenti a fare casino. Uno di essi teneva stretta la vigilessa e le appoggiava alla gola la lama di un coltellaccio. Dante conosceva il locale. Fece cenno ai due colleghi di fare irruzione. Lui rapidissimo, passando dal cortile di un portone carraio aperto, entrò silenzioso dal retro. Dopo quattro passi felpati come quelli di un puma, stava già puntando la pistola alla tempia di quello che teneva in ostaggio la donna. Il delinquente stava sbraitando verso i due poliziotti che avevano calamitato l’attenzione anche degli altri tre malavitosi. «Allora, bastardi. Volete andarvene o la sgozzo come un capretto?». «Preferisci un buco in testa o qualche mese di carcere?» disse Martinelli, usando la voce con la terribile modulazione che riservava ai malviventi. Davide e Costanzo, vista la scena, avevano prontamente impugnato le armi e tenevano sotto tiro gli altri tre che avevano alzate le mani. Per un attimo, il giovane delinquente stette a schiumare bile, poi gettò con rabbia il pesante coltello su delle bottiglie e le ruppe. La vigilessa perse l’equilibrio e cadde. Poi, in un ultimo


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tentativo disperato, il ragazzo si voltò, prese con la mano sinistra la pistola del commissario e con la destra il suo collo. Ma Dante, con una potente ginocchiata in mezzo alle gambe, stese l’avversario al suolo dolorante. Quindi, gli si gettò sopra e, senza delicatezze, gli portò le braccia sulla schiena e lo ammanettò. La vigilessa, intanto, si era rialzata e si stava riprendendo. Arrivati in sede, il commissario poté constatare che i giovani arrestati avevano già precedenti: estorsioni, borseggi, ricatti e risse. Ma, nonostante ciò, venne convocato dal capo che gli fece una lavata di testa perché aveva picchiato uno di quelli. Dante cercò di spiegarsi e di fargli capire che era stato costretto a difendersi. Se non l’avesse fatto, il criminale probabilmente si sarebbe impadronito della sua pistola e avrebbe potuto fare una strage. Domandò al capo se era quello che avrebbe voluto. La risposta fu che lui aveva le mani legate: il distretto doveva continuare a essere limpido. Il capo si augurava che il mascalzone non sporgesse denuncia e consigliò a Martinelli di fare più attenzione. Quella sera, Martinelli, nonostante la sua capacità di far scivolare su di sé le negatività, era di pessimo umore. Aveva avuto un’ulteriore prova di come erano cambiati i valori. Alla fine, si domandò chi si sarebbe dovuto difendere. Forse, pensò, la risposta giusta era solo se stessi, anche se tale conclusione puzzava talmente di egoismo da farlo vomitare. Basta. Scacciò


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a forza quei ragionamenti dalla sua testa. Giunto finalmente a casa, ricevette una telefonata da Carla. La donna era un fiume in piena. Non ne poteva più. Mentre Carla continuava a parlare, lui abbassò la cornetta. La sua pazienza si era esaurita. Oltretutto si era dimenticato di sentire sua madre. Sembrava che il cielo volesse rappresentare ciò che Dante aveva dentro. Le nubi ribollenti si stavano addensando in strati sempre più neri, illuminandosi a tratti per via dei fulmini. Il vento soffiava sempre più forte. Si stava preparando un temporale. Prese il cellulare e chiamò la madre. «Questa sera ho fatto più tardi del solito, mamma. Volevo venire a trovarti. Ma, adesso, sono distrutto, scusa». «Con me non ti devi mai scusare, Dante. Vuoi che proprio io non ti capisca? Facciamo una bella cosa. Domani, ti preparo del persico alla mugnaia con patatine al forno, so che ti piace tanto. Tu puoi venire a mezzogiorno o alla sera e troverai tutto pronto. Lavori troppo!». «No, mamma. Devi riposarti, lo ha detto anche il dottore». Bice preferì ignorarlo e, per cambiare discorso, disse: «Hai visto che brutto tempo? Speriamo non venga il finimondo. Mi raccomando mangia qualcosa, prima di coricarti. Come va la gastrite?». «Lei bene, grazie. Io che la devo sopportare un po’ meno. Mi raccomando chiudi tutte le finestre, che in quella casa sei isolata. Se hai bisogno, telefona. Buona notte».


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Sua madre abitava in una cascina in campagna tra Moncalieri e La Loggia, quella che aveva voluto suo marito, una volta in pensione, desiderando occuparsi della campagna. Poi, anche quando era rimasta vedova, aveva continuato ad abitare lì, per una sorta di rispetto verso il caro estinto. Ora, stava sbocciando in lei l’idea di cambiare posto, ancora poco e l’idea sarebbe giunta a maturazione. Il commissario era troppo stanco per mangiare. Doveva coricarsi. E, tra le coltri, spense l’interruttore dei pensieri. Sentiva sempre più in lontananza i forti rumori del grande nubifragio che aveva colpito la zona e scivolò in un sonno profondo, inconsapevole che le comunicazioni si erano interrotte. In casa della madre di Dante, la luce era andata via prima che lei potesse chiudere porte e finestre. Il vento fischiava forte attraverso gli spiragli delle porte e una finestra aperta sbatteva selvaggiamente al primo piano. Il rumore della pioggia, frammista a grandine, e il fragore dei tuoni erano sottolineati dagli ululati di Buck, il loro mastino, rifugiato nella sua cuccia in cortile. Fuori era buio pesto. Per fortuna, Bice aveva posato sulla tavola una lanterna con dentro una candela. Una saetta illuminò la stanza e le fece vedere l’accendino posato vicino al lume. Dopo parecchi tentativi vanificati dal vento, riuscì ad accendere il cero. Salì la scala interna per andare a chiudere la finestra al primo piano. A un tratto, sentì abbaiare furiosamente


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Buck. Faceva così solo quando vedeva un altro animale o un estraneo, ma con quel tempo erano da escludere entrambi. Divenne inquieta e allertò tutti i sensi per capire cosa stesse succedendo. All’improvviso, Buck ringhiò in modo terribile a denti stretti, come se avesse morsicato qualcosa. Bice era arrivata alla finestra aperta che dava sul cortile. Un lampo illuminò la scena, come se fosse stata composta di ombre. Vicino alla cuccia di Buck, vide una grande e grossa sagoma scura. Teneva alzata sopra la testa un tozzo e lungo manico e, unica cosa chiara messa in evidenza dalla luce, era una lama ricurva più grande e lunga di quella di un’ascia. L’attimo successivo sentì uno straziante guaito di dolore. Seguirono molti colpi sordi corrisposti da uggiolii e guaiti sempre più deboli. I colpi continuarono dopo l’ultimo guaito del mastino. Bice emise un urlo di raccapriccio. Doveva avvertire Dante, qualcuno aveva ucciso Buck. Anche lei era in serio pericolo! Dove mai aveva messo il telefono? Non le veniva in mente. Terrore e agitazione avevano preso il sopravvento nel suo cervello. Rivolse un pensiero d’aiuto all’Onnipotente. Congiunse le mani in preghiera elevando una supplica. Nel fare quel gesto toccò una custodia appesa al collo. Era il cellulare che portava sempre con lei. Tremava. Lo tirò fuori, selezionò Dante e premette il tasto di comunicazione. Si mise all’orecchio il telefonino aspettando il segnale di chiamata. Siccome il cellulare rimaneva muto, lo portò davanti agli occhi.


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Vide con disperazione che non c’era campo. Il maltempo, oltre a togliere la luce, aveva anche danneggiato le linee telefoniche. Sprangò la finestra e corse verso la scala per chiudere anche il piano inferiore. Nella fretta urtò col piede destro la gamba di una sedia. Zoppicando, scese i gradini mentre il vento a ogni passo cercava di spegnerle il lume. Mise male un piede, però si aggrappò con tutte le sue forze alla ringhiera e riuscì a non cadere. Zoppicava sempre di più. A fatica, arrivò a piano terra. Chiuse il portoncino blindato dell’ingresso. Si trascinò vicino alla finestra grande, dove aveva serrate in precedenza le persiane esterne. Chiuse i vetri e le ante interne. Sentiva ogni sorta di rumori. Il vento aveva staccato dei rami alle piante e li sbatteva contro il fabbricato. Udì il muggito della mucca nella stalla, portato e ritirato dalla turbolenza atmosferica, crescere e diminuire molteplici volte. Allo stesso modo, si percepivano, molto lontano, abbaiare i cani delle distanti cascine. Il vento faceva sbattere e cadere di tutto. Ma sopra ogni cosa, si sentiva il lugubre fischiare dell’aria e il rombare dei tuoni. La livida luce delle saette penetrava da ogni fessura, fabbricando ombre terrificanti in tutte le stanze. Bice, mentre si trascinava verso la porta posteriore, udì, nel bailamme di frastuoni esterni, un nuovo rumore. Doveva giungere dalla stalla, sembravano zoccolate sui muri frammiste a risate confuse. Tremando, serrò anche quell’uscio. Le rimaneva da chiudere un’ultima finestra. Le altre stanze non le usava mai, per questo lasciava gli infissi


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sempre sprangati. Dolorante, stanca e spaventata si trascinò verso di essa. Il chiasso nella stalla, anche se quasi sommerso da quello provocato dal nubifragio, era infernale. Le zoccolate e i muggiti erano aumentati in volume e frequenza, come pure quelle risate che non esprimevano allegria, ma bestemmie indicibili. Per un secondo, Bice, suggestionata da quei rumori, s’immaginò di vedere cosa stava accadendo nella stalla. La sua mucca, scalciando dappertutto, aveva tenuto lontana per un po’quella losca ombra ghignante. Poi, la grossa lama a mezzaluna si era sollevata, brillando sinistramente illuminata dal fulmine, grondante del sangue di Buck. L’attimo dopo, si era abbattuta con forza terribile sulla parte alta della zampa anteriore destra dell’animale. La mucca, a terra, non poté più difendersi dai rabbiosi colpi che le squarciavano il ventre e la stavano macellando. Chiuse con difficoltà anche l’ultima finestra rimasta aperta. Bice si sentì male. Doveva farsi un’iniezione di insulina, proprio quella sera se ne era dimenticata. Dove l’aveva lasciata? In bagno o in camera da letto? Impaurita e agitata com’era, non se ne ricordava più. Provò faticosamente ad andare nel bagno del pianterreno, difendendo il lume che minacciava di spegnersi ai refoli d’aria delle fessure. Non c’era. Salì la scala interna cercando di non pensare al piede che le faceva sempre più male. Doveva sbrigarsi con l’insulina prima di svenire. Se non ce l’avesse fatta, sarebbe stata la fine.


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Ne era consapevole. Arrivò stremata in camera da letto, si guardò attorno. Improvvisamente, si ricordò che le siringhe d’insulina le teneva nel frigo. Doveva resistere. Prese da sopra il comò il profumo, se lo spruzzò sul collo e sulle mani che fregò sul naso. Scese i gradini quasi in preda a una crisi diabetica. Sentiva venire nella bocca della schiuma. Frenò il rigurgito. Era esausta, arrivata a piano terra, un violento spiffero d’aria spense il lume. Ma sapeva che il frigo era oltre la tavola, nella quale era andata a sbattere. Seguendo la sagoma del tavolo con le mani, lo raggiunse. L’interno era buio e non si ricordava da che parte aveva messo la scatola. Un lampo le fece vedere l’accendino ancora sul tavolo. Avvicinandosi protese la mano verso di esso. Provò con solo la scintilla, visto che non si accendeva, se nel frigo riusciva a vedere l’insulina. La scatola era a portata di mano. Ne estrasse una monodose. Si aprì il grembiule denudando il ventre quanto necessario per l’iniezione. Ce l’aveva fatta! Un potente colpo si abbatté sulle persiane della finestra grande e fece sussultare Bice. Gli scricchiolii delle traversine di legno rotte si sentivano distintamente. Ne seguirono altri. A ogni colpo la grande lama stava demolendo le persiane con una devastante penetrazione. Terrorizzata, udì chiaramente quella risata profonda che sembrava fatta personalmente da Satana. Vide la lama che spuntava dall’anta interna. Doveva nascondersi da quella specie di mannaia, ma dove? Le venne in


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mente il locale della caldaia dotato di porta tagliafuoco in ferro. Doveva sbrigarsi perché era dalla parte opposta della casa e l’assassino sarebbe entrato prestissimo nell’abitazione. Mentre si trascinava lentamente verso le altre stanze, si chiese piangendo chi poteva avercela con lei. Era riuscita a far funzionare l’accendino e, con quella luce, avanzava un po’ più sicura. Quando superava una stanza, ne chiudeva la porta a chiave. L’intento era rallentare il suo carnefice. L’insulina stava facendo effetto. Sentì il grande fracasso della prima porta che aveva chiuso e che era stata abbattuta. Ancora due stanze poi c’era la porta in ferro che l’avrebbe salvata. Le parve di vedere, nella luce della fiammella che cercava di proteggere dall’aria, il piede destro molto gonfio. Le faceva male e non riusciva a piegarne la caviglia. Strascicandosi, chiuse la penultima porta, mentre il fracasso delle porte abbattute si faceva sempre più vicino. Era all’ultima porta. Le tremavano le mani e le cadde la chiave sul pavimento. La raccolse con grande difficoltà. Adesso, oltre al piede anche la caviglia le faceva vedere le stelle. Per un lungo attimo, rimase pietrificata a guardare la porta tagliafuoco senza la chiave. La aprì e si accorse che era nell’interno del buco della serratura. Entrò e chiuse con cura la toppa. Mentre quel ghigno infernale era sempre più vicino. Era entrata e aveva scorto una sedia. Distrutta, vi si buttò sopra e si lasciò andare in un pianto liberatorio. L’attimo dopo sentì dei colpi spaventosi alla


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serratura. Erano dati non di taglio ma di piatto. Le sembrava di stare sotto una grande campana suonata con una mazza, tanto erano forti le vibrazioni del ferro della porta. Fu abbagliata da un fulmine. Nel suo pensiero urlò: «La finestra!». Si era completamente dimenticata che c’era. Ciò la riportò brutalmente alla realtà contingente. Era talmente sfinita che non si era neppure resa conto della grande aria che turbinava nel locale della caldaia. Cercò di ragionare: i vetri della finestra erano aperti? Dunque non aveva mai chiuso né le persiane esterne né le ante interne? Se era così era veramente spacciata! Come a dargliene conferma, i colpi alla porta cessarono. Probabilmente quel diabolico figuro, vedendo che la sua arma non aveva effetto contro quella porta, era uscito a cercare la finestra. Prese il telefono in mano e mandò un sms al figlio con una sola parola: «Aiuto!». Anche se si era accorta che persisteva la mancanza di campo. Un’altra saetta illuminò la scena. Si accorse che quella finestra non aveva né persiane, né vetri e nemmeno ante interne. In compenso una grossa e robusta inferriata murata ne proteggeva l’accesso. Si ricordò anche che il marito aveva messo una fitta rete contro l’intrusione di topi e animali. Si trattava di una robusta zanzariera che aveva avvitato verso l’interno della finestra nel muro molto spesso della casa. Sentì un rumore vicino alla finestra. Le nubi all’orizzonte s’illuminarono tre volte di seguito rendendo visibile quell’infausta sagoma. La


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stessa luce aveva permesso all’intruso di scorgere l’inferriata e valutarne la robustezza. Questa volta, la solida lama batteva sul muro, dove era fissata la grata. L’evidente intenzione era quella di rompere la parete nei punti dove l’ostacolo per entrare nella casa era fissato. Bice pensò giustamente che quel lavoro sarebbe stato molto lungo e stancante. “Ma non era ancora sfinito dopotutto quello che aveva distrutto?” pensò, disperata. Subito dopo ebbe un’idea. Se lei fosse uscita di soppiatto e in modo silenzioso da quel locale, avrebbe forse potuto raggiungere nella rimessa la jeep e tentare la fuga. Prima, però, avrebbe dovuto costruire una specie di simulacro di lei stessa seduta sulla sedia, in modo da ingannare, almeno per un po’, chi avesse guardato dalla finestra. Si alzò e provò una fitta dolorosa al piede destro. Si chiese come avrebbe potuto guidare, sopportando quel male. Poi, si domandò se avesse preferito il dolore di quella lama che la smembrava. Comunque, la jeep, acquistata molti anni prima da suo marito, era un rifacimento di quelle antiche e le sembrava di ricordare che avesse un acceleratore manuale sul cruscotto. Come freno avrebbe potuto usare quello a mano. La gamba sinistra era idonea per premere la frizione. Trovò delle scatole di cartone. Prese la più grossa e la mise sulla sedia. Ne posò una più piccola sopra. Si accorse che non era vuota. Che fortuna! Conteneva un mappamondo con la sua base e poteva


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assomigliare a un collo con la testa. Lo mise sulla scatola piccola. Trovò un mocio lavapavimenti e lo usò per simulare i capelli. Poi, avvolse il tutto con un telo. Avrebbe avuto bisogno di riposare, e molto, ma non poteva concederselo. Avrebbe vanificato l’unica probabilità di salvezza che aveva. Fuori i colpi continuavano. Per la verità, facevano poco effetto sbriciolando in minima parte il muro. Senza contare che la lama stava perdendo la sua affilatura. Bice riordinò le idee. Svuotò le tasche dalle chiavi che vi aveva riposto, non le servivano. La sua jeep era sempre aperta con le chiavi nel cruscotto. Non avrebbe dovuto cercarle. In quello stato per lei sarebbe stato un grosso ostacolo. Si assicurò di avere l’accendigas in tasca. Lo avrebbe adoperato fuori dal locale caldaia. Con molta lentezza, si avvicinò alla porta in ferro. A tentoni, trovò la maniglia, la abbassò e spinse. La porta non si mosse. Dopo un attimo di spavento si diede della sciocca. L’aveva chiusa a chiave. Con le mani che tremavano la cercò nella toppa. Ma il buco della serratura era vuoto. I grandi colpi, che aveva dato quel feroce assassino, dovevano averla fatta cadere. Si spostò per chinarsi e cercarla. Soffocò un urlo di dolore in un sommesso lamento. Aveva posato il piede martoriato su di un oggetto metallico che gli aveva fatto muovere la caviglia. Dolorante, stanca, confusa e terrorizzata si chinò per raccattare quell’oggetto. Fu grandemente delusa quando sentì che era un tagliacarte. Era stanca, tanto stanca! In


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quell’attimo di abbandono totale anche la paura e l’agitazione erano sparite in un’oasi di vuoto riparatore. E fu in quel momento che si ricordò cosa aveva fatto della chiave che stava cercando. Se l’era messa in tasca assieme alle altre nel gesto che le era divenuto abituale, chiudendo le altre porte. Doveva esserci un’altra sedia vicino a quella dove aveva costruito il suo simulacro. Su quella sedia appunto aveva messo tutte le chiavi che aveva ritenuto ormai inutili. Fra di esse c’era senz’altro la chiave che adesso le serviva. Tornò indietro con molta cautela. Intravide nell’improvviso chiarore lontano del cielo il suo simulacro. Molto lentamente, per non sbatterci sopra, cercò a tentoni la sedia sulla quale aveva posato le chiavi. Trovò la spalliera. Ne percorse la fattura fino al sedile. Le chiavi erano proprio lì. Una per una le prese, tastandole e rimettendole in tasca. La chiave che apriva quel locale era più grande delle altre. Era proprio l’ultima. Fuori, quell’ombra scura stava colpendo il muro con l’aggeggio a forma di grosso piolo che stava dalla parte opposta della lama. Sotto quei colpi, il muro si rompeva più di prima. Bice era ritornata alla porta con la chiave. La mise nella serratura e girò. Ma non poteva completare il giro, la chiave si era bloccata. Provò con più forza, senza risolvere. Aveva capito! Si mise le mani tra i capelli facendo penetrare le unghie nel cuoio capelluto.


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«No!» gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Quell’essere diabolico, dando quei colpi, aveva svergolato il meccanismo della serratura, imprigionandola in quel locale. Ora aveva tutto il tempo che voleva per portare a termine il suo progetto criminoso. In compenso era da qualche tempo che aveva smesso di ridere. Fuori il vento era meno violento e la pioggia, anche se forte, non conteneva più grandine. Bice aveva completamente perso la nozione del tempo. Le pareva che, da quando aveva sentito abbaiare furiosamente Buck, ne fosse passato una quantità infinita, ma non sapeva dire se di secondi, di minuti o di ore. Forse, pensò era trascorsa tutta la sua vita. Adesso, non ne aspettava che l’orrendo epilogo. Ora, i colpi nel muro si erano fatti regolari. Sembravano voler scandire, come un nefasto orologio, l’ultimo periodo della sua esistenza. Si aggrappò al brandello di vita che le rimaneva. Doveva riscuotersi, non rassegnarsi. Le passò nella mente un proverbio: finché c’è vita c’è speranza. Le sembrava che quelle parole risuonassero con la pronuncia di suo marito Giacomo, chiamato familiarmente Giacomino, per tutti Gino. Incurante dell’irrazionalità di quel che faceva, pregò: «Gino, aiutami, cosa posso fare per togliermi dai guai?». Fu travolta dal dispiacere. Si mise le mani sugli occhi e pianse disperatamente. Nel buio della sua mente, si aprì una luce. Era come un faro che mise in tutta chiarezza la fattura della serratura. Maniglia, toppa e le quattro viti a stella che la


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univano al ferro della porta. Bice non si aspettava nulla del genere. Che significato poteva avere? Chiaramente era il simbolo della sua prigionia. Ma perché ne aveva visualizzato le fattezze con tanti particolari? Poteva anche essere l’aiuto chiesto a Gino che, non potendo spiegarsi meglio, aveva condensato in un’immagine la rappresentazione della via d’uscita. Ripensò a lui: sempre preso da qualche lavoro. Se non era la mungitura nella stalla, era il taglio del fieno nel campo. Occorreva anche la sua maestria nei lavori di casa. Era sempre in mezzo a fili elettrici, forbici da elettricista, tester, bulloni viti e il suo inseparabile cacciavite intercambiabile dal manico a croce. Era molto fiero di quel giravite. Fu come se qualcosa o qualcuno avesse voluto sottolinearle quell’ultimo attrezzo. Risaltava nel suo ricordo come fosse stato evidenziato. La concatenazione di quei pensieri si restrinse concentrandosi a due oggetti: viti e cacciaviti. Certo! Quella poteva essere una soluzione. «Grazie Gino» disse, accennando un sorriso. Gli era venuto in mente che avrebbe potuto smontare la serratura. E se fosse riuscita a estrarla, avrebbe permesso alla porta di aprirsi. Guardando fuori al chiarore di un lampo, s’accorse che quel satanasso era riuscito a liberare dal muro la parte inferiore della grata. Era impegnato con quella superiore. Bice aveva ancora un filo di speranza. Ma non aveva l’attrezzo necessario per levare le viti. Tutto quello che aveva in tasca


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erano le chiavi delle stanze. Batté le mani sulle tasche, per sottolineare quel fatto. Si accorse che aveva qualcosa anche nella destra del grembiule. La sua mano tirò fuori il tagliacarte, che le aveva procurato tanto dolore. Ebbe un sobbalzo al cuore, perché si accorse che aveva l’impugnatura a croce. Non la volle prendere come una coincidenza, ma come un aiuto. In ogni caso, una prova la voleva fare. Raggiunse la porta del locale. Toccando trovò la serratura. Il momento successivo aveva sottomano una delle quattro viti che la avvitavano alla porta. Fece scivolare la punta del tagliacarte sopra alla scanalatura a stella della vite, la connessione era perfetta. Tentò di girare. La vite era molto dura. Provò con entrambe le mani e la vite cedette. La svitò del tutto e se la mise in tasca. «E una…» mormorò. Provò con la successiva che, solo dopo molti tentativi, si svitò. «E due…» sussurrò piano a se stessa. Un rumore di calcinacci la fece girare. Vide che anche il terzo sostegno dell’inferriata era stato tolto dal muro. In preda all’agitazione, il tagliacarte le cadde di mano. Soffocò un altro urlo perché era andato a sbattergli sul piede dolente. Fortunatamente, l’aveva fatto di piatto e non di punta. Con lentezza esasperante, dilaniata da forti dolori, riuscì a chinarsi per cercare il tagliacarte. Fuori l’assassino aveva indebolito l’ultimo baluardo che lo teneva distante da Bice. Stava tentando di aprire la grata liberata sui tre lati, per far cedere il


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quarto. Prese nuovamente la sua arma sbriciolando il muro. Bice rabbrividì e raccolse il tagliacarte. A tentoni, trovò la terza vite. Cercò di calmare il tremito, riuscì a inserire il tagliacarte e tolse facilmente quella vite. «E tre…» bisbigliò a se stessa, per farsi coraggio. Trovò l’ultima vite. Vi sistemò il tagliacarte e provò a svitare con entrambe le mani. Era durissima. In questi casi, Giacomo usava un prodotto spray simile all’olio. Poteva darsi che fosse anche molto vicino, ma il suo tempo stava per scadere. Se ne accorse dal modo in cui la grata si stava muovendo. L’ultimo pezzo di muro stava cedendo. Col tagliacarte andò sopra la parte senza le viti della serratura. Si aprì un piccolo varco nel quale lo fece scendere e tirò verso se stessa. In quella maniera, aveva cercato di smuovere la vite riottosa del chiavistello. Provò nuovamente a svitarla. Questa volta ebbe successo. La serratura era libera. Provò a sfilarla, ma non poteva completare il movimento perché la maniglia glielo impediva. Cosa la tratteneva? Nonostante l’agitazione del momento ebbe un ricordo chiarissimo. Non avrebbe saputo dire il momento in cui si erano svolti i fatti, ma il ricordo era più che mai pertinente. Ogni tanto, vedendo trafficare il marito, s’incuriosiva egli chiedeva dettagli. Quella volta si era interessata della maniglia. «Gino» aveva chiesto, «come fanno a far passare dentro al piccolo buco della serratura, una maniglia che è composta da


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due grandi elementi contrapposti che servono per aprire la porta da entrambi i lati?». «È semplice» aveva risposto lui, «i due elementi della maniglia non sono un solo pezzo, ma due. Uno ha un prolungamento di circa sei centimetri, un pezzo di ferro di sezione quadrata che s’infila perfettamente nell’incavo che ha l’altro pezzo di maniglia. Il tutto si compatta come fosse un solo pezzo». «Ma» aveva ribadito lei, «come mai i due pezzi non cadono quando li giri?». «Perché,» aveva risposto il marito «il pezzo che accoglie il prolungamento dell’altro è dotato di una piccola vite, generalmente a brugola». «La vite a brugola è diversa da una vite normale?». «Sì, Bice. L’incavo nella testa della brugola è esagonale e molto più grande e profondo. In genere si svita con la sua chiave, ma si può avvitare e svitare anche con un cacciavite a taglio, basta che esso faccia forza su due angoli interni dell’esagono. La chiave a brugola consiste in un pezzo di ferro a elle di sezione esagonale. Si usa il pezzo più corto, cioè la base della elle per infilarlo nell’incavo della vite usando l’asta per svitarla o avvitarla». Questo fu il ricordo di Bice. Si mise a cercare sulla maniglia l’incavo della vite a brugola. Sapeva che se anche l’avesse svitata e fosse riuscita ad aprire quella porta, tutto sarebbe stato inutile. Non avrebbe mai avuto il tempo per fuggire con la jeep


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da quel mostro che stava per entrare. Ma non si arrese. Con la punta del fermacarte provò l’incastro. Stava riuscendo a svitare la vite! Ma con orrore si accorse, dal fracasso, che l’assassino aveva divelto la grata. Due fari illuminarono la scena. Il figuro si stava issando nel vano aperto per scavalcarlo, con l’arma in pugno. Adesso, sentiva forte il rumore dell’auto che si avvicinava a gran velocità. Bice presa dal terrore non riusciva a togliere la maniglia per sfilare la serratura. Si voltò e vide il delinquente a pochi metri da lei che ghignava trionfante. Poi, scorse un’altra sagoma, agilissima, balzare dentro e, mentre il figuro correva e alzava la grande lama per scagliargliela addosso, l’altro con un balzo gli bloccò le gambe e lo fece cadere. Quel mostro si divincolò e gli tirò un calcio. Aveva ancora l’arma in mano. Entrambi si alzarono. Questa volta erano uno dirimpetto all’altro. Bice vide che l’assalitore stringeva una grande alabarda a due punte. Teneva il manico con entrambe le mani e la punta era rivolta verso l’addome dell’altro, quindi fece un’improvvisa carica. Il bersaglio di quella furia scelse l’ultimo istante per prendere l’asta dell’alabarda e, sfruttandone la traiettoria, fece volare arma e aggressore sulla finestra. Entrambi rimbalzarono sul pavimento. Il buono con due balzi prese l’alabarda e la gettò fuori dalla casa. Il secondo si rialzò di scatto sferrando un gran pugno sul viso dell’altro. Poi, si buttò dalla finestra per riprendere l’arma. L’altro, agile come un felino, saltò la


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finestra senza tenersi e gli fu sopra. La lotta stava volgendo a favore di quello più agile. Il cattivo riuscì a divincolarsi, dando un brutto colpo all’altro, che rimase a terra per qualche secondo. L’assassino aveva preso l’alabarda e, rivolgendo la grande lama verso se stesso, la scaraventò sulla propria testa, dividendola in due. La lama si fermò quasi a livello del collo. La scena fu terribile. Parti di cervello e sangue schizzarono in tutte le direzioni. Il sangue gli usciva anche dalle orecchie e dalla bocca, mentre gli occhi sembravano saltargli fuori dalle orbite. Bice urlò fuori di sé per l’orrore. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD


INDICE

CAPITOLO I ............................................................................ 5 CAPITOLO II ......................................................................... 28 CAPITOLO III ........................................................................ 45 CAPITOLO IV........................................................................ 57 CAPITOLO V ......................................................................... 79 CAPITOLO VI........................................................................ 85 CAPITOLO VII ...................................................................... 96 CAPITOLO VIII ................................................................... 111 CAPITOLO IX...................................................................... 136 EPILOGO.............................................................................. 141


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