Eden Project, Caterina Peschiera

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EDEN PROJECT

CATERINA PESCHIERA
ZeroUnoUndici Edizioni

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EDEN PROJECT

Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-578-3 Copertina: Immagine proposta dall’Autrice Prima edizione Ottobre 2022

LA MAMMA PIU’ BELLA DEL MONDO

«Ha gli occhi grandissimi…mamma, è vero che anche io li avevo così quando dovevo nascere?»

Annie, una dei dieci figli della dottoressa Jenny Eliot, sembrava già gelosa della piccola creatura che catturava in quel momento lo sguardo di mamma e fratelli, incollati al vetro dell’incubatrice. Ancora doveva nascere e sembrava diventata la personalità più importante di quella strana famiglia.

«Certo che li avevi grandi anche tu, tesoro, tutti i cuccioli hanno gli occhi grandi. Sono dei furbacchioni i piccolini: hanno occhi grandi per essere irresistibili, per far sciogliere di tenerezza la loro mamma.»

«E io non sono più un cucciolo, vero mamma che non ti sciogli più per me?» tornò alla carica Annie, assai preoccupata che il nuovo membro della famiglia stesse preparandosi a soffiarle tutte le coccole, già ampiamente condivise con gli altri otto fratelli e sorelle. Non bastava Timmy, il fratellino di quattro anni che appena poteva se ne volava in braccio di mamma. E per fortuna che Liza, tre anni compiuti da poco, dormiva accoccolata sul divano per il pisolino pomeridiano e ancora non partiva all’attacco.

«A sei anni non si è cuccioli secondo te?» le sussurrò Mamma Jenny, sfiorandole le labbra con le proprie, in un gesto intimo e affettuoso, e accarezzandole i bei capelli lisci e neri.

Fred era imbronciato: per un attimo aveva pensato che nove anni fossero troppi per reclamare la sua parte di baci e carezze. Solo per un attimo. Quello dopo era già avvinghiato al corpo della madre che, per la furia affettuosa di quell’assalto, era stata costretta a indietreggiare verso il divano.

«Piano Fred, non occorre che mi fai cadere… Dai venite tutti qui che vi abbraccio. Anche tu Alice.»

Alice se ne stava con gli occhi bassi e, differentemente dagli altri, al suo invito non s’era mossa.

«Alice…non credere che solo perché hai appena fatto quattordici anni tu

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te la possa svignare. Stai diventando grande, ma io ho ancora tanto bisogno di tenerti stretta, sai.»

«Guardate, si succhia il pollice!» Timmy aveva lasciato le ginocchia di Mamma Jenny ed era corso a stampare le proprie mani sul vetro della vasca-incubatrice.

«Non appoggiarti al vetro con le mani, Timmy, quante volte te l’ha detto la mamma! Restano le tue ditate, hai capito?» Johnny, dodici anni, sembrava l’ometto di casa: in quanto fratello più grande, nulla doveva sfuggirgli.

«Oh! Tutti lì a guardare che si succhia il pollice…» riprese Annie colta da un altro attacco di gelosia. «Me lo succhio anche io allora…ecco guarda come me lo succhio mamma! Ti sei incantata?»

«E basta Annie!» sbottò Lily, la seconda figlia più grande. «Cominci a diventare patetica, lo sai?»

«Sei una sorella perfida, non so neanche cosa vuol dire patepica! E poi, se lo vuoi sapere, non è la prima volta che succhia, io l’ho visto ieri che si succhiava lo zoccolo.»

«Non ci credo», rispose Lily incrociando le braccia.

«E invece può essere benissimo, anche Johnny si succhiava lo zoccolo prima di succhiarsi il pollice», intervenne Mamma Jenny come riemergendo da una realtà tutta sua che l’aveva sottratta per qualche minuto a quei rumorosi battibecchi.

Katie, sette anni, spuntò a carponi da dietro il divano di vimini, facendo ondeggiare la sua folta chioma dalle scaglie rosse e verdi, dalla quale facevano capolino due occhietti azzurri furbissimi. Lanciava sguardi vagamente preoccupati dietro di sé, come attendendo un’inevitabile punizione. Improvvisamente, in mezzo all’ammasso oscillante dei serpentelli rossi e verdi della sua testa si rese visibile, spiccando per il contrasto, un serpente rosso e giallo. Questo andò sinuosamente ad attorcigliarsi al collo della piccola. «Piano, così è pericoloso», fu il rimprovero della mamma a David, gemello di Katie, che amava sopra ogni cosa farle i dispetti, anche in questo molto simile alla sorella gemella. In un attimo furono un groviglio inestricabile: mani e gambe di entrambi furono avvolti dalle spire dei lunghi serpentelli che scendevano dalle loro teste. Un curioso gomitolo rosso, verde e giallo che si agitava sul pavimento della vasta sala, tra mugolii di risa e dolore. Poi giunse un “Basta!” meno benevolo di Mamma Jenny e la matassa si srotolò senza indugio.

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Mamma Jenny li guardò, godendo della loro bellezza, di quei colori sgargianti e lucenti e di quegli occhi azzurro ghiaccio quanto i suoi, ma immensamente più belli. Poi il suo sguardo andò ad abbracciare uno per uno tutti gli altri.

«Siete le creature più belle del mondo», disse, concludendo quella mistica carrellata.

«E tu sei la mamma più bella del mondo», aggiunse Annie, lanciandole affettuosamente le ali al collo.

Mamma Jenny accarezzò le sue morbide penne nere e grigie, lisciandole teneramente e, mentre le guancette di Annie si strusciavano sul suo viso disarcionandone lievemente gli occhiali dal naso, la mente della dottoressa Jenny Eliot si perdeva ancora una volta lontano. Lontano eppure vicino. Anzi vicinissimo: appena al di là della porta blindata alla quale solo lei aveva accesso con tanto di codice segreto, scrupolosamente tenuto nascosto ai trentotto ricercatori del “Biodiversity Research Center”. Questo il nome del laboratorio di biologia genetica presso il quale vivevano, da lei voluto, creato e diretto e situato in una zona ancora intatta della foresta amazzonica.

“Sei la mamma più bella del mondo”. Quella frase innocente e quasi banale sembrava, con poche pennellate da artista, dipingere l’incredibile affresco della sua vita. Un capolavoro. E un capolavoro di assurdità. Lei, la dottoressa Jenny Eliot, ricercatrice statunitense, tra i massimi esponenti nel campo della biologia genetica a livello mondiale, una celebrità nel settore, quasi un guru per studenti e ricercatori, non era mai stata né la più bella, né semplicemente bella. Nemmeno da giovane, figuriamoci adesso, quando l’età le stava regalando giorno per giorno una ruga in più e soprattutto tanta, tanta stanchezza. A sessantanove anni avrebbe potuto essere senz’altro più florida, ma la natura, come non era stata prodiga verso di lei di bellezza, forse non lo sarebbe stata nemmeno in longevità. Certamente, da giovane era stata assai più energica e meno sgradevole nell’aspetto: pallida e minuta, gambe leggermente arcuate, una rada capigliatura che tempo addietro era stata bionda, un volto regolare ma del tutto insignificante, aveva occhi piccoli di un limpido azzurro ghiaccio e, come il ghiaccio, erano sempre stati freddi nell’osservare persone e cose. Se ne stavano al di là di quelle lenti che portava da sempre, per niente scontenti di quella spessa barriera tra loro e il mondo. Un mondo di gente stupida, cieca e incosciente che allegramente danzava sul corpo straziato di una Terra morente. Forse gli

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unici ad avere un po’ di cervello se ne stavano al di là della porta blindata. Li aveva scelti accuratamente i suoi collaboratori, per competenza, serietà, ma anche per quella rara caratteristica di saper guardare oltre il proprio naso. Forse se ne poteva avere anche un po’ di rispetto. No, non si era mai sentita bella. E nemmeno donna. Si era mai vestita qualche volta con l’intenzione di apparire seducente? Ricordava piuttosto di aver coperto mille e mille volte i propri indumenti col camice bianco per scomparire in laboratorio a osservare vetrini e trafficare con provette. Era così: di tutti gli indumenti indossati in una vita non ne ricordava nemmeno uno che le avesse fatto provare qualcosa davanti allo specchio. A essere onesti le sfuggiva persino il colore di quello che portava sotto il camice in quel preciso momento. Impegnata a fare della sua esistenza una corsa al risultato, i traguardi più importanti della sua vita avevano riguardato unicamente biologia, genetica, biodiversità ed ecosistemi. Le semplici tappe di una vita normale non l’avevano mai riguardata. La scoperta dell’amore? Banalità. Della maternità? Roba da casalinghe. Eppure c’era qualcuno che la vedeva la più bella del mondo. E soprattutto la vedeva mamma. Mamma di nove figli, tra breve dieci, partoriti non dal suo ventre ma dal suo cervello. Come Minerva dal cervello di Giove, come Adamo ed Eva dalla mente di Dio. Come Dio. Mamma come Dio. Perché quelle creature lei non le aveva subite nel proprio utero, frutto di una casuale combinazione di geni. La dottoressa Jenny Eliot quei geni li aveva saputi combinare alla perfezione al fine di creare un’umanità dotata finalmente di un’istintuale capacità di integrarsi con la natura. Ispirarsi alle creature mitologiche metà uomo e metà animale: questo era stato il vero tocco d’artista, creature straordinarie, appartenenti al passato e presaghe di futuro. Un futuro che lei stessa si accingeva a creare.

Mamma come Dio. Seppure incredibile, in fondo questo era l’aspetto meno estroso di quella sua stravagante maternità. Ciò che doveva realmente stupire era che la dottoressa Jenny Eliot era diventata mamma per davvero. Mamma dentro. Contro ogni sua più fantasiosa previsione, quelli erano figli veri perché come figli li amava, non come esperimenti ben riusciti.

L’amore dal quale era sempre stata distante, che aveva sempre guardato con diffidenza e superiorità, era giunto inaspettato a spiazzarla, imponendosi come la scoperta più grande della sua vita. Li amava

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davvero e lo sentiva non solo nell’animo, ma perché adorava assaporarne il profumo, accarezzarne la pelle, o piume o pelo o scaglie che fossero, guardarli piangere, ridere e crescere. Giorno per giorno, stupendosi di ogni più piccolo cambiamento nei tratti del viso, del corpo, dell’animo: ogni giorno le penne di Annie meno soffici ma più solide e corpose, ogni giorno le quattro zampe equine di Alice più forti e slanciate…

Trasaliva al pensiero che, seguendo quella corsa cieca del suo cervello, avesse rischiato di lasciarsi indietro tutto questo. Ma oltrepassato il traguardo aveva ottenuto il premio dei premi. Premio che non richiedeva alcuna corsa, ma pazienza.

La mamma più bella del mondo! Se mamma e bella dovevano apparire assai curiosi nel suo caso, la parola mondo toccava addirittura il vertice della bizzarria. Il mondo: che ne sapeva Annie del mondo, che ne sapevano Alice, Johnny, Lily, Fred, Timmy, Katie, David e Liza. Che ne avrebbe saputo la piccola creatura che ancora doveva nascere?

Cos’era per loro il mondo? Che ne sapevano loro del mondo? Non avevano mai avuto alcun contatto con esso.

Il mondo per loro non poteva essere che i quindici ettari di foresta amazzonica intorno al Biodiversity Research Center, preservati dal disboscamento incontrollato che giungeva quasi a lambirlo. Il mondo per loro era fatto da piante, fiori, animali e da un unico essere umano: lei stessa. I figli suoi non erano esseri umani, tutt’altro, chiamarli umani le sarebbe suonato come un’offesa mortale. E lei se n’era ben guardata dal parlare di quella specie perversa e ormai destinata all’estinzione. Aveva anche evitato accuratamente di dichiararne l’esistenza appena al di là della porta blindata.

Bisognava riuscire a non parlare di molte cose, eludere molte delle loro domande e fare della parola perché un termine di cui non abusare affatto, una materia esplosiva da trattare con cautela. Non era facile, un po’ schizofrenico forse, ma era come vivere in una magnifica favola. Nulla di umano avrebbe dovuto contaminare l’intatta innocenza delle loro coscienze e conoscenze: quanto facile sarebbe stato offrire esempi sbagliati, inganni e tentazioni che avrebbero impedito loro di svilupparsi secondo la perfetta natura di cui lei stessa li aveva provvisti. La tecnologia, quella brutta bestia, ad esempio, era qualcosa da cui dovevano stare assolutamente alla larga. Con la tecnologia l’uomo aveva creduto di diventare più potente della natura stessa. E si era scavato la fossa. Nella vasta sala in cui Jenny Eliot accoglieva i suoi figli, infatti,

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non c’era una televisione, un computer, un telefono e nemmeno un orologio. Aveva fatto sparire persino gli interruttori della luce, nascosti dietro i mobili. Lei stessa doveva faticare per raggiungerli e illuminare la stanza quando i suoi figli non c’erano. E poi non ne avrebbero avuto bisogno, seguivano i ritmi biologici delle creature diurne loro: sveglia all’alba, sonno al crepuscolo. Anche l’impianto dell’aria condizionata era invisibile: quell’aria più fresca e meno umida che percepivano fastidiosamente quando entravano sarebbe rimasta per loro sempre un mistero, come lo stesso calore del sole o la freschezza delle sorgenti. Ma quell’aria meno pesante l’aiutava a respirare meglio e non poteva farne a meno.

La vasca incubatrice era l’eccezione. Quell’unico elemento tecnologico troneggiava vistosamente in mezzo alla sala. Ma era troppo bello veder crescere tutti insieme un nuovo membro della famiglia, nessuno avrebbe potuto rinunciarvi. Collegata ad apparecchiature dalle spie costantemente accese, tubicini e misuratori, la vasca era una costante tentazione per la loro curiosità. Quante volte aveva dovuto impuntarsi per non fornire al riguardo alcuna spiegazione. Non poteva darne nessuna, nemmeno alla domanda più imbarazzante: perché noi nasciamo in una vasca e tutti gli altri animali no? Nessuna risposta, l’unica in casi del genere era far scattare il veto su quella dannata parola: perché.

Perché. Paradossalmente quella era stata la parola che aveva accompagnato tutta la sua vita. Ma lei faceva parte di un’altra razza, una brutta razza in estinzione.

Se aveva chiamato quell’isola di speranza “Eden Project” c’era un motivo.

«Ragazzi, tutti a nanna adesso, la luce sulla foresta si è fatta rossa, ve ne eravate accorti?»

«Io no», rispose Annie in modo un po’ provocatorio, mentre tutti i fratelli andavano a dare la buonanotte a Mamma Jenny. «Dai Annie, vieni con me, tu non ti accorgi mai di quando la luce si fa rossa», commentò Alice bonariamente. Annie, dopo aver scoccato l’immancabile sequela di baci e bacetti serali a sua madre, spiccò un voletto sulla groppa della splendida Centaura. Alice galoppò rapidamente oltre la grande porta a vetri che costituiva l’unico loro accesso dalla casa a Eden Project. La dottoressa le guardò allontanarsi: la lunga coda nera di Alice oscillava nel movimento della corsa. Spiccava ondeggiando armoniosamente sul candido mantello in un

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contrasto di rara bellezza. Le ricordò lo sculettare seducente di una bella donna. Fu un pensiero che non le piacque affatto.

La sua prima figlia. Era stata Alice a regalarle le emozioni più intense: la gioia per la riuscita di quel suo incredibile esperimento, poi l’inaspettato sentirsi catturata da un sentimento nuovo, inconfessabile, al quale alla fine era stata costretta a cedere.

Il suo primo capolavoro era cresciuto e le sue fattezze ormai non avevano nulla del tenero puledrino che aveva tenuto tra le braccia. Ricordava quando le lisciava il morbido pelo bianco e nero reggendola sulle ginocchia e quando i suoi zoccoletti disattenti finivano talvolta con l’assestarle qualche doloroso calcetto. La sgridava allora con dolcezza, stupendosi della propria indulgenza. Con lei, infatti, come del resto con tutti i suoi figli, la sua voce non assumeva mai toni aspri. Da quando Alice era nata, la voce di Jenny Eliot aveva conosciuto una nuova sonorità più dolce e argentina. Ogni tanto rideva mentre parlava. Non lo aveva mai fatto. Sembrava nuotasse nel miele quando stava con i suoi figli. Poi, l’incanto svaniva una volta digitata la password per raggiungere i suoi collaboratori. Ritornava la voce di sempre, quella che tanto incuteva soggezione a chi le stava intorno.

Come s’era fatta bella la sua primogenita, bella da grande, bella da piccola e il cuore le si stringeva al pensiero che la sua piccola Alice sarebbe vissuta solo nei ricordi. Veramente sciocco anche perché, di lì a qualche anno, quando anche Johnny, che adesso aveva dodici anni, si fosse fatto un bel Centauro adulto, il suo ambizioso progetto sarebbe finalmente arrivato a esprimere tutta la sua rivoluzionaria potenzialità. Una colonia di creature consapevoli, ma diverse dagli uomini e finalmente in contatto profondo e istintuale con la natura. Creature che sarebbero sopravvissute all’Homo Sapiens, in corsa verso l’autodistruzione. Era pur questo che l’aveva condotta a iniziare questa sua avventura scientifica! Grottesco pensare che, invece di attendere con ansia gli sviluppi della sua grandiosa intuizione, si facesse più spesso cogliere da struggenti nostalgie. O peggio da tentazioni sentimentali inconfessabili: possibile infatti che il suo pensiero principale non fosse quello di verificare la possibilità riproduttiva delle proprie creature bensì quello di coccolare il pelo morbido del suo primo nipotino? Chissà se sarebbe mai arrivata a vederlo un nipotino. Forse quella vita di sacrifici, di lunghe nottate a cercare, studiare, sperimentare le avevano mangiato un po’ alla volta ogni stilla di linfa vitale. L’aveva bruciato

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tutto insieme il patrimonio delle sue energie in un unico grande falò e ora non le restavano che tiepide ceneri. Quanto le restava da vivere? Nella più rosea delle previsioni dieci, quindici anni. Anni nei quali avrebbe dovuto lavorare senza risparmiarsi per popolare il mondo della maggior varietà possibile di creature perfette. Uno sbattere d’ali interruppe quelle riflessioni. «Annie, ancora qui? Stavo chiudendo la porta a vetri, non vedi? Stai attenta, amore mio, se arrivi così di corsa magari non te ne accorgi e ci sbatti contro… bum!»

Annie rise di gusto. «Non ridere sciocchina, guarda che questo è duro anche se non si vede e ci si fa male sai.»

Annie s’interruppe di colpo e guardò Mamma Jenny con improvvisa serietà. «Mamma, perché non dormi con noi, non mangi con noi, esci quando il sole è alto e te ne vai via quando scende di là dagli alberi?»

Tutto ciò le era arrivato di colpo dalla bocca di quel pulcino nero e bianco. Nessuno dei suoi ragazzi le aveva mai fatto una richiesta simile. Non avrebbe dovuto dire quelle cose, non avrebbe dovuto domandarsi perché, credeva di averli abituati. Le dispiaceva che l’avesse fatto: possibile che non si fosse ancora convinta che era così e basta? E soprattutto che non c’erano spiegazioni da dare. Mai. In questo modo li aveva cresciuti ed educati. Si chiede mai una pecora perché bruca l’erba?

La bruca e basta. Con le troppe domande l’uomo s’era scavato la fossa. «Perché non resti almeno una volta? Resta.»

A quelle parole Jenny Eliot si sentì confortata, non si trattava del mal di conoscere. Se quello era solamente il frutto di quell’attaccamento così forte nei suoi confronti, nessun problema, anzi.

«Non posso amore mio, alla sera la porta va chiusa e io devo restare qui, non si può fare diversamente, credimi. Hai mai chiesto al sole perché sbuca dagli alberi tutte le mattine?»

«No, perché lo fa per darci luce, altrimenti farebbe sempre buio.»

«Non gli domanderesti mai di dormire due giorni, vero?»

«No, gli chiederei di star sveglio due giorni!» Annie rise. Risero entrambe, era proprio simpatica quella sua piccola Arpia. Simpatica e inquietante.

L’umidità appena fuori della porta a vetri sembrava un muro da tagliare col coltello. Annie respirò a pieni polmoni quell’aria pesante, sentendosi

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molto più a suo agio che all’interno di quella zona più fresca e secca nella quale la mamma spariva ogni sera fino a quando l’indomani il sole si faceva alto, lasciandola ogni volta con un vuoto profondo da riempire con mille domande.

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NOTTE DI FOLLIA

La dottoressa Jenny Eliot non aveva affatto sonno. La sua piccola Arpia l’aveva turbata, l’aveva turbata soprattutto il suo sguardo. Diverso da quello degli altri. Con una luce particolare in quegli occhi azzurro ghiaccio. Nient’altro che la sua stessa luce. Una volta chiusa la saracinesca della grande porta a vetri, si fermò per qualche istante a controllare le apparecchiature della vasca-incubatrice dove il piccolo Fauno dormiva beato, fluttuando nel liquido amniotico artificiale. Non aveva ancora un nome. Era tempo oramai di pensarci seriamente assieme agli altri membri della famiglia. Si sarebbero ritrovati nella sala, chi inginocchiato sugli zoccoli, chi avvolto alla poltrona, chi aggrappato con gli artigli alla spalliera del divano e avrebbero discusso fino allo sfinimento prima di arrivare a una decisione comune.

E la prossima sfida? Il pensiero la stuzzicava come nessun altro: un altro figlio, una nuova vita e una nuova creazione. Era tempo di cominciare a farsi un’idea, a concepire nella sua mente il prossimo essere straordinario al quale avrebbe dato vita. Di una cosa era certa: non avrebbe avuto ali. Ali mai più. L’aveva fatto una volta un errore simile, aveva immaginato il rischio, ma era stato più forte di lei e alla fine era nata Annie. Annie con quella luce negli occhi. E le ali. Naturalmente, dopo di lei, l’errore purtroppo andava ripetuto. Così come aveva fatto dopo la nascita di ogni sua femmina doveva necessariamente dar vita anche a un’Arpia maschio per assicurare il futuro di quella meravigliosa popolazione che avrebbe abitato la Terra senza devastarla. E così aveva concepito Timmy. Andò nella sua camera da letto, alla quale si accedeva direttamente dalla sala con l’incubatrice. Ma non aveva alcuna intenzione di coricarsi. Quella sera non si sentiva affatto stanca. Provava un’eccitazione incontenibile, un fermento interno che trasmetteva energia a ogni fibra del suo corpo, rivitalizzandolo. Si sedette in poltrona e con la mano andò a colpo sicuro dentro il primo cassetto del comodino. Un libro.

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La luce calda e raccolta di un abat-jour rendeva quell’angolo molto intimo e caro. L’angolo magico nel quale erano stati concepiti tutti i suoi figli.

Le pagine erano ingiallite, ma i bordi non erano affatto né slabbrati, né spiegazzati, come se le innumerevoli volte in cui avevano girato e rigirato quelle pagine le sue mani si fossero mosse leggere come carezze. Lei era bellissima tra le onde azzurre, i capelli pure azzurri e la sua coda elegante e voluttuosa. Quanto avrebbe desiderato una sirena, era da sempre che pensava a una sirena. La sirena della prima pagina. La sua mano ne sfiorò il bel viso, un disegno anni Cinquanta un po’ stucchevole, ma che aveva fatto impazzire sicuramente anche molte sue coetanee. Perché anche lei era stata bambina e come ogni bambina aveva nutrito i suoi sogni di immagini speciali, destinate a imprimersi per sempre nella memoria e a diventare icone dei desideri. Ciò che non aveva mai più dimenticato la bambina di sessant’anni prima erano proprio quelle antiche creature metà uomo e metà animale di quel libro fatale. Miti greci recitava il titolo in leggero rilievo, dove l’oro delle parole si distingueva appena e solo intorno ai bordi. Il suo più caro ricordo d’infanzia e la radice del suo sogno più grande.

La suggestione di quei racconti, di quelle creature ineffabili, non l’aveva mai abbandonata, trasformandosi lentamente in venerazione per quel popolo sorprendente che aveva saputo dare origine a fantasie così seducenti. Il pensiero di dare una vita reale alla potenza immaginativa di quella Grecia Antica, immortale nell’arte e nel pensiero, era stato per lei un vero innesco all’esplosione del suo ambizioso progetto. Quasi una tentazione di per sé stessa.

Per l’ennesima volta accarezzò l’idea di far vivere l’azzurra creatura della prima pagina, il piccolo lago sorgivo della riserva sembrava lì ad attenderla ormai da anni.

Si riscosse da quel suo egoistico sogno a occhi aperti. I suoi figli non dovevano vivere da prigionieri! Dovevano godere di tutta la loro libertà in quel vasto territorio intatto che era la loro casa. Un piccolo lago avrebbe avvilito la gioia di vivere di una figlia con coda da pesce, privandola della libertà di cui aveva diritto. Niente sirena prigioniera, meglio altre forme di vita, forse non così affascinanti, ma a cui potesse offrire pienamente quel paradiso di verginità, in una condizione di assoluta e selvaggia libertà. Almeno in apparenza: mai i suoi figli avrebbero dovuto accorgersi della fitta recinzione, dissimulata attraverso

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siepi e rampicanti, che avrebbe impedito loro ogni contatto con l’esterno. Nessuno avrebbe mai parlato loro di ciò che stava fuori e nessuna ragione avrebbe mai dovuto spingerli a oltrepassare il limite di Eden Project. I quindicimila ettari circa di foresta erano racchiusi all’interno della ben più vasta riserva di proprietà esclusiva del Biodiversity Research Center. Aveva fatto erigere quella recinzione prima di iniziare gli “esperimenti”, giustificandone la costruzione con l’esigenza di realizzare una riserva integrale alla quale solo i ricercatori potevano avere accesso.

Girò bruscamente e non senza rimpianto la prima pagina. L’immagine che apparve, quella del Centauro, ebbe il potere immediato di ridarle serenità, così come quella dell’Echidna, la pagina dopo. Corpo di serpente. Spaventosa e affascinante ispirava con le sue spire un’irresistibile tenacia e volontà. L’immagine della Medusa invece la fece sorridere. La sua mente corse infatti a quel gomitolo verde, rosso e giallo che appena qualche ora prima rotolava sul pavimento. Addirittura due gemelli, un’impresa straordinaria. Poi la sua espressione si fece più tetra, ricordando perfettamente che, alla pagina seguente, sarebbe apparsa l’Arpia. Annie, la sua piccola adorata affettuosissima Annie. Annie che l’abbracciava mille volte al giorno con le sue calde penne bianche e nere. Annie dalle ali forti. Era lei che gliele aveva fabbricate quelle ali possenti per librarsi libera in volo ed era lei stessa che le impediva di usarle. Perché gliele aveva fatte quindi? Sette anni prima, seduta su quella stessa poltrona, avrebbe potuto girare pagina come da sempre faceva con la Sirena dei suoi sogni. Ma non l’aveva fatto.

Poi apparve l’ultimo dei suoi successi: il Fauno. Liza era troppo simpatica, quando si intestardiva per imboccare sua madre coi fiori di cacao. «Sono belli i fiori rosa», e a quella piccola che ostinatamente glieli sventolava davanti rispondeva paziente: «Belli ma…grazie non li mangio, tesoro. Anche a me piace il rosa, davvero, ma le cose che mangia mamma non sono quelle che mangiate voi.» Entro breve anche Liza avrebbe avuto il suo simile. Liza e…? Anche questo era un piccolo problema da risolvere. Sorrise tra sé e girò ancora una volta pagina. Era tempo di concepire una nuova vita.

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Difficile dormire in quella notte d’amore e di follia. Jenny Eliot uscì dalla sua stanza con in mano il suo prezioso libro e si diresse nella stanza situata al capo opposto della sala. Passò davanti all’incubatrice col piccolo Fauno che attendeva ancora un nome. Avrebbe voluto stringerlo a sé. Un po’ di pazienza, ancora due settimane e sarebbe stato tra le sue braccia.

Il suo laboratorio personale l’accolse con il calore emanato da microscopi, congelatori e vaschette per elettrolisi, oggetti del piacere, cari e importanti quanto gli arnesi per l’artigiano. Arnesi per plasmare l’argilla a immagine e somiglianza dei suoi sogni più luminosi. Lei non era un artigiano. Lei era Dio.

Se Dio aveva creato gli uomini dall’argilla, la sua argilla sarebbero stati i filamenti di DNA sapientemente organizzati in un embrione dalle caratteristiche perfettamente corrispondenti al progetto genetico ideato dalla sua mente. Ci sarebbe voluto un anno, due al massimo per approntarne uno nuovo. Ora che aveva le idee chiare avrebbe iniziato le ricerche precisamente in quella notte. La stanza era tutta bianca, bianche le pareti, i mobili, le attrezzature, bianche come la sua seconda pelle, il camice che si portava appresso da una vita. In quel piccolo ambiente adibito alle ricerche non mancava nulla per poter effettuare quegli studi di cui mai nessuno sarebbe venuto a conoscenza. Ben diversi da quelli portati avanti nel laboratorio ufficiale del Biodiversity Research Center. Non che quel progetto non l’avesse interessata un tempo, era stata lei a dargli vita diciotto anni prima, quando, sfruttando la sua indiscussa fama e il suo patrimonio personale, ne aveva iniziato la costruzione. Era convinta della necessità di ottenere una campionatura completa dell’immenso patrimonio genetico appartenente a flora e fauna dell’Amazzonia e dell’urgenza di intraprendere questi studi prima che gli uomini devastassero irrimediabilmente la ricchezza di quell’ambiente unico. Incendi e taglio degli alberi indiscriminato avvenivano infatti giornalmente anche poco distante da quel fazzoletto di foresta ancora vergine. Ingordi allevatori di bestiame, fazenderos senza scrupolo e senza cervello si mangiavano giorno per giorno intere fette di territorio per dare spazio a vaste distese di erba da pascolo. Sale da pranzo ben imbandite per quegli ingordi bovini che con i loro escrementi non facevano che liberare metano verso l’immensa serra in cui l’uomo andava incoscientemente imprigionando i raggi solari. In buona compagnia di quell’anidride carbonica emessa da

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industrie e motori, il cui propagarsi non veniva certo aiutato da quella massiccia strage vegetale. Era riuscita a vederli in faccia più di una volta quei campioni di grettezza, attraversando le zone limitrofe della riserva. Li aveva squadrati dalla jeep con i suoi occhi di ghiaccio. Il loro bestiame si nutriva sul cadavere della foresta, senza alcuna coscienza che, per far crescere ogni foglia di quell’erba, s’era posto fine all’esistenza di una specie.

Non le facevano bene quelle uscite nel mondo degli uomini, tornava carica d’odio e di ansia e diventava intrattabile. Doveva pretendere di più dai suoi devoti collaboratori, farli lavorare giorno e notte, per vincere quella lotta contro il tempo.

Alla fine aveva risolto con l’uscire sempre più di rado perché l’incontro faccia a faccia con la stupidità umana avrebbe rischiato di distruggerle la salute. Preferì a quel punto rimanere nella sala dei bottoni, mobilitando ogni possibile risorsa e influenza personale per mettere i bastoni tra le ruote a quelle canaglie che assediavano la riserva dai territori confinanti. Un bello scherzo quando promosse a livello internazionale l’iniziativa: “Adotta una foresta”. Ottenne un tale successo che ora il laboratorio si trovava circondato da ben trentamila ettari di proprietà privata in costante aumento. Che si tenessero alla larga dalla sua riserva i malintenzionati! Era già successo di far passare guai seri a qualche incauto bracconiere che mai avrebbe immaginato con chi aveva a che fare. Le piccole soddisfazioni della vita. Ci aveva creduto davvero. Per anni. Ma, nonostante il successo e l’ottimo lavoro che conduceva grazie anche alla sua vasta équipe di collaboratori, alcuni dei quali fidatissimi e di vecchia data, il suo sogno si infranse. Aveva pensato troppo, lo diceva sempre ai suoi figli. E pensandoci troppo non era riuscita più a crederci. Si era persuasa al contrario che tutti quegli sforzi non sarebbero stati utili ad alcuna generazione futura, visto che, con ottime probabilità, non ne sarebbero restate ancora molte. Il mondo andava verso un tracollo definitivo: lo testimoniavano i dati. A quelli, da scienziata qual era, doveva arrendersi. Troppe voci inascoltate, interventi tardivi, inutili, dannosi: in quel mondo di idioti nel quale era costretta a vivere, l’intelligenza umana al più alto livello dimostrava di venire utilizzata sostanzialmente nella direzione sbagliata. Un treno senza rotaie, una nave senza bussola, un’auto senza freni. Nei momenti di più cupa tristezza vagheggiava la costruzione di una macchina per

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misurare la smisurata stupidità umana per la quale a decidere del mondo sarebbero stati solo gli idonei. Ma il suo campo era la genetica e poi, con tutta probabilità, uno “stupidometro” non sarebbe servito a molto. Gli stupidi avrebbero continuato a dominare il mondo, una regola implicita del comportamento umano, inconfutabile come la più accreditata delle leggi di fisica. Così, a un tratto, il tempo a disposizione per i ripensamenti le apparve esaurirsi più in fretta di quanto aveva creduto. Non rimaneva che seppellire con l’uomo anche i suoi bei progetti. Delusa e abbacchiata che una struttura del genere stesse lavorando tanto bene quanto inutilmente rischiò una seria depressione e fu tentata di abbandonare tutto. Fu proprio raccogliendo gli oggetti cari con l’idea di ritornarsene negli Stati Uniti che quel Miti greci, compagno inseparabile della sua infanzia, tra i pochi oggetti che avevano avuto il privilegio di essere portati fin lì per ricordarle il suo passato, finì tra le sue mani imponendosi con la forza di una profezia. Fu una folgorazione: canalizzò allora tutte le sue energie in un’idea folle e geniale: il Biodiversity Research Center sarebbe diventato la facciata altisonante di un altro progetto, ben più convincente e finalmente definitivo: Eden Project. Salvare l’umanità gestendone l’esplosiva potenzialità genetica fu allora il suo nuovo chiodo. Addolcendo la natura umana con quella parte più propriamente animale legata strettamente all’istinto, le nuove creature non avrebbero mai più creato problemi né a loro stesse, né alla Terra e la vita di Jenny Eliot avrebbe avuto nuovamente un senso.

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ORA DI COLAZIONE

La debole luce dell’alba filtrava appena attraverso la lussureggiante vegetazione, così fitta che dentro il labirinto rigoglioso di alberi altissimi, liane penzolanti e sottobosco inestricabile, la penombra avvolgeva ancora ogni cosa. Per Annie non era un grosso problema: al buio non ci vedeva affatto male e presto avrebbe ritrovato i suoi fratelli. A causa di quel ritorno improvviso dalla mamma, la sera precedente, aveva trascorso la notte da sola senza alcuno dei fratelli nemmeno nelle vicinanze. Aveva dormito malissimo, con la testa piena di tanti pensieri. Lo diceva sempre Mamma Jenny: più pensi e più stai male, ma era colpa sua se i pensieri arrivavano da soli? Era ora di colazione e ognuno dei suoi fratelli a quell’ora si trovava sicuramente impegnato a risolvere nel migliore dei modi i problemi legati alla propria dieta personale. Altro che brutti pensieri.

Fred e Lily si trovavano avvinghiati con la loro possente coda di anaconda ai rami di un grande albero di noci del Brasile. Fred a pochi metri da terra, l’altra quasi in cima, attorcigliata agli ultimi rami tra le liane. Sotto il suo peso, il ramo prescelto da Lily come sede della prima colazione dondolava in modo preoccupante, ma niente paura, Lily sapeva il fatto suo. L’Echidna di undici anni, dalle proporzioni perfette, busto scultoreo e massiccia, lunghissima coda di serpente, se ne stava tranquilla protendendosi verso il basso con eleganza e sicurezza circense trattenendo il suo corpo da una caduta di quaranta metri solamente con le ultime spire.

Annie svolazzò fino a raggiungere il fratello Fred, tre anni più grande di lei, che se ne stava a testa in giù con aria di disappunto.

«Fred, Lily, come va? Si mangia lassù?»

«Non si mangia affatto, nemmeno un coato piccolo così. Piuttosto tu hai già mangiato?»

«No, sto cercando Alice, l’hai vista?»

«Sempre appiccicate voi due! Cos’hai da dirle che non puoi dirlo a me?»

«Cose da…femmine, va bene?»

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«Va benissimo: ti chiamo Lily, allora.»

«No no grazie!»

«Credevo che Lily fosse una femmina, veramente.»

«Va bè, chiamamela…ma solo per chiederle se ha visto Alice. Magari se dà un’occhiata da là sopra riesce a vederla meglio di me che mi tocca star qua sotto e farmi largo tra felci e cespugli.»

In quel momento ad Annie sembrò veramente tutto assurdo: chiedeva a Lily di guardare dall’alto quando lei stessa avrebbe potuto librarsi in aria ben al di sopra della sorella, oltre le cime degli alberi. Sentiva nelle ali da tempo una forza ormai matura che l’avrebbe portata chissà dove, eppure doveva accontentarsi di esercitarla esclusivamente in ridicoli voletti da qua a là. Ma perché Mamma Jenny continuava a vietarle un uso decente di quella meraviglia di ali che vedeva crescerle addosso? Ali dall’ampiezza maggiore di qualsiasi altro uccello che avesse mai visto.

«Ehi! Lily…Lily! Vedi per caso Alice?» esclamò Fred orientando la sua voce verso l’alto.

Un improvviso sbatter d’ali, poi una bordata di suono feroce che fece trasalire entrambi. «Sei un gran fesso Fred! Me l’hai fatto scappare!»

«Va bè ne passerà un altro, ti arrabbi sempre! Annie doveva chiederti qualcosa, è qui sotto, vuoi che ti raggiunga lassù?»

Annie lo guardò meravigliata: ognuno dei fratelli conosceva quel misterioso divieto della mamma.

«Vuoi che ti raggiunga arrampicandosi…volevo dire», specificò Fred, temendo di poter essere frainteso. Annie fece cenno vigorosamente di no con l’indice che spuntava tra le piume della grande ala destra. «No, ha detto che è di fretta. La vedi o non la vedi Alice da là sopra?» Seguirono alcuni attimi di silenzio, nei quali entrambi si convinsero che non avrebbero ricevuto alcuna risposta.

«È con Timmy e Liza, laggiù, in direzione del sole», si degnò di rispondere alla fine Lily.

«Grazie Lily.» Annie stava già per andarsene.

«Dovresti occuparti tu di Timmy finché non diventa grande», commentò gelida Lily tuonando dall’alto.

«È vero», aggiunse Fred, cercando di assumere un’espressione saggia che addosso a lui sembrava più una maschera comica. Ancora la voce dall’alto: «Mamma Jenny è stata chiara da sempre: la più grande si deve prendere cura del più piccolo.»

Annie alzò gli occhi al cielo.

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«Pensa ad Alice, Alice è il tuo idolo, no? Anche se non parli, ti vedo che sei lì sotto, sai.» E continuò declamando ad alta voce il suo sermone:

«Alice si è presa cura di Johnny fino a quando non è diventato grande. Ed è sempre lei che si prende cura di Liza che è ancora piccola, capisci dove voglio arrivare?»

«Non capisco…gli uccelli non mi fanno sentire niente!» rispose Annie da sotto l’albero.

«Sì sì gli uccelli…» e, scandendo le parole ancora più ad alta voce, l’Echidna scivolò su un ramo più basso. «Tu dovresti occuparti di Timmy come io mi occupo di Fred.»

«Ti occupi di chi?» commentò quest’ultimo, lanciando un’occhiata verso la sorella maggiore, a metà tra il divertito e l’offeso. Quando riabbassò gli occhi, convinto di trovare sicura approvazione in Annie, questa non c’era già più.

Alice non era in effetti molto distante. Raccoglieva felci e rampicanti per la sua colazione e quella della piccola Liza che, accoccolata sulle proprie zampe da capretto, se le portava alla bocca riempiendosi le guance con evidente soddisfazione.

«Se aspetti un attimo ti porto i fiori del cacao, mi pare di vederli laggiù su quel tronco.»

«Sì sì sono buoni sono rosa!»

«Intanto, lo vuoi assaggiare questo philodendron? A noi Centauri piace, non so a te, assaggia e lo saprai.»

«E io cosa mangio? Sono qua che aspetto e non mangio niente! Non voglio le felci e neanche i fiori io!» La piccola Arpia maschio sprofondò la testa di capelli neri tra le penne delle ali: un batuffolone grigio e nero più offeso che affamato.

«Lo so, Timmy, accidenti a tua sorella, però.»

«Allora ci penso da solo, tanto mia sorella non mi bada mai.» La piccola Arpia maschio girò le ali alla Centaura, muovendo le zampe artigliate a lunghi passi con eccessiva baldanza.

«Ok stai attento però, io ti do un’occhiatina…non allontanarti troppo!»

«Non venirmi dietro che se no i ranocchi mi scappano tutti.»

«D’accordo Timmy, non te li farò scappare.»

Annie aveva intuito da lontano che quel fratellino digiuno non l’avrebbe messa affatto in sintonia con la sorella grande dalla quale ormai era scritto che avrebbe ricevuto la seconda lavata di capo della giornata e della cui compagnia sentiva, peraltro, dopo quella brutta notte, un

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grandissimo bisogno. Prima che il fratellino concludesse con successo la sua spedizione verso una promettente bromeliacea dalla cui coppa sembrava dovesse rimediare senz’altro una qualche rana arboricola, si decise ad agire tempestivamente. Per terra una salamandra gialla e arancione apparve per incanto ai suoi occhi seminascosta tra le foglie. Era lì apposta per aggiustare ogni cosa. In un attimo le fu addosso afferrandola coi forti artigli delle sue zampe.

«Questa è per Timmy, poverino», disse tra sé, sentendosi un po’ in colpa per quel fratellino al quale, in effetti, non stava così dietro come avrebbe dovuto.

«Ehilà Timmy, guarda cosa ti ho portato!»

«Ce la faccio anche da solo», disse, dissimulando la contentezza per quel bocconcino prelibato che Annie sventolava ad ala spiegata.

«Annie, dove sei andata ieri sera così di corsa? Non ti ho più visto», s’intromise Alice un po’ freddamente.

«Sono tornata dalla mamma.»

«E cosa ci sei andata a fare?»

«Volevo chiederle una cosa.»

«Ho capito. Ti sei decisa e le hai chiesto finalmente quando potrai usare le tue ali. Meglio così, almeno avrai finito col tormentare me che tanto non posso risponderti. E cosa ti ha detto?»

«No, Alice, non le ho chiesto questo.»

«Peccato… E cosa ti è saltato in mente di domandarle?»

«Le ho chiesto perché…»

«Le hai chiesto perché? Ma lo sai che quella parola meno la dici e meglio è… Scommetto che hai fatto dispiacere alla mamma.»

«Sì.»

«Ecco vedi e ce n’era proprio bisogno?»

«Sì.»

«E basta con questi sì! A questo punto raccontami tutto bene, ti vedo con una faccia…ma hai dormito stanotte?»

«Non proprio, mi venivano in mente tanti pensieri.»

«Oh siamo alle solite, Mamma Jenny lo dice sempre che fa male pensare, che è una specie di malattia. Chi si fa troppe domande, non vede e non sente.» Alice aveva cambiato tono ed espressione, per un attimo ebbe addirittura la fastidiosa sensazione di parlare ancora con Lily. «Tu, ad esempio, non vedi che tuo fratello ha bisogno di te? Se solo sapessi guardare, lo vedresti eccome! E queste? Queste le vedi? Sono felci. E

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questi altri? Fiori di cacao. Non ne so niente di come si fa a cacciare un topo o un ranocchio, io! Ecco, te l’ho detto, mi sono sfogata e forse adesso riesco anche ad ascoltarti più volentieri.»

Annie aprì le ali con un bel dietro front e svolazzando scomparve nel folto della vegetazione.

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CAGNOLINO

Quando Jenny Eliot uscì dal laboratorio doveva avere un’aria davvero molto stanca, perché ognuno dei ricercatori del Biodiversity Research Center la salutò mostrando lo stesso malcelato stupore, mentre si aggirava per i banconi della sala centrale del laboratorio senza alcuno scopo evidente. Qualcuno di loro, dopo il suo passaggio, aveva continuato a seguirla con lo sguardo per qualche istante, curioso di vedere dove la portasse quel pellegrinaggio a vuoto tra microscopi, scintillatori e centrifughe. Anche al dottor Parker, che le era stato fedele collaboratore fin dall’inizio, quell’atteggiamento non convinceva. Se la grinta di quella donna di ferro si era affievolita progressivamente negli anni, ancora mai l’aveva vista scivolare dietro le schiene dei suoi collaboratori come un fantasma in camice bianco. «Dottoressa Eliot, si sente male?»

«Dottor Parker non mi guardi in quel modo, alla mia età ho tutto il diritto di soffrire qualche volta d’insonnia. Lei dorme sempre come un fanciullo?»

Brad Parker, solo qualche anno più giovane di lei, non rispose e la lasciò nuovamente alla sua carrellata spettrale. Sapeva di doverle dare una notizia molto importante e assai positiva per la reputazione del laboratorio e non voleva in alcun modo turbare quel momento di entusiasmo che avrebbero a breve condiviso. Avevano vissuto insieme, giorno dopo giorno, per tanti anni, tra successi e insuccessi, trepidazioni, timori, gioie e dolori, e per il dottor Parker, Jenny Eliot significava molto più che la presidentessa del Biodiversity Research Center. Erano invecchiati insieme e il fascino della sua forte personalità era stato per lui come un faro nella notte.

«Dottoressa Eliot, desideravo comunicarle con mia grande soddisfazione che abbiamo isolato alcuni nuovi geni dalle bacche di guaranà. Ho ragioni per credere che il loro impiego nel campo della cosmesi sarà rivoluzionario e penso che il Biodiversity Research Center trarrà grandi vantaggi da questa scoperta.»

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«Mi fa piacere, ci servirà per salvare qualche altro ettaro di foresta.»

Jenny Eliot l’aveva degnato solo di un fugace sguardo, immeritatamente spento.

In altri tempi si sarebbe mobilitata con l’efficienza di una macchina perfetta. Davvero non chiedeva chi, come, cosa, quando? Davvero aveva deciso di continuare la sua passeggiatina sonnacchiosa?

Il dottor Parker continuò a seguirla imbambolato ripercorrendo l’esatto suo percorso, soste comprese, restando a un paio di metri da lei, nella speranza di assistere alla comparsa a scoppio ritardato del grande assente: quel suo entusiasmo travolgente, del quale sentiva di non poter fare a meno.

«Che fa dottor Parker, mi segue come un cagnolino?» disse a un tratto la dottoressa girandosi verso di lui. Il dottor Parker la guardò attonito, offeso da quel sarcasmo del quale quella donna era sempre stata prodiga, ma che il più delle volte l’aveva soltanto sfiorato. Ma la ragione della sua profonda inquietudine era un’altra: faceva fatica a riconoscerla. Lo colpiva l’atteggiamento incolore tanto distante dall’immagine che di lei si era fatto negli anni. Soprattutto quella pelle livida e le borse sotto gli occhi che sembravano essere state tinte di blu durante la notte. Era mai stata bella quella donna patita e pallida che aveva di fronte? Forse no, ma c’era stato un tempo in cui gli era sembrata tale. Molti e molti anni prima. La cosa più curiosa: continuavano ancora a darsi del lei. Sentì in quel momento più forte che mai la tentazione di chiamarla per nome e, proprio ora che lei gli aveva dato del cagnolino, lui avrebbe volentieri risposto chiamandola “Jenny”. In realtà sapeva che non lo avrebbe mai fatto.

«Si rilassi, dottor Parker e mi lasci continuare il mio giro di controllo», proseguì imperterrita come se davvero stesse credendo a ciò che diceva.

Il dottor Parker si sedette su uno sgabello addossato alla parete con gli occhi a fissare il vuoto.

Due giovani ricercatrici, lavorando su alcune colture, si erano trovate a pochi centimetri da dove si era svolta la conversazione. Una di loro, con la coda dell’occhio, aveva seguito l’allontanarsi del grande capo e del suo braccio destro.

«Due mesi fa mi sono presa una lavata di capo solo perché i guanti usati erano sul banco e non nel cestino. Guarda che hai avuto fortuna…» commentò sottovoce Susie Blut a Tess Prinor che la guardava con fare colpevole.

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«Ti pare che non lo sappia? Ha rivolto disgraziatamente lo sguardo proprio nel momento in cui ho fatto il pasticcio.»

«È incredibile che non se ne sia accorta. Eppure era bello giallo!»

«Lo so che era bello giallo», rimarcò con disappunto Tess Prinor, finendo di pulire con una salvietta il liquido di contrasto che aveva appena versato. «Oh Dio, adesso torna…aiuto torna.»

«Ma no, non vedi che va avanti? Sai cosa ti dico, siccome non può non aver visto quel tuo bel pasticcio, io dico che ha fatto finta di niente. Non ha voluto mortificarti, Tess, tutto qua.»

«Impegnata a mortificare il dottor Parker, dici?» si introdusse nella conversazione Jimmy Tred, il ricercatore a fianco, tra gli ultimissimi acquisti del Centro. «Ma avete sentito come l’ha chiamato? Cagnolino! Credevo fossero vecchi amici.»

«Amici? Non credo che il grande capo abbia molti amici e qualche volta mi meraviglio di come riusciamo a restare qua in trentotto, nel cuore dell’Amazzonia, per rischiare di sentirci chiamare cagnolino.»

«Non giudicate con troppa semplicità ragazzi miei», commentò una ricercatrice più attempata a fianco del ragazzo. «Ve ne accorgerete anche voi che “grande capo”, come dite voi non è quello che può sembrare di essere, è diciamo…molto decisa in ciò che dice e pensa. E non lo nasconde affatto, anche se questo a volte può risultare, a torto o a ragione, alquanto sgradevole. Anche a me all’inizio non piaceva affatto, poi non sono mancate le occasioni per capire quanto non fossimo affatto invisibili ai suoi occhi. Credo che se sono ancora qui dopo quindici anni ciò sia dovuto senz’altro alla stima reciproca. Mi meraviglia molto di più invece come la dottoressa Eliot non si sia accorta che lei aveva versato qualcosa sul banco, dottoressa Prinor. Stia più attenta la prossima volta.» La dottoressa Tess Prinor si sentì scoperta mentre finiva di asciugare il suo piccolo danno e tornò al lavoro a testa bassa. Tutto sommato le era andata bene. Meglio cento volte essere redarguita dalla dottoressa Finnemann che dal grande capo in persona.

Jimmy Tred, il giovane dottore che stava a fianco di quest’ultima, commentò: «Sa che anche io ho trovato strano il comportamento della dottoressa Eliot? Dottoressa Finnemann, ho dato diversi esami di medicina prima di passare a biologia e le posso dire che la faccia con cui si è presentata stamattina la nostra presidentessa non mi piace affatto. Il medico ufficiale è il dottor Parker qui dentro, no?»

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«Se non desidera apparire indiscreto, tenga le sue osservazioni per lei. E comunque sì, Parker ha esercitato almeno quindici anni, prima di dedicarsi a questi studi, come primario di chirurgia, le basta? Credo che la dottoressa Eliot non abbia bisogno del parere di un giovane biologo, caro ragazzo, se ci sono problemi non sfuggiranno né a lei né al dottor Parker.»

Le due giovani ricercatrici a fianco si erano alzate e con la scusa di andare a prendere del materiale stavano dissimulando una chiacchierata complice e divertita.

«Ma lo sai Tess, che pare che nessuno ci sia mai entrato? Top secret per tutti, per entrare ci vuole addirittura la password che pare conosca solo lei, tra l’altro», bisbigliò la dottoressa Susie Blut.

«Secondo me si porta gli amici», aggiunse sottovoce la collega e amica Tess Prinor. «Si porta gli amici da fuori, magari delle specialità locali.»

Susie trasalì divertita e subito commentò guardandosi le spalle: «Ma parla piano e poi…che antipatica che sei! Poveretta, non vedi che aspetto sciupato?»

«È sciupata, sfido, dopo una notte di follia!» bisbigliò Tess sempre più eccitata da quell’ipotesi esilarante.

Anche Susie non riuscì a quel punto a trattenersi da una risata a volume zero per la quale i suoi occhi divennero tutti rossi e pieni di lacrime.

«Che stia attenta perché a quell’età finisce male con gli strapazzi», caricò ancora Tess porgendole un fazzoletto.

«Basta adesso, per favore, se mi scompiscio finisce che ci licenzia», implorò Susie a sé stessa e all’amica.

«Prova un po’ a pensare, però, se il grande capo tutto a un tratto…»

«Ho detto basta.»

«Ma mi lasci dire una cosa sensata? Sto dicendo sul serio: cosa accadrebbe a questa bella baracca se tutto a un tratto…ci lasciasse?»

«Nel senso di?»

«Nel senso che le venisse un colpo, non lo so, insomma hai capito.»

«È chiaro, il tutto passerebbe al suo braccio destro, il dottor Parker. Oh Dio, lo vedi? È lì seduto che guarda il pavimento…»

«Era in quell’esatta posizione anche cinque minuti fa.»

«Sembra distrutto anche lui accidenti.»

«Ho capito tutto», disse Tess tornando alla carica più maliziosa che mai.

«Sappiamo qualcosa in più sul festino della nostra presidentessa, adesso.»

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«Tess, avevamo detto basta.»

«E poi, non è mica brutto, ha la sua età, d’accordo, ma prova a immaginarlo giovane, adesso ha i capelli brizzolati, ma secondo me dovevano essere di un nero corvino…»

«Uh quanta fantasia!»

«È fantasia quel fisico secondo te? Da favola piuttosto! Un po’ di anni fa s’intende.»

«Sarebbero stati una bella coppia, non credi?»

«Ma stai scherzando?»

«Sì.»

Il dottor Parker finalmente si decise a lasciare lo sgabello. Cercò con lo sguardo la dottoressa Eliot finché partì con passo risoluto verso di lei.

«Devo parlarle, dottoressa.»

«Di cosmesi?»

«No, di salute.»

Jenny Eliot lo fissò gelida.

«La sua», aggiunse il dottor Parker.

La donna gli girò le spalle senza dire una parola e il cagnolino si trasformò in segugio.

«Dottoressa Jenny Eliot!» disse con un piglio insolito e a voce alta, tanto che molti ricercatori si girarono sorpresi. Quel tono da comandante pronto a redarguire la recluta era davvero una novità nei confronti del loro capo indiscusso.

Jenny Eliot sentì di odiarlo come non era mai accaduto prima, gliel’avrebbe fatta pagare carissima quella sfrontatezza. Ma in quel momento era troppo stanca per reagire e accelerò il passo verso la porta blindata. Dovette accorgersi suo malgrado che quei rapidi movimenti le costavano una gran fatica ed erano accompagnati da uno sproporzionato fiatone.

«Si eclissi», intimò a Parker che l’aveva in breve raggiunta.

«Non prima di averle come minimo controllato il polso.»

«So farlo da me, se ne vada.»

Il dottor Parker fece ciò che avrebbe da sempre voluto fare: le prese la mano. Jenny Eliot a quel gesto rimase imbambolata come una donna alla quale, senza preavviso, giungesse sulle labbra un bacio inaspettato. Con sorpresa sentì che quella stretta calda e forte le dava tutt’altro che fastidio: chi pensa non vede e non sente, lo ripeteva sempre ai suoi figli.

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La sentiva e vedeva quella mano tenace e ancora una volta il pensiero giunse a rovinare ogni cosa. Ritrasse la propria mano con rabbia.

«Sono il medico qui dentro», reagì risoluto Parker, «e rispondo della salute di tutti qui. Che ne direbbe se uno dei ricercatori in presenza di sintomi sospetti si rifiutasse di farsi visitare?»

«Ma quali sintomi, dottor Parker! Io sto benissimo.»

Jenny Eliot gli girò ancora una volta le spalle con stizza.

«Lo sa cosa rischia?» si sentì urlare da dietro. Stavolta ci fu un simultaneo sollevarsi di sguardi e un silenzio irreale li avvolse: erano al centro dell’attenzione, lui e lei come in una telenovela. O meglio, come in un documentario: quante volte s’era visto il passaggio di potere dal vecchio capobranco malato al suo successore pronto a farsi avanti e a comandare. Ci voleva un’esibizione feroce a cui tutto il branco avrebbe assistito. Parker rivale e traditore, altro che cagnolino, quanto ancora avrebbe dovuto schernirla dinanzi a tutti? Jenny Eliot sentì allora fortissimo il richiamo verso il suo vero mondo, quello che aveva creato lei stessa al di là della porta blindata. Un mondo d’amore che non l’avrebbe mai tradita.

Digitò febbrilmente la password e scomparve nel suo regno con la convinzione di restarci per sempre.

Brad era un grande. Lo aveva sempre saputo che le voleva bene. Ora che si sentiva al sicuro nella sua tana vedeva tutto più lucidamente. La paura fa sragionare e un animale braccato può diventare feroce. Avrebbe dovuto imparare a chiedere scusa, prima o poi.

Un grande amico e un gran medico. Come aveva potuto allarmarsi solo guardandola ipotizzando la sofferenza cardiaca che l’aveva stesa a terra per ore in quella notte da incubo appena trascorsa? Era salva per miracolo. Si era trascinata verso l’armadietto delle medicine ed era intervenuta prontamente stringendo i denti per il dolore che sembrava infierire sul suo petto come una violenta pugnalata.

Proprio nel momento più bello, quello del concepimento di una nuova creatura, il cuore, forse per la grande eccitazione, aveva fatto i capricci. Capita talvolta, dicono, mentre si fa l’amore.

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A UN PASSO DAL CIELO

La zona di foresta in cui i figli di Jenny Eliot vivevano beati e ignari di tutto ciò che li circondava, era costituita da un territorio pianeggiante di vegetazione fittissima che non lasciava alla vista alcun margine per spaziare. In un unico luogo speciale la foresta non si chiudeva nel consueto labirinto vegetale. Un laghetto sorgivo di modeste dimensioni creava un buco liquido in cui gli occhi potevano conquistare finalmente nuove dimensioni e lasciava lo sguardo libero di percorrere una vasta porzione di cielo.

Fenicotteri rosa posti a un lato della vasta pozza immergevano i loro colli sinuosi alla ricerca di cibo. Dal lato opposto, Annie stava a guardarli pensierosa con le zampe aggrappate a un fitto reticolo di radici che si spingevano oltre il limite del suolo come artigli nell’acqua. Ad Annie piaceva quel posto proprio perché lì c’erano spazio e distanze, c’era aria, c’era cielo. Concentrò la sua vista da aquila su quelle eleganti creature: erano rosa, dalle lunghe zampe sottili e il becco ricurvo e lei riusciva a distinguerne le sfumature del piumaggio e perfino a vedere se avessero o meno qualcosa in bocca. Erano belli come lei, come i suoi fratelli, come la mamma e tutti gli esseri della foresta. Tutti belli e tutti diversi. Chi nuotava e chi strisciava, chi camminava e chi volava. Anche lei avrebbe volato come quei fenicotteri che dopo una lunga sosta per rifocillarsi, tutti insieme, in un attimo, avevano preso il volo. Chissà dov’erano diretti.

Annie li guardò attraversare tutto il lembo di cielo che la corona degli alti fusti le permetteva di vedere e li seguì mentre scomparivano oltre le cime. Restò imbambolata con lo sguardo verso l’alto finché un serpente verde e rosso, velocissimo, andò a cingerle la zampa destra. Un secondo dopo anche quella sinistra finì avvolta da altre spire, stavolta verdi e gialle. Il risultato immediato fu un bagno non previsto.

«Lo sapete che non mi piace l’acqua!» sbraitò Annie mentre, in un’esplosione di spruzzi, faceva arruffare le bianche piume del petto e le penne nere e grigie delle ali con rapidissime vibrazioni di tutto il corpo.

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Katie e David emersero dall’acqua ridendo a crepapelle e, in un attimo, aggrappandosi con agilità alle radici con due mani e cinquantaquattro serpenti a testa, furono accanto ad Annie.

«Ma Annie! Come facevamo a resistere con quelle tue zampe lì davanti ai nostri occhi, pronte a…» commentò Katie ancora piegata in quattro. «Pronte a far che? A essere sbattute in acqua assieme al resto?» l’interruppe Annie seccata.

«È stato troppo divertente!» aggiunse David asciugandosi le lacrime.

«Ma proprio non immaginavi di trovarci qui all’ora di colazione?»

«È vero, avrei dovuto immaginarlo…se mi fossero venuti in mente i gamberetti, ma non mi sono venuti in mente, ecco! Pensate un po’ che cercavo un posto per starmene tranquilla.»

«Ma dai, tranquilla! Qui tra poco verranno a bere le scimmie, sai che baccano!»

«Meglio ascoltare le scimmie che voi, ecco!» rispose Annie risentita, allontanandosi zampettando lungo il bordo del laghetto.

Le due Meduse, dopo una scrollatina di spalle, si rituffarono in acqua e la loro testa di serpenti ritornò immediatamente al lavoro, frugando il limpido fondo della pozza alla ricerca di ghiotti bocconcini.

«Ehi Annie!» Katie riemerse un istante dopo ed esclamò ad alta voce in direzione della sorella. «Annie, io lo so cosa guardavi sai, non ti sei nemmeno accorta di noi che stavamo sotto il tuo naso!»

Annie si girò e fingendo un certo disinteresse si fermò ad ascoltare.

«Guardavi i fenicotteri.» Annie si sentì trafitta ancora una volta dall’ennesima colpa della giornata. Ma quella colpa era la più grande di tutte.

«E se così fosse ci sarebbe qualcosa di male?» disse con goffa noncuranza.

«No, ma secondo me tu vorresti fare come loro», arrivò finalmente al dunque Katie.

Annie sbottò con la voce che quasi le tremava: «Oh, ma perché tutti mi tormentate con questa storia!»

David era riemerso con la bocca che ancora masticava. Dinanzi a lui si presentò lo spettacolo inaspettato delle due sorelle che si guardavano in modo inusitatamente ostile. «Ma cosa succede?» mormorò preoccupato. «Non succede niente», rispose Katie asciutta, mentre i suoi serpenti facevano nuovamente vibrare la linguetta, tra le radici immerse nell’acqua.

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«Non è vero, succede che Katie non mi lascia stare. E guai a lei se quello mi sfiora con la lingua!» sbraitò indicando uno dei serpenti che sembrava dirigere le proprie vibrazioni nella sua direzione.

«E cosa ti ho detto di tanto grave, dimmi?» «Che voglio disubbidire alla mamma.» «Questo lo stai dicendo tu veramente. Io ho detto solo che ti piacerebbe.» «Lo so di cosa state parlando: che la mamma le ha detto tante volte di non volare alto, vero? Ma lei non lo fa, no Annie?» commentò David assumendosi il ruolo di bravo paciere. Ma detto da David, che un bravo paciere non lo era mai stato, la frase suonò ad Annie come l’ennesima provocazione. E la risposta che diede lasciò entrambi di ghiaccio: aprì le ali allungandosi verso l’alto e così facendo apparve in un attimo molto più grande, più matura e più forte. Quelle ali in tutta la loro apertura erano immense, non le avevano mai viste aperte a quel modo mentre ostentavano tutta la loro ampiezza. Non solo loro, ma nessuno dei fratelli l’aveva mai vista così e nemmeno la mamma, perché quella cosa che stava facendo per la prima volta non avrebbe potuto procrastinarla in eterno.

Lei stessa si vide immensa e ciò non la turbò affatto. Katie e David ebbero l’impressione che fosse cresciuta di diversi anni sotto il loro naso, sembrava diventata grande tutto d’un colpo, con la forza e la determinazione di un grande. Accompagnata dallo sgomento nel loro sguardo, la giovane Arpia mosse vigorosamente le ali. Le sue zampe in un attimo lasciarono il suolo. Le bastò qualche battito ben assestato per librarsi possente a un metro dall’acqua. Restò così ad ali spiegate viaggiando a gran velocità sfiorando l’acqua verso l’altra sponda sotto lo sguardo attonito dei due gemelli.

Un attimo dopo David e Katie a bocca aperta ascoltavano la sua risata argentina che proveniva dall’altra parte dello specchio lacustre. Quanto poco ci aveva messo a coprire quel centinaio di metri? Era balzata dall’altra parte con la velocità dei grandi uccelli. Loro nel cielo non c’erano mai stati, ma avevano visto i giaguari correre nella foresta. Lei era assai più veloce di un giaguaro. Lei aveva la velocità di chi apparteneva al cielo e non alla terra, di chi aveva bisogno dei grandi spazi aerei per vivere ed essere felice. Restarono ammutoliti a guardarla con l’impressione sinistra che sull’altra sponda non vi fosse più la sorellina che conoscevano.

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«Non ho volato alto, no?» udirono i gemelli in lontananza e quelle parole non ebbero affatto il potere di tranquillizzarli. «Quindi lo posso fare ancora», continuò davanti a loro un attimo dopo.

David e Katie tremavano di un’ansia sottile per la quale non ebbero nemmeno il coraggio di guardarsi. Continuarono a restare impalati e muti in piedi, aspettandosi il peggio. La guardavano andare e venire mentre sfiorava l’acqua con le ali, e giocare con quella distanza che sembrava ridursi a ogni suo volo.

A un tratto cambiò direzione e prese a percorrere ampi giri come le aquile in cielo, maestosa e fiera come le regine dell’aria. Così anche se non era affatto in cielo, ma appena un metro lontana dall’acqua, agli occhi dei due fratellini sbalorditi quel volo circolare, robusto ed elegante, apparve come un presagio terribilmente funesto. «Alice, guarda!» Timmy, la piccola Arpia maschio, stava arrivando galoppando in groppa alla sorella maggiore. Quest’ultima per far divertire lui e Liza, il fauno di tre anni, si muoveva alternando il galoppo a leggere scalciate che facevano sobbalzare entrambi sul suo dorso. Liza si teneva ben salda alle penne di Timmy, a sua volta aggrappato al torace di Alice con le ali e sembravano divertirsi davvero un mondo in quella curiosa giostra.

La bella Centaura dai capelli corvini si arrestò di colpo. «Alice hai smesso, uffa! Hi guarda sta volando! Annie vola, guarda come vola!» Sembrava fosse Liza l’unica a compiacersene e in effetti era l’unica che avesse avuto il coraggio di aprire bocca. Timmy, sopra la groppa di Alice, con le manine che spuntavano dalle penne delle ali, si coprì gli occhi, diventando un grumo informe di penne e piume, sotto le quali i capelli corvini scomparvero completamente.

La Centaura riprese a spostarsi verso il laghetto con lentezza esasperata. Gli sguardi di David e Katie si incrociarono sgomenti con quelli dei fratelli in arrivo e subito dopo entrambi corsero ad abbracciare la sorella maggiore avviluppandola dove potevano con braccia e serpenti e con tutto quello che potesse servire loro a sentirsi protetti dal calore rassicurante del suo grande corpo equino.

«Annie è diventata matta», sancì Katie guardandola negli occhi, volgendo la testa dove il volto della sorella sembrava potesse dominare il mondo grazie alla sua altezza.

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«State facendo la cosa più grande di quello che è, rilassatevi tutti quanti, che è meglio.» Johnny, il Centauro dodicenne, era comparso all’improvviso alle loro spalle.

«Johnny, cosa dici? Non sono voletti quelli, sta volando sul serio, guardala!» esplose Alice animata da evidente angoscia.

«Vola, ma non vola alto, guardate…ecco ha toccato l’acqua! Li avete visti gli spruzzi? È cielo secondo voi quello?»

I quattro fratellini abbarbicati al corpo di Alice, chi sopra e chi sotto, non mossero un muscolo e nemmeno Alice fece nulla per scrollare di dosso quell’assillante compagnia.

«Quanta paura! Il riflesso del cielo può trasformarsi in cielo vero, secondo voi? Magari tra un po’ piove da sotto, con le nuvole a rovescio.»

Johnny non era riuscito a far divertire proprio nessuno con quella battuta e comunque aveva la piacevole sensazione di sentirsi molto più ometto degli altri in quel frangente che pareva aver privato anche Alice della sua carismatica flemma.

«Non è cielo, è acqua, è acqua!» spezzò a un tratto il silenzio Liza, dall’alto della groppa di Alice. E iniziò a saltellare sugli zoccoletti, compiaciuta di aver capito la cosa prima degli altri che mantenevano ancora nell’espressione il turbamento iniziale.

«Smettila Liza, mi stai triturando la schiena», la redarguì secca Alice. Liza smise all’istante.

Annie guardava estasiata il biancheggiare delle nuvole sotto di sé e il volo degli uccelli che si rincorrevano sotto le sue zampe in quel mondo alla rovescia che era l’immagine stessa della sua illusoria felicità. Con quel finto cielo sotto di sé, provava una sensazione nuova, inebriante. Si sentiva padrona dell’aria, di quell’aria che riusciva a dominare con le sue ali possenti. Era incredibile: esse sembravano già conoscere tutto ciò che serviva per padroneggiare il suo corpo nel cielo. Come rapita da quel movimento rotatorio, in un’estasi infinita di godimento assoluto, sembrava non doversi più fermare.

«Ho detto che non si ferma più», mormorò Katie piagnucolando.

«Si ferma si ferma…e vedrete che se noi andiamo via si fermerà anche prima», decretò Johnny muovendo i primi passi lontano dal lago. Tutta la curiosa combriccola lo seguì in silenzio.

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A UN PASSO DALLA PORTA

Per Jenny Eliot trovarsi a casa in quell’ora assai insolita era di per sé stesso inquietante. Era rientrata a casa molto in anticipo rispetto all’orario stabilito, non era forse mai successo.

Più che entrata, era scappata. Una fuga disdicevole. Davanti a tutti i suoi collaboratori, davanti a Brad Parker che stava facendo la cosa più giusta per lei, quella che lei stessa avrebbe dovuto fare e molto prima: accertamenti seri e una cura ben fatta, forse addirittura l’applicazione di un bypass.

Avrebbe voluto sprofondare e alla rabbia si era così sostituita la vergogna, e in un rapidissimo evolversi di emozioni, accanto alla vergogna si era fatto largo un ospite altrettanto insolito: la paura. Aveva rischiato di morire quella stessa notte e lei aveva l’incoscienza di restarsene lì sola, lontana da tutti, con una bella password a fare da guardia a chiunque desiderasse soccorrerla. Anche in quel preciso istante, magari con un infarto alle porte, lei stava perdendo il suo tempo a ragionare. O sragionare che fosse. Con quella sua capacità di piegare la materia vivente al suo volere, aveva vissuto un’esistenza speciale da “creatore” e come Dio si era illusa, nel profondo di sé stessa, di poter generare vite, e vite speciali, senza intoppi di salute, efficiente come sempre. Era invece un Dio debole, imperfetto e bisognoso di cure. Bisognoso degli altri. Un Dio assurdo. Forse doveva smetterla con quel gioco da pazza, guardare in faccia la realtà, pensare a sé stessa e ai suoi figli.

Figli. Dopo la paura il panico: aveva generato delle creature che andavano gelosamente tenute nascoste, troppo perfette per essere amate da un mondo di idioti alla vigilia dell’estinzione. Unico seme del futuro, non avrebbe mai potuto germinare in un terreno irrimediabilmente impoverito, avvelenato. Solo la terra fertile e vergine di Eden Project avrebbe potuto preservarne l’integrità.

Ma se lei avesse ceduto alla tentazione di anteporre la sua vita assicurandosi la possibilità di un soccorso immediato, il suo segreto

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sarebbe stato scoperto. E i suoi figli in pericolo. Se avesse deciso di trascorrere la maggior parte del tempo fuori dalle sue stanze personali, nella speranza che un eventuale altro problema si verificasse quando non si trovava sola, avrebbe potuto raggiungere l’ospedale di Manaus. Due ore di strada battuta con la jeep dal Biodiversity Research Center alla città, poi altra strada in mezzo al traffico: tre ore, forse due e mezza. Sarebbero bastate per giungere in tempo? Se fosse morta i suoi figli sarebbero restati soli con il loro segreto, un segreto fragile una volta fuori dalla tutela della sua vigile presenza. Ma anche se si fosse decisa ad affrontare la malattia senza nascondere la testa sotto la sabbia, avrebbe dovuto lasciarli a lungo accerchiati da ogni parte, in balia di un mondo perverso. Che fosse morta o scomparsa, anche solo per un certo periodo, per i suoi figli sarebbe stato esattamente lo stesso: non avrebbero potuto spiegarsi la sua sparizione e lei non avrebbe mai potuto prepararli all’evento, dare loro delle spiegazioni. Che mai poteva dire? Che li lasciava per un po’ perché andava in ospedale? Cos’era un ospedale per loro? Non poteva e non doveva esistere un ospedale per i figli di Jenny Eliot, come non doveva esistere nel loro pensiero nient’altro che quel bel mondo che conoscevano. Eden Project doveva essere l’unica realtà possibile, l’unico orizzonte nel quale muoversi con il corpo e il cervello. Nessuna spiegazione alla sua scomparsa perché uscire da quel mondo anche solo con la mente avrebbe significato per loro una tentazione fortissima. Dopo averla cercata ovunque e non trovando di lei nemmeno il corpo che ponesse fine alle loro speranze, avrebbero sicuramente allargato i percorsi abituali, rischiando di uscire dalla riserva. Annie.

Un tuffo al cuore, il suo cuore malato aveva incredibilmente retto all’istante in cui si era sentita sprofondare all’inferno. Annie le aveva già rubato tante volte il sonno, Annie rischiava di ucciderla con quelle sue ali che chiamavano il cielo. Annie rischiava di uccidere i suoi fratelli e il futuro di un’umanità diversa sulla terra.

Annie non sarebbe mai stata a guardare dal basso, avrebbe infranto il divieto, non chiedeva altro.

Annie doveva morire e anche lei stessa doveva morire.

Insieme. E per amore.

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La dottoressa Jenny Eliot si accasciò sul divano di vimini, annichilita da quel pensiero atroce. C’era davvero qualcosa di sensato in quell’orribile progetto?

Chiuse gli occhi reclinando la testa all’indietro, ansimava. Piangeva. Cercò di riafferrare la sua consueta lucidità, lucidità da scienziata, logica ferrea, procedimenti incontrovertibili. Così doveva ragionare, come Jenny Eliot aveva saputo fare per tutta la vita. Ripercorse tutte le sue elucubrazioni, le smontò in mille parti e ognuna di queste parti fu sezionata dal suo abile cervello con la freddezza di un calcolatore. Annie doveva morire. Lei stessa doveva morire. Per un incidente che le coinvolgesse entrambe e sotto gli occhi di tutti. Così almeno gli altri sarebbero stati salvi. Anche il piccolo Fauno che non aveva ancora un nome e fluttuava dinanzi a lei tenendosi con le manine la piccola coda. Salvo il futuro di un’umanità perfetta. Non c’era nient’altro che potesse fare.

«Ma uffa Alice, perché non giochiamo ai calcetti?» continuava a ripetere Liza sulla groppa di Alice, mentre la Centaura si faceva largo tra la vegetazione e i suoi zoccoli affondavano nel terreno umido. «Perché non ci fai i salti? Vero Timmy che vuoi anche tu i salti?»

Anche Timmy se ne stava zitto, come tutti gli altri, muti e tesi al più piccolo fruscio.

Katie si era girata almeno un milione di volte nella speranza di vedere arrivare Annie, che era diventata pazza, e aveva ragione lei e non suo fratello Johnny. Lui diceva che avrebbe smesso di volare basso e sarebbe arrivata subito. Ecco, erano quasi a casa e Annie non arrivava, le aveva raccontato una balla Johnny.

Alice e Johnny avevano proceduto a testa bassa, sguardo fisso sui propri zoccoli, uno dietro l’altro senza parlarsi. Johnny teneva un gran peso dentro lo stomaco, avrebbe voluto tornare indietro, andare a vedere, ma non poteva. Aveva parlato da ometto qual era, non poteva tirarsi indietro.

Alice lo scrutava da dietro, aspettando il momento in cui avrebbe ordinato il dietro front. Aveva voluto fare il capo? Chissà se sapeva già cosa avrebbe detto alla mamma, una volta che li avesse visti rientrare a casa senza Annie? Che fosse lui a sbrigarsela, lui che voleva fare il capo.

«Ma uffa, tutti tristi, neanche i calcetti…» continuava la piccola Liza senza sosta.

«Se non la smetti ti butto giù», esplose Timmy esasperato.

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Liza scoppiò a piangere e a quel punto Johnny si fermò e con lui tutti gli altri che gli stavano dietro. «Abbiamo capito, Annie non viene», decretò. «Ma sul serio? Bravo, complimenti, piano piano ci sei arrivato», disse Alice perfida.

«Torniamo indietro», propose David pallido. I serpenti sulla testa della piccola Medusa sembravano addormentati sulle sue spalle, uno solo mostrava qualche segno di vitalità ed era quello che andava a intrecciarsi nervoso con uno dei rettili pendenti dalla testa della sorella gemella.

«Siamo già in ritardo, Timmy, non possiamo tornare indietro. Johnny, immagino tu sappia cosa dire alla mamma», sancì Alice senza possibilità di appello e, seguita docilmente da tutti gli altri, si mosse decisa verso l’abitazione che s’intravedeva tra gli alberi di tek. Riusciva già a distinguerla molto bene, anche se per chiunque altro sarebbe stata probabilmente invisibile. Era infatti una bassa costruzione in legno grezzo sul quale erano state lasciate crescere molte piante di rampicanti, epifiti e orchidee multicolori. L’unico elemento che si scostava dall’ambiente circostante era la grande vetrata a tre ante scorrevoli che in quel momento nascondeva ancora alla vista l’interno dell’abitazione. Mamma Jenny non aveva ancora scostato la grande tenda verde per salutarli allegramente con la mano e subito dopo aprire le ante scorrevoli per farli entrare in un tripudio di affettuosità. Era quello dei saluti un momento della giornata che ognuno dei figli di Jenny Eliot attendeva con gioia. Si ripeteva ogni giorno, sempre uguale e sempre diverso ed era per loro come un rito importante che andava vissuto e goduto fino in fondo. Poi sarebbero entrati e si sarebbero mossi chiassosamente tutti assieme per andare a salutare il piccolo Fauno nella vasca-incubatrice.

Prima del piccolo Fauno c’era stata Liza che i più grandi ricordavano tutti molto bene e serbavano di lei piccolina un tenerissimo ricordo. Alice, la primogenita, se li rammentava uno per uno con affetto. Non aveva alcun ricordo però del minuscolo Johnny. Johnny che fluttuava con la sua lunga coda bruna e il mantello del suo piccolo corpo a piccole macchie grigie su fondo bianco, così diceva la mamma, un gran peccato non ricordarselo affatto. Ma era troppo piccola, Johnny era apparso nella sua vita non sapeva come né quando, e aveva quasi l’impressione che quel suo primo fratello ci fosse stato da sempre. Non avrebbe mai dimenticato, invece, il momento in cui la mamma aveva sollevato il coperchio per estrarre delicatamente Lily dall’incubatrice. Invece di

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gambe o zampe aveva una lunga coda da serpente e non era come la mamma, né come lei, né come Johnny, né come nessun animale che aveva visto nella foresta. Una volta fuori dall’incubatrice, la mamma aveva improvvisamente scosso quello strano esserino grondante in un modo che le fece impressione. Si era spaventata credendo che la mamma non la volesse più, che non le piacesse perché era strana. A quegli strattoni, la curiosa creaturina aveva allora improvvisamente cacciato un bell’urlo che aveva fatto piangere anche lei che all’epoca aveva solo tre anni. Non capiva e non voleva che a quella piccola fosse fatto alcun male. Ma l’ansia durò poco, perché subito dopo, mamma Jenny l’aveva asciugata con cura, pulito gli occhi e coccolata tra le sue braccia con infinito amore. Ricordava di essersi calmata completamente solo nel momento in cui la mamma, una volta seduta comoda sul divano di vimini, gliel’aveva fatta tenere sulle ginocchia. Era piccolissima tra le sue braccia, aveva occhi azzurri e capelli neri come lei e Johnny e, quando il panno che l’avvolgeva andò a nasconderle casualmente il faccino, ricordò benissimo la strana impressione di coccolare un piccolo serpente. Era proprio la sua prima sorella, invece. Quella che s’era fatta grande, aveva messo su un bel caratterino e le stava davanti in quel preciso istante con aria di rimprovero.

«Non capisco, siamo noi per caso in anticipo?» Era una battuta naturalmente che Lily esclamò con il suo solito atteggiamento autoritario. Evidente che erano gli altri in ritardo: ognuno dei figli di Jenny Eliot possedeva un senso del tempo istintuale e infallibile, un orologio biologico che funzionava meglio di qualsiasi apparecchio umano. Lily e Fred erano giunti nei pressi della casa all’orario consueto, dopo aver fatto colazione presso il solito albero di tek. Perché non erano ancora entrati? Fu la tacita domanda dei nuovi arrivati.

«Anche la mamma non ha ancora aperto la tenda», rispose Fred a quell’eloquente silenzio. «Ma voi scusate?» Seguì un silenzio glaciale. «Perché state zitti? Cos’è successo?» aggiunse Fred con la voce che già tremava.

«Fred datti una calmata e non fare il patetico!» Papetico. In quel momento a Lily sovvenne quella parola che lei usava spesso, storpiata goffamente dalla sua sorellina Annie, proprio il giorno prima. Dov’era Annie? C’erano tutti, ma Annie non c’era.

«Annie?» domandò. E quell’unica parola cadde su ognuno dei presenti con il peso di un macigno. Siamo in sei, possibile che debba essere

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proprio io a parlarne? Fu il pensiero di ciascuno di loro. Il risultato fu un altro lungo, inaccettabile silenzio.

«Mi volete dire dove sta Annie?» sbraitò Lily con gli occhi azzurri che parevano volersi accendere come una torcia. «Ma sei cretino? Perché piangi?» esclamò brutalmente al fratello Echidna che già si era appallottolato su un sasso singhiozzando.

«Diamoci una calmata», tentò di dire Johnny in modo da sembrare rassicurante. Non ci riuscì affatto.

«Johnny, di’ piuttosto a Lily che è tutto ok…tanto poi Annie la smette, no?» suggerì ironica Alice.

«Allora non è morta!» esplose Fred dal suo mucchio di spire.

«Ma chiudi la bocca, cretino…» lo apostrofò Lily tesissima, per quel pensiero terribile al quale, al contrario, non aveva avuto il coraggio di dare voce. Quando era agitata riusciva a essere più indisponente del solito.

Timmy si slanciò allora, autoproclamandosi eroico interprete dell’accaduto, in una confusa quanto dettagliata spiegazione per la quale Lily e Fred restarono diversi minuti in ascolto senza capire assolutamente nulla. Non era cielo ma acqua puntualizzò Liza con piglio saccente e ciò riuscì a far letteralmente schizzare la pazienza di Lily, già sufficientemente messa a dura prova.

«Basta! Se non mi fate capire niente, vado al lago e vedo coi miei occhi cosa sta combinando Annie. Timmy ha detto che gira e gira, sono sicura che con me non gira più!» E si mosse strisciando velocemente sul terreno disegnando tracce sinuose mentre con le braccia si faceva largo nervosamente tra le felci.

«Dove vai?» le urlò dietro Alice. «La mamma tra un attimo apre la tenda e noi cosa le raccontiamo? Così oltre ad Annie non vede nemmeno te! Vuoi che le diciamo che vi siete fermate a raccogliere orchidee da metterle sulla testa?»

«Dille quello che vuoi», rispose Lily senza girarsi. La sua presenza si era ormai ridotta a un lontano smuoversi della vegetazione. Allora Alice urlò più forte.

«La mamma ci resta male se non ci vede tutti, lo sai! Vuoi anche tu farla diventare triste? Vuoi fare come Annie?»

Il fruscio lontano si arrestò.

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La

foresta aveva tinte mai viste, nemmeno di notte. Era giorno, eppure tutto era immerso in un’atmosfera strana, spettrale.

Annie se ne stava da sola sotto un grosso albero di Ceiba che svettava verso l’alto con i suoi tronchi formidabili; il suo sguardo era lassù, verso quel po’ di cielo che la folta vegetazione lasciava intravedere. Era triste e le sue ali fremevano.

«Annie cosa fai? Sei triste, piccola mia?»

«Mamma sei tu? Mi hai fatto prendere una paura!»

Jenny Eliot era sbucata dal nulla dinanzi alla figlia, senza sapere nemmeno lei come ci fosse arrivata. «Hai paura della tua mamma?»

«No che non ho paura, la mia mamma mi vuole bene.»

«Ci ho pensato a quello che mi hai chiesto: ho pensato di mangiare insieme almeno una volta, sarà strano, ma farà piacere anche a me.»

Il viso di Annie si illuminò. «Davvero mamma? E cosa possiamo mangiare che mangi anche tu? Vuoi che prenda un ranocchietto? È buono, sai…»

«No io non mangio quelle cose, hai mai assaggiato qualche bacca della foresta?»

«No bè sì…qualche volta…ma se ne intende di più Alice.»

«Anche io ne conosco di buonissime, almeno a me piacciono.» Jenny Eliot estrasse dal suo camice bianco una manciata di bacche rosso vermiglio, lucide, carnose e dall’aspetto succoso. Anche il camice divenne rosso, ma a entrambe la cosa non fece particolare effetto.

«Le ho raccolte proprio per noi due», aggiunse affettuosamente Mamma Jenny.

Un vociare allegro giunse in quell’istante da lontano alle loro orecchie. «Annie, hai visto, stanno arrivando tutti, se vedono che stiamo mangiando insieme, saranno gelosi, le vorranno anche loro, mangiamole subito.»

Annie era impallidita e guardava la mamma con aria stravolta. «Mamma…»

«Annie che c’è? Non dovevamo mangiare insieme? Coraggio, un bel boccone a te e uno a me.» Jenny Eliot se ne mise in bocca una buona manciata e la stessa cosa stava facendo con Annie. Annie invece la respinse scagliandosi verso di lei con inaudita violenza.

«Mamma, no! Sputale subito, io le conosco! Sono veleno!» strillò come una pazza, puntandole gli artigli sul petto.

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Jenny Eliot si riscosse dall’incubo madida di sudore. Restò immobile sfinita sul divano di vimini in attesa dell’inevitabile infarto. Non venne. Per fortuna o per disgrazia quel veleno che voleva dare alla sua amatissima Annie non aveva fatto giustizia sul suo cuore colpevole.

Guardò l’orologio: se ne era completamente dimenticata! I suoi figli erano sicuramente tutti là fuori, oltre la porta a vetri, ad attenderla.

Si precipitò verso la vetrata e scostò la tenda, raccogliendo tutte le energie per imprimere alla propria mano una parvenza di allegria mentre procedeva con quel consueto cenno della mano che ognuno di loro attendeva.

Doveva essere irriconoscibile. I suoi figli, ancora oltre la vetrata, non l’avrebbero guardata a quel modo se così non fosse stato. Cercò di sorridere, ma non ci riuscì.

L’entrata a casa non era mai stata in tanti anni così composta e muta. Occhi bassi, ognuno arrivò alla vasca-incubatrice in perfetto silenzio. Annie non c’era.

Se ne stavano tutti con le spalle girate, inchiodati su quel vetro, come se la presenza della loro madre fosse da rifiutare, da aborrire.

Era evidente che fossero entrati nella sua mente, forse in quello stesso sogno in cui Annie correva grave pericolo per mano sua. Avevano assistito a quell’incresciosa farsa, conoscevano i suoi propositi. Non c’era altra soluzione.

Ciò faceva parte sicuramente di quel patrimonio di reazioni istintuali di cui erano dotati quei suoi figli a metà animali, certamente essi sapevano fiutare il pericolo dall’odore che lei stessa emanava e attraverso questo erano riusciti a risalire ai suoi peggiori incubi. La fantascienza spesso col tempo finisce per coincidere con la scienza stessa e quell’atteggiamento così ostile nei suoi confronti era quindi perfettamente e scientificamente comprensibile. L’odore della colpa. I suoi figli erano in grado di fiutarlo. Dotati di quella sensibilità superiore di cui lei stessa li aveva provveduti, estendendo i meravigliosi sensi degli animali a esseri pensanti, i suoi figli iniziavano a sbalordirla per la loro schiacciante superiorità esistenziale sull’imperfetto Homo Sapiens. Un passaggio evolutivo che, per disgrazia del pianeta, era durato fin troppo a lungo. Se ciò era riuscito a darle un po’ di conforto strappandola all’angoscia dell’ignoto ed esaltando la grandezza della sua impresa, d’altra parte quell’improvviso abbandono e il mutismo che non accennava a

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sciogliersi nei consueti sorrisi e chiassosi battibecchi la fece sentire perduta in una solitudine immensa e disperata.

La dottoressa Jenny Eliot se ne stava in piedi dietro di loro, impietrita nel suo camice bianco come una grottesca statua, in attesa di un suono o di un piccolo gesto che il più generoso tra loro avesse voluto penosamente elargirle.

«Dovremmo dargli un nome, no?» fu Alice a rompere il ghiaccio. Qualcosa bisognava dire e se Mamma Jenny ancora taceva, forse non si era accorta di Annie. Tanto valeva cerare di prendere tempo. Fosse mai che quella sciocca di sorellina si fosse presentata con una banale scusa per giustificare il suo ritardo, nessuno avrebbe sicuramente peggiorato la situazione aprendo bocca su quanto era successo.

Sempre senza girarsi, Alice continuò: «Non mancano due settimane? Pensiamo assieme a un nome, che ne dite?»

I fratelli la guardarono allibiti. Un nome per il piccolo Fauno, adesso? Con quello che bolliva in pentola? Lily fu la prima a cogliere la genialità di quell’idea.

«Certo che dobbiamo pensarci… Joseph…io dico Joseph. Che ne dite, vi piace?»

Mark, Alex, Miky, Niky… la pioggia ininterrotta di nomi sembrò per un attimo aver riportato tutto alla normalità. Poi la pioggia finì e tornò la tempesta. Anzi la quiete prima della tempesta, come quando si respira nell’aria il temporale e i fulmini e le saette sono già una promessa certa. Jenny Eliot, seduta sul divano di vimini, accarezzava i capelli neri di Liza e le sue mani procedevano quasi meccaniche sul fondoschiena peloso e bruno della piccola, lungo la sfumatura nera che si allungava fino alla punta della codina.

Anche lei certamente aveva fiutato l’odore nauseabondo della colpa, ma lei era l’unica forse che era riuscita a perdonarla. Non potevano capire quanto le costasse il solo pensiero di quell’estremo sacrificio. Avrebbe sicuramente barattato la sua stessa vita con quella di Annie. Se avesse potuto sacrificarla due volte.

Alla fine non riuscì più a fingere e finalmente il fulmine arrivò a squarciare silenzio e animi. «Dov’è Annie?»

I sette fratelli, che erano ancora inchiodati al vetro, come fosse le ali benevole di una chioccia, si girarono tutti contemporaneamente. Con lo stesso identico panico negli occhi.

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Nessuno fiatò.

Jenny Eliot se l’aspettava, era evidente che non le avrebbero mai detto dove si trovava la sorellina. Volevano proteggerla, era chiaro, facevano bene, non potevano capire. Ma loro due era ormai scritto che dovessero morire. Insieme, per amore di tutti gli altri e di una nuova umanità. «Mamma non arrabbiarti no, era acqua non cielo.» Liza aveva fatto la spia. «Volava basso però…tanto basso…basso bassissimo», continuò sempre più fiocamente fino a rendere le sue ultime parole un borbottio appena comprensibile.

In quel sussurro c’era tutta la bontà della condanna a morte della piccola Arpia, Jenny Eliot aveva sempre saputo che il momento di cercare il cielo non avrebbe potuto tardare ancora a lungo. «È al laghetto allora», mormorò tra sé senza cercare conferma.

Il muro di umidità che incontrò Jenny Eliot quel giorno, uscendo dalla porta a vetri, fu più denso di ogni altra volta. Spesso si era spinta nella foresta, assieme ai suoi figli, tempo addietro era cosa comune. Ultimamente la passeggiata nella foresta era divenuta un’attività meno consueta e ciò da quando aveva sentito che il suo corpo non reagiva alla fatica con l’energia di cui aveva goduto in passato.

Quante volte i suoi figli le avevano chiesto di uscire assieme, di andare a vedere questo o quello che era tanto bello, lei lo faceva per compiacerli, ma i suoi ultimi giri erano stati sempre più brevi. Quell’aria pesante la soffocava e l’incedere difficoltoso tra foglie e radici era divenuta per lei un’attività troppo stressante.

Quante volte era andata al laghetto con Alice e Johnny da piccoli. Vi aveva portato anche Lily e Fred a quei tempi, bei tempi, quando il suo fisico reggeva ancora. Ricordava che si divertivano da pazzi a spruzzarsi l’acqua addosso sbattendo la gigantesca coda sulla superficie lacustre e sollevando ondate inimmaginabili che giungevano sistematicamente a lambirla, cogliendola di sorpresa ogni volta. E Katie e David? Deliziose piccole Meduse di quattro anni si erano impresse come un’immagine cara e indelebile mentre con quella chioma colorata e stravagante facevano una lunga corsa fino a tuffarsi di slancio, agili e scattanti nei loro corpicini snelli. Quando si trattava di andarsene facevano sempre qualche capriccio, però. Con Annie e Timmy c’era andata molto meno in verità e Liza, poi, aveva visto quel posto solo recandosi con i suoi fratelli. Che bei ricordi. Un passato lontano che non sarebbe più tornato,

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da stringersi al cuore come un tesoro prezioso. Per quel poco che le restava da vivere. Ora, arrivare fino a quel laghetto sarebbe stata una vera Via Crucis. Sofferenza e dolore fino al luogo dell’estremo sacrificio.

Lasciò che i suoi figli le facessero strada, non voleva che essi assistessero al suo ansimare e alle sue smorfie penose. Ma doveva trovare Annie, a tutti i costi prima che fosse troppo tardi, prima che il suo cuore malato lasciasse tutti loro in balia di un destino ineluttabile scritto su quelle maledette ali delle quali la sua stessa incoscienza aveva provveduto quella piccola innocente. Dopo appena pochi metri ogni passo divenne come scalare l’Everest, non c’era che stringere i denti e andare avanti guadagnando, centimetro dopo centimetro, quel terreno sconnesso. Il dolore. Il dolore era tornato. Ingoiò rapidamente una pastiglia. Nessuno l’aveva vista. Nessuno aveva avuto la bontà di girarsi nemmeno una volta per vedere come stava. Sembravano diventati di pietra, era evidente che l’odiavano. Era evidente che sapevano. L’odore. La colpa. Il dolore. Ancora continuava. Nonostante la pastiglia. Non poteva permettersi di lasciarsi sorprendere da un infarto senza aver fatto ancora nulla per salvare il mondo. Anche se le erano parsi chilometri, non aveva percorso che una ventina di metri, strinse i denti, e con una mano sul petto, dolorante e ansimante, ripercorse a ritroso la strada fatta. Si appoggiò alla porta a vetri con entrambe le mani, non sapeva davvero se ce l’avrebbe fatta a far scorrere il pannello per lo spazio appena necessario a entrare. Una volta dentro, l’aria più fresca non riuscì nemmeno a farla sentire meglio tanto erano atroci le sofferenze che provava. Gemeva, barcollava e il divano di vimini per un attimo la chiamò a sé come una promessa di morte. Certamente, se si fosse distesa, i suoi figli poco dopo l’avrebbero trovata lì stecchita. Non poteva, lei doveva proteggerli, proteggere il suo mondo, proteggere il futuro, proteggere…

La vista iniziò ad annebbiarsi, vedeva tutto confuso e tutto girava. Al di là della porta c’era Brad. Brad e il defibrillatore, lui era bravo, l’avrebbe salvata. Lui che le voleva bene.

Si lanciò sulla porta blindata con l’ultimo dei suoi sforzi e, una volta aperta, barcollò un istante prima di richiuderla e crollò come uno straccio appena al di là di questa, sotto gli occhi di tutti.

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INDICE LA MAMMA PIU’ BELLA DEL MONDO..................................3 NOTTE DI FOLLIA.....................................................................12 ORA DI COLAZIONE.................................................................18 CAGNOLINO...............................................................................23 A UN PASSO DAL CIELO.........................................................29 A UN PASSO DALLA PORTA...................................................34 IL PARADISO PERDUTO..........................................................45 PARTIRE......................................................................................83 LA POLTRONA...........................................................................91 AL SALVATAGGIO...................................................................93 IL PALADINO.............................................................................98 COME UNA NOCE...................................................................103 SÌ NONNO.................................................................................106 LA MENTE MIGLIORE............................................................110 COMPLICE................................................................................114 PIETRE O LUMACHE..............................................................117 L’ARA GIACINTO....................................................................123 PARTO DIFFICILE...................................................................131 L’ANGELO................................................................................134 L’ORA DELLA PAPPA.............................................................139 TRA LE BRACCIA DELLA FOLLIA......................................143 GENIO DEL MALE...................................................................153 UNA NUOVA FAMIGLIA........................................................157 LA BATTAGLIA.......................................................................200 RAGNI E FORMICHE...............................................................209 DALLA CIMA DELL’ALBERO...............................................223 FINALMENTE UN NOME.......................................................227

vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00

Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.

AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com Al
euro.
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