Due assassini, Martina Bonciani

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In uscita il 25/2/2022 (15,30 euro) Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2022 (4,99 euro)

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MARTINA BONCIANI

DUE ASSASSINI

ZeroUnoUndici Edizioni


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DUE ASSASSINI Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-532-5 Copertina: immagine proposta dall’Autore Prima edizione Febbraio 2022


A mio padre



Forse puoi fare quello che vuoi, ma non puoi volere quello che vuoi A. Schopenhauer Nell’immensità della coscienza appare una luce, un puntolino veloce che traccia forme, assembra pensieri e sentimenti, idee e concetti, come la penna sul foglio. Tu sei quel puntolino, e muovendoti ricrei ogni volta il mondo. Ti arresti, e il mondo scompare. Va’ dentro, e vedrai che quel punto luminoso è “l’io sono”, come il riflesso nel corpo dell’immensità della luce. Solo la luce è, tutto il resto appare Sri Nisargadatta Maharaj Tutta la conoscenza non è che una forma di ignoranza Sri Nisargadatta Maharaj



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PROLOGO

La mia routine da vecchio intellettuale inizia con il caffè, cosa niente affatto sorprendente. La cucina è tinta di diaspro, il caffè è bollente e l’intellettuale deve sorseggiarlo con cautela. Sono circa cinque anni che mi alzo dal letto con la voglia di farlo. Adoro la mia vita ritirata, e spesso devo fare attenzione a non peccare contro la buonanima di mia moglie, esaltando tanto i benefici della solitudine. Cinque anni, dai sessantasei ai settantuno, l’età che fa paura a tutti quelli che non ci sono ancora arrivati, eppure io mi sveglio e sento l’energia del sole che si batte con gli scuri della mia camera per arrivare a me, scrivo su un taccuino i sogni che ho fatto la notte, se li ricordo, e poi tento un’interpretazione freudiana mentre metto su il caffè di cui sopra. Oggi non ricordo di aver sognato, ma mi sono svegliato con una domanda in testa: cosa fa la gente che non scrive dei propri pensieri? O non ne ha, o li lascia giocare come aquiloni, li assapora nel momento, li rumina poi nei giorni cercando di assimilare voli occasionali e farli diventare parte del proprio distillato personale di conoscenza. Io non ci sono mai riuscito, quando qualcosa mi ronza in testa devo metterlo nero su bianco, e credo per questa debolezza, per questa ipertrofia del racconto a discapito della vita, non per chissà quale superiore qualità del mio rimuginare, sono diventato “famoso”. La vecchiaia mi conferma che la celebrità per faccende intellettuali, che tanto agognavo da giovane come unico balsamo che potesse riscattare un corpo in disfacimento, è invece un puro accessorio costoso, come una sciarpa firmata. Saggezza particolarmente inerte e corrente, va bene, ma pur sempre saggezza. Volendo presentarmi, volendo dire una parola conclusiva ai miei posteri, direi che mi piacerebbe da un lato, ma un lato pur sempre e fortunatamente minoritario, esordire come Nietzsche in Ecce Homo, ossia: prima o poi dovrete fare i conti con me, anzi, questa sarà la vostra prima necessità. Perentorio, assurdo, folle.


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L’altro lato riguarda la luce e la pace, se ricordate la sorte di Ponzio Pilato al termine del capolavoro di Bulgakov Il maestro e Margherita: «Non ha meritato la luce ma ha meritato la pace.» Cosa ho meritato? Mi pare una domanda migliore di «Quanto sono stato intelligente? Quanto sono stato creativo?» Ma ne riparleremo. Sono un poeta e un filosofo, ho indagato la ragione con la ragione (ho concluso che stavo facendo qualcosa di impossibile, ma stavo pur facendo qualcosa, e quel qualcosa mi è rimasto in gola) e l’abisso con linguaggio e sentimento, sono stato dato fra i favoriti per il Nobel quasi ogni anno, i più mi conoscono per la “Teoria linguistica della filogenesi” e per la poesia “Let the dead bury the dead” che da poco è entrata nelle antologie scolastiche; pretenziosa, quella breve lirica, perché i morti sono i lettori, e li invito caldamente ad andare a farsi benedire. Sono irlandese di Galway ma vivo a Roma dal 2018, sono quasi quarant’anni. Ieri sera è passato un amico – giungiamo subito alla motivazione di questo scritto – abbiamo parlato poco perché era di fretta, ma mi ha lasciato la fotocopia di un dattiloscritto che gli è pervenuta Dio solo sa come, anonimo e senza titolo: adespoto e anepigrafo, direbbero i filologi. Mia moglie era una filologa, so quello che dico. Parla, come quasi tutti i libri di memorie, di quanto accadde nel 2020, ma al contrario degli altri libri di memorie, riporta una storia a cui è difficilissimo credere, anzi impossibile, dice categorico il mio amico. Tuttavia, ma forse proprio per questo, la lettura m’intriga, anche perché non posso tacere sulle somiglianze fra il carattere del protagonistanarratore e il mio, che pure ha conosciuto un’ostinazione quasi oscena di alcuni tratti infantili fin nel cuore dell’età adulta, mentre con il puro raziocinio scandagliavo impietosamente me e il mondo. In quel periodo, attorno ai trent’anni, ho composto le mie poesie più ispirate, quelle che ancora adesso mi fruttano l’ammirazione di lettori e critici, e qualche menzione sulle riviste di letteratura che contano, irlandesi, italiane, americane. Sarà perché la coscienza imprevista e improvvisa dell’essere pienamente uomo entrava in conflitto con quei tratti infantili e da un lato cercava di liberarsene, perché capiva che lo stavano intossicando e rendendo un rappresentante piuttosto meschino


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della razza umana, ma dall’altro essi si aggrappavano con tenacia e non volevano soccombere. Sarà stato questo conflitto dilaniante a produrre arte? A trent’anni esatti scrissi “Cold passion” che il bravissimo poeta Francesco Morra, un moderno eremita che si tiene meticolosamente alla larga da TV, giornali e internet, ha tradotto in italiano – all’epoca scrivevo solo in inglese – così: «Passione fredda: potrei addentrare nel bosco sacro bianco orma di topo? Perché la mia passione non uccide il tuono, non trapassa il vento non sbiadisce il sole? Cosa la strozza, perché è pallida, perché langue? Solo con la sua impotenza riesce a cavarmi sangue.» Per colpa di quelle peccaminose ostinazioni, non riuscivo a provare una vera passione in nulla, mi disperdevo in mille direzioni, oppure più semplicemente passavo giornate a far niente. Certo, le rime vanno perse in traduzione, tranne quella langue / sangue (che poi è conclusiva, dunque è bene che sia così), ma l’italiano mi sembra faccia indurire come pietra le mie parole, che in inglese sono forse più cantilenate. Quel periodo fu decisivo per la mia piccola storia personale. Passai almeno un anno come un febbricitante. Chissà se l’estensore di questa narrazione è poi riuscito a elevarsi al di sopra del suo individualismo tanto ingenuo quanto puntellato dagli argomenti razionali più rigorosi; egli sostiene di esserne uscito solo grazie alla noia, un sistema forse troppo comodo. Non m’importa poi molto. Io, al finire di quell’anno di febbre della testa e del cuore, sono rinato a una nuova vita. Ci ho messo molto ad accettare di essere rimasto indietro rispetto ai miei coetanei, che magari a quell’età avevano una famiglia, ed erano pronti a mettere da parte il loro ego per dare finalmente posto alle ragioni più alte e misteriose della specie. Dapprima utilizzai uno stratagemma, mi dissi che le strade che aveva preso il mio pensiero erano di pari dignità, se non maggiore, in termini filosofici, ma erano strade senza uscita; mentre quelle che intravedevo al di là delle barricate, a tratti, erano strade che portavano da qualche parte. Non una differenza qualitativa, dunque. Con il passare del tempo mi abituai a considerare le mie strade senza uscita come semplici aborti di strade, disegnate con cura accanita e accudite, coccolate, per puro spirito di contraddizione e ipertrofia dell’ego. Volevo smascherare qualunque cosa fosse ritenuta certa, buona, sacra, ed ero convinto di essere dalla parte del vero, quasi solo


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in una brulla distesa inospitale ma depositaria di verità, che è la più grande bellezza possibile. Scrivevo poesie come “The clock is dead” o “Dear love of mine” quest’ultima abbastanza insolita per il suo titolo volutamente scialbo, tutte fra il profetico e l’assurdo, che cercavano di tendere la lingua al massimo per poi farla scoppiare con un tocco di spillo. Le mie parole erano di gran lunga migliori della mia vita. Ma bando alle ciance e alle vanità, questo è il momento di introdurre la storia bizzarra che ho cominciato a leggere ieri notte.


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CAPITOLO 1

-120 giorni L’umanità si preparava al suo giorno più grande nei modi più svariati, quelli istituzionali e quelli della subcultura. Sebbene non sia stato presente ai fatti, per motivi ovvi, credo che potrei ricostruirla, la scena – conoscendone il protagonista – con cui vorrei iniziasse il film della mia storia (sarebbe bello che facessero un film dalla mia storia: cosa è vero, cosa è finzione?) in maniera abbastanza fededegna: parole singhiozzate da una donna, mentre è inquadrato un brutto palazzo color salmone che, avvicinandosi la telecamera, si rivela un “Centro di salute mentale” poi si entra nei corridoi, la donna continua a parlare sull’orlo del pianto: «Non cerca più il contatto fisico con noi, ha vuoti di memoria, non si ricorda più i nomi dei nonni, né dei suoi amici, e non gioca più con loro, e neanche da solo; è irritabile, assente, e poi…» Nel frattempo la telecamera inquadra il reparto di neuropsichiatria infantile, i corridoi lavati di fresco che catturano la prima mattina con lunghe striature violette. A questo punto si vede un uomo accanto alla donna, entrambi fra i trentacinque e i quaranta, fra cui c’è una complicità disperata, e si vede che parlano con un dottore in camice bianco dall’altra parte della scrivania. Un uomo magro e con due baffi marroni à la Nietzsche, quasi evanescente tranne che per quel particolare. I due sono pieni di soldi, si scoprirà, ma sono in un centro di salute mentale proprio per il dottorino baffuto, caldamente consigliato da amici di parenti, o da parenti di amici, non ricordo bene. Lei continua: «Poi… nessuno gli ha mai insegnato a leggere, ma lo abbiamo scoperto ad arrampicarsi letteralmente sulla nostra libreria di notte.» «E legge?» domanda sorpreso lo psichiatra. Stavolta è il marito a rispondere, scaricando la sua risposta come un macigno: «Sì, legge, Hegel per esempio.» «Hegel?» la flemma dello psicologo s’incrina, e gli si alzano le sopracciglia in fretta «ma capisce quello che legge?»


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«Glielo abbiamo chiesto molte volte, lui è riluttante, ma dice di sì. Quando lo abbiamo beccato con le opere complete di Kant, gli abbiamo chiesto di spiegarci cosa avesse capito, lui si è rifiutato, ma messo alle strette ha tirato fuori un riassunto del pensiero kantiano che neanche io avrei saputo fare, tutte e tre le critiche.» «Ah» si ricorda il marito, non che se ne fosse scordato, ma la foga del momento glielo aveva fatto passare di mente «e beve.» La donna annuisce con forza, protendendosi verso il dottore, a inghiottirlo nella gravità della situazione. «Beve? Alcol?» «Abbiamo notato che il livello delle nostre bottiglie di superalcolici diminuiva, e poi una notte lo abbiamo sorpreso con un bicchiere di ghiaccio e whiskey.» Poggiando sul tavolo i gomiti bianchi, lo psichiatra, trovatosi in un caso tanto insolito, sentenzia quasi vergognandosene: «Se ciò che dite è vero, vostro figlio è mentalmente superdotato, anzi, ne ho visti di bambini dotati, ma nessuno leggeva Hegel o Kant. Non è strano che ne soffra, che sia irritabile e provocatorio. La sua mente si è evoluta ben oltre il corpo in pochissimo tempo e, forse, da qui i vuoti di memoria. Quello che è certo è che ha bisogno di stimoli: gli avete mai proposto di studiare uno strumento?» «Ci ha già chiesto di prendere lezioni di piano.» «Io, per prima cosa, gli farei fare un test d’intelligenza.» Stessa scena, solo che dall’altra parte della scrivania, a fissare il dottore, c’è un bambino di circa sei anni con la faccia paffutella. «Senti, Sigmund Freud dei miei stivali, tu sei convinto di volere il mio bene e invece vuoi solo soddisfazione e potere: se pensi che parlerò con te, sei fuori strada.» Questa storia non è solo la storia di ciò che accadde nel fatidico, nell’anno spartiacque, nel mirabolante 2020, questa storia viene da un gorgo scurissimo, dal quale sono uscito solo per la ben nota, alle anime contemplative, azione lenitiva del tempo, e per noia. Noia di me stesso e delle mie malattie, noia del mio senso di colpa e della ridicola grandiosità del mio Sé, noia dei miei pensieri ricorrenti, noia delle mie emozioni ricorrenti. Terza scena. Bisognerà spiegare quale portentoso evento sta scuotendo la Storia, ma senza essere troppo didascalici, anzi tenendoci leggermente sfuggenti, e con l’occasione s’introduce il mio personaggio, un trentenne in evidente sovrappeso, telecomando nella destra, birra nella sinistra, non


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per voler proporre un vieto stereotipo sulla gioventù di quel tempo, ma proprio per voler confermare quello stereotipo stesso, seduto sul divano alle due del mattino a guardare un talk show da dietro la pelle tesa come un tamburo del suo ventre. La telecamera lo inquadra prima di spalle, solo una mezza testa che spunta da sopra il sofà, poi ruota fino a scoprirne il profilo. Gli piace – mi piaceva – guardare il fermento delle nostre civiltà nei suoi accessi, ridicoli e non. Di notte erano perlopiù ridicoli, ma questo programma aveva una qual certa patina di serietà. Il sonno inebetiva il suo corpo, ma chissà perché la sua mente si accendeva dopo la mezzanotte. Settembre iniziava, l’estate ancora e ancora trucidata in un lungo sentimentale addio, mi permetteva comunque una canottiera e un paio di pantaloncini corti da casa. Avevo un rapporto ambiguo con l’estate, soffrivo il caldo, che mi fiaccava la pressione, ma lo consideravo una sorta di apoteosi, di compatta deflagrazione. Da fuori veniva il suono di un fischio strozzato, come di un bambino che abbia appena iniziato lo studio del flauto dolce. Intervistano un teologo con il collo da avvoltoio, la barra in sovrimpressione dice: Agostino Nencioni, teologo. E l’intervistatrice, una bella donna ovviamente, gli si rivolge ospitale ma incalzante, con le domande: «E se questi esseri avessero un Dio diverso dal nostro, o non ne avessero affatto?» «Prima di tutto m’interrogherei su quel verbo che ha usato, avere: Dio non è un possesso, che può variare da cultura a cultura, Dio è l’assoluto, è possibile che vari popoli gli diano sembianze diverse o diversi attributi, ma il Dio che pregano è lo stesso. In quanto alla possibilità che non credano ad alcun Dio, chiamo in causa Cartesio: quella di Dio è un’idea innata, è impossibile che una forma di vita, anche aliena, non senta che esiste qualcos’altro oltre la materia, anzi, se il loro pensiero è avanzato quanto la loro tecnologia, penso che l’esistenza di Dio l’abbiano compresa meglio di noi, e chissà, magari dimostrata.» «Grazie per essere stato qui, Agostino Nencioni, purtroppo dobbiamo chiudere questa interessante discussione, noi ci vediamo venerdì prossimo all’una del mattino.» «Buonasera, è stato un piacere essere ospitato qui» chiude il rapace teologo.


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«Impiccati» mormorai all’indirizzo del teologo, ma il bersaglio non era tanto il poco spessore della sua dialettica, quanto il suo fisico asciutto e il bel faccino appoggiato su quel collo lungo, che gli dava un’aria di estrema pulizia, mentre il mio grasso chiamava la sporcizia. Vi troverete tutti, pensavo, nella situazione degli europei che conquistarono l’America, falcidiando civiltà: essi trovarono grandiose espressioni umane e culturali in popoli che non avevano conosciuto il Cristo e il suo messaggio, come poteva mai essere? Facendo la conoscenza di questo peculiare personaggio, non lo troviamo in gran forma, è grasso e gonfio di rancore. Già da ora s’intende che egli è come un centometrista che smette di correre non appena si rende conto di non poter essere in testa. I veri atleti non abbandonano mai la gara, non per desiderio di una seppur minima gloria, quanto per il fermo proposito di stare al proprio posto. Non si capisce ancora cosa abbia a che fare il “più grande giorno dell’umanità” con lui e con il bambino smemorato, alcolizzato e geniale che viene presentato in queste pagine. Si fatica a districare alcuni periodi, un vezzo, quello dell’oscurità, che mi sono abituato a considerare poco igienico per la scrittura, se fine a se stesso. Quando invece diventa fatto di stile che sprigiona la propria forza, laddove effettivamente ci sia bisogno di un viluppo di subordinate per entrare in un pensiero soffocante, chi sa maneggiare le architetture complesse di periodi lo faccia pure. Quale dei due casi abbiamo qui davanti non saprei, sinceramente. L’amico che mi ha portato questo testo l’altro ieri andava di fretta, oggi l’ho richiamato e gli ho chiesto di spiegarmi meglio la storia di queste fotocopie: gliele ha date una nostra conoscenza comune, Dora, l’editor di una nota casa editrice romana che le aveva ricevute, anonime, circa cinque anni fa. La casa editrice aveva rifiutato di pubblicarle, ma lei le aveva tenute perché le sembravano interessanti. Aveva voluto un parere dal mio amico, il quale ora vuole un parere da me. Cosa avrà mai questo testo per suscitare un tale reiterato scaricabarile? La virtù di lasciare interdetti? All’inizio, quando mandai a degli editori la mia prima raccolta di poesie, “Cosmic funeral” ebbi delle risposte così del mio libro, in fin dei conti non sapevano che farne, poteva essere degno di nota, oppure essere un inganno colossale, viveva in quest’ambiguità


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come un animale anfibio vive fra terra e acqua, così fra capolavoro e impostura stava la mia poesia, sospesa, senza che potesse trovare riposo da qualche parte nel mezzo. Anche per la “Teoria linguistica della filogenesi» è stato così inizialmente, anche perché, leggendo il titolo, molti si chiesero se non avessi invece voluto scrivere una filogenesi della lingua, e non mi fossi confuso. Sarà per questo che sono tanto in imbarazzo davanti a questo testo? Da una parte vorrei rendergli giustizia, dall’altra mi domando se non sia eccessivo spendere il mio tempo e chiedere favori ai miei conoscenti per un tizio – o una tizia, chissà che non abbia invertito i sessi – che non si è degnato nemmeno di mettere il proprio nome a questo strano mostro, che cosa insolita. Come si fa a mandare un manoscritto a un editore senza firmarlo? Potrebbe sembrare un gesto di umiltà, ma in realtà tradisce una tracotanza senza pari: pensare che la propria opera possa camminare sulle sue gambe e raggiungere la gloria senza alcuno sforzo da parte dell’autore. Sembra l’affidare alle acque un Mosè di carta, o una Bibbia anonima, se non ché l’avrebbe scritta Dio. Continuiamo pure.


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CAPITOLO 2

-113 giorni Fino a due anni prima ero magro e con dei muscoli niente male – andavo in palestra – la faccia, ordinaria ma carina, era esaltata dal corpo, e non mi lamentavo. Con il mio metro e settanta non ero alto ma nemmeno basso, considerando che quell’idiota di mio padre arrivava a stento al metro e sessantacinque, e quella splendida creatura di mia madre era uno e cinquanta. Quale incavo malato di destino li mise insieme? All’inizio pensai fosse il sesso, del sesso veramente bollente, poi Edna – mater, come dice chi ha fatto il classico e vuole fare anche dello spirito – mi confidò di non essere mai stata attratta fisicamente dall’idiota; sì, ci facevamo questo genere di confidenze – e si può capire, essendo il soggetto obeso – ma che parlavano bene. Cosa? Parlavano bene? L’angelo e l’idiota, e di cosa avrebbero dovuto parlare, del tempo? E io che li tenevo su una scala d’intelligenza, mia madre sopra, mio padre sotto, ma di molto. L’idiota era ultimamente diventato odiosamente qualunquista, mentre lei era stata una pasionaria, certo, al rimorchio del gruppo – aveva fatto sociologia a Trento in quegli anni – per quella che tutti chiamavano timidezza e io denominavo invece delicatezza come se il mondo fosse una cristalleria, e per lasciare tutto indenne bisognasse farsi non uccellini, ma libellule. Lei viveva in una cristalleria, l’idiota in un tremendo gioco di lame rotanti che avrebbero potuto farlo a pezzi, o fare a pezzi me in ogni momento. Non dovevano mischiare il pool genetico, questo è chiaro: lame rotanti più cristalli pronti a deflagrare alla minima vibrazione, voleva dire un individuo significativamente mutilato. E poi, farlo a quarant’anni, quando ormai tutto è sclerotizzato, irrigidito… li ho visti invecchiare appena potei averne coscienza, e l’azione del tempo che li sforacchiava era un insulto a me prima di tutto. Almeno avevo preso da lei la magrezza, si pensò quand’ero bambino e mi si doveva forzare a mangiare, ma lei non era semplicemente magra,


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lei col cibo aveva un rapporto di estrema diffidenza: tutto doveva essere evidente, niente miscugli, niente salse, e soprattutto niente di nuovo, mai. All’estero mangiava nei ristoranti italiani. Io poi divenni un adolescente vorace, ma con la forza di tenersi bene. Quando caddi in depressione invece, mangiai tutto ciò che desideravo e quanto ne desideravo. La mia depressione non è caduta dal cielo: l’intera mia vita potrebbe rappresentarsi come una progressiva perdita di energia, ne vedevo il grafico ondeggiante, con poche impennate disperate. L’energia ce l’avevo da bambino: correvo, giocavo, saltavo più precocemente e più bramosamente degli altri, avevo un’enorme fame di vita che si è capovolta del tutto come una povera tartaruga; lo sapevo, io lo sapevo, già a diciassette anni usavo pensare – e dire agli amici più veri – che a venticinque sarei stato o morto o pazzo, non senza compiacimento. Ora di anni ne ho trenta, e secondo le previsioni sono stato pazzo circa dai venticinque, senza la dignità di un suicidio e senza alcun piacere preavvertito dal compiacimento. Mi godevo il tramonto con ardore, a diciassette anni. Il tramonto era infiammato, lucente, e io lo sbucciavo come un’arancia e la divoravo. Adesso è notte fonda. Riuscii a tenere a bada la mia pazzia fino a tre, quattro anni fa, a quando risale il mio primo ricovero in psichiatria. È allora che quell’adorabile vecchia di mia madre, vedova da poco, cominciò a tormentarsi: tutti i giorni mi veniva a trovare negli stabiliti orari, io l’abbracciavo e piangevo, mi appendevo al suo collo e piangevo, dicendo che non ne potevo più di stare lì, lei mi abbracciava, e quando eravamo soli in camera mia ci davamo baci teneri sul viso e sul collo. Poi andava via e io piangevo. Quel luogo sbiadiva ed era ostile, quando lei se ne andava, quando tornava il pomeriggio dopo, m’illuminavo. Edna. Si chiamava così, l’ho detto, e mi piaceva; purtroppo dall’invenzione dei Simpson il suo nome evoca quello del personaggio di Edna Kaprapall, un’insegnante dalla morale discutibile. Spesse volte la chiamavo Edna invece di dirle mamma, perché il suo nome, nonostante Matt Groening, mi piaceva. Io, nella lotteria dei nomi, ho vinto il premio più triviale: Marco. Quell’idiota di mio padre aveva tutti i nomi di famiglia che cominciavano con “Ma”: Mario, Mariangela, Margherita… insomma, avete capito. Almeno, avevo il sigillo dell’evangelista. Quando dico che, pur non essendo cristiano, adoro Gesù Cristo, più che


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per la bontà e la radicalità eccetera, per come si esprimeva, in realtà sto lodando l’evangelista. Chissà come sono le percentuali dei loro rispettivi contributi: 50 – 50? 40 – 60? O addirittura 30 – 70? Mio padre è morto quattro anni fa, e anche se era idiota, anche se guastava ogni cosa che toccava, lo stomaco mi si attorcigliò. Ero irrequieto e non dormivo, e provai pena, una pena infinita che schiaccia le interiora, nel guardare quel corpo ridotto a proporzioni normali – prima era obeso, l’ho già detto – dal cancro e senza appello terrorizzato. Fece a meno del discorso del moribondo, quello si usa fare alla prole, i consigli per la vita, le cose da amare e quelle da cui stare lontano, i «Fa’ quello che vuoi, e fregatene del giudizio altrui, però per favore non ti drogare, eccetera.» Fui io a dovergli dire “ti voglio bene” per ricevere un’analoga risposta. Era completamente assorbito dalla sua agonia. Peccato veniale. Edna non lo amava più da tempo, e tutto quello che l’idiota riuscì a fare, è tessere una fitta rete di fili scottanti di emozioni passivo-aggressive, come i cavi che danno la scossa, mentre lei cercava di salvare almeno la quotidianità schivando quei fili, ma a volte era inevitabile che ne toccasse uno dove non se lo aspettava. Io ero in mezzo, costretto a vivere nell’odio in sordina di quei due, odio ridicolo quant’altri mai perché usciva come un fluido scomposto e quasi inconsapevole da lui e veniva ricomposto alla meglio da lei, la Medusa dei cerotti, ne aveva uno per ogni capello serpentino, che è una buona cosa, ma i capelli sono pur sempre serpenti, e sarebbe bastato un morso per annientarlo. Lui concentrava ancora di più su di me ogni buona aspettativa e ogni fiducia nel futuro e nella bontà del fato. Naturalmente in questo teatrino stupidopiccolo-borghese facevo il tifo per mia madre, anche se la Colpa originaria, per quanto potevo sapere, era sua: non amarlo più abbastanza. Ma era lui a rovinare sempre tutto, con i suoi sulfurei umori. Per divorziare non c’erano i soldi e c’era l’abitudine. Non mi trasferii per l’università perché avevamo La Sapienza a poche fermate della metro B, e sarebbe stato uno spreco di soldi, a meno che non avessi lavorato, cosa che a entrambi i genitori sembrava aberrante. Prova di quanto mi tennero nella bambagia, stavolta in accordo su qualcosa, ma fu soprattutto mio padre a chiamarmi fuori dalle difficoltà della vita, e ciò fu rovinoso perché lui lavorava da casa, era un illustratore – e anche bravo – dunque passavo con lui la maggioranza del


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tempo, e mi persuadevo che l’occhio dell’universo fosse piantato su di me, e attorno non avessi che sudditi. O fedeli. Appena seppi che un tale chiamato Gesù aveva fatto miracoli e salvato l’umanità, ma doveva tornare sulla Terra per completare l’opera, a volte osavo immaginare di essere io, proprio io. Che la mia famiglia fosse atea non sgonfiò i miei trasporti mistici. Mi sentivo tenuto d’occhio: vediamo cosa farai, Salvatore. Quell’occhio non mi abbandonò. Da amante dell’arte, ma meno che dilettante, mio padre mi fece conoscere Michelangelo, Raffaello e Leonardo. Di solito i bambini sono estremamente soddisfatti dei disegni che fanno, e così era per me anche, fino a quando non vidi cosa accadeva a Firenze durante il Rinascimento: se io sono tanto bravo a disegnare, perché quello che faccio si discosta miglia e miglia da ciò che mi mostra mio padre? Impossibilitato a credere superiori a me quegli artisti sopraffini, incolpai gli strumenti, i miei pennarelli Giotto, che sicuramente non erano all’altezza dei setosi pennelli adoperati dai grandi pittori. Mi sentii meglio, quale squallore. Con tali premesse, appena ebbi rapporti con i coetanei mi sentii scivolare dal trono, la cosa di cui avevo una paura folle, così mi aggrappai con l’immaginazione al velluto, vivendo da allora una colossale bugia. Purtroppo la bugia rasentava la verità: alle elementari ero il primo della classe, capivo e assimilavo tutto solamente ascoltando, non ho mai studiato a quell’epoca; la maestra era innamorata di me. Al corso di karate ero il migliore, e avevo tanti altri talenti, come quello del disegno, probabilmente ereditato dall’idiota. Mi chiamavano “piccolo genio” quando mi meritavo solo un “bambino dotato”. In più, nessuno mi disse giammai che per ottenere le cose bisogna guadagnarsele: il destino mi avrebbe servito i piatti più succulenti senza che io facessi nulla più che essere un piccolo genio. Imparai da solo la disciplina, una sua versione sghemba e indulgente, quando andai al liceo. Scelsi lo scientifico, e lì compresi che non esiste la manna dal cielo. La matematica e la fisica erano complesse, ma io riuscivo comunque a eccellere, con un po’ di fatica. Mauro – prendete nota – era allora il mio migliore amico, ed eravamo in competizione, ma spesso vincevo io. Quando la professoressa sottoponeva ai due allievi più brillanti un problema, ero quasi sempre avanti, anche solo di un punto. Non solo: Mauro mi ammirava.


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Ascoltava i miei deliri adolescenziali e i miei dogmi nichilisti, li faceva propri, leggeva quello che leggevo io. Non sono mai stato popolare: alle elementari e alle medie ne soffrivo, ne vidi un segno di elezione al liceo. Avevo solo due amici, Mauro Levacci e Andrea Visoni. All’università scelsi Fisica, come Mauro; persi la verginità con un’oca che utilizzai solo per togliermi di dosso lo stigma. Quella si era innamorata e diede di matto. La lasciai male. Cominciavo ad avere dei vuoti della cosiddetta “volontà”, non studiavo per settimane, per mesi, e la paterna preoccupazione scattò: era lui che in genere si preoccupava, mi aveva già mandato dallo psicologo a undici anni. La libellula invece confidava nella crescita, e vedeva forse, attraverso le bende del buon senso, che mi stavo librando in aria e volevo farlo da solo e a modo mio. Era la mia patologia all’apice, quando ancora le riusciva di governarsi, di mantenersi a galla nella vita, e nel suo equilibrio bello e tossico bruciava, esaltando la mia intelligenza, il mio sguardo affilato su quei gusci vuoti che sono le percezioni. Ovviamente l’unica arma che aveva l’idiota per conquistarsi la mia felicità era la psicologia. Una signora non vecchia ma rabescata di rughe, credette di aver fatto il miracolo; invece, il miracolo, l’avevano fatto le pillole che mi aveva prescritto uno psichiatra. Una modesta quantità in meno ansia nei rapporti sociali, più tranquillità in generale. Continuai a studiare, alla Sapienza, ma non mi feci amici, e la fisica non era come quella del liceo: la mia prima ferita dell’orgoglio fu un professore che disse: «Hai studiato superficialmente» e poi mi chiese quanti anni avessi. Io gli dissi, pavido e tremante: «Ventuno» e pensai “allora, quanto dista la mia età anagrafica da quella mentale?”. Aspettai a lungo nel parcheggio per memorizzare la sua vettura e rigarla in seguito, ma lui non arrivò e io mi stancai, mentre singhiozzavo e mi soffiavo il naso nei guanti. Poi ci furono gli altri, i 25, i 23, i 26… finché non presi 103/110 alla triennale; migliorai di poco alla specialistica: 107/110. Il mio orgoglio si piegò in due e pianse sangue. Per la nostra curiosa compulsione alla Storia, vi intratterrò ora con la mia ferita nell’orgoglio primissima: fu quando arrivò, in terza elementare, trasferito da un altro istituto, un bambino che correva più veloce di me: mi aveva strappato un primato delizioso (ero imbattibile ad acchiapparella). Ero molto veloce da


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piccolo, e quando c’erano le olimpiadi in televisione pensavo sempre che li avrei potuti battere, quei neri sudati dai muscoli palpitanti. E se i miei osavano dire che un atleta era bravo, io mi adombravo: ero solo io bravo, m’innervosivo all’istante. Mauro aveva scelto Ingegneria aerospaziale, ma era andato a Roma Tre, più vicina a casa sua. Collezionò due 110 e lode. Più freddo, il nostro rapporto continuava a divorare aperitivi e macinare chilometri, a entrambi piaceva camminare, ma io lo detestavo per quelle lodi. Visoni divenne una giovane promessa nel campo delle scienze politiche, e ci perdemmo di vista. Levacci andò poi in Germania, a Colonia, presso lo European Astronaut Centre (EAC) per diventare astronauta. Superò delle selezioni durissime ma alla fine entrò. Le nostre telefonate su Skype si facevano sempre più rade: la mia invidia aveva eretto un muro, che da una parte verniciai di cortesia e amicizia, dall’altra inzuppai di pianto e vi lasciai tutte le unghie. Dei miei compagni di scuola, nessun altro diventò astronauta, ma la stupida Dana a cui davo sempre ripetizioni era un bravo architetto a Chicago; Giorgio studiava da medico; Flavio da veterinario; Greta era a Londra a fare chissà cosa, qualcosa che aveva a che fare con il sociale, si ubriacava tutte le sere e portava a casa sempre un uomo diverso, finché non si fidanzò piuttosto seriamente. Pietro aveva seguito le orme di suo fratello, e girava le nostre coste più belle con le barche di Legambiente. Ovviamente Lavinia era andata prima a Oxford, poi a Princeton. Lavinia era l’unica che mi superava, anche se nelle materie scientifiche le davo filo da torcere, infatti scelse la filosofia, quella dei primi apologeti cristiani, su cui aveva già scritto una marea di articoli e preparava un libro. Ebbi una slavina di realtà che mi capovolse, e poi mi rimise orizzontale di nuovo, quel poco da farmi tornare verticale, e girare, girare. Il mio 107 mi seguiva come una ghigliottina, e come una spada di Damocle mi seguiva il 29, i miei anni, sempre presenti come se avessi dovuto mostrare la carta d’identità a ogni angolo alla polizia dell’insuccesso. Provai il dottorato in cinque università: Bologna, Padova, Venezia, Napoli, Roma, ma arrivavo sempre dopo la fortunata cinquina, dodicesimo, addirittura quindicesimo, addirittura trentesimo. Ecco che diventare fisico per svelare i misteri dell’universo si fece un obiettivo lontano quanto mai. Possibile che io, proprio io, il predestinato, non


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riuscissi a entrare nell’Università come dottorando? Io, ero io che avevo un destino, costruito a forza di “bravo”, “prodigio” e altre cazzate che non si dovrebbero mai dire ai figli. Ma ero un fisico teorico, il che vuol dire che mi bastava un computer, se non carta e penna, per dimostrare il mio valore. Dalla prima rivista a cui mandai un articolo, ricevetti una bastonata che lo chiamò confusionario, poco originale e pieno di falle. Qui cominciò la storia del mio autolesionismo: mi bruciai la mano con una sigaretta, mi fece malissimo e mi sentii a posto, come se avessi pareggiato i conti. Edna cercò di scoraggiare l’autolesionismo quanto e come poté, e mi spronò a rispondere per le rime. Lo feci: «Gentile professor Cervigni, sa che sarebbe stato più corretto dire: “Il suo articolo non è adatto alla nostra rivista”, evitando di umiliare chi ha dimostrato interesse per il Suo lavoro? Invece ha preferito infierire, con una soddisfatta cattiveria che potrebbe sfogare in un altro modo che non nomino, perché sono più educato di Lei.» Era ovvio che non avrei mai più presentato articoli per quel Cervigni. E fu il primo di una serie lunga di rifiuti. Non che per tutti mi bruciai, ma continuai a farlo, sulle gambe, quando le parole, anche pensate, fuggivano come farfalle nere pazze e cessava ogni dialogo, e lasciavano come conversazione fra sé e sé solo un terribile dolore. Avrei portato quelle cicatrici a lungo, forse per tutta la vita. Non facevo nulla tutta la giornata, a parte ingrassare. Lavoro non ne cercavo, amici non ne avevo più, stavo solo e sempre con Edna, poi compii trent’anni e non volli nemmeno una torta. Mia madre, prendendomi alla lettera, mi portò un kebab – che adoravo e divoravo in un lampo con la colpa appollaiata sulla spalla destra – con una candelina. Non lo meritavo e piansi, poi ovviamente lo divorai. Questo è il primo di una serie di pianti che potrebbero infastidire, ma sono assolutamente sinceri, sperimentati in prima persona mentre erano scritti, anzi, solo quando erano pensati e questo libro non esisteva. Non che la sincerità debba redimermi, non è con la sincerità che si scrive, lo so bene. Avevo trovato uno spacciatore, uno fisso, mentre prima andavo alla ventura nei quartieri giusti, a Trastevere, alla stazione Termini. Ma se parlo di cannabis, devo parlare di Margherita. Margherita, quarant’anni mentre io ne avevo appena compiuti ventisei; dovetti riconoscere che lei era la persona più particolare e meravigliosa


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che avessi mai incontrato. Era un’eccellente pianista, veniva dal Sud, ancora tormentata dai fantasmi del paesino gretto e mafioso, per sua stessa ammissione paranoica. La amavo perché di solito riesco a capire cosa c’è nella testa della gente: sempre le stesse cose; invece la sua mente, per quanto lei si esprimesse nel proprio alfabeto, era un castello inespugnato. Non che questo non m’infastidisse, alle volte: mi chiedevo spesso chi fosse più intelligente fra noi due, e se il responso non mi era favorevole mi avvelenavo l’anima per qualche tempo. Le regalai “Il maestro e Margherita” che non aveva letto, e lei scherzò domandandomi se l’avessi fatto solo per via del suo nome. «No» le risposi con sicurezza «tu sei il Maestro.» Un giorno mi portò alla piscina comunale dove andava da tre anni, ma a lei come si nuota non era mai stato insegnato, almeno non bene, e mentre si muoveva scompostamente nell’acqua, io feci un sacco di vasche, ancora memore dei cinque brevetti che i miei mi propinarono. Lei si stupì, un po’ umiliata: «Tu fumi come un turco, bevi e mangi spazzatura… dev’essere la gioventù.» Già, il nuoto, mentre io non riuscii a difendere la mia vocazione per il karate, forse perché, essendo come sempre il migliore del corso, ci avevano proposto di fare il sabato in un’altra palestra, dove c’erano parecchi ragazzi, anche più grandi, e non ero più il migliore. Fu lei a iniziarmi al fumo di sostanze non tollerate dallo Stato. Solo che creò un mostro: fumavamo, a entrambi faceva un particolare effetto, lontano anni luce da quel semplice rilassamento che molti sperimentano, e lei era ispirata a suonare. Io con quella roba andavo in estasi, riuscivo a capire pezzi che altrimenti non mi avrebbero ispirato altro che noia, seguivo ogni nota come fosse una goccia d’oro fuso che cadeva sul mio cervello, procurandomi un piacere indicibile. Era meglio del sesso, per cui avevo sempre avuto delle diffidenze: perché una femmina dovrebbe venerare quel pendaglio brutto e peloso, e le palle penzolanti nello scroto; e perché io dovrei venerare quel buco pieno di membrane appiccicose? Cosa legava me alla prima cellula che per puro caso si andò a impigliare in un’altra, mischiando i reciproci acidi desossiribonucleici? Margherita mi aiutò, con il sesso dico, me lo fece piacere – e rise estasiata quando le dissi che avevo bisogno di un mentore in merito – ma era sempre lei a prendere l’iniziativa, perché io ero uno smidollato, ma comunque dividevamo il piacere fra il sesso, la musica e l’hashish. Ci


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dicemmo, in modo goffo, che ci amavamo, glielo dissi prima io, al telefono, lei fece un giro di parole, disse che l’unica volta che l’aveva detto era a un uomo sposato quando aveva diciannove anni, e poi disse: “Comunque, ti amo anch’io”. Io invece non l’avevo mai detto prima. Un giorno suonò un pezzo pazzesco di Listz e la concentrazione divenne insopportabile, la bellezza accecante, bruciante; ero perso, la musica mi aveva in suo possesso e non me ne potevo staccare, dovevo seguirla con una concentrazione che andava al di là della capacità della mia mente, non potei tollerarlo a lungo e le chiesi di smettere di suonare: non era quello, ma la cosa più vicina a ciò che mi successe fu una sindrome di Stendhal. Lei disse: «Che devo fare allora, ballo?» Mi cantava, con quella sua bella, scura voce intonatissima, disciplinata da anni e anni di studio della musica, “La cura” di Battiato: “perché sei un essere speciale, e io avrò cura di te”. Non ebbe cura di me, mi lasciò. Ero immaturo ed egoista, volevo trascorrere il tempo nella dissipazione, nell’eterna ricerca del piacere, senza vivere, senza costruire. Non cucinavo, non lavavo i piatti, mi svegliavo alle due del pomeriggio, perché l’effetto della marijuana durava tutta la notte e mi sentivo onnipotente, mi concentravo al limite del sopportabile e immaginavo di sradicare il palazzo dalle fondamenta. Mi chiedevo come potesse dormirmi placida accanto. Ogni volta che la pensavo piangevo, così per mesi e mesi. Ma non poteva togliermi la chiave per godere della bella musica come nessuno aveva mai goduto della bella musica. Eppure, quando trovai lo spacciatore fisso, predisposi un pezzo fantastico di Bach e non accadde niente di quell’alchimia pazzesca ai limiti della follia. Ecco un altro pezzetto di me che se ne andava per sempre. Cominciai a prenderne tutti i giorni, non più per esaltare le mie sensazioni musicali, ma semplicemente per stordirmi e rendermi sopportabile quella vita a letto a guardare cazzate su Youtube. Prima optai per gli epic fails, gente che si spaccava ossa e faceva ridere – come se poi ridessi – dopo ci furono i video sugli animali carini; poi le migliori e le peggiori audizioni dei talent show; poi preferii ricordare il passato, il mio passato regale; cominciai a guardare quei film Disney che erano presenti sul Tubo: insetti dei ’90 intrappolati nell’ambra opaca del 2020. La cosa degna di nota è che Edna gestiva il mio fumo: me ne consegnava le dosi che lei credeva opportune, strette in fogli di carta piegati. Io ne


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volevo sempre di più di quanto lei potesse accettare, ma di solito, alla fine, cedeva e io avevo ciò che volevo, lei cedeva sempre, con me. La casa era piena di foglietti spiegazzati recanti enigmatici resti in polvere marrone. Ma questa è solo una delle cose che chiunque riterrebbe umilianti, ma che per noi due, me ed Edna, facevano parte della quotidianità. Lei mi somministrava le medicine per la depressione, io non avevo alcuna idea di cosa, quanto e quando dovessi prendere. Se ero troppo irrequieto – la depressione dà anche irrequietezza – per dormire, condividevamo il letto matrimoniale perché la sua presenza mi calmasse. Ogni giorno ci abbracciavamo, ci baciavamo, ovunque tranne che sulle labbra, ma non sarebbe stato poi così strano: ci adattavamo a delle regole di decenza non scritte da noi. Ogni tanto le chiedevo se poteva ancora avere stima di me, lei mi assicurava di sì. Ero depresso, una malattia come il mal di gola, e non era colpa mia. A volte, quando eravamo vicini, avrei voluto estirpare quel pensiero tirandolo fuori dalla testa con la forza bruta: pensavo che lei aveva una vagina, ed era come se dovessi fare attenzione che il mio pene non ci scivolasse dentro, perché avevo la vertiginosa sensazione che potesse accadere involontariamente. Stamattina ho fatto una passeggiata a Villa Borghese, una di quelle giornate che sanno illuminarti, in cui, se hai un piccolo focolaio dentro che ti fa sorridere lievemente fra la folla, o che ami custodire dietro un’espressione compita, puoi sollevarti, come ripulirti. Vivo a Roma da quarant’anni, eppure la sua bellezza non mi è ancora indifferente. Seduto sull’erba, ho letto qualche pagina di un giovanissimo esordiente, di Sorrento, Daniele Maresca, “Il capolavoro” che lungi dall’autodefinirsi tale, prende spunto da quella bellissima frase della Yourcenar, “Ogni felicità è un capolavoro” per fare l’anamnesi di una felicità completa e splendente raggiunta soltanto a novant’anni – ma chi poi riesce nell’intento tanto presto? E siamo sicuri che qualcuno ci sia riuscito per davvero? – a tale Ignazio Labranca, proprietario di una copisteria, onestamente ignorante ma a suo modo ingegnoso, pensoso. La tesi di fondo è che non c’è una via facile alla felicità, essa non prospera fra gli incoscienti come più di qualcuno crede, fra gli imbecilli dalla vista offuscata, che non si arrovellano sui grandi problemi; no, essa dimora solo fra gli illuminati, un’aristocrazia non intellettuale, bensì garantita dalla capacità di dominio di sé, di controllo degli impulsi distruttivi, della pigrizia, della paura, delle


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cattive abitudini. Dominio che risiede solamente nell’accettazione di tutte queste cose. Una gran noia insomma, ma devo concordare. E di certo il nostro uomo, il narratore di questa confessione piuttosto brumosa, dovrebbe farci un pensiero – chissà se è ancora vivo – data la sua infelicità avidamente trattenuta, proprio mentre parrebbe tanto oppresso da volersene liberare a ogni costo. L’avevo detto subito, che era un insopportabile arrogante, un narciso. Certo, con due genitori così… due creature terrorizzate; se poi è obiettivo nel giudicarli, sia chiaro, cosa che non riesce bene a nessuno. Intanto il countdown continua, adesso mancano solo 120 giorni, e agli enigmi se ne aggiungerebbe un altro, quello dell’amico del cui nome dovremmo prendere nota, se non sapessimo benissimo di chi si tratta. Veramente il Nostro è stato compagno di scuola di Mauro Levacci? Lo credo capacissimo di essersi inventato tutto. Forse, da narciso ferito a morte e reietto per chissà quali oscuri motivi, avrà voluto dare voce a un immaginario amico del grande e sfortunato Levacci. La mia passeggiata di oggi mi ha ricordato, non so perché, certe estati di Galway, molto più miti di quelle roventi di Roma, e specialmente quando io e mio padre andavamo a Salthill, lungo l’Atlantico, e io prendevo avidamente a calci il muro del lungomare – si dice porti fortuna – anche se, di fortuna, ancora non avevo bisogno. Nella mia prima opera filosofica, dove abbozzo una teoria linguistica della filogenesi, parlo anche di come il linguaggio, nelle sue espressioni artistiche, spesso faccia da copertura a una voragine improvvisa, quando il pensiero si asciuga come un rigagnolo morto e non riesce a restituire in pieno un sentore che ha di una certa verità lontana o sepolta. Allora la lingua dell’artista circumnaviga il problema, che è in questo modo evitato, ma con tale operazione ne rende comunque visibili i contorni, e prende comunque dei sentieri, alternativi sì, ma non significa che siano di minore interesse per chi legge. Tutto questo per farvi capire come io mi stia sforzando di rendere la strana somiglianza di questa camminata a Villa Borghese e delle mie infanzie a Salthill, e come non riuscendoci io possa comunque generare significato. Dicendovi, perlomeno, che è stato come se i due paesaggi, il diverso clima, il diverso andare del vento, la diversa pendenza, la maggiore o minore sconnessione dell’asfalto, il tipo differente di alberi e cespugli,


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fossero cancellati da una somiglianza più profonda, come i vasi sanguigni sotto la pelle. Siete soddisfatti? Io no.


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CAPITOLO 3

-110 giorni Al telegiornale passava un montaggio di alcune delle numerose manifestazioni che si svolgevano nelle piazze di tutto il mondo contro la nostra visita a Marte: c’era chi semplicemente non riteneva di doversi scomodare per una forma di vita aliena, che se avesse voluto, sarebbe potuta atterrare direttamente sul nostro pianeta, invece di costringerci a una spesa folle e insensata; c’era chi tirava in ballo i paesi del Terzo mondo, i bambini affamati, i profughi, perché le risorse destinate a MARS2020 avrebbero potuto aiutare loro; poi qualcuno giudicava il fatto un’imprudenza, andare a stuzzicare una forma di vita dalla tecnologia avanzatissima che avrebbe potuto farci fuori in un attimo. Io ero entusiasta: bisognava andarci, magari ci avrebbero dato la chiave per la Teoria del Tutto, per conciliare relatività generale e meccanica quantistica, il sogno di ogni fisico. Però ero pur sempre un malato di mente, e talvolta la furia mi prendeva al collo e dovevo seguirla, facevo a pezzi oggetti, tiravo bottiglie di birra, di cui ero un consumatore ai limiti dell’alcolismo, strappavo pagine di libri che avevo amato (quando leggevo romanzi importanti per ore e ore, come se avessi avuto tutto il tempo del mondo). Era in queste circostanze che Edna chiamava il 118, magari in quel frangente mi ero anche fatto dei tagli sui polsi, roba superficiale, commisurata alla mia vigliaccheria. La prima volta che finii lì, in psichiatria, fu perché mi tirai un armadio addosso, il legno era Ikea, non mi feci male, poi scesi dal balcone – primo piano – sfruttando le impalcature, in seguito andai, in pigiama, davanti a un’edicola della Madonna posta all’incrocio e spaccai un sottopiatto per i fiori. Lì, nel reparto psichiatrico (SPDC) del Santo Spirito, trovai un amico, un ventenne la cui unica viltà era stata quella di chiamare un’ambulanza quando stava per perdere i sensi dopo un cocktail di medicine e alcol, più taglio delle vene molto più efficace del mio. Lui diceva di compiere


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queste azioni quasi in trance, come se si sentisse vivere dall’esterno. Io pensai al dolore tremendo che provavo quando mi tagliavo, e lo rispettavo per averne sopportato almeno il triplo, con quei tagli profondi e disordinati che mi mostrò una volta sotto la garza. Ci vedemmo qualche volta fuori, ma i suoi amici ventenni mi davano fastidio, lui era di gran lunga il più profondo, e non avrebbe dovuto sprecare il tempo con loro. Giravano la città in macchina con della musica che faceva spavento. Non bevevano nemmeno. Andavano al Gay Village e passavano la serata al karaoke, facendosi deridere pesantemente dalla trans che gestiva il tutto, per la poca intonazione. Mi feci una tana nel divano e non ne uscii più. Mi dispiacque, noi due smettemmo di cercarci. Ma tranquilli, questa non è solo la storia di un depresso, perché una cosa accadde che mi elettrizzò, ma prima un’altra cosa accadde che mi abbatté del tutto. Entrambe nell’ordine dello straordinario, per essere cauti. «Ti ho trovato un lavoro.» «Stai scherzando? Ti sembro nelle condizioni di lavorare?» Ci stavamo abbracciando perché io piangevo. «Ma questo è un bel lavoro, e non è troppo impegnativo: ti ricordi di Violetta? Adesso insegna italiano in una scuola privata, una scuola tedesca, e lì cercano un maestro di matematica per le elementari.» «Io?» «Se vuoi puoi cominciare lunedì prossimo: iniziano le riunioni dei professori.» Uscire dopo tanto tempo da recluso in casa fu strano e pauroso, le persone sembravano manichini semoventi, e le macchine in lontananza modellini. Le strade erano in fermento, non si parlava d’altro che degli alieni. Settembre trucidava l’estate con una piacevole lentezza, ma alla fine avrebbe vinto. Ci annienteranno? Ci colonizzeranno? Ci mangeranno? Oppure ci daranno la chiave per la pace? Anch’io ero elettrizzato, devo ammettere che la depressione non mi toglieva quella curiosità immane, spettacolare. Lunedì cominciai, previo bicchierino di vodka al bar, meditato fin dalla sera precedente a quella precedente, con i tremori, con la gola stretta, con il cuore che non sapeva se battere o farmi paura, con un filo sottilissimo di ragionamento nel cervello, strozzato, che diceva così: questa vodka


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non mi ha fatto un cazzo, ma so come sarei stato se non l’avessi presa? La risposta è molto probabilmente sì: sarei stato di merda come prima. Le “what if questions” fanno parte della vita di tutti, in una maniera imbarazzante: e se avessi preso ingegneria invece di lettere antiche? E se quella volta non avessi bevuto al volante e non avessi ucciso quel bambino? Quel what, o quella res non sono mai esistiti, il futuro non è incerto, ma quando si tratta di stati interni, come uno sperato e deluso stordimento da alcol, possiamo sapere what if. È pura logica o c’entra la coscienza? E le due cose differiscono? La prima riunione degli insegnanti. Mi invitarono a presentarmi, dato che ero nuovo. «Sono un depresso, un alcolista e un megalomane.» «Sono Marco Bianconi, buongiorno a tutti, sono laureato in fisica e sono molto felice di lavorare qui.» Scegliete voi. Coscienza e logica differiscono o è la solita mania del divide et impera? Si ragiona così, che so, in Oriente? E gli alieni? Il consesso quasi tutto femminile, truccato e ben vestito, la gomma nella mia testa, che per contagio era essa stessa di gomma espansa – dove avevo quell’irrequietezza che chiamavo bocca? E quegli oggetti utili solo all’imbarazzo, detti occhi? – le frasi nominali. «Uno dei bambini di prima C, Alberto Beltrami, è un piccolo genio» esordì l’insegnante d’italiano. «Ma è molto problematico, irrequieto, provocatore. Del resto, con un quoziente intellettivo di 155 deve vederci tutti come degli idioti.» Risata generale. «Pensate che Einstein aveva 160, e lui è solo un bambino» disse Musica. «Certo, tanto fra poco ci invaderanno gli alieni» precisò Educazione artistica. Altra risata. Ci mancava il bambino di sei anni con un QI più alto del mio che era, stando a un test fatto su internet ma piuttosto serio, almeno per il suo prezzo, di 147. E l’avrei avuto in classe, odiosissima rogna per l’idropisia del mio ego. Poi, che fossi del tutto impreparato su come si piegano le giovanissime menti all’astrazione – e che non sapessi ancora se si trattasse di liberarli, come gli schiavi di Michelangelo ancora mezzi posseduti dalla pietra, o di incatenarli – era un problema di cui mi sarei occupato in seguito; intanto, avrei avuto uno stipendio.


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Anche ricoverato in psichiatria dunque, non sono stupito. Non male il quoziente d’intelligenza, difatti si capisce che c’è della materia grigia, sebbene i suoi ragionamenti non siano del tutto lineari; io non ho mai provato un test, sarebbe imbarazzante per un filosofo ritrovarsi con un risultato misero. Ma mettersi addirittura in gara con un bambino di sei anni, che follia. Se davvero ogni felicità è un capolavoro, questo Marco non ne sta scrivendo uno. I libri mal riusciti di solito sono scontati, banali; forse anche le infelicità lo sono, in fondo esse sono classificate con esattezza quasi scientifica dalla psicanalisi, mentre le vie della felicità sono infinite. Se ciascuno è unico, è pur vero che può cadere in un certo numero limitato di baratri, mentre per ascendere al cielo c’è tutta l’aria del mondo. È curioso come da giovane pensassi l’esatto opposto: che si può essere felici in un solo modo ma infelici in mille modi diversi, e dunque che esistesse molta più ricchezza nell’infelicità, normale, io ci sguazzavo dentro. Vedevo la persona felice come un idiota con gli occhi cuciti e le orecchie tappate, perché la verità è sempre un lavoro a levare strati su strati fino a giungere a un cuore di puro nulla; forse lo credo ancora adesso, il lavoro a levare dico, ma poi, quel nulla di cui prima è terreno edificabile. Quello della felicità è un altro tipo di lavoro, stavolta a mettere, che costruisce un nuovo tipo di realtà, che non è il pieno dei fantasmi della ragione e del sentimento né il vuoto della verità: è, come ebbe a dire quel meraviglioso poeta e filosofo che fu Giacomo Leopardi, “ultrafilosofia”. Non posso dire di aver raggiunto il Nirvana oggi, come quell’Ignazio Labranca di cui sto ancora leggendo, ma settant’anni di vita non sono passati del tutto vanamente. Mi ha salvato la cultura, come succede quasi a tutti quanti abbiano la fortuna di avvicinarvisi, instradati da altri, genitori, parenti, bravi insegnanti, fin da molto giovani, oppure per conto proprio, senza modi, tempi, regole, al di fuori delle istituzioni. Ricordo un’immagine che mi colpì qualche tempo fa: era ora di pranzo, e i lavoratori di un cantiere stradale dietro alla stazione Tiburtina stavano facendo pausa; uno di loro, un ragazzo basso e ben tornito, dai lineamenti delicati, teneva in mano il suo lettore e-book, e sembrava che per lui non esistesse altro. Per me, che sono stato un privilegiato,


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sebbene abbia cercato, come e quanto potei, di combattere tale privilegio sociale, che mi pareva quasi un sopruso, per me una scena del genere è profondamente toccante. Il nostro autore misterioso non sembra un ignorante, ha studiato fisica, anche se non con il massimo profitto. So bene cosa significa approdare all’università, ancora mezzi adolescenti, e smarrirsi. Io, alla facoltà di filosofia di Dublino, non potei godere di quell’euforico sentimento che molti miei coetanei provarono a essere invitati alla mensa del sapere, nella completa libertà di assaggiare tutti i frutti, di trovare la pietanza che più aggrada e abbuffarsi. No, io ero legato, inibito, paralizzato. Anche se prendevo tutti trenta e lode, non uscivo un millimetro dal programma d’esame per ampliare l’orizzonte o per approfondire alcuni aspetti. Dopo l’esame, dimenticavo. Vedete, anche adesso, mentre vi racconto della mia gioventù, o prima, quando parlavo dell’operaio intento a leggere, qualcosa, anzi, direi la maggior parte delle cose, sfuggono, non sono sfiorate dal tocco vivificante del linguaggio, restano nell’ombra fredda; e probabilmente le cose che sfuggono sono le più importanti. Allora, che cosa sto a fare io qui, se non so portare alla luce la parte celata dell’iceberg, il cuore pulsante di una sensazione, di un impulso pre-linguistico, di un pensiero ancora allo stato magmatico, della spiazzante evanescenza di un ricordo? Semplice, sono un manierista. Ma ora sono stanco, di questo discuterò la prossima volta, lascio parlare il mio strano personaggio.


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CAPITOLO 4

-99 giorni Marte. Lì avevano piantato le tende come un invito a incontrarsi su terreno neutrale. Il primo osservatorio astronomico a notare l’anomalia fu il VLT – Very Large Telescope array – considerata la più importante struttura per l’Astronomia dall’inizio del terzo millennio. Il sito ospitava inoltre lo strumento ottico più avanzato al mondo. Si tratta di quattro telescopi principali equipaggiati con specchi primari di 8,2 metri di diametro, e di quattro telescopi ausiliari mobili, questi ultimi di 1,8 metri di diametro. La combinazione di questi strumenti forma un interferometro enorme, il Very Large Telescope Interferometer dell’ESO; gli astronomi erano in grado di vedere dettagli fino a venticinque volte più fini rispetto a quelli osservabili con i singoli telescopi. Presto, lo strano fenomeno fu osservabile anche dal Mauna Kea Observatory (MKO), Hawaii (USA). Situato sulla cima del vulcano Mauna Kea, sull’isola Hawaii – la più grande dell’arcipelago – l’Osservatorio, nato nel 1967 era gestito dall’Università delle Hawaii. Si trattava di uno dei migliori siti al mondo per l’osservazione astronomica, grazie all’altitudine e alla scarsa popolosità dell’isola, che si trova proprio nel bel mezzo dell’oceano Pacifico. I visitatori potevano raggiungere l’apposita stazione a quota 2.775 metri, sostando in precedenza per almeno trenta minuti al livello inferiore, in modo da acclimatarsi alla condizioni atmosferiche e all’altitudine. Presso l’Osservatorio erano presenti tredici telescopi, di cui nove ottici o a infrarossi, tre sub millimetrici e un radiotelescopio. Ma poco dopo tutti i grandi osservatori del mondo si erano sintonizzati su Marte, e avevano svelato prima un grosso oggetto in avvicinamento, poi un atterraggio e la costruzione di una base enorme in appena pochi giorni. Secondo alcuni erano biotecnologie avanzatissime, ossia: quelle strutture erano vive. Volevano comunicare su un terreno neutrale. Marte è vicino, avranno pensato? Non sapendo che per noi raggiungere Marte non è un gioco. Tuttavia, la NASA stava progettando da tempo un razzo che


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impiegasse, invece dei tre anni che ci sarebbero voluti con le astronavi disponibili, il tempo incredibilmente breve di trenta giorni. Io lo guardavo di sguincio; lui, forse, guardava me. Mi dissero, anche, che era solito scalare la libreria di casa e accollarsi le opere complete di Kant o Hegel. Chissà che pensava della lezione di quel primo giorno: contare da uno a dieci. Prima avevo chiesto cosa fosse secondo loro la matematica, e dopo un primo silenzio d’imbarazzo, un paio di loro, quasi sincronici, avevano cinguettato: «I numeri!» e tutta la classe li aveva seguiti, e risuonava di: «Numeri, numeri!» «Diciamo che la matematica usa i numeri» dissi vergognandomi come un idiota. Ho sempre avuto l’impressione che i numeri fossero una sorta di segnaposto. Avrei voluto seguitare chiedendo cosa fosse un numero, per vedere se il genio ne sapeva qualcosa di Russell, Peano e company, ma non era un corso universitario e dovevo tenere i miei argomenti preferiti per me. I profani non sanno cosa siano i numeri, e non importa loro saperlo, ma i bambini di quell’età hanno un’ignoranza che non è definibile come tale, è molto più una mystica unio con cose e parole: non hanno bisogno di sapere, quello che non capiscono non chiedono, perché il capire non è ancora la modalità dominante, che è invece la magia. Entrano qui ed escono da uomini e donne occidentali. Che razza di sciagura. Lui mi guardava, irritato, insofferente, sfottente e sornione. Mi guardava sofferente. Mentre davo agli altri il compito di scrivere a numeri e a lettere da uno a dieci, inventai alla svelta un’espressione, ricontrollai il risultato una decina di volte, impedito dalla paura, e gliela propinai gonfio di vergogna come un sacco bagnato. La risolse in poco più di trenta secondi. La grafia, notai, era esercitata, consumata come quella degli adulti. Va bene, ponderai, domani gli porto il mio libro del liceo e gli spiego cos’è una funzione, se non lo sa già. Lo sapeva. Gliene lasciai tre da analizzare a casa. Sembrava che la classe si allungasse e si ritirasse, un polipo o una medusa. Non per la vodka, quella era acqua fresca per il mio sistema di allerta attivato al massimo, l’allerta contro l’Altro. So che, per la psicanalisi, dovrei abbandonare tale sistema, una difesa, un equilibrio tutto storto come un tronco d’ulivo; ma, seguitemi: una volta vidi in metropolitana una ragazza dai tratti fini che toccava a malapena i sostegni con dei bei guanti candidi, in estate. Che c’entra? M’immaginai


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che avesse paura dei germi, e capii che il suo mondo contemplava tutta una selva che io non conoscevo, una selva oscura da estirpare, sì, ma pur sempre un surplus di coscienza. Se smettessi di botto di chiedermi come appaio, cosa pensa di me il grande Altro, sentirei di privarmi di uno strato della mia coscienza. Avrò anche un paio di occhiali neri distorcenti, ma l’alternativa è averli rosa. Non c’è un modo neutro di vedere, delle lenti trasparenti, la coscienza si appoggia sempre a qualcosa, e più è doloroso, più cresce, se ne pasce, gioisce. Come la rabbia immensa che provavo perché qualcuno a sei anni aveva già assimilato una cultura che molti non hanno in una vita. Lo temevo, temevo una sua domanda troppo difficile per me, temevo i miei limiti, ora era lui il protagonista della storia, non io. Io ero il suo insegnante, chi non sa fare insegna, si sa. Al massimo sarei stato la comparsa che avrebbe confermato il suo genio, un ruolo di qualche battuta, per la quale, sentivo, avevo anche il fisico adatto. Uno dei tanti psicologi mi disse che non dovevo confrontarmi con gli altri perché questo era il mio libro, io il protagonista e i libri più belli hanno protagonisti normali. Mi aveva dato del mediocre ma non importa, il punto è che aveva sbagliato tutto: io, difatti, sono il protagonista non il lettore che può trovare affascinante l’epopea di un uomo mediocre; l’uomo mediocre, se se ne rende conto, soffre per tutta la durata del libro. Gli darò fuoco, e vediamo chi è più testardo. Vorrei che vedesse il suo uomo comune bucarsi, sfrigolare, incenerire, divampare in un’esplosione contraria totalmente al destino suo scritto sulle pagine, evadere nell’aria sovreccitata. La fuga dalla propria natura, il salto che tanto vorrei, in una metafora si può svelare possibile? Ci sono due tipi di metafore, quelle che appaiono epifaniche e sussurrano una via di pensiero, e quelle create ad hoc per rafforzare una convinzione ottenuta altrimenti. Queste ultime valgono nulla.


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«Non può nemmeno immaginare che regalo graditissimo che fu, quanti pensieri, quanti sensi di colpa, quante lacrime.» «E ci sei riuscito? A farti dare la conoscenza dagli alieni?» «Credo di essere l’unica persona al mondo ad avere un’immagine mentale tanto chiara di cos’è l’universo.» «Ma lei deve divulgare tutto questo. Ho un paio di amici fisici che…» «Oh, i fisici, io ho una conoscenza intuitiva, loro vogliono i numeri e le formule.» «Quindi tutto questo morirà con lei, gli alieni se ne sono andati e non sono più tornati, e c’è da supporre che non torneranno mai» «Sì, questo morirà con me.» «E ci è riuscito senza nemmeno uccidere Levacci.» «Un colpo di fortuna, sì, ma ho pur&RQWLQXD sempre ucciso mia madre. Io e Alberto siamo due assassini.» )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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INDICE

Prologo ............................................................................................ 7 Capitolo 1 ...................................................................................... 11 Capitolo 2 ...................................................................................... 16 Capitolo 3 ...................................................................................... 28 Capitolo 4 ...................................................................................... 33 Capitolo 5 ...................................................................................... 36 Capitolo 6 ...................................................................................... 42 Capitolo 7 ...................................................................................... 48 Capitolo 8 ...................................................................................... 57 Capitolo 9 ...................................................................................... 65 Capitolo 10 .................................................................................... 72 Capitolo 11 .................................................................................... 76 Capitolo 12 .................................................................................... 83 Capitolo 13 .................................................................................... 86 Capitolo 14 .................................................................................... 93 Capitolo 15 .................................................................................. 101


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Capitolo 16 .................................................................................. 105 Capitolo 17 .................................................................................. 108 Capitolo 18 .................................................................................. 115 Capitolo 19 .................................................................................. 119 Capitolo 20 .................................................................................. 123 Capitolo 21 .................................................................................. 126 Capitolo 22 .................................................................................. 129 Capitolo 23 .................................................................................. 133 Capitolo 24 .................................................................................. 143 Capitolo 25 .................................................................................. 146 Capitolo 26 .................................................................................. 149 Capitolo 27 .................................................................................. 153 Capitolo 28 .................................................................................. 156 Capitolo 29 .................................................................................. 159 Capitolo 30 .................................................................................. 161 Capitolo 31 .................................................................................. 164 Capitolo 32 .................................................................................. 165 Capitolo 33 .................................................................................. 167 Capitolo 34 .................................................................................. 168 Epilogo ........................................................................................ 171


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AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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