Dove fuggire, Alfredo Tocchi

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In uscita il 29/7/2022 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2022 (2,99 euro)

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ALFREDO TOCCHI

DOVE FUGGIRE

ZeroUnoUndici Edizioni


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DOVE FUGGIRE Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-563-9 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Luglio 2022


Non abbiate paura della tenerezza Papa Francesco, 19 marzo 2013



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Me ne stavo seduta sulla panchina davanti al museo Matisse. Leggevo attentamente L’invenzione della solitudine di Paul Auster, in inglese naturalmente. Non l’ho visto uscire, ho alzato la testa quando era a due passi da me. Mi fissava con i suoi occhi verdi, ho abbassato lo sguardo. Si è seduto senza dire nulla. È rimasto così per qualche interminabile istante, guardando l’uscita del museo davanti a sé. Pensavo che aspettasse qualcuno, ho finto di leggere. Era molto elegante: pantaloni di velluto beige, una vecchia giacca di tweed, cravatta di seta blu, polacchini di camoscio. Ho pensato subito che non potesse essere francese. Inglese forse, con quegli occhi così chiari. Poi si è girato verso di me e, quasi sussurrandolo, mi ha chiesto in inglese da dove venissi. Gli ho risposto, non era stato scortese come gli uomini che mi rivolgono la parola per strada, convinti di potermi avere soltanto perché sono nera. «Caribbean. And you?». «I’m Italian, from Milan. From which island?». «Anguilla». «Wow. Paradise on earth». Paradiso in terra, così ha detto. L’ho guardato negli occhi: sorrideva.


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Era il 9 marzo e c’era il sole. Il mistral aveva pulito il cielo e l’aria era trasparente. Trasparente come i suoi occhi verdi: buoni, dolci come il suo modo di parlare a bassa voce, educatamente. Lo conoscevo da un attimo e già avevo voglia di raccontargli la mia storia. Se soltanto ne avesse conosciuta una piccola parte, Anguilla non gli sarebbe più sembrata un paradiso. E così gli ho domandato cosa facesse a Nizza e abbiamo iniziato a parlare. Parlare, non chiacchierare. Ha incominciato raccontandomi che amava Paul Auster e lo aveva citato spesso nei suoi scritti. È uno scrittore. Dopo mezz’ora mi sembrava di conoscerlo da una vita e mi fidavo di lui. Da tanto tempo non parlavo più e non me ne ero neppure accorta. La nostra storia è cominciata così: seduti su quella panchina immersa tra gli ulivi, ci siamo raccontati le nostre vite. E abbiamo sofferto l’uno per la storia dell’altra, un’empatia profonda. Poi ho guardato l’orologio e gli ho detto che dovevo andare a casa. «Anch’io». Ho avuto paura che mi lasciasse così, paura di non rivederlo mai più. Invece, all’uscita del parco mi ha stretto la mano e ha voluto il mio numero di telefono: ero felice. Non gliel’ho mai confessato, ma per tre giorni ho aspettato la sua chiamata, arrivata il lunedì sera, da Milano. È stata una telefonata brevissima, ero in cucina accanto a Paul. Mi ha detto soltanto: «Ciao Alice, mi sei mancata. Puoi parlare?». «No, ora no».


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L’ho detto guardando mio figlio. Poi, per non farlo insospettire, ho aggiunto: «Chiamami domani mattina, Sheila, verso mezzogiorno». «Va bene, Alice, buonanotte». Ho appoggiato il telefono sul tavolo e chiesto a Paul se avesse finito i compiti. «Sì mamma». «Bravo. Vai a dire a Marc di abbassare lo stereo, lo sai che papà si arrabbia». «Va bene, mamma». Ho scritto, veloce, un sms: «Scusami». Mi ha risposto subito: «Di nulla, scusami tu. Mi piace il nome Sheila». Così mi ha strappato il primo sorriso. Paul è un bambino meraviglioso. Dodici anni. Ha la pelle scura come la mia. Marc no, è più chiaro, come suo padre, che detesta. Quando arriva a casa la sera, Marc si chiude in camera sua e alza il volume dello stereo. È un ragazzo ribelle e introverso, a volte ho paura per lui. Se sapesse chi è il suo vero nonno… un giorno forse avrò il coraggio di dirglielo. Ora non posso, mio padre – l’uomo che così ho sempre chiamato – e mia madre non me lo perdonerebbero. E forse neanche mio marito. O forse non gliene importerebbe nulla. In questa casa, nella sua casa, ormai è un fantasma. Arriva sempre più tardi – guai a domandargli dove sia stato – mangia in fretta davanti alla televisione e va di sopra a dormire. Non una parola con me o con i bambini. Continuo a chiamarli bambini ma Marc ormai ha sedici anni.


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Paul vuole bene a suo padre. È un cucciolo sempre in cerca di una carezza, felice di una minima attenzione. Marc no. Forse è colpa mia: vede che non sono felice, ne soffre e odia suo padre. Io cerco di essergli vicina, ma lui mi respinge. È un ragazzo orgoglioso. Ed è bellissimo, come suo nonno, come me. Ero tanto felice di quella pelle chiara quando gli facevo il bagno da piccolo, era quasi del colore delle persone ricche, dei turisti che venivano ad Anguilla per poi ripartire verso il mondo. Ricordo il giorno in cui, a scuola, la mia amica del cuore mi disse sottovoce: «Alice, ieri ho sentito la mamma che diceva una cosa al mio papà». «Cosa?». «Si è accorta che l’avevo sentita e mi ha fatto promettere di non dirtela». Eravamo soltanto due bambine di dieci anni, con le trecce e la divisa gialla della Valley Primary School. «Ma noi siamo amiche, Alice, io te la voglio dire». Mi prese per mano e ci sedemmo sotto il grande flamboyant fiorito, in fondo al giardino. «La mamma ha detto che tu sei figlia di Bankie Banx». La fissai negli occhi. «Cosa vuoi dire? Io sono la figlia di mio padre». «No, Alice, la mamma me lo ha detto, il tuo vero papà è Bankie Banx». Tutti ad Anguilla conoscevano Bankie Banx, anche se allora era molto giovane. E io sapevo come nascono i bambini, perché ero cresciuta in campagna. Ho capito subito che era vero.


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«Sei ancora mia amica?». «Sì, certo». Riprese la mia mano. Mi diede un bacio sulla fronte. Poi fece un sorriso e mi disse: «Oggi andiamo a fare il bagno davanti a Dune Preserve?». Dune Preserve è il locale di Bankie Banx. È lì che lui suonava prima di diventare famoso. Così, quello stesso pomeriggio, prendemmo l’autobus e andammo a fare il bagno davanti a Dune Preserve. Mio padre era là: seduto sotto il portico, fumava marijuana. Alto quasi un metro e novanta, magro, dritto, i rasta sulle spalle. Fumava e guardava il mare senza neppure immaginare che – tra lui e il mare – c’era sua figlia. C’ero io. L’avevo già visto, certo. Ma non sapevo che fosse mio padre, così diverso dall’uomo che avevo sempre chiamato papà. Da quel momento iniziai a osservare mia madre in un modo nuovo: non era più la donna triste e tranquilla che conoscevo, era una donna che aveva fatto l’amore con l’uomo più bello dell’isola ma si era sposata con un poliziotto, in fretta, per evitare uno scandalo. Ero nata sette mesi esatti dopo il matrimonio, sotto il segno dei pesci. A dieci anni ero già alta un metro e sessantacinque. A diciassette un metro e settantotto, come oggi. Il marito di mia madre è circa un metro e settanta, tarchiato, con le ossa grosse. Io ho ossa sottili e occhi nocciola, chiarissimi: proprio come Bankie Banx. La nonna di Bankie era stata violentata da un bianco, e lui ne aveva fatto una canzone: per questo abbiamo gli occhi così chiari e il naso e le labbra sottili.


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Da quel pomeriggio di venticinque anni fa sono andata tante volte a spiare mio padre. E sono stata felice quando, ormai famoso, è andato a New York e si è sposato con un’americana. Ma non gli ho mai rivolto la parola, mi è mancato il coraggio. Ho vissuto ad Anguilla convinta che tutti conoscessero la mia storia e nessuno la raccontasse perché il marito di mia madre era un poliziotto. Ma sognavo di fuggire il più lontano possibile, seguire Bankie Banx nelle sue tournée, andare dove nessuno sapesse il mio segreto. Iniziai a leggere. Mia madre faceva la cameriera all’Hotel Carimar e mi portava a casa i libri lasciati dagli ospiti. Li leggevo in fretta, perché bisognava riportarli indietro. Dai libri ho imparato che il mondo appartiene ai sognatori capaci di realizzare i propri sogni. No, non avrei fatto la cameriera come mia madre: avrei viaggiato come Bankie Banx. «Lasciala sognare» diceva mia madre a suo marito, «un giorno si accorgerà anche lei che la vita non è un sogno». Ma io non me ne curavo: sognavo New York, Londra e soprattutto Parigi, la città della moda. Ero alta, magra e bella: qualcuno, prima o poi, mi avrebbe portata via.


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Avevo diciassette anni, era il giorno delle regate. La spiaggia di Meads Bay era piena di gente. Me ne stavo in coda per comprare una Coca cola quando un signore coi capelli grigi si è avvicinato. Mi ha detto qualcosa in francese, ma non sono riuscita a capire. Allora, in inglese, mi ha domandato se capissi il francese. «No, parlo soltanto inglese». Mi ha chiesto se potesse offrirmi da bere. Avevo pochi soldi, così accettai. «Sono qui in albergo. Se vuoi, può venire a guardare la regata nella mia stanza». Non ero mai stata nella camera di un uomo. «No, grazie, preferisco stare sulla spiaggia». Ci siamo messi a sedere sulla sabbia e mi ha raccontato che era un assicuratore francese, venuto a Sint Maarten per incontrare il direttore del Sofitel. Aveva saputo delle regate di Anguilla ed era venuto a vederle, per due giorni soltanto. Aveva quarantacinque anni ed era divorziato senza figli. La sera mi ha invitato a cena al Cap Juluca. Non c’ero mai stata, era l’albergo più bello dell’isola. Ho accettato. Quando l’ho detto a mia madre si è arrabbiata. Forse è proprio per questo che


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in quel preciso momento ho deciso che se mai me lo avesse chiesto, me ne sarei andata via con quell’uomo. Non ho mai parlato con mia madre. Da piccola, ero troppo bambina. Più grande, eravamo troppo diverse. Io studiavo, leggevo, guardavo il mondo con la curiosità di un’adolescente diventata grande in fretta in un posto troppo piccolo. Lei sapeva a stento scrivere, era cresciuta senza neppure la televisione. Viveva nel terrore di fare arrabbiare suo marito. E lui, certo, si arrabbiava. Più di una volta l’ha presa a schiaffi davanti a me, ed era un poliziotto, non c’era nessuno che potesse proteggerla. Era un uomo rozzo e brutale. Forse non le aveva perdonato quell’unica figlia fatta con un altro, perché altri figli non ne arrivarono. Di me aveva soggezione. Sapeva che avrei avuto il coraggio di raccontare ciò che faceva patire a mia madre. Non so se ora che sono lontana la situazione sia peggiorata. Se anche fosse, mia madre subirebbe in silenzio, forse per espiare la sua colpa di gioventù. Li sento una volta al mese, ma ogni telefonata è uguale alla precedente: non abbiamo nulla da dirci. Non abbiamo mai avuto nulla da dirci. Speravo che con mio marito sarebbe stato diverso. Sognavo che avremmo parlato, che ci saremmo confidati tutto, che avremmo avuto fiducia l’uno nell’altra. Non è mai stato così. Per lui sono una preda esotica da esibire, una medaglia sul suo petto vanitoso. Una moglie di ventotto anni più giovane, di sei centimetri più alta, persino più colta. Perché io leggo, leggo sempre. La lettura è il mio rifugio, il mio mondo parallelo. E lì, a volte, riesco a essere felice. E naturalmente ho Paul e Marc. Il


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periodo più bello è stato quando erano piccoli. Guardavamo la televisione nel lettone, gli leggevo le fiabe, li portavo alla spiaggia. Senza il mare non potrei vivere. Anche per questo ho accettato di partire. «A Nizza c’è il mare, certamente», mi aveva detto mio marito. E io l’ho seguito, docile, sottomessa. C’era il mare, ma c’erano – e ci sono ancora – anche le sue amanti. Mi ha sempre tradita, fin dal primo giorno. Ero stata una conquista facile, non ha mai avuto paura di perdermi. E del resto dove sarei andata? Marc è nato quasi subito e io non lavoravo. Studiavo il francese e basta. Poi ho fatto la mamma, ho pensato alla casa. E ora sono qui, fuggita da un’isola troppo piccola in cerca di libertà, e finita prigioniera in una casa lontana. Ma dovevo fuggire da Anguilla e seguire mio marito era il modo più semplice.


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Appena ho compiuto diciott’anni è venuto a prendermi. Come un pacco, come una cosa. Certo, io volevo andarmene, gli avevo scritto molte lettere, lui mi telefonava ma non mi ha mai scritto. Avrei dovuto capire: parlare è facile, scrivere richiede concentrazione. Ma io non volevo capire, volevo soltanto andarmene. È stato il mio primo e unico uomo, mi ha presa prima delle nozze e io, ancora una volta, ho fatto ciò che voleva. Forse è per questo che ha perso ogni rispetto. All’inizio far l’amore mi piaceva. Mi sentivo una donna. Ero in Europa e un uomo mi insegnava a renderlo felice, anche se è più realistico dire che mi insegnava a farlo godere. Non mi ha risparmiato nulla del sesso e io sono stata al gioco. Mi sono data senza riserve perché la comunicazione fisica era l’unica cosa che ci legasse, quella verbale non è mai esistita. A fatica, i primi tempi, mi domandava della scuola di francese. Ascoltava distrattamente i miei racconti, ma in realtà non gliene importava nulla. Volevo imparare il francese per trovarmi un lavoro, ma quando è nato Marc è stato chiaro che non avrebbe mai accettato che io lavorassi. Non so se la sua sia stata una scelta consapevole, per evitare che mi rendessi indipendente. Fatto sta che dipendo in tutto da lui, non ho neppure i soldi per comprarmi gli assorbenti. Se ci penso mi viene da piangere.


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So di avere un padre ricco, a New York, ma lui non sa di avere una figlia a Nizza. Si è sposato con una bianca e ha fatto una figlia, mia sorella. L’ho vista una sola volta, ma ovviamente non l’ho salutata. Ero andata ad Anguilla con Marc e Paul per una settimana, per festeggiare i trent’anni di matrimonio dei miei e sono passata da Dune Preserve. Mio padre era sempre là, fatto di marijuana, a guardare il mare. Un po’ invecchiato ma sempre bellissimo. Io ero a casa, ma mi sentivo un’estranea. Chi lascia un’isola viene presto dimenticato: tutti si conoscono, sono abituati a vedersi quasi tutti i giorni, e io ero diventata poco più di una turista. Eppure, ho avuto nostalgia, per la prima volta nella mia vita ho provato a immaginare cosa sarebbe stato se fossi rimasta. Forse sarei stata cassiera al supermercato, o contabile in un albergo. Di certo avrei avuto un marito più giovane, magari violento come quello di mia madre. Mio marito non è mai stato violento, non ha neppure mai alzato la voce. È semplicemente assente. Reclama i suoi diritti sul mio corpo un paio di volte al mese e lo accontento, fingendomi felice. In fondo è l’unica attenzione che mi riserva. Non ha mai avuto un gesto di tenerezza, neanche verso i ragazzi: è come se ne avesse paura. Vivo per i miei figli, cercando di essere serena, ma Marc è inquieto, troppo sensibile per farsi ingannare. Ha capito che tra me e suo padre le cose vanno male e lo odia. Ma anche con me è scortese, rancoroso. Forse sente il peso della mia infelicità, si rimprovera di non essere capace di rendermi felice. Non capisce che non spetta a lui, che la felicità di una madre non dipende da un figlio, non soltanto almeno.


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Lo guardo crescere e noto quanto somigli a Bankie Banx. L’ho convinto a studiare la chitarra e suona molto bene. Se fossi sicura di poterlo aiutare farei i conti con mio padre. Saprà di avere un’altra figlia? Mia madre gli avrà detto qualcosa? Possibile che tutti sappiano, ad Anguilla, eccetto lui? Io non oso domandare, e così non troverò risposte. Non mi manca nulla. La nostra casa è un appartamento di due piani costruito negli anni Settanta, nella parte alta di Cimiez. Dalla terrazza vedo il centro di Nizza e il mare. Vado a fare la spesa con la Mercedes di mio marito, ho vestiti eleganti, e ho i miei due figli. In fondo, un marito che mi trascura è un dettaglio. A poco a poco me ne sono convinta. Sono sempre stata sola, fin da bambina, e lo sono ancora, da adulta. Ho una sola amica, Sheila, conosciuta a scuola. È nata a Nairobi, nera e bella come me, ci siamo subito capite. Non passa giorno senza che un uomo non ci provi: forse perché mi dicono tutti che somiglio a Naomi Campbell, ma sono più alta e più giovane. Odio la volgarità, il cameratismo tra uomini, i branchi di ragazzi che si danno di gomito e ridono quando passo per la strada. Mi vedono come una donna facile, mi offendono. Forse perché una volta, una sola volta, lo sono stata. Certo, anch’io guardo gli uomini. Sono in Francia da diciotto anni e qualcuno mi è piaciuto. Ma non penso che sarei mai capace di tradire mio marito: diventerei uguale a lui, con le sue amanti di cui ho letto gli sms. Ho scelto il mio Destino e lo vivo fino in fondo. E quando sono triste, leggo.


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È quasi primavera. Sono fortunata a vivere qui. Mi basta attraversare la strada e sono nel giardino del museo. Posso restare a leggere tra gli ulivi mentre la gente lavora. Qualche giorno fa, un uomo si è seduto accanto a me e mi ha parlato. Ieri sera, con un sms, mi ha strappato un sorriso. Tra poco mi telefonerà. Ho voglia di sentire la sua voce. Abita a Milano. È separato da nove anni, ha una figlia di diciotto che studia a Losanna, all’università. Ha fatto l’avvocato per una vita, poi, dopo essere stato malato, ha lasciato tutto per fare lo scrittore. Ha cinquantasette anni. Mi ha detto tutto in un attimo, poi è rimasto ad ascoltarmi. E io gli ho raccontato tutto, proprio tutto, anche quello di cui non avevo mai parlato con nessuno, non con mia madre, non con mio marito. Mi fissava tranquillo e mi sono confidata con lui. L’ho conosciuto appena, ma ho avuto compassione della sua solitudine. E, in un gioco di specchi, ho avuto compassione della mia. No, non sono innamorata, la mia non è una storiella da romanzo rosa dove all’eroina batte il cuore non appena scorge il principe azzurro. Voglio essere sua amica, nel senso più nobile della cosa. Mi ha trattato con rispetto e cortesia e questo mi ha resa felice. Sembra poco, ma è ciò che non ho mai avuto.


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Leggo L’invenzione della solitudine di Paul Auster, aspettando mezzogiorno. È un romanzo strano e profondo, la storia di un poeta che diventa scrittore dopo la morte del padre. Dal dolore, la parola. La comunicazione, la condivisione contro la caducità della vita. La storia di uno scrittore, di un uomo solo nella cui vita non c’è amore – a eccezione di quello per suo figlio – che non potendo comunicare con le persone che ama, scrive. Ancora una volta in ciò che leggo trovo analogie con la mia vita. Ma io non so scrivere. E così, con questo libro tra le mani, ho raccontato la mia storia a uno sconosciuto. «Ciao Alice, sono Sheila. Puoi parlare?». «Ciao Giulio. Sì, posso». «Dove sei?». «Sulla stessa panchina, davanti al museo». «C’è il sole?». «Sì». «Bello, qui piove». «Tu dove sei?». «A casa, correggo le bozze del mio romanzo Dimmelo domani. Ma lo faccio per me, l’ho già mandato agli editori. Ha anche vinto un premio letterario, il Cesare Pavese, sezione narrativa inedita ed è stato finalista ad altri due premi, il Guido Morselli e il Mondoscrittura». «Allora sei bravo». «Non spetta a me dirlo». «Dimmelo domani, che strano titolo. Bello, ma strano».


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«È una storia d’amore. La protagonista vuole essere felice. Così, quando lui sta per raccontarle qualcosa di triste, lei lo interrompe e gli dice: dimmelo domani». «Mi piace, me lo farai leggere?». «È in italiano, Alice». «Peccato». «Davvero vorresti leggere quello che scrivo?». «Sì, davvero». «Mi fa piacere, vuol dire che ti interessa ciò che penso». Restiamo un attimo in silenzio. Vorrei guardarlo negli occhi. Mi rendo conto che mi manca. «Alice, ho bisogno di rivederti». Bisogno, non voglia. In un attimo capisco che ne ho bisogno anch’io. Ma gli sto già rispondendo. «Giulio, io sono sposata». «Anch’io», ride. «Sono separato, non ancora divorziato. Quindi sono ancora sposato». Fa una pausa e poi domanda: «Hai Skype?». «Sì, perché?». «Ho bisogno di guardarti negli occhi». È esattamente quello di cui ho bisogno anch’io. Però mi viene in mente una frase del Piccolo Principe: «Amore non è guardarsi l'un l'altro, ma guardare insieme nella stessa direzione». Mio Dio, amore. Ho associato un uomo che neanche conosco all’amore. Resto in silenzio, ho paura. Non so cosa mi stia succedendo, per la prima volta intuisco – no, capisco chiaramente – che nella mia vita non c’è mai stato amore.


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«Mandami un sms col tuo indirizzo Skype, ti chiamo quando sono sola in casa». Sono io a parlare, quasi non ci posso credere. «Grazie, Alice. Mi hai reso felice. Ho davvero bisogno di guardarti». «Ciao, Giulio». «Ciao Alice, buona giornata».


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Torno a casa, accendo il computer e mando a Giulio una richiesta di contatto. Risponde immediatamente. Vorrei chiamarlo subito, vorrei guardarlo, vedere dov’è, dove scrive, la sua casa. No, devo riflettere. Sta succedendo qualcosa e ho bisogno di capire. Per distrarmi mi metto a cucinare. Mi è sempre piaciuto farlo, fin da piccola aiutavo mia madre. Era l’unica cosa che facessimo insieme, con me non ha mai giocato. Io l’ho fatto, coi miei figli. Sono stata – sono – una brava madre? Marc è distante, forse è colpa mia. Può l’amore per i figli riempire la vita di una donna? O, in fondo, manca qualcosa? Manca l’amore per un uomo? Lo so, penso troppo. Ma la risposta è ovvia: mi manca l’amore per un uomo. Troppe volte ho letto cosa può succedere quando ci si ama, e non credo siano esagerazioni romantiche. Penso davvero che, improvvisamente, l’amore renda tutto più bello, guarisca le nostre sofferenze e, soprattutto, ci faccia sentire meravigliosi – perché desiderati. Io non l’ho provato, ma sono certa che sia così. Del resto, credo in Dio: ciò che non si vede, non è detto che non esista. Abbiamo cinque sensi, ma quanti altri ce ne sono, sconosciuti? Se fossi cieca immaginerei il colore del mare, non crederei che i colori non esistono soltanto perché io non li posso vedere.


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E prima, per un attimo, ho capito che mi manca l’amore: quando qualcosa ci manca, sappiamo che esiste, è esistito o potrebbe esistere.


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Mi sono pettinata, ho portato il computer sul tavolo della cucina e l’ho chiamato su Skype. Si era messo molto vicino alla telecamera, mi fissava. A un certo punto mi ha sussurrato: «Sei bellissima». L’ho ringraziato. Mi ha domandato cosa avessi fatto durante la giornata. «Niente, ho letto». «Leggere è ben diverso da non far niente, Alice. Almeno voglio sperarlo, dato che scrivo». Gli ho sorriso. «Hai un sorriso magnifico». «Grazie». «A che ora tornano i tuoi figli?». «Alle cinque». «E tuo marito?». «Verso le otto. Ma a volte molto più tardi». «A che ora cenate?». «Alle otto. Se lui è rientrato, cena insieme a noi. Altrimenti gli scaldo qualcosa quando arriva. Non mi avverte mai. Mi sembra di essere la signora Maigret, che passava la sua vita ad aspettare il marito con una pentola sul fuoco». Ride.


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«Ti chiamerò Louise, allora. Sarà il tuo nome in codice». «Davvero si chiama Louise? Non me lo ricordavo». «Sì, certo. In effetti Maigret non la chiama per nome tanto spesso». «Neanche mio marito, ora che ci penso». Lo dico e rido, non so perché. «Alice, Alice, Alice. Ci penserò io a chiamarti». È un istante, ma capisco che vuole sostituirsi in un dettaglio a mio marito, fare qualcosa per me, qualcosa che mio marito non fa. Poi prosegue. «Ti piace Simenon?». «Sì, molto». «Lo leggi in inglese o in francese?». «Dipende, di solito in francese. Tu?». «Anch’io. Soltanto un paio di volte in italiano». E mi racconta di Simenon, della sua incredibile vita, della figlia suicida, delle puttane, dei romanzi, come In caso di disgrazia e Lettera al mio giudice, ingiustamente sottovalutati. Restiamo mezz’ora su Skype, il tempo vola. Quando gli dico che di lì a poco sarebbero arrivati i ragazzi mi sussurra: «Grazie, Alice». Fissa la telecamera, mi sembra triste. «Di che cosa?». «Mi sentivo solo e ora ho un’amica». Gli sorrido. Vorrei abbracciarlo. «Ciao Giulio». «Ciao».


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La mia vita è uguale a prima. O forse no. Qualcosa è cambiato: ho un amico. Mi piace parlare con lui e sento che mi ascolta. Gli importa di me. E a me importa di lui: davvero vorrei leggere i suoi libri. Ho già voglia di richiamarlo, di raccontargli il romanzo che sto leggendo, di domandargli quando ha iniziato a scrivere. Paul Auster ha iniziato dopo la morte del padre, magari anche lui. Non so se abbia ancora un padre o una madre. So così poco di lui, eppure lo sento vicino. Lo sto idealizzando? Mi illudo che sia dolce e trasparente come i suoi occhi e invece vuole soltanto portarmi a letto? Non lo so, è troppo presto. Per conoscersi veramente occorre tempo. Abbiamo qualcosa in comune: la passione per la letteratura. Siamo soli. Io lo sono? Posso dire davvero di esserlo? Abbiamo bisogno di comunicare. Non ci avevo mai riflettuto, ma ora vedo chiaramente che la comunicazione verbale viene prima di quella fisica. E non è una scoperta indolore: ho sempre dato per scontato di non essere capita. Con mia madre prima, con mio marito poi. Così ho smesso di parlare. Devo rimediare. Devo provare a parlare con Marc. Lui è solo quanto me: è mio figlio, non posso lasciarlo solo. Magari mi respingerà, perché è


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troppo tardi, ma almeno ci avrò provato. Con mia madre o mio marito sarebbe inutile: siamo troppo diversi. Mio marito pensa unicamente a se stesso. È un uomo di successo, questo è innegabile, ma non parla d’altro che del suo lavoro, senza rendersi conto che agli altri, del suo lavoro, non importa nulla. Per questo non ha amici. Sì, qualche collega ci invita a cena e noi ricambiamo. Ma di solito le mogli mi osservano come fossi un’aliena o peggio, una schiava negra comprata al mercato. Sento tutto il loro disprezzo, il loro senso di superiorità tipicamente francese. Ormai, per fortuna, non ci faccio più caso. Recito la parte di donna primitiva, non rivelo di avere un cervello, lascio che vedano ciò che desiderano: una donna giovane che si è data a un vecchio, un accessorio nel guardaroba di un uomo vanitoso. Sono bella e diversa da loro e questo mi condanna. Non m’importa, non ho nulla da spartire con queste comari invidiose. O forse sì: magari anche loro sono infelici come lo sono io. Il primo ad arrivare a casa è sempre Paul. Marc si ferma con gli amici. Forse fuma, a volte i vestiti puzzano di fumo. Io non ho mai fumato. A pensarci bene, non ho vizi: non fumo, non bevo, non faccio sesso. Non so se sia un bene: Bankie Banx – mio padre – fuma marijuana tutto il giorno, beve, fa sesso e compone canzoni stupende. Sorrido pensando a lui. No, non ce la faccio a immaginarlo con mia madre. Lei era una bella ragazza, ma così insignificante… eppure hanno fatto l’amore, e sono nata io. E da me, come da mio padre, sono nati figli per metà bianchi. Ci penso per la prima volta, ho qualcos’altro in comune con mio


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padre, a parte le gambe lunghe, le ossa sottili e i lineamenti delicati. E mio padre è un poeta, io un’amante della letteratura: avrò ereditato da lui la sensibilità per l’arte? Ho conosciuto Giulio e ho incominciato a pormi queste domande. Strano. Forse è vero quello che ha scritto uno scrittore italiano: l’illusione di un amore può sconvolgere le nostre vite. Suona il citofono: è Paul. Metto a posto il computer e vado alla porta ad aspettarlo. Mi butta le braccia al collo e mi bacia: tutti i giorni è così. Lo stringo forte – è il mio cucciolo – e lo porto a far merenda. Vuole sempre che accenda la radio; le note di True Colors, di Cyndie Lauper riempiono la cucina: “True colors are beautiful Like a rainbow”. Paul mi racconta la sua giornata e io penso che anch’io, finalmente, ho qualcuno a cui raccontare la mia. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


Indice

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AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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