Dall'armadio, Stefano Milighetti

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In uscita il 2 / /2019 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine GLFHPEUH e inizio JHQQDLR 20 ( ,99 euro)

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STEFANO MILIGHETTI

DALL'ARMADIO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ DALL’ARMADIO Copyright © 2019 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-353-6 Copertina: immagine Shutterstock.com


A mia moglie, ai miei gatti, al mio giardino, che mi hanno insegnato il valore di ogni singolo giorno. A Stephen King, che mi ha insegnato che la magia esiste. A te, Lettore, che mi hai insegnato a credere nelle mie parole.



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PROLOGO

Scese con un balzo dal letto e, con uno scatto degno di un campione olimpico, partì verso la porta. Al buio valutò male la distanza e vi si schiantò a peso morto. Questa, indispettita, scricchiolò in modo sinistro, come se avesse voluto trasmettergli ciò che pensava di lui: “Sei un idiota!”. Uno scricchiolio che passò del tutto inosservato nella sua mente, in procinto di essere sopraffatta da un sentimento subdolo e letale: il panico. Imponendosi di mantenere un minimo controllo sul suo io e sulle sue emozioni, respirò a fondo; poi, con mani frenetiche, afferrò la maniglia che abbassò con forza. Dopo un secondo di sospensione, spalancò la porta e si precipitò a razzo verso la cucina. Travolse e fece volare via una sedia, ci fu il rumore di un vetro che si rompeva, un suono stridulo che trascurò perché, in quella notte di terrore, un solo obbiettivo meritava di essere raggiunto: fuggire via. Mettere quanta più distanza possibile tra sé e quella maledetta stanza. Guidato dall’istinto, si diresse verso il piccolo mobile bianco accanto alla porta d'ingresso, quello dove appoggiava le bollette da pagare perché non finissero nel dimenticatoio, abitudine presa qualche anno prima, quando aveva rischiato la sospensione della fornitura del metano. Sul mobile, acquistato con un forte sconto in un negozio che stava per chiudere, c’era anche un grosso posacenere di ceramica che chissà quale genio gli aveva regalato il giorno della sua prima comunione. Era un oggetto pesante, decorato a mano, frutto del lavoro e dell’ingegno di un artista locale, conosciuto e molto apprezzato ben oltre i confini di quell’insignificante città dove era nato, cresciuto e, con molte probabilità, dove sarebbe morto. Un obbrobrio che doveva essere costato una piccola fortuna per uno scarsissimo risultato, e del quale non gli era mai importato niente. Se


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non fosse stato perché nel fondo della conca era raffigurato un angelo con le mani giunte in silenziosa preghiera, nessuno avrebbe indovinato che quello era un dono legato alla sua prima comunione. Tuttavia anche questa constatazione fu del tutto irrilevante. Ciò che contava davvero di quell'aborto di ceramica era che conteneva le chiavi della sua macchina. Arrivato più o meno davanti all’ingresso, allungò le mani a casaccio: toccò, e fece cadere, buste con debiti da pagare, un orologio da tavolo che raffigurava una noce di cocco intenta a fare surf su una banana rossa, altro regalo idiota fatto da una persona apertamente idiota e poi, quando ormai stava già pensando a una lunga fuga a piedi, le dita toccarono il posacenere. Rovistò dentro, anche se in realtà c’era ben poco tra cui cercare: un solo mazzo di chiavi il cui anello era abbellito da una graziosa striscia di plastica morbida con sopra stampigliato un nome in caratteri rossi e blu. Lo aveva comprato in tabaccheria qualche mese prima: ce ne era un espositore pieno e lui, guidato da quella sottile ironia che aveva sempre caratterizzato gran parte della sua vita, ne aveva scelto uno meritandosi l’occhiata perplessa del proprietario del negozio. C’era scritto PIERO. «Sei sicuro di volere questo?», aveva chiesto il tabaccaio fissandolo con la stessa espressione che si può avere davanti al peggiore dei mentecatti: solo un coglione avrebbe comprato un portachiavi con un nome che non era il proprio. «Certo che voglio questo!», aveva risposto con convinzione poi, dopo aver pagato, giusto per dare un ulteriore tocco di teatralità a quella faccenda surreale, aveva sistemato nel nuovo anello, lucido e immacolato, le chiavi. Il tabaccaio aveva incassato il denaro scuotendo la testa. Un ricordo che, come il posacenere, non aveva rilevanza: erano le chiavi a essere importanti perché gli avrebbero permesso di darsi alla fuga e non tornare mai più in quella casa. Armeggiò con la serratura e dopo qualche attimo si trovò davanti al buio delle scale.


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Agendo ancora una volta d’istinto, schiacciò l’interruttore e un getto di luce bianca spazzò via quel mare di oscurità. Si lanciò giù per le scale, saltando due gradini alla volta, dimenticando di essere in canottiera e boxer. Di avere le mutande sporche della gora giallognola e infamante di quando, solo pochi minuti prima, si era pisciato addosso. Ma anche questo non era un problema: se qualcuno lo avesse visto in quelle condizioni, non si sarebbe di certo fermato a dare spiegazioni. Avrebbe solo continuato a fuggire. Scese le scale quasi volando e una volta fuori, dopo tre piani e un fiatone che gli stava per far perdere i sensi, con le ultime briciole dell’energia generata dall’adrenalina, si diresse verso la macchina, una Panda bianca con la frizione scassata e il tergicristallo posteriore rotto. Una macchina che, sebbene detestasse, in quel momento scoprì di amare più della sua stessa vita. Salì dentro e solo quando fu al volante percepì con chiarezza la consistenza del freddo di quella notte d’inverno. Era denso, corposo e l'aria condensata che gli usciva dalla bocca lo rendeva così reale che per un attimo ebbe l'impressione di intravederlo accanto a lui, sul sedile del passeggero, pronto a ucciderlo con una lama di ghiaccio e un ghigno di bruma stampato sul viso bianco come neve. «Non pensare a queste cazzate!», urlò a se stesso, cercando di riprendere il controllo dei suoi pensieri. Mise in moto e mentre ingranava la prima, in un moto di spontanea autoconservazione, fece partire l’aria calda che, almeno all’inizio, era della stessa temperatura di quella esterna e un soffio freddo saturò l’abitacolo. I denti cominciarono a battergli come se stessero ballando un forsennato e indemoniato tip tap. Il ballo gli era sempre stato sulle palle, figuriamoci quello dei denti. Facendosi forza, ingranò la prima e uscì dal parcheggio della palazzina. Imboccò la strada per il centro, laddove sperava di trovare la salvezza. Schiacciò il piede nudo sull’acceleratore e, metro dopo metro, provò a guadagnarsi la vita. Imboccò una rotonda e in quel momento l’aria calda cominciò ad arrivare, facendogli provare un piacere molto simile a quello dell'appagamento sessuale, una carezza benedetta di calore che partendo dalla pelle riuscì poco alla volta a riscaldargli tutto il corpo.


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Si concesse un sorriso compiaciuto e per un istante riuscĂŹ a dimenticare la ragione che lo aveva spinto a scappare. Un attimo fin troppo breve.


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CAPITOLO UNO

Fu il tremore che fece scoppiare il suo cuore di un sentimento oscuro che, se si fosse riversato nel mondo, avrebbe devastato ogni cosa, lasciandosi dietro una distesa di terra bruciata, un po' come si raccontava fosse stato per il terribile Unno che dal Caucaso era calato in Europa Occidentale. Fu il tremolio della mano quando le dita scheletriche s’infilarono nel porta-spicci del borsello, uno di quelli a strappo, adatti a un ragazzino di dieci anni e non a un vecchio di novanta. Fu quel tremito, emblema universale della vecchiaia e della fragilità del corpo umano, a fargli esplodere l’anima. Ovviamente sapeva del morbo che lo aveva colpito undici anni prima, sapeva tutto di Antonio, uno dei pochi clienti fissi di quella fogna pidocchiosa che un'insegna sbiadita si ostinava a definire Bar. Eppure quelle dita che trasudavano Parkinson lo mandarono fuori di testa, tanto che Smith, l’allegro ciccione che gestiva quel posto schifoso, arrivò a un solo passo dal cacciargli tutta una serie di cannucce per l’Estathè in un occhio. «Smith, va tutto bene?», chiese Antonio lasciando cadere le monete sul banco, un pezzo di metallo che per quanto cercasse di lucidare restava opaco, sempre e comunque. Il barista annuì in modo impercettibile, un cenno che bastò a rassicurare il povero condannato a morte che, qualche attimo dopo, allungò la stessa mano tremolante verso il bicchiere. Dita da terremoto strinsero il vetro. Il bicchiere si sollevò e, come ogni volta, metà del suo contenuto, la più classica spuma bionda del mondo, cadde per terra. Smith sospirò: succedeva ogni cazzo di giorno. «Scusa» bisbigliò Antonio mortificato mentre il bicchiere avanzava verso la bocca come una scialuppa di salvataggio in un oceano in


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tempesta. Finalmente le labbra, simili a striscioline di carne lasciata a marcire in una discarica, toccarono il vetro e come ogni dannatissimo giorno, il risucchio di un gabinetto intasato e puzzolente fece torcere lo stomaco di Smith. Antonio beveva così, con quel rumore di risucchio sdentato che avrebbe fatto vomitare perfino un maiale. La prima volta che lo aveva sentito per poco non gli aveva annaffiato la faccia con un denso e verdastro siluro di succhi gastrici tanto gli aveva fatto schifo. Ovviamente, con il tempo, era riuscito a farci l’abitudine, però era stata dura e, nonostante fossero passati anni da quella prima bevuta, il suo stomaco protestava ancora il suo disappunto, a dimostrazione di come lasciare quel lavoro avrebbe avuto un effetto positivo su tutta la sua persona. Lo fissò mentre beveva: un rivolo di spuma era colato dall’angolo della bocca fino al mento, dove si era formata una grossa goccia che presto sarebbe caduta giù, verso il pavimento. Smith socchiuse gli occhi: non più soltanto le cannucce per il tè, adesso avrebbe cacciato in quegli occhi smorti anche un set completo e polverosissimo di ombrellini da cocktail. Ombrellini che, fino a quel giorno, non aveva mai usato perché lì dentro nessuno aveva mai ordinato niente di così esotico da potersi definire “cocktail”. Sospirò. Antonio invece, dopo aver finito di bere, e con tutta l’attenzione del caso, appoggiò il bicchiere sul bancone. Smith annuì soddisfatto: da quando aveva cominciato a lavorare in quel bar, Antonio aveva fatto fuori diciotto bicchieri. Dopo i primi tre, gli aveva proposto di fare la sua bevuta in uno di plastica, resistente a qualunque urto o tremore o spasmo muscolare. Uno di quelli capaci di prendersi gioco perfino della cara, vecchia forza di gravità. Antonio era stato irremovibile. Lo aveva guardato e, con il tono di chi ha sentito offendere la propria mamma, gli aveva risposto che se per lui erano così preziosi quei cazzo di bicchieri, glieli avrebbe ripagati.


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«Sono un uomo sul punto di crepare!» aveva detto con voce gonfia di rabbia. «E non ho intenzione di fare le mie ultime bevute da un merdoso bicchiere di plastica!». Da allora Smith si era guardato bene dal fare qualsiasi tipo di osservazione, e ogni volta che un bicchiere si schiantava a terra, si limitava a digrignare i denti, dicendo che non faceva niente. «Il mondo è pieno di bicchieri» aggiungeva con falsa ironia per poi prendere scopa e paletta e pulire via i cocci. Sognando di cacciarli in gola a quello stronzo che non aveva mai sborsato una lira per quelli che aveva rotto. E ovviamente lo odiava anche per questo. Lo detestava: lui e la sua mano irrefrenabile, il tremito convulso che qualche volta gli fasciava tutto il corpo e lo faceva scattare in balli scomposti e privi di qualunque logica e armonia. Era la danza della malattia, della sofferenza, della vita che alla fine sarebbe stata schiacciata dal morbo, e mentre nella maggior parte della gente l’evidenza di questa condanna avrebbe suscitato la più spontanea e genuina compassione, a Smith faceva rizzare i capelli in testa, causandogli attacchi di odio incontrollabile che, con il senno di poi, erano solo l’ennesima prova di quanto profondamente quel posto lo avesse cambiato. Prima di tutto aveva messo su peso: tutto il giorno lì dentro, con una scorta di dolci, dolcetti, cioccolata, caramelle e tanta di quella birra che avrebbe potuto far ubriacare l’intera Africa se lo avesse voluto. Mangiava, sgranocchiava, e beveva in continuazione. Coca cola, superalcolici e birra. Ancora birra, sempre birra. Solo nell’ultima settimana, su sei giorni di lavoro era tornato a casa ubriaco tutte le sere. La sua compagna, Martina, una bella ragazza di venticinque anni che coltivava segretamente l’ambizione di andare a lavorare in America, si era lamentata fin troppo spesso delle sue continue sbronze e della ciambella che aveva cominciato a gonfiargli la vita. «E ti stanno crescendo pure le tette!» gli aveva urlato contro una sera, dopo un litigio con il rivoltante retrogusto di rottura. Lui si era limitato a dirle di non rompere i coglioni, che lavorava sodo tutto il giorno e che aveva il diritto di bersi qualche birra senza


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dover rendere conto a lei. «Non sei mia madre, quindi non rompere le palle!» aveva gridato mentre lei inforcava la porta, in lacrime e maledicendo dentro di sé il giorno che lo aveva conosciuto. Smith sapeva di essersi lasciato andare, che si stava avvicinando, giorno dopo giorno, a un pericoloso punto di non ritorno: aveva sempre avuto la tendenza a ingrassare e in quel bar c’era tutto quello di cui aveva sempre amato rimpinzarsi. Bibite gassate e cibo spazzatura. La pancia era lievitata, i vestiti gli andavano sempre più stretti. Aveva il fiatone per salire le scale e quando doveva spostare qualche cassa, aveva cominciato a provare un affaticamento al limite del tollerabile. Questi però erano solo pensieri notturni, quando il silenzio lo lasciava solo con se stesso. Quando beveva e s’ingozzava di patatine si sentiva bene e felice come non lo era mai stato, e ciò bastava a farlo andare avanti con quell’assurda sottomissione alla sua indole stomachevole. Il cambiamento peggiore però era stato quello a livello mentale, la trasformazione che avevano avuto i suoi pensieri. Era sempre stato una persona positiva, solare. Piena di voglia di vivere e con una predisposizione d’animo all’altruismo. Adesso invece sentiva un fuoco costante covare nel suo spirito, una forza aliena e malvagia che premeva alle pareti del suo cuore e desiderava di poter esplodere per le vie del mondo, incenerendo tutto e tutti. Aveva letto i libri in inglese dell'americano George Martin e più di una volta si era sentito come uno dei draghi della regina dai capelli d'argento: pronto a far divampare il più letale incendio di sempre. Un incendio alimentato da buio e odio. Disprezzo e voglia di annientare gli stronzi che si piazzavano nel suo bar, passando la giornata a giocare a carte e consumando il minimo indispensabile per stare lì dentro. Quasi tutti vecchi, tutti rompicoglioni che lo trattavano come un dannato schiavo solo perché lo pagavano, quasi fosse stata una puttana che doveva aprire le cosce a comando. E lui, Smith, ciccione con la barbetta ben curata e gli occhi che tradivano il veleno che gli appestava l’anima, aveva iniziato a cedere al fascino e alla purezza dell’oscurità.


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L’odio, la rabbia: risposte sempre più seccate, taglienti. I sorrisi erano scialbi, forzati, finti. Non rideva più, non gli importava più di niente e di nessuno. Stava diventando vuoto, sterile, arido. Guscio di un uomo sul punto di essere riempito dal nero assoluto, dalla mostruosità più abietta. Smith pensò che sarebbe stato meraviglioso prendere quei dannati ombrellini e ficcarli negli occhi di quel malato di Parkinson che gli aveva tritato non solo i bicchieri, ma anche le palle. Lo avrebbe guardato contorcersi, si sarebbe beato delle sue urla come se fosse stato a un concerto degli U2 o degli Stones. Avrebbe guardato i suoi spasmi convulsi con la gioia di un bambino che mangia una caramella rubata dal banco di un negozio, assaporando il gusto del proibito, il piacere del perverso. Vide addirittura se stesso mentre si chinava su Antonio e sorrideva angelico, come un santo che contempla la luce di Dio per poi afferralo... e nel momento di massimo pathos di quel suo film mentale di sterminio, fu la voce di una donna a riportarlo bruscamente con i piedi per terra, facendogli dimenticare di botto quei propositi assassini: era appena entrata Serena. E quando entrava Serena, quel posto diventava un piccolo angolo di paradiso. «Ciao!» lo salutò la ragazza. «Ehi, ciao!» rispose facendo scivolare piano gli occhi su di lei, per gustarsi ogni istante della meravigliosa apparizione che rappresentava. Vide che stava sorridendo e, di rimando, anche Smith cominciò a sorridere perché quando sorrideva Serena, era il mondo intero a sorridere e tutto il resto poteva andare a farsi fottere.


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CAPITOLO DUE

C’era un rumore insistente nel buio, un suono stridulo e secco, come una lama d’acciaio che scivola piano, con pazienza infinita su un pezzo di ferro. Olga spalancò gli occhi, il cuore che pompava impazzito, prossimo al commiato definitivo dalla vita. La bocca deformata in un urlo che non era però riuscito a esplodere, soffocato dalla paura. Il buio, pesante e tangibile, era una melma appiccicosa spalmata tutto intorno a lei e che, di punto in bianco, aveva cominciato a premerle contro la gola. Ad avvolgerla come il lenzuolo dell'altare sacrificale di un rito innominabile sopravvissuto alla dissoluzione delle ere dell'umanità. Una parte di lei che aveva la sadica tendenza a sussurrarle orribili visioni che la mettevano sempre a disagio, fece apparire nella sua mente un antichissimo altare di pietra dove un grosso uomo vestito di nero stava per trafiggere il petto di una donna nuda con un grosso pugnale d'acciaio con la punta a forma di bocca di serpente. Scoprì di essere prigioniera in quella bolla d’oscurità e tutto quello che fu in grado di pensare, fu che doveva in qualche modo liberarsene e fuggire via. Fuggire via da dove però, non riuscì a ricordarlo. Iniziò a respirare a scatti, a boccheggiare, con la mente annullata dal buio. Non ricordava dov’era, a stento ricordava e percepiva la consistenza della sua vita. Quel suono, quel rumore di acciaio contro metallo, gelo su freddo, l’aveva annientata nello spirito e nella mente. Aveva sovrastato il suo io, schiacciando la percezione di se stessa: perché mai era in quel buio così fitto? Il respiro iniziò a farsi pesante, epilettico, impossibile da tenere sotto controllo, così come il ritmo traballante del suo cuore. Non tanto


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come un tamburo, ma come il costante martellamento della grandine, a chicchi giganti, sulla lamiera di una macchina. Un suono secco, cupo, che avrebbe lasciato dietro di sé una scia di devastazione. Olga boccheggiò come un pesce gettato vivo in una teca di formaldeide, elemento alieno e nemico capace di ucciderlo in pochi, lunghissimi istanti. Provò il più grande terrore della sua vita, la paura che aveva creato il vuoto nella sua mente. Vuoto totale che si stava riempiendo di terrore. Improvvisamente, conscia di essere supina, si tirò su di colpo. Si mise a sedere e quel movimento repentino sollevò le coperte. Accanto a lei, qualcuno grugnì tutto il suo disappunto e una voce maschile s’insinuò acida nel buio, zittendo il suono metallico che aveva provocato così tanta paura: «Mi spieghi che cazzo hai?». Voce burbera, voce assonnata. Voce di un uomo strappato ingiustamente al suo meritato riposo. Olga smise di respirare: quell'uomo era suo marito. Adelmo era a letto, al suo fianco com’era stato per ogni notte della loro vita da quando… «Ma ti vuoi rimettere giù, porco cazzo?» sbottò l’uomo. «Fa un freddo cane e sono tutto scoperto!», poi si voltò, tirando qualche bestemmia sottovoce. «Non hai sentito niente?», chiese Olga ignorando le proteste e le bestemmie del marito. «Quel rumore… mi ha spaventata da morire!». «Ho solo sentito una rompicoglioni che mi ha svegliato» brontolò Adelmo. «Vedi di farla finita che domani mattina devo uscire presto!». Olga sospirò e come aveva sempre fatto, obbedì: si rimise distesa e si coprì, lasciando che l’oscurità l’accarezzasse di nuovo. Il terrore di poco prima era scomparso: sapeva dov’era e che c’era suo marito lì con lei, tuttavia il nervosismo causato da quel suono non era ancora del tutto scomparso. Non era tranquilla, il cuore continuava a stare sull’attenti, in tensione, come se fosse pronto per rimettersi a correre una gara contro la paura.


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Tentò di addormentarsi, ma capì che era una battaglia persa: la mente era lucida e i pensieri si susseguivano in un vorticoso flusso ininterrotto che aveva scacciato il sonno fin troppo lontano. La prospettiva di passare una notte in bianco la fece sospirare: una notte insonne avrebbe reso il giorno successivo un vero inferno di stanchezza e mal di testa e non poteva permettersi di non essere in perfetta forma perché aveva a pranzo i suoi figli e doveva mettere a tavola dodici persone. Rimase immobile per qualche minuto poi, sperando che questo potesse in qualche modo aiutare la sua causa con il sonno, decise di andare in bagno. Alzarsi da letto, sgranchirsi le gambe e bere poi un bicchiere d’acqua, nella speranza, quasi certamente mal riposta, che potesse servire a qualcosa. Aveva appena appoggiato i piedi a terra, sul pavimento nudo e gelato, quando il suono, acciaio contro metallo, esplose di nuovo nel silenzio della notte. Olga sentì la pelle contrarsi, avvertì ogni singolo pelo del suo corpo drizzarsi, come tante sentinelle che si mettevano sull'attenti, poi una scarica elettrica partì dal suo cervello fino al bassoventre, dove un calore umido e umiliante le inzuppò le cosce e il letto: si era pisciata addosso.


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CAPITOLO TRE

Lorenzo guardava suo fratello mentre parlava tutto felice con quella ragazzina scialba dal culo grosso come una valanga. Li studiò con molta attenzione e, per quanto si sforzasse, non riuscì a capire cosa diavolo ci vedesse di così speciale in una come Serena. La sua donna, Martina, era una figa pazzesca, stupenda, con un senso dell’umorismo acuto e sempre pronta a farsi una bella risata. Era raffinata, elegante e non perdeva occasione per far sfoggio della sua femminilità. Era la donna che ogni uomo, incontrandola per strada, si sarebbe voltato per ammirarla da dietro e rifarsi gli occhi sul suo fondo schiena, invidiando a morte il fortunato che poteva trascorrere la notte con lei. Era la donna perfetta e Smith non solo perdeva tempo con quella sciacquetta insignificante di Serena, ma aveva perfino cominciato a lasciarsi andare. Aveva messo su una pancia che faceva paura, non si prendeva più cura di sé come invece faceva prima di iniziare a lavorare in quel bar di merda. Lo guardava con l’occhio critico della sua mente e aveva notato come, giorno dopo giorno, Smith avesse cominciato ad assomigliare ai vecchi che frequentavano il suo locale. Scorbutico, trasandato, con un disinteresse sconsolante per la propria igiene personale. Odiava quel posto, glielo aveva sentito dire più di una volta e non riusciva a capire perché non avesse ancora mandato in culo tutto quanto. Passava lì dentro un mucchio di tempo e guadagnava uno schifo, eppure aveva preso la gestione del bar come una crociata: era una missione la sua, in memoria di Dino, il precedente proprietario che glielo aveva lasciato in eredità. Si era fatto l’idea che Dino non avesse voluto fare un regalo a Smith, ma gli avesse al contrario giocato un brutto scherzo che, alla fine, gli


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avrebbe strappato via l’anima. Suo fratello stava infatti perdendo se stesso dentro a quel bar pidocchioso che puzzava di caffè stantio anche dopo una giornata passata a pulire. Un bar che l’ufficio d’igiene avrebbe dovuto chiudere ma, chissà perché, non solo non chiudeva, ma non aveva mai mandato nessuno per un controllo. Secondo lui, Smith doveva soltanto tirare fuori le palle una volta per tutte, smettere di mangiare come un porco, rimettere in sesto le cose con Martina e, più importante, dare fuoco a quel posto. Ma Smith, in fatto di palle, era un caso disperato. Viveva con beata indifferenza e putrescente remissione, accentando quello che la vita gli faceva piovere addosso senza mai cercare di modellarla a suo piacimento, senza piegarla alla sua volontà. Smith era una mezza sega che non valeva un cazzo e aveva provato più di una volta a farglielo capire, a dirgli che il suo atteggiamento era sbagliato, che era un insulto alla vita che stava buttando nel cesso. Era un coglione moscio senza palle e forse per smuoverlo avrebbe dovuto dirglielo proprio in quel modo, senza indorare la pillola, facendogli prendere consapevolezza di quello che gli stava succedendo. Forse... Finì di bere il suo caffè, una buona miscela, l’unica cosa davvero eccellente di quel posto, aspirò qualche altro tiro della sigaretta che stava fumando poi la spense nel posacenere. Si alzò e andò al bancone: Smith e Serena stavano chiacchierando di qualche libro. Lei era una buona lettrice, ma impallidiva davanti a suo fratello, che si faceva fuori non meno di un centinaio di libri l’anno. Libri: ecco un altro bel modo per sprecare buttare nel cesso il proprio tempo. Scosse la testa: suo fratello della vita non aveva capito un beneamato cazzo. Appoggiò le braccia sul banco e fissò Smith, che non si era accorto di lui. «Mi ci è voluta una dedizione assoluta» stava dicendo con un sorriso a tutto tondo stampato sulla faccia che ogni giorno diventava sempre un po’ più gonfia. «Alla fine però sono riuscito a farcela!». Il sorriso per quanto possibile divenne ancora più tondo.


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«Vorrei leggerlo anche io» disse la ragazza, «ma insomma, mi sembra uno scoglio insormontabile». “Uno scoglio insormontabile”: ma chi cazzo parlava in quel modo? Lorenzo provò l’improvvisa voglia di darle un ceffone. Uno scoglio insormontabile? Ma vaffanculo Serena, però lo tenne per sé: se l’avesse insultata, Smith lo avrebbe di sicuro cacciato. «Se vuoi te lo presto» fece Smith. «Vedrai che ti piacerà Il Signore degli Anelli», altro sorriso smielato tendente al catastrofico: ancora un po’ e la testa gli si sarebbe spaccata in due. Lorenzo scosse la testa: era proprio un coglione e non avrebbe mai imparato un cazzo. «Signore degli Anelli» lo schernì Lorenzo, «è possibile avere una birra da portar via? Tutte queste chiacchiere mi hanno messo sete». E sorrise, un sorrisetto stiracchiato che era una chiara, innegabile, infinita presa in giro. Smith lo guardò con disprezzo, ma non replicò. Si chinò, aprì il frigorifero sotto il banco e prese una bottiglia. La mise davanti a Lorenzo che pagò. «Ciao» disse Smith riportando la sua attenzione su Serena. «Ciao» rispose Lorenzo e per la seconda volta scosse la testa: poteva pure fare lo sguardo arrabbiato, lo sguardo da pseudo duro da film, ma non ci sarebbe mai cascato. Smith sarebbe rimasto sempre e per sempre un coglione. Lorenzo uscì dal bar nel momento in cui uno dei vecchi che stavano giocando a carte stava dicendo a quello che era con lui: «Macché, questo è veramente un idiota! Meglio così perché nessuno con un briciolo di cervello resterebbe in questo posto». Lorenzo mugugnò inferocito: solo un coglione sarebbe rimasto a lavorare dieci ore al giorno per un branco di pezzi di merda come loro. Solo suo fratello poteva farlo. Scosse la testa: suo fratello era davvero un caso disperato.


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CAPITOLO QUATTRO

L’imbianchino si affacciò sulla soglia e inquadrò subito la situazione: drammatica, come spesso succedeva nelle vecchie case che le persone anziane lasciavano a se stesse. Era una camera comprata in un tempo che non esisteva più, quando doveva essersi sposato, forse qualcosa come cinquant’anni prima. E vedendo le condizioni delle pareti si rese conto che dovevano esserne passati almeno venti dall’ultima volta che aveva chiamato qualcuno per imbiancare. In un angolo del soffitto uno spesso strato di muffa nera dominava la stanza, appestandola con miasmi mefitici che avrebbero causato problemi respiratori a chiunque. Come del resto il velo uniforme e verdastro che copriva le pareti come un affresco di muschio e spore. Sopra al bandone del letto l’intonaco era scrostato e la vernice, vecchia di secoli, era sfogliata e lasciava intravedere il muro sottostante, fatto a bozze di tufo. Crepe un po’ ovunque, ragnatele annidate negli angoli e, in una di queste, un grossissimo ragno se ne stava tranquillo e beato in attesa di qualche insetto sfortunato. E poi i mobili: solo l’armadio ricopriva quasi per intero una parete. Sedie stracolme di vestiti, scarpe disseminate ovunque. C’erano pile di giornali e, incredibile ma vero, vide addirittura una cesta piena zeppa di spighe di grano. «Cazzo!» sbottò vedendo quel grandissimo casino. Si voltò verso il padrone di casa, un ometto con un brutto grugno sul viso e che emanava un odore denso e pecorino che rivelava la sua poca familiarità con acqua e sapone. Aveva gli occhi nerissimi e che rivelavano il carattere duro e strafottente. «Devo fare una telefonata» disse l’imbianchino. Il vecchio annuì e indicò la cucina: il telefono era nell’altra stanza.


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L’imbianchino prese dalla tasca della tuta una piccola rubrica e cercò un nome. Compose il numero e aspettò un paio di squilli. «Sì?» chiese la voce di una donna. «Ciao Simona» disse, certo che lo avrebbe riconosciuto. «Avrei bisogno di parlare con Patrizio... è in casa?». La donna chiamò Patrizio a gran voce. «Pronto?». «Ciao Patrizio, hai impegni per oggi pomeriggio?». «No» rispose lui mentre si accendeva una sigaretta; «non ho un cazzo da fare». «Avrei bisogno di te per qualche ora... devo svuotare una stanza in condizioni critiche» lo aggiunse volutamente, giusto per far capire al padrone di casa che quella stanza faceva schifo. «Dopo pranzo?». «Sì, passo a prenderti alle 13 al solito posto». «Ok, a dopo». E chiuse. L’imbianchino storse la bocca: in fatto di educazione Patrizio era una vera capra, ma per quanto riguardava le stanze, non aveva mai trovato nessuno come lui. Riusciva a svuotarle e a renderle pronte per l'imbiancatura in pochissimo tempo. «Ma non aveva detto che avrebbe cominciato dalla camera?» chiese il vecchio con il solito grugno imbronciato. «Sì» rispose lui con calma, «ma dato che la camera deve essere svuotata e da solo non posso farlo, la lasceremo per domani mattina: oggi imbiancherò la cucina e il corridoio. Per lei non cambierà niente», e sperò che la finisse lì. Non aveva voglia di mettersi a discutere con quell’ometto insignificante da un punto di vista umano, ma testa di cazzo come un’intera popolazione di cannibali. «E io oggi dove mangerò?». L’imbianchino lo guardò chiaramente scocciato e mentre prendeva il pacchetto di sigarini che aveva in tasca, gli disse che dato che ancora non erano le 8, alle 10 la cucina sarebbe stata pronto per l’uso e che avrebbe potuto preparare pranzo per duecento persone se lo avesse voluto. «Davvero?». Questa volta non c’era polemica nella sua voce, solo stupore.


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L’imbianchino annuì mentre accendeva uno dei piccoli sigari aromatizzati alla vaniglia. «Sa che fumare fa male?». «Certo» replicò lui. «Ne vuole uno?», e gli allungò la scatola di latta dove era raffigurata una pantera nera che si nascondeva dietro ad alcune foglie di tabacco. Il vecchio sorrise un sorriso sdentato e prese da fumare. «Mi avevano detto che eri un gran lavoratore» disse mentre accendeva con un fiammifero. «Sono contento che non tutta la gioventù di oggi sia da buttare nel cesso». L’imbianchino ci pensò un attimo e lo ringraziò: da quando lo conosceva, non lo aveva mai sentito fare un complimento così esplicito. Per intensità, era paragonabile a una dichiarazione d’amore. Fumarono in silenzio poi l’imbianchino iniziò a lavorare sotto lo sguardo vigile del vecchio: la camera era un macello, la cucina non era da meno. Il grosso problema era il fumo, pastoso e nerissimo, ma l’imbianchino non se ne preoccupò: grazie a un prodotto particolare lo avrebbe lavato via in un batter d’occhio. Iniziò a spennellare pensando a quello che invece avrebbe dovuto fare nella camera.


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CAPITOLO CINQUE

Serena arrivò intorno alle 17.30. Smith, che stava sistemando dei succhi di frutta, la notò riflessa nel grande specchio dietro al bancone. Come la vide, lasciò perdere la robaccia alla pera che aveva tra le mani e si voltò subito. Dato che Serena stava sorridendo, ricambiò con il suo saluto migliore, felice che Lorenzo non fosse lì con lui: avrebbe di sicuro fatto qualche commento idiota, rovinando quel momento perfetto. «Ciao Serena» disse Smith. «Il solito?». La ragazza annuì. Le preparò quindi un caffè lungo al vetro per poi guardarla con avidità mentre si portava la tazzina alla bocca. Era ancora giovane, eppure pensava che fosse una delle donne più interessanti e sexy che avesse mai incontrato. Avrebbe tanto voluto portarsela a letto e in più di un’occasione aveva perfino provato a farsi avanti, anche se non era mai riuscito a compiere l’ultimo, fatidico passo. Gli piaceva, voleva scoparla, ma era pur sempre una ragazzina e una parte di lui si rifiutava categoricamente di fare una cosa del genere. Anche se... «Cosa mi racconti di bello?» le chiese cercando di scacciare via quei pensieri, scivolando nella domanda di rito che le faceva tutti i giorni. Allo stesso tempo, riprese a sistemare le bottiglie nelle mensole, guardandola comunque nello specchio: indossava un maglioncino piuttosto attillato che le metteva in risalto il seno ed era uno spettacolo troppo invitante per lasciarselo sfuggire. «Niente di speciale, sempre le solite cose» rispose la ragazza. «A scuola è stata una noia mortale e oggi pomeriggio, dopo aver studiato, ho letto un po’» aggiunse dopo aver finito di bere. «Cosa hai letto?» chiese Smith che si era di nuovo voltato verso di lei: l'argomento “libri”, per interesse, era secondo soltanto


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all'argomento “Serena”, anche se di lei, visto il suo legame con Martina, non ne parlava mai con nessuno. «Sto leggendo Cujo» rispose. «WOW!» esclamò Smith tutto felice. «L’ho letto anch’io!» disse, notando all'improvviso qualcosa di strano negli occhi della ragazza: stava fissando lo specchio dietro al bancone. La bocca le si era spalancata, le pupille dilatate del tutto, al punto tale da averle trasformato gli occhi in due minuscoli dischi di carbone. Nerissimi, e per un istante terribile, Smith ebbe la certezza che Serena stesse per avere un attacco epilettico. Poi fece qualcosa che lo lasciò perplesso: alzò un braccio e mosse la mano nell’inequivocabile gesto di saluto. «Chi stai salutando?» domandò Smith che non sapeva se ridere o mettersi a piangere: un comportamento del genere poteva spiegare alcuni pettegolezzi che aveva sentito su di lei, ovvero che le era andato in pappa il cervello, a causa della dieta ferrea che le aveva permesso di perdere decine e decine di chili. Aveva bollato quelle voci come pure e semplici cazzate, eppure, vendendola in quelle condizioni, si domandò se per caso non ci fosse qualcosa di vero e che, sempre forse, avrebbe fatto bene a lasciarla perdere, dedicando tutte le sue attenzioni alla sua donna. Stava per scuoterla, perché Serena si era trasformata all’improvviso in un rigido blocco di carne e sangue, quando la porta si aprì ed entrò Rosalba, una donna di quarant'anni che aveva una relazione con Giustino, un quasi ottantenne che si diceva fosse ancora focoso come uno stallone. Tutti sapevano perché la donna si era impelagata in quella storia, tutti eccetto Giustino, convinto che fosse innamorata di lui, mentre era risaputo che Rosalba era sì innamorata, ma del suo sostanzioso conto in banca. Alcuni ben informati vociferavano che il suo scopo ultimo fosse quello di ammazzarlo mentre se lo scopava e incassare così i suoi miliardi in modo pulito e indolore. Vedendola entrare, con quel suo vestito nero che l’avvolgeva come una seconda pelle terribilmente sexy, Smith lasciò perdere Serena, beandosi dello spettacolo offerto da quel corpo femminile assolutamente perfetto.


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Rosalba fece un cenno di saluto in direzione del barista, poi andò da Giustino. Si chinò all’orecchio, disse qualcosa e lui si mise a ridacchiare. «Tra poco» disse l'uomo sempre ridendo. «Tanto qui ho quasi finito», e indicò il tavolo dove c’erano le carte e i soldi della posta in gioco. La donna si abbassò di nuovo all’orecchio di Giustino e, nel farlo, mise in mostra per la seconda volta il culo: Smith sospirò soddisfatto. Che diavolo di fortuna aveva quel vecchio stronzo a portarsi a letto una come Rosalba! Stava ancora pensando a quanto gli sarebbe piaciuto essere al suo posto quando Serena, senza dire una parola, ma evidentemente fuori di sé, si voltò e uscì come una scheggia. Solo in quel momento Smith si ricordò di lei e mentre la guardava correre via, pensò che forse quelle voci erano la verità e che la ragazzina della quale si era invaghito, aveva davvero perso il lume della ragione. Scosse la testa: un vero peccato perché Serena era una ragazza con delle potenzialità fuori dal comune. Intelligente, bella, con ottimi gusti per libri e musica, tuttavia queste qualità impallidivano davanti alla sua follia e poi... proprio in quel momento, uno dei vecchi che stava giocando con Giustino si voltò verso di lui e con un sorriso da diavolo sulla faccia sbraitò: «Mi spieghi cosa hai combinato per farla scappare in quel modo?», e tutti i suoi amici si misero a ridere. «Dimmi un po’ Smith, te lo ha chiesto e tu invece di darglielo le hai raccontato qualcuna delle tue cazzate?». Le risate si fecero ancora più fragorose. Più crudeli. «Sei un coglione» disse un altro. «Scopatela invece di perdere tempo in chiacchiere!», un altro sciame di risate riempì il bar. «Da te quella vuole solo il cazzo brutto idiota!», precisò un terzo. «Invece che fai? Stai sempre lì a parlar di libri!». Scosse la testa in modo fin troppo melodrammatico. «Non è che sarai uno di quelli lì, eh? Uno di quelli che gli viene duro solo pensando agli uomini!». E gli fece l'occhiolino. Le risate si levarono alte e grasse, come un fuoco ravvivato da un'intera tanica di benzina.


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Smith li guardò uno per uno: erano nient'altro che un cumulo di merda fumante, vecchi schifosi che pensavano solo alle donne e a quello che avevano tra le gambe, e per questo li odiò tutti quanti. Se in quel momento avesse avuto una pistola ne avrebbe fatto mattanza, uccidendo anche quella lurida cagna di Rosalba: perché avere pietà per una donna che, per soldi, si era messa con un uomo che aveva il doppio dei suoi anni? L’odio dentro di lui esplose inarrestabile, come una bomba atomica scagliata dall’alto dei cieli e che scatena la furia di Dio su una città che non merita di esistere. Aveva sopportato, aveva sorriso, aveva ingoiato tutti i bocconi amarissimi che quei figli di puttana gli avevano tirato addosso, pensando che dopo tutto, scherzavano con lui e non volevano realmente deriderlo. Adesso però era arrivato il momento di smetterla di mentire a se stesso. Era l'ora di farla finita e, proprio come gli aveva detto suo fratello in più di un'occasione, chiudere una volta per tutte con quei topi di fogna che stavano appestando la sua vita. Dalla mattina quando arrivavano alla sera quando se ne andavano, non facevano altro che prenderlo per il culo, lo trattavano come se fosse soltanto un pezzo di carta igienica da gettare nel cesso. Smith aprì la bocca con l’intenzione di mandarli tutti quanti al diavolo, ma fu l’occhiata di Rosalba a farlo desistere. Uno sguardo d’intesa e, paradossalmente, di comprensione. Scosse impercettibilmente la testa: non lo fare, dissero i suoi occhi. Non ne vale la pena, precisò il sorriso di pietra nelle sue labbra. Smith, incredulo, richiuse la bocca. Rosalba annuì soddisfatta per poi salutare tutti e, prima di uscire, disse a nessuno in particolare: «E fate i bravi con questo ragazzo, me lo promettete?». La sola risposta che ottenne fu un’altra esplosione di risate. Fissandola mentre se ne andava, Smith si disse che doveva informarsi su come ottenere il porto d’armi: mai come in quel momento il pensiero di possedere una pistola gli era sembrato così urgente. Urgente e necessario. E definitivo.


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CAPITOLO SEI

«Adelmo, hai sentito?» sussurrò Olga avvertendo appena il calore dell’urina che le aveva inzuppato il pigiama. E che stava lavando via la sua dignità di donna che in tutta la sua vita da adulta non se l’era mai fatta sotto. In nessuna occasione, neppure durante il viaggio di nozze, quando il treno sul quale viaggiavano lei e il marito era deragliato, trascinando le dodici carrozze giù per una scarpata. Erano morte trentaquattro persone, otto delle quali si trovavano nel vagone di Olga e Adelmo e mentre i sopravvissuti si erano lasciati andare a folle isterismo, lei era rimasta calma e lucida fino a quando i vigili del fuoco non l'avevano estratta dalle lamiere. Un'imperturbabilità di cui non era rimasta alcuna traccia quella notte: quando il suono metallico si era ripresentato impertinente e più acuto di prima, il suo cuore era stato attraversato da una tempesta elettrica, avvelenandole di terrore tutto il corpo. Terrore che aveva galoppato furioso verso il basso, fino alla vescica dov’era esploso, inondandola di vergogna e impotenza. «Adelmo per carità, svegliati!», cercò di ordinare Olga, anche se il tono della sua voce, invece che perentorio, era risultato catarroso, proprio come quella di ogni essere umano corroso da una paura del diavolo. In quel preciso istante, della donna intonata e angelica che tutte le domeniche cantava nel coro della chiesa non c’era traccia. Era solo una vecchia che nella migliore delle ipotesi poteva assomigliare a una cornacchia. «Olga, ma che cazzo ti prende?» brontolò Adelmo. «Porca troia, domani mattina devo alzarmi alle 5 e se continui a rompermi i coglioni in questo modo, non dormirò neppure un’ora!», lapidario e insensibile, proprio come era stato negli ultimi decenni.


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«Per piacere stai zitto e ascolta!» lo implorò Olga. «C’è qualcosa che…», e si ammutolì, sperando che il marito sentisse quel suono terribile. «Io non sento un cazzo!» grugnì imbufalito. «Non c’è nessun rumore e per piacere, vedi di darti una cambiata... l’odore di piscio mi fa vomitare!», e senza dire nient’altro, con quel cinico e stronzo epitaffio, si voltò di lato, pronto a rimettersi a dormire. Lei invece era più sveglia che mai, braccata da quel suono che, nell’oscurità della notte sembrava provenire da ogni luogo. Dall’alto dei cieli ai quali raccomandava la sua povera anima peccatrice, dal profondo di quell’inferno dove pregava di non finire mai. E il pensiero dell’inferno le fece provare una nuova scarica di terrore perché, da cattolica praticante, aveva sempre avuto una paura remissiva nei confronti del demonio e di tutte quelle creature che, come le era stato detto, popolavano gli inferi. Per Olga il male esisteva nella fisicità del diavolo e tutto quello che di orribile succedeva nel mondo era frutto del suo operato. Il dubbio che quel rumore potesse dipendere da lui le sembrò una conclusione così logica che per attimo riuscì a darsi della stupida per non averci pensato prima. E di nuovo la paura fece sentire il suo tocco gelido e strisciante, al punto che una parte di sé, quella che viveva di puro istinto e irrazionalità, le urlò di alzarsi e darsela a gambe per riuscire a salvarsi. Di lasciar perdere lo stronzo che aveva per marito e fuggire il più lontano possibile e non tornare più in quella casa. Si tirò a sedere sul letto e con un movimento fin troppo slanciato per la sua età, si mise in piedi. L’umido tra le gambe le fece fare una smorfia di disgusto, anche se fu il freddo a catalizzare la sua attenzione: quella casa era sempre stata gelida e nel profondo del suo cuore la maledì e quando i piedi nudi toccarono il pavimento gelato, capì che andarsene era davvero l’unica soluzione possibile. La sua era stata una vita di stenti, senza nessuna comodità, neppure quando i tempi erano cambiati e vivere era diventato più semplice per tutti... ma non per lei: Adelmo si era sempre rifiutato di andare avanti, legato con caparbietà al vecchio mondo. Di conseguenza,


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Olga si era trovata ancorata a esso, immobile in una realtà sempre più dinamica e che permetteva alle persone di condurre un'esistenza priva della fatica e dell'incertezza della sua gioventù. Maledì la casa e, senza neppure provare a mentire a se stessa, odiò Adelmo per la sua stupida ottusità, provando un imprevisto piacere al pensiero di quando lo avrebbe lasciato: come avrebbe potuto sopravvivere un uomo come lui, che non era capace neppure di cuocersi un uovo al tegamino, senza la donna che lo aveva accudito per tutta la vita? Muovendosi nel buio di una stanza che conosceva alla perfezione, rincuorata dal pensiero di quella quasi vendetta, andò verso la porta. Uscì nel corridoio e ancora nel buio camminò a passo svelto fino al bagno. Accese la luce della piccola stanza: una vasca scrostata, il gabinetto che s’intasava sempre più spesso, un lavandino che sputava una fanghiglia marroncina e un bidè che non era mai stato allacciato alla rete idrica. Vita misera, vita povera. Vita senza nessuno scopo. Pensieri crudi per una donna ormai vecchia e la leggera euforia provata pochi istanti prima scemò, lasciando solo fredda, freddissima cenere di anni perduti per sempre. Poteva lasciare Adelmo, fuggire via... ma a quale scopo? Per andare dove? A parte una pensione misera, non aveva soldi. A parte un paio di coetanee che incontrava la domenica a messa e abitavano nelle vicinanze, non aveva nessuno da cui potersi rifugiare. Una lacrima le scivolò silenziosa dagli occhi: dal giorno in cui si era sposata, dal momento in cui aveva pronunciato il suo “sì” ad Adelmo, si era legata totalmente, e in maniera indissolubile, a quell'uomo burbero e adesso, dopo tutti quegli anni, capì che solo la morte l'avrebbe allontanata dal marito perché il mondo era andato troppo avanti e lei non sarebbe riuscita a sopravvivere da sola, per neppure una settimana. Mentre un'altra lacrima crollava dal suo viso, con movimenti rapidi e precisi si spogliò. Il freddo l’aggredì di nuovo, ma Olga lasciò perdere perché quello era l'ultimo dei suoi problemi.


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Si lavò velocemente, rabbrividendo per il bacio gelato dell’acqua nulle parti intime. Si asciugò e solo allora si rese conto di non aver portato con sé alcun ricambio. Sospirò tutta la sua stupidità e un suono strozzato le uscì dalla bocca quando l’idea di dover tornare in camera si svelò nella sua mente e capì che come pianificatrice di fughe faceva davvero schifo. Un altro punto a suo sfavore. Facendosi coraggio, si rimise la maglia del pigiama. Prima di uscire dal bagno, accese la luce del corridoio: con la prospettiva di tornare lì dove c’era quel suono terribile, non voleva muoversi al buio e, camminando come al rallentatore, percorse i pochi metri che la separavano dalla camera. Un passo e un respiro. Un altro e un sospiro. Un altro ancora e i respiri diventarono rapidi come gli spari di una mitragliatrice caricata a paura. Olga arrivò davanti alla porta e fu allora che capì che non voleva in nessun modo rientrare là dentro, che non poteva tornare in quella stanza: il suono era reale, lo aveva sentito. Non era stato né un sogno né un parto malsano della sua mente. E se il suono esisteva, voleva dire che nella camera c’era qualcosa di reale che ne era la causa. C’era però Adelmo e sebbene lo disprezzasse, doveva comunque metterlo in guardia, se necessario buttarlo giù dal letto e portarlo via da qualsiasi cosa si fosse annidato lì con loro. Doveva farlo in virtù di quella promessa che aveva fatto il giorno del matrimonio. Indipendentemente dal carattere balordo del marito, nonostante la vita misera e senza soddisfazioni e gioie. Nonostante le avesse succhiato via ogni possibilità di futuro doveva farlo perché... Sì, perché? Aggrottò la fronte, spalancò gli occhi: perché doveva farlo? In fin dei conti, Adelmo l'aveva sempre trattata con sufficienza, dando per scontata la sua presenza e senza mai dimostrare la minima riconoscenza per tutto ciò che faceva per lui. Perché ho promesso davanti a Dio che lo avrei fatto, si rispose Olga, consapevole che doveva entrare e che quella giustificazione doveva essere più che sufficiente.


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Guardò la porta, orrore marrone che rendeva cupo e opprimente l’intero corridoio. Fissò la maniglia: non c’era altro da fare. Dopo un lunghissimo sospiro, la aprì. Trattenendo il respiro, allungò la mano verso l’interruttore e accese la luce. La stanza s’illuminò della debole luce dell’unica lampadina gialla che penzolava dal soffitto: il lampadario si era rotto un paio d’anni prima e Adelmo non si era mai preso la briga di comprarne uno nuovo. Aveva sostituito il cavo, aveva sistemato quella lampadina e festa finita. Olga lasciò perdere lampadario e lampadina e guardò la stanza. Non c’era niente di diverso, solo tanto, tantissimo silenzio. Il suono, quel rumore crudele che l’aveva quasi uccisa, era scomparso. Silenzio. Ma il silenzio, capì lei, era una condizione sbagliata, c’era qualcosa che mancava, una tessera fondamentale che non era al suo posto. Cosa? Dalla soglia Olga ispezionò la stanza e fu quando gli occhi si posarono sul letto che capì cosa ci fosse di sbagliato: accendere la luce nel cuore della notte avrebbe provocato una reazione violenta in Adelmo che, come minimo, l’avrebbe insultata, dicendole che non capiva proprio un cazzo, come sempre. Suo marito era stato zitto, non aveva detto una sola parola. Olga guardò il letto. Adelmo non aveva detto niente perché lì, in quella stanza, non c’era nessuno: lui era scomparso. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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