Dahlia, Nicola Merola

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In uscita il 2 /2022 (1 ,50 euro)

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DAHLIA

NICOLA MEROLA
ZeroUnoUndici Edizioni

ZeroUnoUndici Edizioni

DAHLIA

Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-579-0 Copertina: Immagine proposta dall’Autore Prima edizione Ottobre 2022

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CAPITOLO I

In quell’anno d’inizio Ottocento, nella gelata Inghilterra, l’inverno sembrava voler essere più implacabile di sempre.

Nella turbinosa nevicata, i campanili e i palazzi della città s’innalzavano come muti fantasmi tra le frustate del vento gelido, fino a scomparire nel cielo nero, e non erano loro di conforto le luci calde che annaspavano dai vetri delle finestre né i lievi fili di fumo che uscivano dai comignoli, subito battuti e dispersi dalle implacabili sferzate della bufera.

Per le strade prive di vita, grossi fiocchi mulinavano nell’aria sbattuti dalla tempesta prima di precipitare a terra.

In fondo alla stradina, nel buio della sera, la taverna era una chiassosa fiammella che emergeva solitaria tra mucchi di neve.

La porta si aprì, lasciando uscire risate, canti sguaiati e lercio odore di cibo... e un uomo.

Chiuso nel suo mantello, camminava dritto, incurante del vento che gli tagliava il viso mentre i suoi passi decisi e il suo bastone affondavano nella neve soffice, aggredendola con vigore.

Tenendosi il cappello, pensava che tutto sommato quella montagna di neve pure era utile a qualcosa: coprire l’immondizia della strada!

All’improvviso sentì dei fruscii alle sue spalle, non si girò subito e non si fermò ma tese l’orecchio: chiunque fosse, si

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manteneva a distanza. La sua mano destra accarezzò il pugnale che portava nella cintola.

Giunto all’incrocio, l’uomo svoltò e dopo un poco si girò indietro.

Il lampione stradale era sballottato dal vento furioso e menava nella strada deserta sprazzi di luce oscillanti, subito cacciati via dal buio ma lui fece in tempo a vedere che chi lo seguiva si teneva sotto il muro e, a giudicare dall’ombra, dovevano essere almeno in due.

L’uomo continuò a camminare finché, arrivato al porticato di una chiesa, con uno scatto si rifugiò in un angolo buio dietro a una colonna.

Attese, trattenendo il fiato, fino a veder passare chi lo stava seguendo.

Con stupore vide che si trattava di due donne: una china ma dai movimenti scattanti e nervosi, l’altra più dritta, ma esitante nel camminare, e tenuta per mano dalla prima che quasi la tirava a sé.

L’uomo, per quanto ancora giovane, aveva già dovuto cavarsela in circostanze rischiose come quella in passato, perciò attese ancora, poi guardò dietro e, vedendo che non c’era nessun altro, decise di passare all’azione.

Si avvicinò rapido alle due e piantò la punta del bastone nella schiena di quella che sembrava più decisa. Questa si girò di scatto con un sussulto: era vecchia e lo scialle che le copriva quasi completamente il volto non bastava a nasconderne gli occhi umidi e grinzosi, che esprimevano cattiveria mista a furbizia.

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Riconosciuto l’uomo che le puntava il bastone contro, subito si gettò in ginocchio, nella neve, implorando con voce stridula:

«Signore, signore, per carità! Abbia compassione di due sventurate come noi che non meritano che si faccia loro del male!»

L’uomo tornò di nuovo a voltarsi per vedere se sopraggiungesse qualcun altro alle spalle per un agguato: non c’era nessuno e allora tornò a concentrarsi sulle due.

«Perché mi seguite?»

«Signore, signore,» riprese accorata la vecchia, «non seguiamo nessuno, cerchiamo solo un posto per scampare al freddo.»

«Non è vero: mi state seguendo. Bugiarda, attenta o te la faccio pagare molto cara!»

«Per carità signore, per carità!» urlò portandosi le mani al volto. «Non ci faccia del male!»

«Parla!»

«La prego signore, l’abbiamo vista alla taverna, abbiamo capito dal suo viso che lei è persona di buon cuore, di umana generosità. Perciò abbiamo l’ardire di chiederle aiuto.»

«Non posso darvi nessun aiuto, andate via!»

«Oh, sì che può…» Ora il tono lamentevole della vecchia era diventato malizioso e la sua voce diveniva sempre più un sussurro, quasi qualcuno potesse sentire: «Sì che può, signore.

Potrebbe fare una buona azione a questa giovane, aiutarla con pochi soldi a procurarsi un pasto caldo.»

L’uomo si girò disgustato per andarsene via, ma la vecchia insistette: «La guardi, signore. È una bella ragazza nel fiore degli anni, ci possiamo mettere d’accordo con pochi soldi. Per lei non faranno nessuna differenza, ma per noi due potrebbero

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essere la sopravvivenza. La prego signore, la guardi almeno, e le assicuro che vorrà restare con lei tutta la notte!»

L’uomo si voltò a guardare la giovane: un’ombra nel buio della notte , flagellata dai fiocchi di neve. «Vattene via, questa merce non m’interessa!»

La vecchia sembrava voler riprendere, ma lui alzò minaccioso il bastone urlando: «Via, ho detto, non mi seccate!»

Si avviò con passo deciso. Non poté fare a meno, però, di sentire la vecchia che imprecava contro la ragazza ringhiandole contro che era una buona a nulla, che non ci sapeva fare. La ragazza singhiozzava, poi sembrava implorare. La vecchia sbraitava, minacciava, la scacciava, la ragazza piangeva e implorava, mentre le loro voci erano coperte sempre più dai fischi della bufera.

L’uomo accelerò il passo, contrariato per il tempo perduto a causa di quell’incontro.

In breve fu davanti a un grosso edificio, scuro, alto, a più piani, imponente. Nessuna luce brillava all’interno. Davanti era protetto da un basso muro sormontato da un’alta grata in ferro battuto e con al centro un cancello, artisticamente lavorato.

L’uomo lo aprì ed entrò, attraversò il corto viale e, arrivato all’ingresso del palazzo, aprì la pesante porta di quercia ed entrò. Richiuse con rabbia la porta.

Si trovava in un ampio vestibolo pieno di tappeti, colonne, poltroncine e tende scure alle finestre, con uno scalone di legno a voluta larga e un imperioso lampadario di swarovski che lo dominava dall’alto. Di fronte c’era il camino dove guizzavano

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ultimi bagliori di un fuoco che languiva per non essere stato alimentato da troppo tempo.

Accese una sola candela su un candelabro a due bracci, non aveva bisogno di luce per muoversi lì dentro, poiché era nato e cresciuto tra quelle stanze.

Andò al camino a ravvivare il fuoco con altra legna. Tolto cappello, mantello e giacca, si versò un generoso bicchiere di acquavite e si lasciò cadere su una poltrona a sorseggiarlo. Quella sera era andato tutto storto alla taverna e, come se non bastasse, ci si erano messe anche quelle sudicie prostitute. Si allentò il foulard al collo e si calmò. Passò un tempo indefinito a pensare; poi, vuotato il bicchiere, si alzò: sarebbe andato a letto.

Sulla parete che dava sulla strada era rimasta una finestra con lo scuro male accostato e che apriva, perciò, ancora sul mondo esterno.

Andò a chiuderlo e vide fuori, nella neve, una figura scura che camminava a fatica, faceva qualche passo e poi cadeva nel mucchio di neve. Stette un po’, poi la figura si trascinò verso un basamento che creava un incavo con il palazzo confinante: stava cercando un minimo di riparo dalla bufera. Pessima scelta, pensò l’uomo. In quell’angolo vanno sempre a orinare. Chi sarà? Certamente qualche ubriaco! Sospirò forte. No, inutile mentire a se stessi, la riconosco: è la ragazza che stava con la vecchia. Questa maledetta mi ha seguito fin qui! Accostò un po’ lo scuro e tornò a sedersi davanti al camino. Cercò di pensare ai suoi affari, ma quella persona nella neve copriva tutti gli altri suoi pensieri. Si versò un altro sorso,

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aspettò, poi infine si alzò, certo che quella donna se ne fosse andata.

Tornato alla finestra la vide ancora lì, già quasi coperta del tutto dalla neve. Chiuse con rabbia l’imposta, pensò di andarsene a letto, ma gli dava un enorme fastidio sapere di avere una donna morente proprio davanti alla sua casa: andasse a crepare da un’altra parte!

Riaprì la finestra: niente da fare, quella stava ancora là!

Si decise: voleva soldi? Bene, lui glieli avrebbe dati, ma a patto che se andasse a morire altrove.

Mantello, cappello e, soprattutto, bastone e uscì risoluto.

Si avvicinò a passi pesanti e decisi verso quel fagotto scuro nella neve.

Si fermò accanto e chiamò, ma il fagotto non rispose.

Lo spinse forte con un piede, ma quello scivolò a terra senza resistenza, emettendo solo un lieve gemito.

«Ehi tu, alzati!» le gridò, ma senza ottenere nessuna reazione.

La guardò meglio, la donna era tutto un ammasso di cenci ghiacciati, si intravedevano solo le dita e le nocche delle mani, già livide. Era chiaro che stava per morire.

Per la strada non c’era nessuno, solo fiocchi di neve impazziti e urlanti.

L’uomo fece rabbioso una giravolta su stesso. Diede una pestata affondando il tacco dello stivale nella neve per sfogare l'irritazione che gli provocava quella situazione. Stette ancora un po’ a guardare la donna nella neve, respirando forte.

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Sbuffò e bofonchiò, ma alla fine la raccolse e se la buttò malamente sulla spalla: tutto sommato era leggera!

Rientrò a casa richiudendo con un calcio la porta.

Pose la donna su una poltrona, non troppo vicino al fuoco del camino per evitare guai peggiori.

Si sedette anche lui, dopo aver buttato via cappello e mantello, ma non il bastone con il quale picchiettava istericamente a terra.

Per un tempo interminabile la donna, accasciata sulla poltrona, continuò a tremare e a gemere; poi, finalmente, iniziò a muoversi un po’.

L’uomo sentiva diminuire la rabbia e pensò che le avrebbe dato da mangiare, magari anche qualche spicciolo e, non appena la bufera lo avrebbe permesso, l’avrebbe mandata via.

La donna si mosse un altro po’, girando la testa verso il fuoco.

Lui si alzò e appese al gancio del camino una pentola dove era rimasta un po’ di zuppa del giorno prima. Aspettò che si riscaldasse, mentre la donna continuava a gemere e a tremare.

Alla fine le versò la zuppa in una ciotola con un cucchiaio e gliela pose sotto il naso.

Quell’odore sembrò farla rinascere e, dolorante ma avida, prese la ciotola, si liberò la bocca dai cenci e iniziò a mangiare voracemente.

«Piano, che ti strozzi!» disse l’uomo, non potendo fare a meno di notare come le labbra di lei fossero morbide e carnose, dal bel disegno leggero.

Per scacciare questo pensiero andò a chiudere la porta con catenaccio e sbarra. Tornando al suo posto comprese che con

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quel gesto aveva inconsciamente deciso di non farla andare subito via.

La donna aveva finito di mangiare e, a capo chino, teneva tra le mani penzolanti la ciotola.

«Grazie», bisbigliò appena.

Con un sospiro si sedette anche lui.

«Non c’è di che. Carità cristiana, tutto qui. Appena la bufera si placa, te ne andrai.»

«Sì, certo», rispose lei. E poi chiese: «La signora dov’è?»

«Che signora?»

«La padrona di casa...»

«Io vivo da solo, qui non c’è nessuna padrona di ca...»

Un urlo animalesco lo interruppe: la ragazza aveva buttato la ciotola e il cucchiaio per aria e si era lanciata verso la porta, cercando di aprirla, ma, con un senso crescente di panico, aveva tolto la sbarra senza aprire la serratura sforzando inutilmente il pomello.

«Ma che accidenti ti prende?»

La donna continuava a urlare e a tirare la porta chiusa a chiave. «Basta! Smettila!»

L’uomo si alzò andando ad afferrarle un braccio. «Smettila, pazza!»

Lei reagì d'istinto cercando di colpirlo al collo con l'altra mano ancora libera ma l'uomo la bloccò afferrandola per i polsi e spingendola a terra.

A quel punto, la donna sembrò acquietarsi, ma solo per mugolare parole apparentemente senza senso, strozzate da un pianto disperato: «Pietà, signore, la prego... mi lasci stare... mi lasci andare... pietà, per carità!»

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«Ma che diamine ti ha preso?»

«Per carità, mi lasci andare.»

«Mi hai stufato, hai capito che mi hai stufato?»

Si avviò deciso alla porta e la spalancò, lasciando che la bufera, ululando, scaraventasse dentro grossi fiocchi di neve.

«Va’, non hai detto che vuoi andare? Va’!»

Vedendo che non si muoveva, andò infuriato a prenderla per un braccio e la trascinò verso la porta mentre lei lanciava urla disperate. Giunto all’uscio la lasciò a terra a piangere.

I fiocchi entravano sempre più impetuosi, cadendo sul tappeto damascato, inumidendolo e rischiando di danneggiarlo. Richiuse furioso la porta con serratura e sbarra, andò alla sua poltrona portandosi la bottiglia di acquavite. Beveva e non sapeva cosa pensare. Se non fosse stato per quella lì, sarebbe già nel suo letto a mandare nell'oblio tutti i problemi e invece c’era quella ragazza che continuava a piangere, schiacciata sul pavimento.

Cercò di calmarsi e di riflettere serenamente: tutto sommato chi era? Cosa voleva? Era una sventurata come ce n’erano tante in quella implacabile città e, oltre a bramare un po’ di cibo e un po’ di caldo, probabilmente voleva solo evitare che le usassero violenza, magari ne aveva già subita.

Senza alzarsi la chiamò, ma quella non si mosse, continuando a piangere, così lui riprese: «Ehi, senti!»

Ancora niente.

«Mi senti?» urlò forte e questa volta i singhiozzi della donna sembrarono rallentare. «Non ho nessuna intenzione di farti del male, non mi interessi. Voglio solo che te ne vada appena possibile. Chiaro?»

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Lei non rispose, ma i singhiozzi sembrarono quasi cessare.

«In una notte come questa è palese che non puoi andare via, quindi rimarrai a dormire vicino al camino. Ora alzati e vieni qua!»

Vedendo che non si muoveva, parlò un po’ più forte, ma senza volerla spaventare, e finalmente quella si alzò e tremante, a passi esitanti, si avvicinò.

«Dai! Siediti e prendi un altro po’ di calore.»

Poi, per tranquillizzarla, le chiese se volesse altra zuppa, ma lei scosse la testa.

«Togliti quegli stracci fradici di dosso, ché ti prendi una polmonite!»

Lei percepì il consiglio come un ordine e si tolse il mantello bagnato, poi una giubba ancor più fradicia, le strisce di stoffa usurata dalle mani e infine dal viso. Stava girata quasi di spalle e lui non riusciva a vederla bene in volto, ma il corpo, anche solo visto da dietro, era molto aggraziato.

Forse aveva ragione la vecchia malefica che si sarebbe stati contenti anche un’intera notte con quella lì. «Come ti chiami?»

«Dahlia»

«Dahlia e poi?»

Lei non rispose.

«Ho capito, solo Dahlia; vabbè, lasciamo stare.»

Attimi eterni di silenzio, poi lui riprese: «C’è anche una camera per gli ospiti, se non vuoi dormire vicino al camino come i cani.»

«No, no, no, grazie; preferisco stare qui!»

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«Fai come vuoi, tanto o qua o là, se devi passare un guaio lo passi lo stesso» disse sarcastico.

Si alzò e lei fece lo stesso. «Non aver paura» sospirò lui stanco.

Le girò intorno fino a vederle bene il volto, illuminato dalla fiamma del camino, e trasalì: quella donna poteva essere pericolosa per lui. Molto. Troppo!

Farfugliò un buonanotte, si allontanò per poi tornare con una coperta che le lanciò da lontano.

Era troppo confuso e stanco adesso per pensare o decidere. Andò a letto.

Rimasta sola, la ragazza si guardò attorno impaurita. Non riusciva a non tremare. L’uomo le aveva lasciato sul tavolo una candela accesa e la luce di questa, accompagnata dalla fiamma nel camino che andava scemando, creava grosse ombre oscillanti sulle pareti, sugli angoli dei muri e sui mobili. I personaggi dei dipinti appesi alle pareti sembravano muoversi. Le teste di putti, alternate a quelle di draghi scolpiti nel legno dei mobili, allungavano le loro ombre dondolando per la stanza e dal buio temeva di veder emergere da un momento all’altro quell’uomo.

Tremava e ora piangeva sommessamente. Afferrò la coperta e se la avvolse attorno, strisciò fino al grande divano, cercando di entrarci sotto, ma lo spazio era poco per poterlo fare, allora si rannicchiò lì, temendo di far rumore anche solo respirando, mentre i fischi della bufera le arrivavano fin nelle orecchie. Aveva troppa paura per addormentarsi ma fu la stanchezza estrema che, a notte fonda, la fece assopire senza quasi che se ne accorgesse.

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CAPITOLO II

La pesante tenda scura non riusciva a impedire del tutto che la luce filtrasse.

Era una luce bianca, pallida, quasi incoerente con il mattino che si trascinava dietro.

L’uomo si svegliò e, nonostante il freddo della stanza scoraggiasse a uscire dalle calde coperte di lana, si alzò. Tornò nel salone e dovette cercare con lo sguardo per tutta la stanza prima di vedere la ragazza che dormiva ai piedi del divano. Quella, sentendo i passi, si svegliò e tornò a rannicchiarsi timorosa.

Lui si avvicinò senza parlare mentre lei si schiacciava sempre più contro il divano, guardandolo impaurita, poi le allungò una mano sulla fronte e vi pose sopra le dita mentre lei girava il capo come per sfuggirgli: scottava!

Gli occhi lucidi e arrossati, le labbra livide, il pallore del viso, tutto lasciava intendere che la ragazza avesse la febbre.

L’uomo non disse niente, andò in cucina e, preparato del latte caldo dolcificato con un po’ di miele, glielo portò insieme a un tozzo di pane. La ragazza prese a mangiare, ma in modo più calmo della sera prima. L’uomo andò a una finestra e ne aprì gli scuri: non c’era più bufera, ma la neve continuava a scendere fitta e silenziosa.

Era chiaro che non poteva mandarla fuori di casa in quelle condizioni, l’avrebbe condannata a morte certa.

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La lasciò stare dove si trovava, accese il camino e lasciò che passasse l’intera giornata così.

Il mattino dopo la ragazza stava sempre nello stesso posto, ma sembrava che le condizioni di salute fossero migliorate, a giudicare dai suoi occhi.

Lui si avvicinò a toccarla per sentire se scottava e ancora una volta quella si ritrasse come a volergli sfuggire.

Le diede di nuovo del latte e miele e la lasciò tranquilla.

Andò a sedersi sulla sua poltrona preferita per pensare a come liberarsi di quella donna mantenendo la coscienza pulita. Non scottava quasi più e, a prima vista, sembrava che il fisico si fosse ripreso abbastanza; d’altra parte era una donna giovane, anche se un po’ troppo esile.

Alla fine gli venne un’idea che gli parve buona. Si preparò e uscì senza dire niente, chiudendo la porta, ma non a chiave.

Per strada riprese a riflettere: se quella era una ladra, o comunque una prostituta pronta a non lasciarsi sfuggire un’occasione per rubare, certo ne avrebbe approfittato ora che lui non c’era.

Si era ripresa e sarebbe scappata via dopo aver preso quel che poteva. Certo lui ci avrebbe rimesso qualcosa, ma a casa gli oggetti di gran valore erano nascosti molto bene e poi quella, dopo aver arraffato i pochi spiccioli riposti nel cassetto della scrivania o qualche soprammobile, avrebbe di sicuro pensato a svignarsela con il bottino e ad allontanarsi il più possibile prima del suo ritorno. Questo era stato il suo primo pensiero e gli era sembrato rassicurante; ora, però, con l’aria fredda che lo faceva pensare più lucidamente, si ricordò che nei cassetti c’era

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molta argenteria e sparsi un po’ dappertutto anche piccoli oggetti impreziositi con oro, onice o ambra.

Fu tentato di correre subito a casa, ma ormai era tardi per rimediare al guaio fatto. Si sforzò di rimanere per strada ancora un po’; poi, inquieto, tornò indietro.

Entrò e la vide sempre nello stesso posto. Ebbe l’impressione che si fosse mossa per poi ritornare dov’era, ma era chiaro che non avesse sottratto niente.

Respirò a fondo rabbioso: era seccato che fosse ancora lì, non sapeva come fare per liberarsene al più presto, ma un modo, che non fosse quello di cacciarla malamente, prima o poi lo avrebbe trovato.

Quindi, seguito dallo sguardo ansioso della ragazza, andò in cucina a preparare del cibo da cuocere.

«Ravviva il fuoco, se la febbre non ti ha debilitato tanto da non riuscire nemmeno a muoverti!» le ordinò.

Lei non rispose, ma ubbidì subito.

Lui andò nello studio a sbrigare delle carte, ma non riusciva a non pensare alla ragazza: non era dignitoso per nessuno dei due trovarsi in quella situazione, né la poteva sbattere fuori con quel gelo, eppure doveva trovare una soluzione. Ci pensò a lungo, estremamente consapevole che quella donna poteva essere pericolosa per lui, poi prese una decisione.

Andò da lei che era ritornata al suo solito posto.

«Ehi tu, da dove vieni?»

Lei voltò i suoi occhi timorosi verso di lui, con uno sguardo di cui proprio non riusciva a reggere il peso; perciò, con la scusa di darsi un tono, si voltò verso il camino scandendo le parole mentre le chiedeva:

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«Sei di questa città?»

La ragazza, guardandolo muta, scosse la testa.

«Come vivi? Sei una ladra? Un’imbrogliona? Una prostituta? »

La ragazza scosse ancora più forte la testa.

«Sei ricercata dalla Legge?»

La ragazza abbassò la testa sempre scuotendola, quasi vinta da una gigantesca disperazione. Lui pensò che potesse bastare, tanto era impossibile coglierla in fallo: quel tipo di donne sapeva mentire molto bene. Cambiò tattica.

«Sai cucinare? Rassettare una casa?»

La ragazza rialzò la testa annuendo. «Allora ascoltami. Non posso cacciarti via con questo tempo e perciò sono costretto a tenerti qui. D’altra parte, neanche posso mortificare la mia dignità di ospite continuando a farti stare accucciata davanti al camino, quindi dobbiamo trovare una soluzione che, ovviamente, sarà provvisoria.»

Dopo un lungo respiro riprese: «Avrai cura della casa e ti occuperai del cibo finché non potrai andartene e a quel punto lo farai senza pretese e senza esitazioni, dovrà essere come se tu non fossi mai stata qui. Se ti sta bene, accetta; altrimenti, prendi i tuoi stracci e vattene subito!»

La ragazza fissava a terra senza rispondere. Il suo silenzio lo rese intimamente ansioso, ma non seppe capire il perché.

«Un’altra cosa, se ruberai non avrò alcuna pietà e ti ributterò immediatamente in strada, chiaro? E non farai nulla prima di avermi chiamato e avvisato, intesi?»

Lei annuì e poi chiese: «Come ti chiami?»

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La voce di lei lo fece trasalire, non la sentiva dalla prima sera e comunque non con quel tono calmo. Soprattutto non si aspettava quella domanda.

«Kenneth», rispose, cercando di rimanere impassibile.

Si avviò verso la camera degli ospiti. Entrato, cercò di mettere a posto qualche cosa, in silenzio e a capo chino. Era da troppo tempo che non vi entrava nessuno.

Poi chiamò la ragazza; quella non si mosse subito e lui dovette chiamarla sempre più decisamente. Alla fine arrivò, ma rimase sull’uscio.

«Questa sarà la tua camera, provvisoriamente», disse calmo. «Lì c’è la toilette, là nell’armadio troverai degli abiti da donna. Lavati e cambiati prima di andare a dormire; non insudiciarmi le lenzuola!»

Le fece cenno col capo di entrare, quella ubbidì. Kenneth stava andando via, ma si fermò un attimo per rassicurarla: «L'unica chiave di questa serratura sta all'interno, puoi chiuderti dentro, se vuoi; io da fuori non potrò aprire.»

Rimase qualche secondo a fissarla negli occhi scuri e lucidi e, per un attimo, si perse in essi, quasi tutto ciò che era attorno a loro evaporasse. Si scosse solo quando lei, come percependo i suoi pensieri, si spostò da un lato, distogliendo lo sguardo.

«Preparati, poi torna di là!» concluse andando via.

Lei non rispose e dopo un po’ la sentì chiudere a chiave la porta.

Andò a sedersi nuovamente alla scrivania e rifletté: aveva portato dentro casa sua, dove difficilmente accoglieva persino i suoi migliori amici, una sgualdrina, forse ladra e pazza.

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Sarebbe stato il caso che chiudesse lui la porta dall’esterno, per stare più tranquillo.

Fuori la bufera aveva ripreso a fischiare. Non sapeva bene che cosa stesse facendo, ma ormai avrebbe fatto quel che aveva deciso, tanto al più presto quella storia sarebbe finita.

Chiusa a chiave nella camera, Dahlia si tranquillizzò e si guardò intorno pensando che con lei quell’uomo non era stato molto cattivo come voleva sembrare. L’aveva, finora, rispettata, nutrita, accolta nella sua casa e, se non fosse stato per quel lato scontroso del carattere, sarebbe sembrato una persona gradevole.

Si chiama Kenneth, pensò. Chissà come mai vive da solo...

Guardava i mobili e il letto di legno intarsiato, la toilette e, soprattutto, un cassettone.

Lanciando furtive occhiate alla porta, da lei stessa chiusa a chiave, non si trattenne dall’aprirlo, con il cuore in gola, temendo di far rumore. Nel cassettone vi erano lenzuola, asciugamani di fattura fine, forse francese o delle Fiandre. Preso coraggio andò all’armadio, lo aprì: dentro vi erano abiti da donna per tutte le circostanze, dalla semplice vestaglia di raso argento a una bellissima veste fucsia con piume di struzzo. Stava per toccarla, ma si accorse che aveva sporcato l’anta con la sua mano sudicia. Subito si affrettò a ripulire la macchia e a chiudere l’armadio, decidendo che prima di ogni cosa doveva lavarsi.

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Kenneth si era seduto allo scrittoio immergendosi tra pile di carte. Quasi si era dimenticato della ragazza finché non la sentì arrivare alle sue spalle.

Si voltò e per un attimo gli mancò il fiato: pulita e rivestita era decisamente attraente; inoltre, aveva anche saputo scegliere l’abito giusto per le faccende domestiche. Se ne stava in piedi davanti a lui in silenzio, lo sguardo rivolto leggermente da un lato e le mani che si attorcigliavano in continuazione, in uno sfrigolio saturo di ansia. Questo atteggiamento timido e difensivo faceva sorgere in Kenneth una irritazione latente, trovando sospetto il comportamento di quella prostituta e non capendo quale tattica stesse usando.

Che sbaglio non averla cacciata via da subito, pensò.

Stette un po’ a riflettere, poi si alzò e finalmente lei lo guardò, timorosa.

«Vieni,» le disse, «ti mostro ciò di cui ti occuperai.» Salirono al piano di sopra.

Lei lo seguiva sempre in silenzio mentre lui le mostrava le camere, lo studiolo scientifico e quello di caccia, le stanze che fungevano da deposito di vari oggetti ammassati alla rinfusa, la biblioteca formata da ripiani che, alti quanto le pareti, correvano tutto intorno, scavalcando la porta e le due finestre che davano a nord, strapieni di libri di ogni forma e dimensione, con al centro della stanza una grande scrivania con sopra altri libri e plichi.

Proseguirono, mentre lui disponeva ciò che doveva e non doveva fare, osservati dai muti e severi personaggi dei ritratti di famiglia appesi alle pareti.

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Arrivati a una porta a due ante lui si fermò, afferrando la maniglia.

«Qui», disse, «non dovrai mai entrare!»

Scrollò la maniglia e, assicuratosi che la porta fosse chiusa a chiave, andò oltre.

Ridiscesero al piano terra.

«Qui ti occuperai solo della cucina, del tavolo da pranzo e del camino. Non entrare nello studio e, soprattutto, non toccare mai le mie carte. Non entrare nella mia camera, pensa solo a rassettare la tua.»

Stettero in piedi uno di fronte all’altra. Dahlia non si sentiva frastornata, no, piuttosto inebriata da tutto quello che la casa custodiva e cercava di memorizzare gli ordini di lui per non sbagliare.

«Che fai lì impalata come una stupida? Vai!» gridò lui facendola trasalire e correre subito via.

Kenneth sentì i suoi passi allontanarsi, poi, sempre più dubbioso su ciò che stava facendo, ritornò nello studio. Si era appena seduto nuovamente allo scrittoio quando da sopra gli giunse il frastuono di qualche cosa infranta al suolo.

Strizzò forte gli occhi stringendosi nelle spalle, sbuffò rumorosamente e riprese a leggere il documento che aveva in mano.

Passò molto altro tempo. La sentì arrivare alle spalle.

«Volevo sapere a che ora devo preparare il pranzo», disse lei.

«Sei già in ritardo!»

Lei stava per andare, ma si fermò voltandosi di nuovo verso di lui.

«Io... io credo che... mi è scivolata...»

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Non finì la frase: lui, senza nemmeno voltarsi, aveva alzato una mano con gesto secco per zittirla. Dahlia scappò in cucina.

Con notevole ritardo il pranzo era pronto.

Kenneth si sedette a tavola notando che non era stata apparecchiata in modo eccellente, ma c’era l’essenziale e poteva andare.

Con mani ancora tremanti lei gli versò la zuppa, poi fece lo stesso nel proprio piatto, preparato accanto a lui.

«Che fai?» chiese Kenneth.

«Io... non so. Devo pranzare o aspettare?»

«Non devi aspettare, ma non devi nemmeno sederti lì: quello è il posto riservato ai familiari, devi andartene in fondo, sulla sinistra del tavolo.»

Farfugliando delle scuse, Dahlia si affrettò a spostarsi prendendo piatto, posate e tutto il resto, che solo per puro caso non le caddero di mano.

Kenneth iniziò a mangiare e, sentendo su di sé lo sguardo ansioso di lei, represse con notevole forza di volontà una smorfia di disgusto. Ingoiò un secondo cucchiaio di zuppa e lei, incoraggiata da questo, chiese come fosse.

«È abbastanza buona», rispose Kenneth mentre lei sembrava rilassarsi sulla sedia. «La prossima volta metti meno sale, però... almeno meno della metà di adesso; inoltre, non credo che la cipolla vada messa così abbondante; in quanto all’olio, poi ...»

Dahlia abbassò la testa sul piatto fin quasi a toccare la zuppa con il naso, mangiando in silenzio.

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Chiusa a chiave in camera sua, Dahlia ripensò a quella giornata: era stata un disastro, ma voleva fortemente rimediare. Andò a letto e nel buio rivide il volto di lui con le ciglia aggrottate, le narici larghe come quelle di un toro infuriato. Non le aveva mai sorriso, ma lo sentiva vicino, quasi protettivo; forse proprio protettivo no, ma comprensivo sì, di sicuro. Ripensò a tutte le belle cose che aveva pulito e risistemato, poi, come una lama che le penetrava in un fianco, ripensò anche a quella statuina di porcellana che le era come saltata dalle mani fracassandosi a terra. Ci pensava con dispiacere, ma tutto sommato che cos’era? Era solo un oggettino che rappresentava una donnina grassoccia con un ridicolo ombrellino! Era successo, che poteva farci adesso? Scacciò quel pensiero affondando il viso nel cuscino e, mentre constatava che era veramente molto morbido, si addormentò.

I giorni che seguirono furono abbastanza sereni, vissuti da entrambi nell’attesa di qualcosa che definisse meglio le loro rispettive posizioni. Dahlia si dava da fare con le pulizie. Era chiaro che in quella casa non metteva mano una donna da tempo, ma lei era quasi contenta di trovare tante cose da pulire e riordinare, prendersi cura di tanti oggetti che spesso suscitavano la sua curiosità.

Amava passare le ore in quelle stanze, soprattutto in biblioteca: le girava la testa guardando tutti quei volumi, ne sbirciava i titoli, ne accarezzava il dorso, non osando nemmeno tirarli fuori.

Si dedicava molto ai cibi, attenta alle reazioni di lui quando mangiava per capire sempre più il genere di pietanze che

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sembrava gradire. Cercava di intuire la sua storia e i suoi gusti attraverso gli oggetti esposti e soprattutto facendo attenzione a come e dove erano collocati, imparava giorno per giorno cosa poteva spostare e cosa no.

Inoltre, era forte in lei la voglia di aprire quella porta a cui le era stato proibito avvicinarsi, immaginava mille diverse cose che potevano essere custodite dietro di essa, fra le più gaie alle più terribili, alle più scabrose.

Un giorno, prendendo tra le mani la statua di un cavallo rampante di ceramica per pulirlo, trovò una chiave incastrata sotto il basamento concavo: la prese!

Kenneth era uscito e se fosse rientrato lo avrebbe sentito facilmente.

Con il cuore in gola andò alla porta proibita e infilò la chiave nella toppa: entrò perfettamente. Fece leva e la chiave girò; si appoggiò con tutto il corpo alla porta, ansimando: lui non voleva!

Era forte la curiosità di solo vedere cosa ci fosse in quella camera, ma lui non voleva e lo aveva detto chiaramente. Aveva paura di cosa sarebbe potuto succedere se lui l’avesse scoperta. Spinse leggermente e la porta si aprì di un poco, dentro era ancora troppo buio. Stava per entrare quando si bloccò chiedendosi cosa stesse facendo.

Lui l’aveva accolta e ora come lo ricambiava? Come una ladra? Sì, perché era inutile girarci intorno: stava rubando!

Certo, nella casa c’erano oggetti, suppellettili, posate di gran valore e lei non aveva mai sottratto niente, ma cosa stava per fare? Non era forse rubare una delle cose più sacre per un

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individuo? Non stava forse per appropriarsi, in modo disonesto, di un segreto su cui non aveva alcun diritto?

Forse in quella stanza vi erano dei ricordi, ricordi intimi di lui, e lei voleva violarli solo per curiosità futile e importuna?

Richiuse piano la porta e rimise la chiave al suo posto, sentendosi molto più leggera e fiera di se stessa.

Quei giorni per Kenneth, invece, rappresentarono un profondo sconvolgimento per le proprie abitudini, furono un’autentica rivoluzione: quella presenza femminile continuava a invadere il suo spazio e la sua mente. A volte, quando usciva si accorgeva di farlo con sollievo. Non riusciva a non riconoscere, però, i miglioramenti che lei stava apportando alla casa: piccoli particolari aggiunti o tolti, qualche spostamento e la casa stava cambiando aspetto. Stava migliorando anche in cucina, aveva capito subito i suoi gusti. Dovette ammetterlo quando, rincasando, sentì un gradevolissimo profumo di dolce: Dahlia aveva appena infornato una torta di mele che servì dopo pranzo. Kenneth la mangiò con gusto, si guardò bene, però, dal rivelarglielo o, peggio ancora, di farle qualche complimento.

Lei ci rimase un po’ male, ma si riprese vedendo che già il giorno dopo la torta era finita.

Si stava abituando, contro la propria volontà, alla figura snella e leggera di lei che camminava per casa. Ne scrutava i gesti, quasi indovinandone lo stato d’animo, perché bisognava riconoscere che quella donna era molto sincera, forse un po’ troppo impulsiva, ma di sicuro spontanea, e lui, suo malgrado, era diventato molto perspicace con le donne.

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Gli capitava di osservarla di nascosto e talvolta la sorprendeva a fare lo stesso con lui: questa era una cosa molto pericolosa e Kenneth lo sapeva bene. Era una situazione che lo agitava e lo attraeva nello stesso tempo.

Si accorse che lei si stava adagiando nel proprio ruolo, tendendo alla perfezione nel prendersi cura di quella casa, e questo gli dava fastidio. L’avrebbe trattata male per scoraggiarla e quale sistema migliore poteva esserci se non sfogare su Dahlia il proprio malumore, magari dovuto ad altri problemi di cui lei non aveva colpe? Avrebbe preso due piccioni con una fava! Iniziarono gli agguati. Una mattina, seduto nello studio, stava esaminando i resoconti negativi delle sue tenute che lo avevano messo davvero di pessimo umore.

Quando sentì i passi di lei che si avvicinava, si compiacque di una crudele gioia che gli cresceva dentro: per qualunque motivo stesse venendo e qualunque domanda avesse fatto, l’avrebbe travolta con la sua furia, le avrebbe gridato parole offensive, scaricando così una buona dose di quella rabbia che gli traboccava nell’animo!

Dahlia entrò sorridendo con un cofanetto e un piumino in mano.

Lui la fissò, lei stava per aprire bocca, lo guardò negli occhi, girò sui tacchi e se ne andò intimorita.

Non poteva crederci: gli era sfuggita! E per la rabbia prese a battere un pugno sulla scrivania, a imprecare contro tutti, a buttare le carte all’aria, mentre Dahlia spariva dalla vista.

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INDICE CAPITOLO I.............................................................................3 CAPITOLO II.........................................................................14 CAPITOLO III........................................................................42 CAPITOLO IV........................................................................61 CAPITOLO V.........................................................................83 CAPITOLO VI......................................................................109 CAPITOLO VII.....................................................................125

vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.

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