Come un ragno nella tela, Claudio Paganini

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In uscita il 31/3/2022 (15,00 euro) Versione ebook in uscita tra fine fine marzo e inizio aprile 2022 (3,99 euro)

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CLAUDIO PAGANINI

COME UN RAGNO NELLA TELA

ZeroUnoUndici Edizioni


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COME UN RAGNO NELLA TELA Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-539-4 Copertina: immagine proposta dall’Autore Prima edizione Marzo 2022


Il male è ovunque. Si nasconde celandosi nelle cose più semplici, più familiari; ci attrae, ci lusinga, a volte sembra proteggerci, ma è sempre e solo un inganno. Come un ragno nella sua tela, esso attende pazientemente le sue prede, attirandole con l’invisibilità delle sue trame, con la scintillante magnificenza della sua architettura e, una volta che l’ignara vittima si avvicina eccessivamente a lui, è troppo tardi, ne diventa suo prigioniero… per sempre.



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CAPITOLO 1

Faceva caldo quella sera a Villeneuve, un bellissimo paesino a pochi chilometri dal capoluogo della Valle d’Aosta. I tetti scuri, di pietra a spacco, erano ancora caldi dai raggi del sole appena tramontato, mentre le rovine di Châtel-Argent dominavano il paese dalla cima della sua rupe a strapiombo. Stretto tra le sue sponde, il torrente Savara spumeggiava rendendo lattiginose quelle fredde acque provenienti dal massiccio del Monte Bianco, mentre una leggera brezza muoveva le fronde degli alberi che delimitavano i giardini realizzati lungo il suo letto. “Una serata magnifica per fare un po’ di jogging prima di cena, giusto due o tre chilometri lungo la pedonale dei giardinetti, poi una bella doccia e la cena in famiglia, niente di meglio per concludere questa magnifica giornata d’inizio estate”, avevo pensato mentre mi infilavo il completo “da corsa” comprato il mese prima ad Aosta, una tutina elastica coloratissima che mi fasciava come un guanto, tanto stretta quanto stranamente comoda. «Mamma, esco… Vado a fare una corsetta e torno…» «Non fare tardi Giulia, mi raccomando: tuo padre arriva alle sette e mezza per cui alle otto e mezza si cena…» «Tranquilla, torno prima perché voglio farmi una bella doccia…» Ero scesa nel parcheggio posto alla fine del paese, proprio sotto quella parete verticale meta di molti amanti dell’arrampicata che spesso affrontavano quella rupe scoscesa armati solo di corde e passione ed ero entrata nei giardini realizzati proprio sull’argine del fiume. Avevo fatto un po’ di stretching sulla prima panchina e poi via, a passo svelto per poi aumentarlo gradatamente durante il percorso, con alcune fermate agli attrezzi ginnici disseminati lungo tutta la pedonale, almeno questo


6 era l’obiettivo che mi ero prefissata. Due persone con il loro cane mi avevano salutato riprendendo a chiacchierare subito dopo il mio passaggio, ma, a parte quella fugace apparizione, nessun altro si scorgeva sul mio percorso. La serata era ancora luminosa e fresca, merito della brezza che a quell’ora scendeva dalle cime più alte delle montagne che circondavano quel piccolo paradiso: solo io e il rumore del Savara alla mia destra che accompagnava il ritmico tamburellare dei miei passi. Avevo aumentato l’andatura a una corsetta lenta per scongiurare il pericolo dei crampi; non potevo permettermi di avere i muscoli doloranti anche perché, dopo cena, avevo appuntamento con i miei amici per andare a ballare ad Aosta e non me lo sarei persa per nulla al mondo. Superata l’ultima curva, si apriva un lungo rettilineo leggermente in salita dove finalmente potevo dare tutta la spinta che volevo fino a raggiungere il grande ponte di legno che congiungeva le due rive del fiume; lì finiva la pedonale per cui, una volta raggiunto il ponte, avrei dovuto per forza tornare indietro e ripercorrere la stessa strada dell’andata fino a casa, quattro chilometri e mezzo precisi, più che sufficienti per quell’uscita. Avevo notato due ragazzi seduti in modo scomposto sull’ultima panchina, ma non vi avevo fatto caso fino a quando, passandoci davanti, avevo visto le bottiglie di birra buttate a terra e sentito i loro commenti volgari sul mio conto. Avevo immediatamente accelerato l’andatura senza voltarmi indietro, nel timore di scoprire le loro intenzioni, ma, fortunatamente, una volta sul ponte di loro non c’era più traccia. “Meno male che quei balordi non mi hanno seguita; ci mancava solo di litigare con quegli stronzi…” avevo pensato provando sollievo alla vista della pista completamente deserta. “Ma guarda un po’ se non si può andare a correre senza incontrare questi sfigati…” rimuginavo tra me mentre affrontavo la via del ritorno. Stavo già pensando a cosa mi sarei messa per andare a ballare quando una voce improvvisa mi aveva fatto sobbalzare dallo spavento. «Ma guarda come sculetta questa troietta; secondo me lo fa perché vuole compagnia, non credi?» Il suono era arrivato improvviso da dietro il pilone del ponte, un luogo riparato fuori dalla vista e mi aveva colto completamente di sorpresa.


7 «Hai ragione, non hai visto come ci guardava mentre ci è passata davanti con la sua tutina aderente?» Una seconda voce si era unita alla prima, ancora più sfrontata e volgare della prima. Avevo cercato di passare oltre senza nemmeno degnarli di uno sguardo, ma uno dei due mi aveva preso per un braccio strattonandomi violentemente. «Ehi, ma che maleducata sei? Quando qualcuno ti parla si risponde, non lo sai?» Aveva il fiato che puzzava di alcool e di sporco e gli occhi iniettati di sangue, cattivi. «Lasciami stare deficiente, mi stai facendo male…» «Ma noi non vogliamo di certo farti male, anzi, vogliamo divertirci con te, vedrai che ti piacerà un sacco…» Anche l’altro ragazzo era nelle stesse condizioni del primo, forse peggio e continuava a sghignazzare, soddisfatto del fatto che mi avessero bloccato dove nessuno poteva vederci. «Lasciatemi andare bastardi o mi metto a urlare con tutto il fiato che ho in gola…» avevo minacciato sperando che questo sarebbe bastato a farli desistere dai loro intenti. «Ma grida pure quanto cazzo ti pare; non c’è mai nessuno a quest’ora che passeggia da queste parti, anzi, potrebbe essere eccitante mentre ci divertiamo con te…» Quello che aveva parlato aveva scagliato la bottiglia semivuota che teneva in mano contro il cemento del ponte facendo schizzare il liquido caldo ovunque, anche su di me. «Scusami, ti ho macchiato la tuta, ora rimedio subito», aveva detto continuando a ridere e a lanciare occhiate al suo compagno. Sfregava con le mani il tessuto all’altezza dei seni poi, non riuscendosi a trattenere oltre, mi avevano trascinato nell’erba, incurante delle mie suppliche e delle mie grida. Mi avevano sbattuta a terra tenendomi ferma mentre cercavano di sfilarmi la tutina, ultima barriera tra loro e il mio corpo indifeso, imprecando perché l’indumento era stretto e la mia pelle sudata impediva al tessuto di scivolare via. «Ma come cazzo si toglie quest’affare?» aveva detto rabbiosamente il primo mentre l’altro, per tutta risposta, gli aveva intimato: «Tienila ferma tu che ci penso io, a costo di strapparglielo di dosso a morsi…» La mia mente non voleva credere di star vivendo un incubo del genere;


8 gridavo e supplicavo mentre loro stringevano le mie carni e tiravano inutilmente il tessuto che fortunatamente non voleva cedere ai loro assalti. La testa mi girava e avevo una gran voglia di scappare, di fuggire lontano da quel luogo e da quegli aguzzini: stavano per fare la cosa più terribile che si possa perpetrare sul corpo di una donna, mentre conati di vomito mi salivano dalla bocca dello stomaco. “Sto per svenire, lo sento; non deve succedere, devo rimanere lucida e combattere con tutte le mie forze altrimenti…” ripetevo a me stessa mentre mi sentivo scivolare inesorabilmente verso l’oblio. «Vieni con me Giulia, lascia che ti protegga io da loro.» Era stata una voce improvvisa, femminile, quasi un bisbiglio all’orecchio che mi aveva riportato a uno stato di vigile coscienza; un suono che conoscevo, ma che non riuscivo a ricordare e che mi aveva dato una flebile speranza di salvezza. «Seguimi, lascia che io protegga la tua mente mentre mi occupo di questi bastardi…» «Ma che stai dicendo? Come faccio a seguirti se mi hanno immobilizzata? Non hai paura di loro?» «Fai come quando eri piccola, quando mi seguivi nel nostro giardino segreto, io e te da sole a giocare dove nessuno poteva trovarci…» «Marzia, ma sei proprio tu? Non è solo frutto della mia immaginazione vero? Aiutami, mi stanno per fare del male, tanto male e io non riesco a oppormi…» «Sì Giulia, sono proprio io, la tua amichetta di quando eri bambina. Torna nel nostro nascondiglio segreto e lascia che sia io ad affrontare questi animali.» «Come fai a non avere paura di loro?» le avevo chiesto mentre lentamente scivolavo verso l’oscurità. «Dovrebbero essere loro ad avere paura di me, non il contrario…» mi aveva sussurrato mentre sul suo viso era apparso un sorriso che non aveva nulla di amichevole, sinistro e maligno come non ne avevo mai visti. Un lontano abbaiare e voci indistinte furono le ultime cose che percepii con nitidezza oltre alle mani dei due aggressori che toccavano senza sosta il mio corpo; stavo scivolando lentamente verso un posto che


9 ricordavo sicuro, dove nessuno mi avrebbe trovata né fatto del male, dove la mia amica Marzia mi avrebbe protetto, come tanto tempo prima. «Ehi, cosa state facendo! Lasciate subito quella ragazza maledetti bastardi che non siete altro. Joy, vai, attacca!» L’eco di quelle parole e l’abbaiare furioso di un cane mi aveva riportato immediatamente a un livello cosciente; qualcuno aveva sentito le mie grida ed era venuto in mio aiuto, forse proprio quella coppia con il cane che mi aveva salutato lungo il percorso e il pensiero di essere salvata mi aveva riempito l’anima di speranza. Avevo intravisto la sagoma di qualcosa che si era avventata sui due ragazzi che ancora cercavano di strapparmi la tuta di dosso prendendoli alla sprovvista, un cane di grossa taglia dal pelo lungo e i denti affilati che sporgevano minacciosi dalle mandibole socchiuse. Un ringhio potente, cupo, gli saliva dalla gola, enfatizzato dallo scatto ritmico delle mascelle che addentavano l’aria a pochi centimetri dalla loro faccia. «Via, scappiamo!» erano state le uniche parole che erano riusciti a dire mentre saltavano in piedi reggendosi i pantaloni slacciati, dandosi poi a una fuga scomposta. Li osservavo quasi senza capire, intontita da tutto quello che mi era successo, grata a quella bellissima bestia che mi aveva salvato. Una scritta sulla sua pettorina aveva attirato la mia attenzione mentre il cane rimaneva imperterrito tra me e i miei assalitori, ringhiando e abbaiando senza sosta. «Joy…» avevo letto con un filo di voce mentre il cane, come se mi avesse udita pronunciare il suo nome, mi si era avvicinato leccandomi il viso con i suoi occhioni languidi e preoccupati. Ero riuscita ad allungare una mano per fargli una carezza, per dimostrargli tutta la mia gratitudine, scoprendo con quel semplice gesto che non si trattava di un cane da difesa bensì di un Golden Retriever dal pelo biondissimo, morbido e folto. «Come sta signorina? Le hanno fatto del male quei mascalzoni? Aspetti che l’aiutiamo a rivestirsi e se vuole la accompagniamo dai carabinieri per fare denuncia; quei bastardi non devono passarla liscia…» Sentivo le mani delicate della signora agire sul tessuto della tutina per farlo risalire al suo posto in modo da coprire i seni che quei maledetti erano riusciti a scoprire, unico trofeo di quella disgustosa caccia; li


10 sentivo doloranti tanto che più di una volta la smorfia per il dolore che provavo aveva fermato la donna. «Cara, lo so che fanno male, ma non posso lasciarti in questo stato; stringi i denti che ho quasi finito, mi dispiace, scusami…» Il marito intanto aveva chiamato il comando della stazione dei carabinieri di Saint Pierre spiegando l’accaduto e chiedendo che una pattuglia si recasse sul posto per identificare i miei aggressori mentre il loro cane continuava a starmi vicino, incurante delle proteste della sua padrona, ostacolata dal corpo massiccio dell’animale. «Hanno detto che arrivano subito e di non muoverci perché dovranno prendere le deposizioni di tutti per scoprire chi siano quei maledetti… dobbiamo avvisare qualcuno? I tuoi genitori, un parente?» «No, grazie, ci penso io; sto meglio e non so come ringraziarvi del vostro aiuto… senza di voi sarebbero riusciti a…» Non ero riuscita a finire la frase. Avevo cercato di mettermi in piedi, ma la tensione e la paura per l’aggressione subita erano state troppo forti per me e come un sacco vuoto mi ero afflosciata tra le braccia dei miei salvatori. Cercare di uscire dall’abisso in cui ero sprofondata non era stato né semplice né indolore; mi sentivo intontita e frastornata mentre cercavo di riaprire gli occhi abituandoli gradatamente alla luce bianca che inondava la piccola stanza dove mi trovavo. Poche cose arredavano quel minuscolo ambiente: il letto dov’ero distesa, un piccolo tavolo con due sedie davanti a me, un comodino alla mia destra e un armadietto, simile a uno stipetto da palestra, vicino alla porta. «Dove sono? Che cosa mi è successo?» avevo chiesto con la voce impastata alla figura che si era prontamente avvicinata al mio capezzale appena mi ero risvegliata. «Amore mio… finalmente ti sei svegliata: come stai bambina mia?» Mia madre mi aveva afferrato la mano e la stringeva forte mentre lacrime di gioia le rigavano il viso. «Mamma, che cosa ci faccio qui? Perché piangi?»


11 «Non ricordi nulla di quello che ti è successo? Chiamo subito il medico e gli dico che sei sveglia, ma tu non devi agitarti e aspettami che arrivo subito…» Solo ora realizzavo pienamente dov’ero e un’ansia atroce cominciava a stringermi la gola. Era una piccola stanzetta d’ospedale quella in cui mi trovavo, distesa su un letto dalle sponde alzate, come se avessero avuto paura che volessi fuggire; la maniglia per sollevarmi penzolava sopra di me, tanto immobile quanto irraggiungibile per come mi sentivo in quel momento. Una flebo iniettava il suo liquido incolore nel mio braccio sinistro e questo contribuiva ad aumentare il mio stato di agitazione proprio perché, tra le altre cose, avevo una vera e propria fobia per gli aghi. Non stavo male né sentivo dolori particolari, almeno fino a quando i ricordi erano cominciati a riaffiorare dal mio subconscio, nitidi, terribili e dolorosi: avevano cercato di violentarmi proprio vicino a casa, in un luogo che reputavo sicuro e tranquillo. C’erano riusciti? Mi avevano fatto del male? Questi particolari erano ancora confusi, incerti, come se li avessi vissuti con distacco, guardandomi da un’altra prospettiva, da una diversa angolazione. Ricordavo il cane che era venuto in mio soccorso, il suo pelo lungo e biondo e il suo ringhio cupo, minaccioso e la voce del suo padrone che aveva messo in fuga i miei aggressori, ma il resto rimaneva una dolorosa incognita. Il dottore era entrato proprio mentre mi asciugavo le lacrime, sconvolta da quello che avevo appena ricordato, atterrita da quello che ancora rimaneva profondamente sepolto nella mia memoria: mi aveva salutato con un sorriso facendomi le solite domande di rito e aspettando che a mia volta gliene facessi. «Mi hanno…» avevo chiesto singhiozzando senza nemmeno finire la frase. «No, stai tranquilla: l’intervento tempestivo della coppia che ti è venuta in soccorso ha evitato il peggio. A parte alcune ecchimosi e abrasioni non hai nulla di serio, almeno a livello fisico; per quanto riguarda il trauma emotivo vorrei chiedere a un mio collega psicologo di venire a parlarti per valutare eventualmente un supporto di questo genere, almeno per i primi tempi…»


12 Tirai un sospiro di sollievo nell’apprendere che non erano riusciti a portare a termine i loro intenti, ma la rabbia che covavo per essere stata aggredita in quel modo cercava in ogni modo di risalire per esplodere in tutta la sua violenza. «Non è il momento Giulia, non ora e non davanti a tutta questa gente…» Era stato poco più che un sussurro, una voce che avevo immediatamente riconosciuto e che mi aveva fatto fare un balzo sul letto. «Cosa succede? Tutto bene?» Il dottore si era avvicinato nuovamente e mi stava osservando preoccupato. «Sì grazie, tutto bene… è che la flebo… io ho il terrore degli aghi e sentirmene uno nel braccio mi fa star male…» «Chiamo l’infermiera e glielo faccio togliere, tanto la flebo ormai è finita…» «Grazie dottore, gliene sono davvero grata…» Ero riuscita a mascherare il mio stupore, ma non vedevo l’ora che tutti uscissero per capire un’altra cosa che mi aveva davvero sconcertata.


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CAPITOLO 2

La mia era stata un’infanzia tutto sommato normale, senza grandi gioie né traumi, almeno per quello che ricordavo. C’era solo una cosa che mi differenziava dalle altre compagne con cui giocavo: io avevo un’amica immaginaria, nulla che potesse compromettere la mia vita a quell’epoca, ma un fatto decisamente strano per chi ne era venuto a conoscenza. Lei si chiamava Marzia ed era un po’ più grande di un anno o due, ma, a differenza di me che ero timida e introversa, lei era sempre espansiva e pronta a intraprendere nuove avventure, caratteristiche che le avevo sempre invidiato. Era come una sorella più grande con cui condividere segreti e fare tutti quei giochi che piacevano a entrambe, un legame stretto e a volte fin troppo esclusivo tanto che più di una volta aveva attirato l’attenzione di mia madre e delle maestre. «Sua figlia Giulia è una bambina dolce e sensibile, ma tende a isolarsi dal gruppo un po’ troppo spesso rifugiandosi in quella che più volte ha definito “un’amicizia particolare”. Più volte l’abbiamo sorpresa a giocare e a parlare da sola, o meglio con qualcuna di nome Marzia che però solo lei dice di poter vedere, una sorta di fantasia che purtroppo tende a renderla ancora più introversa di quello che è già…» Così dicevano a mia madre durante i colloqui che diventavano sempre più frequenti man mano che il tempo passava. Io non pensavo di fare qualcosa di male o addirittura di proibito e la compagnia della mia amichetta immaginaria mi piaceva e mi stimolava al punto da preferirla alla maggior parte delle mie solite compagne di giochi. Lei sapeva sempre cosa era meglio fare e mi difendeva tutte le volte che venivo trattata male o mi sentivo in pericolo. C’era stato un episodio che era


14 rimasto scolpito nella mia memoria come se fosse accaduto il giorno prima: ero al parco come quasi ogni pomeriggio ed ero intenta a giocare con la mia bambola preferita, Ketty, quando un grosso cane mi si era avvicinato alle spalle, attratto forse dalle voci che facevo. Mi era saltato addosso cercando di strapparmi di mano la bambola e io ero rimasta impietrita senza sapere cosa fare. Ora capisco che probabilmente era solo un grosso cucciolo che voleva giocare, ma allora ne avevo avuto talmente paura da rimanere paralizzata. Era stata Marzia a difendermi colpendo il muso dell’animale con una grossa pietra mentre io, immobile e confusa, guardavo quel povero cane sanguinante che scappava guaendo senza sosta. La cosa strana che ancora oggi fatico a spiegare era che, in quel momento, Marzia e io sembravamo essere la stessa persona mentre i miei occhi osservavano quella scena cruenta da un punto di vista davvero particolare, come se fluttuassi leggera tra loro. Il padrone infuriato aveva protestato con mia madre per la crudeltà che avevo dimostrato verso il suo cucciolo, colpevole a suo dire di essere stato solo troppo affettuoso, ma aveva dovuto convenire che non avrebbe dovuto lasciarlo libero nel parco senza un’adeguata sorveglianza e la cosa era finita lì. Quando alla sera avevo raccontato ai miei genitori il coraggio che aveva dimostrato Marzia nel difendermi, la mia esternazione era stata recepita con preoccupazione, tanto da dare il via a un percorso terapeutico che aveva segnato tutta la mia infanzia. «Giulia è una bambina sana e intelligente che cerca di colmare le sue lacune caratteriali utilizzando proprio la fantasia. Dai colloqui che ho avuto con vostra figlia è palese che si senta nettamente inferiore ai suoi coetanei in quanto a socializzazione e fermezza di carattere. Per questo la sua amica immaginaria possiede tutto quello che a lei manca: spigliatezza, coraggio e prontezza decisionale, tutte caratteristiche che Giulia crede di non avere. Ma si sbaglia perché le sue proiezioni fantasiose sono comunque parti del suo carattere che al momento sono sopite, ma che verranno fuori man mano che il suo bagaglio di esperienze si arricchirà. Mi preoccupa solo l’episodio in cui le due personalità si sono sovrapposte scatenando quell’impeto di violenza spropositata che, sia pure dettata da un senso di panico e di autodifesa, non è propria di vostra figlia bensì della sua amica immaginaria. Se la


15 cosa dovesse ripetersi con altri episodi in cui il carattere di Marzia si sovrapponesse e annullasse quello di Giulia, allora potrei ipotizzare la possibilità di un disturbo comportamentale che potrebbe sfociare, se non curato in tempo, in una vera e propria sindrome dissociativa d’identità. Vi consiglio di iniziare subito un percorso terapeutico in questa struttura proprio per ridurre al minimo la possibilità che tale evento possa succedere…» Queste erano state le parole dello psicologo infantile a cui si erano rivolti i miei genitori e, grazie alla sua diagnosi prudente e allo spavento generato da quest’ultima in mamma e papà, avevo iniziato il cammino che mi avrebbe portato ad allontanarmi dalla mia più intima amica fino a dimenticarla del tutto, almeno fino a quando era venuta in mio aiuto quella maledetta sera. Ero rimasta sola nella piccola stanzetta dov’ero ricoverata; il cuore mi batteva a mille dopo che la voce della mia amica dimenticata mi aveva sussurrato all’orecchio di rimanere calma e di non farmi prendere dall’ira che sentivo montare dentro di me. Mi avevano aggredita, buttata a terra e usata per i loro porci comodi; solo il fatto di essere troppo ubriachi per riuscire a togliermi i vestiti di dosso e l’arrivo tempestivo dei miei salvatori avevano evitato il peggio. STUPRATA! La parola continuava a tormentare la mia mente senza che io potessi fare nulla per scacciarla. C’era mancato davvero un soffio, ma questo non mi faceva stare meglio, tutt’altro. Là fuori, da qualche parte, c’erano due vigliacchi che pensavano di poter fare qualsiasi cosa senza doverne subire le conseguenze, senza dover tener conto del danno che facevano alle loro vittime, sia fisico che, ancor peggio, psicologico. «Porci maledetti, la dovete pagare!» avevo urlato tra le lacrime, conscia che la tensione emotiva che avevo dentro si stava finalmente allentando. «La pagheranno, non ti preoccupare; ti hanno fatto del male, hanno osato posare le loro sporche mani su di te e per questo meritano tutto quello che gli capiterà…» «Marzia, ma come… come fai a essere qui? Sei solo frutto della mia immaginazione vero? Il prodotto dello stress dovuto a questa maledetta faccenda? Mi sei mancata da morire, non è stata colpa mia se ti ho


16 abbandonata, se ti ho dimenticata, ma mi hanno costretta a farlo, per il mio bene hanno detto…» «Non devi scusarti Giulia, io ero lì con te e so cosa ti hanno fatto passare per allontanarti da me: sono io che me ne sono andata, per far finire l’accanimento con cui venivi trattata. Ti stavo facendo del male ed era l’ultima cosa che volevo per cui ho deciso di sparire per un po’, fino a quando non avresti avuto nuovamente bisogno di me e, purtroppo, quel momento è arrivato.» «Tu eri lì con me, ti ho vista, ti ho sentita; mi hai portato via da quel posto orribile sopportando tu al posto mio tutta quella schifezza, tutto quell’orrore. La devono pagare quei maledetti, non possono passarla liscia e fare a un’altra quello che non sono riusciti a fare a me…» «Non rimarranno impuniti, te lo prometto; l’avrei già fatto se quel cane con i suoi padroni non si fosse intromesso…» «Cosa vuoi dire? Come avresti potuto fargliela pagare? Erano in due, ubriachi e intenzionati ad andare fino in fondo, fino a…» «Ti ricordi cosa guardavi quando sono venuta in tuo aiuto? Quella ragnatela sottile, geometricamente perfetta, tanto innocua quanto letale? Io sono il ragno che l’ha costruita, paziente, affamato, deciso. Tesso la mia tela e aspetto che la preda si avvicini, l’accarezzi e infine ci cada dentro completamente. Una volta catturata non ho più fretta e posso dedicarle tutta la mia attenzione fino a quando, ormai distrutta, la uccido. Questo è quello che farò con i tuoi violentatori e con tutti quelli che cercheranno di farti del male, te lo prometto.» «Grazie Marzia, grazie di essere tornata e di starmi vicino come un tempo.» «Non ti preoccupare Giulia, nessuno potrà più separarci, nessuno…» Venni dimessa alcuni giorni dopo con la raccomandazione di tenermi sotto osservazione ed eventualmente tornare in ospedale qualora si fossero manifestati nuovamente dei sintomi riconducibili alla diagnosi che mi era stata fatta. Sospettavano che qualcosa in me non andasse, qualcosa nella testa, ma ero stata brava a rispondere correttamente alle loro domande, anche a quelle più subdole e così non avevano potuto fare altro che lasciarmi andare consigliando una visita da uno


17 specialista dei disturbi dissociativi. Marzia era rimasta con me tutto il tempo della degenza e avevo fatto fatica a ignorarla durante il giorno, quando tutti venivano a trovarmi per vedere come stavo. Era la sera il momento più bello della giornata, quando facevo finta di dormire per poter ascoltare quello che raccontava la mia amica del cuore; più di una volta le infermiere mi avevano sentito ridere o fare esclamazioni di gioia, ma le avevano attribuite a un sonno agitato o agli psicofarmaci che mi stavano propinando come terapia e che io, puntualmente, sputavo appena rimanevo sola. Avevo ritrovato la persona più cara della mia infanzia e nulla e nessuno me l’avrebbe portata via un’altra volta, nessuno! Tornare a casa era stato meno traumatico del previsto; ritrovare le mie cose, il calore dell’ambiente familiare, gli amici e i parenti che erano venuti a farmi festa mi avevano fatta sentire davvero bene, almeno fino a quando ero rimasta sola nella mia stanza a cercare di prendere sonno. «Riuscirò a dimenticare questa brutta storia e andare avanti?» «Non devi dimenticare, ma trarre forza dall’esperienza che hai avuto e reagire: non più vittima ma carnefice, ricordatelo…» Marzia era seduta ai piedi del letto, lo sguardo severo come ogni volta che mi vedeva vacillare; avevamo stretto un patto tra le mura dell’ospedale dov’ero stata ricoverata: nulla mi avrebbe più ferito e guai a coloro che avessero cercato di farlo. «Vorrei tanto avere davanti a me quei due bastardi: vorrei punirli con le mie stesse mani, sentire il loro sangue scorrere tra le mie dita…» «Così ti voglio vedere, arrabbiata, non impaurita, desiderosa di vendetta e non in cerca dell’oblio; avrai il tuo momento, te lo prometto…» «Lo spero tanto, davvero…» Era comparso un sorriso sul volto della mia amica, un ghigno che mi aveva messo i brividi, ma di piacere, non di paura. L’occasione capitò alcune settimane dopo, a Morgex, per la festa patronale di Capolungo. Ero andata con alcune amiche ad assistere a quella particolare manifestazione chiamata “la Badoche”, un evento folcloristico davvero spettacolare le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Protagonisti di questo rito erano un gruppo di giovani, uomini e donne, non sposati e vestiti con i costumi tradizionali. Il primo


18 “badocher”, che dirigeva il gruppo, portava in mano un piatto ornato da fiori e nastri con al centro un dolce o una mela che serviva per raccogliere le offerte, mentre un altro reggeva la tradizionale alabarda, un bastone coronato di fiori e ornato di nastri multicolori, simbolo del potere. Era un tripudio di colori e di balli, di musica e di allegria, proprio quello di cui avevo bisogno per distogliere il pensiero da ciò che mi era accaduto, ma in mezzo a tanta spensieratezza, l’incubo e l’orrore celavano la loro presenza, nascosti dagli abiti tradizionali di uno dei badocher più giovani. «È lui, è lui…» continuavo a mormorare senza smettere di tremare. Le mie amiche, poco più avanti, non si erano accorte di nulla, troppo prese dai ritmi della festa, ma io mi sentivo sola, abbandonata in mezzo alla folla. «Non sei sola… io sono qui con te.» La voce di Marzia mi aveva calmato immediatamente facendo cessare quel tremito che mi scuoteva l’anima. Mi era apparsa a fianco, invisibile a tutti tranne che a me, il mio angelo protettore. «Quello laggiù, vicino alla ragazza con i capelli rossi… lui è quello che guardava il suo amico mentre cercava di strapparmi la tuta di dosso bloccandomi i polsi… ne sono sicurissima. Cosa facciamo ora? Chiamo i carabinieri e lo faccio arrestare?» «No, ho un’idea migliore: scopriamo chi è, dove abita e come si chiama il suo amico, dopodiché lascia che me ne occupi io…» «Tu? Ma tu sei… sei…» «Io sono molto più di quello che credi, io sono il tuo angelo, il tuo angelo vendicatore. Vai a casa Giulia e non muoverti di lì: verrò a trovarti quando tutto sarà finito…» «Fallo soffrire ti prego, fa’ che i suoi occhi non possano più guardare nessuna come hanno guardato me mentre cercava di stuprarmi!» «Avrai i suoi occhi sul palmo della tua mano, te lo prometto…» Di nuovo quel brivido di perverso piacere mi aveva attraversato la schiena, lungo tutta la colonna vertebrale, fino alla nuca. Non mi sentivo spaventata per le promesse che mi aveva fatto la mia amica immaginaria, tutt’altro, ne ero estasiata. Io non cercavo più giustizia, volevo a tutti i costi la mia vendetta.


19 Quella notte stessa mi destai di soprassalto; non ero certa se fosse stato un rumore oppure la sensazione che ci fosse qualcuno vicino a me, ma in un lampo ero lucida e sveglia. «Chi c’è?» domandai quasi con un sussurro per paura di essere sentita dai miei genitori. «Sono io, non ti spaventare: ti ho portato un regalo che spero gradirai…» Avevo acceso la luce dell’abat-jour e l’avevo vista davanti a me, bellissima, con un vestitino corto e le gambe lunghe, affusolate. Mi tendeva la mano chiusa come se volesse darmi qualcosa e io d’istinto avevo allungato la mia con il palmo aperto, pronta a ricevere quel dono misterioso. Non mi aspettavo una cosa del genere, ma dentro di me non ne ero sorpresa: due globi pallidi, ancora sanguinanti mi guardavano con il loro sguardo spento e la cosa più strana era che mi accorsi di non averne ribrezzo. Continuavo a osservarli mentre un misto di soddisfazione e di gioia saliva dal profondo della mia anima: Marzia mi stava dicendo qualcosa, ma io ero troppo intenta a contemplare il suo dono per capirne il significato. «Come? Scusami ma non ho sentito quello che mi hai detto…» le avevo sussurrato senza neanche guardarla, troppo impegnata a stringere l’oggetto della mia vendetta. «Ti stavo domandando se quello che ti ho portato è effettivamente quello che mi avevi chiesto.» «Sì, non potevi farmi più felice; ne mancano ancora due però…» «Non preoccuparti, non ho nessuna intenzione di lasciare il lavoro a metà: hai qualche desiderio speciale per l’altro ragazzo?» «Voglio che soffra ancora di più…» «Vedrò di accontentarti amica mia, ma tu devi stare sempre in compagnia di qualcuno perché sospetteranno di te, questo è certo…»


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CAPITOLO 3

Anche quella mattina il commissario capo Lombardi era in ritardo. Il parcheggio davanti alla questura e quelli limitrofi erano pieni e a nulla era valsa la ricerca nelle viuzze adiacenti di un posto dove parcheggiare. «Accidenti! Ogni giorno così… Maledetta estate e fanculo ai turisti…» aveva imprecato dopo l’ennesimo tentativo andato a vuoto. Aveva dovuto fare quasi un chilometro a piedi prima di arrivare finalmente in commissariato, sudato e di malumore già di prima mattina. «Buongiorno dottore, fa caldo anche oggi, vero?» L’assistente Alfonsi era al suo posto nella guardiola all’entrata del commissariato e sorrideva cordialmente al capo della sezione investigativa. «Sì, sì, buongiorno… Un caldo infernale già di prima mattina…» aveva risposto cercando di non essere scortese; non era colpa sua se la giornata era iniziata male. «Dottore, mi scusi, ma c’è una persona che la sta aspettando nella saletta d’attesa, un ex collega dei carabinieri ora in pensione: dice che deve parlarle con urgenza…» «Lo dicevo che era una giornata di merda», aveva bofonchiato tra i denti prima di voltarsi verso il suo sottoposto. «Grazie, mi dia dieci minuti per sistemare le cose e poi lo faccia accomodare nel mio ufficio.» “Ci mancava pure il carabiniere in pensione che vorrà sottopormi chissà quale problema di vitale importanza… ma tutte a me capitano oggi?” brontolava tra sé mentre si dirigeva nella sua stanza. L’ispettore Brunod, suo amico da sempre, vedendolo arrivare con quell’aria cupa si tenne prudentemente a distanza; conosceva bene il suo carattere, specie


21 alla mattina quando le cose gli andavano storte, per cui aveva optato per una strategica ritirata rimandando a dopo il loro briefing mattutino. «Avanti! Si accomodi, prego.» L’uomo che era apparso sulla soglia era diverso da come se l’era aspettato: alto, ancora giovanile e con un portamento rigido, militare, segno di un congedo avvenuto da poco. La curiosità aveva immediatamente sostituito l’irritazione del primo momento, tanto che ora era ansioso di conoscere il motivo che aveva portato l’ex collega nel suo ufficio. «Prego, entri pure e si metta comodo; è un piacere accogliere un collega tanto per cambiare. In cosa posso esserle utile?» «La ringrazio commissario di avermi ricevuto subito e non vorrei rubare troppo tempo al suo lavoro, ma c’è una questione che vorrei sottoporle che non mi sta facendo dormire la notte…» L’idea che la prima impressione avuta fosse desolatamente giusta aveva smorzato l’entusiasmo, ma nonostante il timore di trovarsi di fronte all’ennesima lamentela, la cortesia tra colleghi veniva prima di ogni altra cosa. «Mi dica pure, cosa succede?» «Sono il maresciallo Dalmasso e fino a tre anni fa prestavo servizio presso il comando della stazione dei carabinieri a Saint Pierre. Un paio d’anni prima del congedo c’erano stati dei fatti di cronaca piuttosto gravi che avevano coinvolto il nostro reparto. Nello specifico c’era stato un tentativo di stupro da parte di due ragazzi nei confronti di una minorenne, tale Giulia Cerise, che stava facendo jogging lungo il parco che costeggia il torrente Savara a Villeneuve, per fortuna sventato dall’arrivo provvidenziale di alcune persone che avevano messo in fuga i malintenzionati. «La ragazza era stata portata in stato di shock all’ospedale Parini per accertamenti, ma era stata dimessa qualche giorno dopo visto che il trauma era prevalentemente psichico. I ragazzi colpevoli erano stati successivamente identificati, ma non si era potuto procedere all’arresto in quanto erano stati trovati brutalmente torturati e assassinati prima che fossimo in grado di catturarli. All’inizio si era pensato a una sorte di vendetta da parte di un parente, forse il padre o addirittura del coinvolgimento della stessa ragazza visto che i referti psichiatrici


22 sottolineavano la possibilità di un disturbo latente della personalità, ma non c’erano prove a carico di nessuno di loro e i sospetti non avevano trovato nessuna conferma per cui il caso era rimasto insoluto. La famiglia si era successivamente trasferita in Svizzera, se non ricordo male a Martigny e le indagini erano rimaste a un punto morto…» «Perché mi racconta questa storia? Cosa sta cercando di dirmi?» «Ha letto i giornali di stamattina commissario?» «No, non ancora: cosa avrei dovuto notare?» «C’è stato un altro omicidio ieri che assomiglia in modo impressionante ai casi che le ho appena esposto, ma c’è di più: ho saputo che la famiglia Cerise è tornata a vivere a Villeneuve, circa due mesi fa.» Era il genere di notizia che un commissario non vorrebbe mai ricevere: una nuova escalation di omicidi seriali dopo un lungo periodo di latenza. «È sicuro di quello che mi sta dicendo oppure sono solo supposizioni?» «Ci sono particolari che ovviamente non sono stati divulgati all’epoca dei primi omicidi, ma quanto ho saputo dalle mie fonti conferma in pieno la mia ipotesi: ci saranno altri omicidi a meno che non troviate le prove che inchiodino i responsabili perché sono sicuro che sono gli stessi di cinque anni fa.» «La ringrazio maresciallo della sua solerzia, ma non capisco perché non abbia detto queste cose ai suoi superiori; sono sicuro che avrebbero preso seriamente in considerazione le sue informazioni.» «L’ho fatto commissario, ma questo nuovo caso è al di fuori della giurisdizione della caserma di Saint Pierre essendo attualmente affidato al suo ufficio investigativo e, francamente, credo che non mi abbiano creduto fino in fondo.» «Prenderemo in considerazione tutte le informazioni che ci ha dato e, se occorrerà, la convocheremo per avere ulteriori delucidazioni. Per il momento è tutto, ma stia certo che se ci saranno gli sviluppi che lei ha paventato, sarà mia cura tenerla informata.» «Grazie commissario, è stato davvero gentile; spero davvero di sbagliarmi, ma ho un brutto presentimento…» «Lo spero anch’io. Arrivederci maresciallo Dalmasso.»


23 Per il commissario la giornata non poteva iniziare peggio di così; l’idea di un serial killer in azione gettava un’ombra sinistra su tutta la faccenda, ma il primo passo per vedere cosa c’era di vero nel colloquio appena avuto era aggiornarsi sulle indagini in corso. «Ispettore Brunod, per cortesia nel mio ufficio, grazie…» Sergio Brunod era il braccio destro del commissario capo Lombardi, un grande amico oltre che un valente collaboratore. Lo aveva visto attenderlo all’entrata per la consueta riunione a inizio turno, dove venivano illustrati i nuovi casi e gli sviluppi di quelli già in corso. Probabilmente l’omicidio di cui aveva parlato il suo visitatore era uno dei punti centrali dell’incontro, ma grazie all’apporto dell’ex carabiniere, ora avevano qualcosa su cui lavorare. «Eccomi Guido. Ho visto che eri occupato per cui ho aspettato che ti liberassi per aggiornarti sulle ultime novità: c’è stato un omicidio ieri notte a Saint Marcel, una brutta storia davvero. La vittima è un trentenne di Antey, un pregiudicato per reati contro la persona, rissa, molestie e spaccio di stupefacenti. Lo hanno trovato poco distante dalla sua macchina, su una piazzola di sosta appartata, in genere frequentata da coppiette in cerca di intimità completamente nudo e seviziato a morte. La cosa strana è che la vittima era un assiduo frequentatore di palestra con un fisico prestante, ma non sembra che abbia opposto granché resistenza al suo assalitore, nemmeno quando quest’ultimo gli ha… tagliato la lingua.» «Tagliato la lingua? Ma era ancora vivo quando lo ha fatto?» «Il medico legale non sembra avere dubbi e ha tenuto a precisare che un caso analogo per violenza ed efferatezza l’aveva già visto…» «…Cinque anni fa, su due ragazzi che erano sospettati di tentato stupro, vero?» «Accidenti Guido, e tu come fai a saperlo?» «La persona che hai visto entrare nel mio ufficio è un ex maresciallo dei carabinieri di Saint Pierre ed è venuto ad avvertirmi che abbiamo per le mani un possibile omicida seriale: questo tipo di assassinio lui lo aveva già visto qualche anno fa e ora ha paura che il serial killer sia tornato a operare dalle nostre parti.»


24 «Se questo è vero è un gran brutto affare. Hai parlato con il gran capo di questa faccenda?» «No, non ancora: prima voglio essere sicuro che non ci stiamo sbagliando. Chiedi all’anatomopatologo di consegnare il referto al più presto e digli di farci avere anche quello riguardante i due cadaveri trovati nelle stesse condizioni circa cinque anni fa. Fammi un altro piacere: richiedi copia del fascicolo delle indagini del vecchio caso alla stazione del comando dei carabinieri di Saint Pierre spiegandogli che abbiamo riscontrato delle attinenze con un caso recente che stiamo seguendo. Se fanno troppe domande o sono poco collaborativi allora rivolgiti al comando generale della compagnia di Aosta e chiedi di parlare direttamente con il capitano Curci. Appena avremo i riscontri e riusciremo a capire in cosa ci siamo imbattuti parlerò con il dottor Maquignaz dell’intera faccenda, ma so già che non la prenderà bene.» «Sono d’accordo con te; il nostro dirigente è una persona capace, ma non gradisce questo tipo di notizie, di quelle con cui la stampa ci va a nozze. Mi assicurerò che nulla trapeli, ma come ben sai sarà quasi impossibile tenere nascosta a lungo una cosa del genere, specialmente se gli omicidi dovessero continuare.» Cinque anni, cinque lunghi anni in cui l’omicida non aveva più ucciso, almeno per quello che si sapeva, un tempo lungo che stranamente coincideva con l’assenza della famiglia Cerise da Villeneuve, un fatto che sembrava colpevolizzare uno o più membri di quel nucleo familiare, ma non era possibile che fosse così semplice, almeno in apparenza. «Fammi un altro favore Sergio prima di andar via: contatta i nostri omologhi svizzeri e chiedi se ci sono stati negli ultimi cinque anni casi di omicidio con tortura e asportazione di organi, nella fattispecie occhi o lingue, probabilmente nella zona di Martigny o nelle province adiacenti. In caso negativo se possono estendere la ricerca nei cantoni che confinano con l’Italia e la Francia…» «Cos’hai in mente? Hai già dei sospetti?» «Non ancora, ma voglio portarmi avanti con le ipotesi e questa è la migliore che abbiamo al momento.»


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CAPITOLO 4

Andare via da Villeneuve era stato doloroso ma necessario; tutti ormai ci guardavano con un misto di timore e di dolorosa comprensione. Era stato impossibile tenere riservata la notizia che eravamo indagati per il duplice omicidio dei miei aggressori e tutti in paese, amici o semplici conoscenti erano convinti che la mia famiglia fosse colpevole del misfatto. Papà aveva chiesto il trasferimento a un’altra sede per problemi ambientali dovuti alle recenti vicissitudini familiari, possibilmente fuori regione, ed era stato prontamente accontentato per cui, dopo il nulla osta dei carabinieri, avevamo fatto i bagagli e ci eravamo trasferiti nella vicina Svizzera, a Martigny, nel cantone Vallese. Era stato un viaggio breve, poco meno di novanta chilometri da percorrere in un paio d’ore o forse meno, che ci aveva allontanato da tutti gli sguardi accusatori, dai bisbigli dietro le spalle e dal vuoto che si era creato intorno a noi. Lì avremmo ricominciato le nostre vite o così almeno speravamo, io per prima, ma quello che mi stavo lasciando alle spalle avrebbe comunque segnato la mia vita per sempre. La città era enorme paragonata al piccolo paese da cui venivamo, sviluppata lungo l’ansa del fiume Rodano, stretta dalle montagne che nulla avevano a che vedere con quelle che avevo appena lasciato, non rocciose e incombenti, ma più simili a grosse colline coltivate a vigneto e alberi da frutto. Qui avremmo ricominciato la nostra vita, qui avremmo cercato di dimenticare il passato guardando al futuro con moderata speranza, almeno per quanto riguardava me. Marzia era sempre al mio fianco e a stento riuscivo a far finta di niente mentre mi parlava cercando di rassicurarmi. Per fortuna arrivava quasi sempre quando eravamo sole, ma quello che mi diceva mi riempiva di timore e di eccitazione allo stesso tempo.


26 «Ti avevo promesso che avrei punito quei bastardi e ho mantenuto la mia parola, nel modo che tu hai voluto. La vendetta non è un piatto da gustare freddo, ma da assaporare quando è ancora bollente, quando dà il massimo del piacere e della soddisfazione. Nessun altro ti farà del male, io non lo permetterò, stai sicura…» «Hanno indagato su di noi e ci hanno costretto a cambiare casa, addirittura nazione per poter ricominciare daccapo. Non credevo che si accanissero su di noi in questo modo: io ero la vittima, non la colpevole, non ho chiesto io di essere aggredita! Hanno avuto quello che si meritavano e solo grazie a noi nessun’altra ragazza dovrà passare quello che ho passato io per causa loro…» «Lo sai che non è finita vero? Ce ne sono altri come loro, dappertutto, e noi dobbiamo rimanere vigili perché non succeda un’altra volta…» «Non ho più paura da quando sei tornata; mi sento forte, meno vulnerabile e tenere tra le dita i loro occhi mi ha fatto sentire potente, intoccabile…» «Fai sempre attenzione a chi conosci, ma se ciò dovesse ripetersi allora sarò nuovamente il tuo angelo vendicatore e tu avrai altri occhi con cui sentirti forte e potente…» La scuola era iniziata presto e grazie a quel nuovo impegno, anche i pensieri più lugubri erano passati in secondo piano; i nuovi compagni e l’ambiente scolastico totalmente diverso assorbivano ogni mia energia tanto che non riuscivo a tenere il conto del tempo che passava al punto da trovarmi alle soglie delle vacanze natalizie in un batter d’occhio. Non avevo legato molto con le mie compagne di scuola, troppo prese a piacere ai ragazzi più grandi e belli dell’istituto, ma con la componente maschile della classe le cose erano andate meglio, tanto che si era rapidamente instaurato un bel rapporto di amicizia con alcuni di loro. Nessuno sapeva cosa mi era successo in Italia e questo aveva sicuramente favorito il clima disteso e rilassato che si era creato tra di noi tanto che, a fine dicembre, già si facevano progetti per qualche uscita tutti insieme per andare a sciare. Marzia aveva diradato le visite, contenta forse del fatto che mi ero ambientata bene nella nuova sistemazione, fino quasi a scomparire del tutto negli ultimi tempi. Ero io che la chiamavo le sere in cui mi sentivo particolarmente sola,


27 quando la nostalgia dei miei vecchi amici si faceva sentire dolorosa e pesante più del solito. Con loro eravamo rimasti in contatto i primi tempi, almeno con alcuni, poi, col passare del tempo, non avevo più avuto notizie e mi ero trovata sola e dimenticata, con un fardello troppo pesante da portare. Era in quei momenti che la presenza della mia amica immaginaria diventava indispensabile per superare quel momento di sconforto e lei puntualmente arrivava al mio richiamo e rimaneva con me fino a quando il sonno mi liberava dalle angosce e dalle paranoie. «Grazie Marzia, grazie di esserci, almeno tu…» le dicevo sempre prima di addormentarmi e lei ricambiava il mio saluto con un sorriso di sinistra complicità, almeno era questa la sensazione che mi trasmetteva. Mi ero tenuta alla larga da ogni situazione potenzialmente pericolosa per quasi un anno, ma non era destino che le cose dovessero continuare così. Se io non cercavo guai, erano i guai a cercare me per cui, forse per qualche parola di troppo o qualche sguardo furtivo alla persona sbagliata, mi ero ritrovata nuovamente nei guai con una ragazza più grande del mio stesso istituto. «Cosa credi di fare? Ti ho visto fare la cretina con il mio ragazzo e ora quell’imbecille vuole troncare con me per provarci con te… Se nessuno ti ha ancora insegnato che i fidanzati delle altre non si toccano, te lo insegnerò io nella maniera peggiore…» Ero stata presa alla sprovvista, a tradimento e sul momento non avevo saputo rispondere a tono; non sapevo a quale ragazzo si riferisse, ma era palese che lei fosse convinta di quello che diceva. «Guarda che ti sbagli… io non voglio portare via niente a nessuno…» avevo balbettato cercando di essere convincente, ma l’effetto sortito era stato decisamente l’opposto. Si era radunata una folla intorno a noi e la mia accusatrice, sentendosi spalleggiata dagli amici accorsi a vedere cosa stava succedendo, aveva continuato a rincarare la dose. «Sei solo una gran puttana, altro che la santerellina che vuoi sembrare! Fai finta di essere amica di tutti solo per raggiungere i tuoi scopi, ma questa volta hai sbagliato persona. Lucas è mio e tu non lo devi nemmeno guardare, hai capito!»


28 Lucas, quel nome finalmente chiariva l’equivoco. L’avevo conosciuto la settimana prima solo perché me l’aveva presentato sua sorella, una mia compagna di classe e tutti insieme eravamo andati in centro a bere qualcosa. Avevamo chiacchierato molto quel pomeriggio e la sera ci eravamo trovati nello stesso locale per un aperitivo e per ascoltare un po’ di musica. Era simpatico e brillante e avevamo parlato di tante cose, compresi i suoi ricordi di quando era venuto a fare escursioni sui monti della mia valle, per cui era normale che anche a scuola ci salutassimo. «Guarda che hai frainteso: io e Lucas…» non ero riuscita a finire la frase che un violento ceffone mi aveva fatto perdere l’equilibrio facendomi sbattere contro il muro; sentivo un fischio acuto nell’orecchio che era stato colpito e la testa mi girava al punto da impedirmi ogni reazione. Il colpo era stato dato a tradimento, con cattiveria, proprio per fare più male possibile. Ero talmente spaventata da sentirmi inerme, indifesa, proprio nelle condizioni per le quali Marzia veniva in mio aiuto, ma questa volta non ce n’era stato il tempo. «Che cosa sta succedendo qui! Ma dove credete di essere? Per strada forse? Vergognatevi! Entrambe dal direttore, subito!» Il professore di fisica era uscito dall’aula, richiamato dal trambusto che si era creato nel corridoio, e aveva messo fine alla rissa con il suo modo burbero e autoritario; non ero mai stata così contenta di vederlo e la minaccia del colloquio con il preside era ben poca cosa rispetto a quello che avevo appena subito. «Non te la cavi con così poco stronza… Stai tranquilla che presto ci rincontreremo e avrai il resto…» «Oh sì che ci rincontreremo, non vedo l’ora, ma stai certa che andrà molto diversamente, te l’assicuro…» Non era la mia voce quella che aveva risposto alla mia assalitrice, ma quella di Marzia: era venuta ad aiutarmi e questo era di gran conforto in quel momento. «Che cosa hai fatto a quella stronza stamattina? Mi sembrava parecchio incazzata…» La voce ironica della mia amica immaginaria aumentava a dismisura la rabbia che avevo covato per tutto il giorno tanto da tramutarla in vera furia. «Non le ho fatto proprio niente, è questa la cosa tragica: ha detto che le ho rubato il ragazzo, ma non è vero, lo conosco appena e non mi


29 interessa minimamente. Ci ho solo scambiato quattro parole al bar una sera e basta…» «Allora la stronza la deve pagare, e cara anche… Hai qualche desiderio?» Quella domanda mi aveva fatto portare istintivamente la mano all’orecchio e al lato della faccia che era stato colpito: doleva ancora nonostante fossero passate ore e quel malessere unito all’umiliazione che avevo subito davanti a tutti mi fece fare la richiesta. «Voglio il suo orecchio, quello destro, lo stesso che mi ha colpito. E deve soffrire per l’umiliazione che ho ricevuto, deve essere anche lei umiliata come lo sono stata io, anzi di più… devono vedere tutti che la puttana è lei, non io…» Sentivo dentro una febbre mentre proferivo quella tremenda richiesta, un brivido di terrore e di estasi per quello che Marzia avrebbe fatto per me e non ne ero pentita, anzi ne ero compiaciuta e felice. «Vedrò di accontentarti amica mia, farò tutto il possibile per la tua vendetta…» Grazie al cielo non ci furono altri episodi violenti nei miei confronti, ma la notizia si era diffusa molto velocemente e ora, agli occhi delle altre ragazze, non ero più la timida Giulia ma “quella troia” che rubava i ragazzi altrui. La settimana dopo ci eravamo ritrovati tutti al “Ned”, una discoteca alla moda sul lungolago di Montreux per passare un sabato sera all’insegna della musica e del divertimento. Era un locale famoso dove si esibivano gruppi dal vivo, conosciuti o esordienti, provenienti da tutto il mondo e dove si poteva ascoltare qualsiasi tipo di ritmo, dal reggae al metal, dalla tecno allo ska. Avevo proprio bisogno di scaricare tutte le tensioni della settimana, i rancori e la rabbia accumulata verso colei che mi aveva umiliata davanti a tutta la scuola, ma non avevo previsto d’incontrarla proprio lì. «Che ci fai qui cagna, sei a caccia di un altro maschietto impegnato?» mi aveva apostrofata non appena ci eravamo incrociate. Teneva il braccio del suo ragazzo come se stesse sull’orlo di un dirupo, un segnale di possesso che voleva essere diretto a me, ma che lasciava il tempo che trovava.


30 «Tienilo stretto il pupo che se no ti scappa di nuovo…» le avevo risposto con la stessa pungente ironia, meravigliandomi di me stessa per la prontezza con cui avevo saputo controbattere alla sua perfidia. «Certo che lo tengo stretto se ci sei tu in giro…» aveva risposto lei con altrettanta rapidità. Non la vidi più per tutto il resto della sera e questo contribuì enormemente alla riuscita della serata. «Resta nel locale fino all’ultimo e stai in compagnia, mi raccomando, anche quanto torni a casa…» Marzia era sbucata all’improvviso, alle mie spalle, proprio mentre entravo nella toilette. Per fortuna non c’era nessun’altra nella stanza in quel momento altrimenti il grido di paura che avevo lanciato all’udire quella voce inattesa avrebbe attirato l’attenzione dei presenti su di me. «Accidenti, per poco non mi fai venire un infarto… Che cosa sta succedendo?» «Niente Giulia; fa come ti dico e domani avrai una gradita sorpresa, te lo prometto…» La mia amica immaginaria era proprio davanti a me, elegante e sexy in un vestitino color pesca corto e attillato, raffinato e provocante allo stesso tempo. Mi assomigliava molto, tanto che ci avrebbero potuto scambiare per sorelle, ma lei aveva decisamente le gambe più lunghe, un corpo più armonioso e un’aria talmente sicura da sentirsi a suo agio in ogni situazione: io invece… «Va bene, ma tu cosa farai?» «Beh, se te lo dicessi rovinerei tutta la sorpresa non credi? Sii paziente e vedrai che non te ne pentirai…» Di nuovo quel sorriso sinistro, malevolo, era apparso sulle sue labbra, lo stesso che avevo visto poco prima che i miei assalitori fossero uccisi e ciò mi provocò ondate di puro piacere, un brivido lungo e intenso per tutta la schiena. Non mi importava se gioire di quello che avevo appena intuito era immorale e sbagliato: lo desideravo a tal punto che ne pregustavo ogni attimo, ogni singola azione, ogni particolare raccapricciante. «Grazie Marzia, non dimenticarti cosa ti ho chiesto…» «Io non dimentico nulla: avrai la tua vendetta come mi hai chiesto, come se fossi tu in persona a eseguirla, non devi dubitarne.» Da quel momento in poi la serata si era trascinata avanti senza che io me ne accorgessi: bevevo e ballavo cercando di essere al centro


31 dell’attenzione e l’alcool in quei casi era davvero di grande aiuto. Se fossi stata sobria probabilmente mi sarei vergognata del mio comportamento, ma tutti mi trovavano finalmente simpatica e di compagnia per cui ero sempre circondata da amici o conoscenti occasionali, tutti pronti a condividere e assecondare le mie stravaganze di quella sera. Rientrammo all’alba a Martigny, stanchi ma soddisfatti di quel sabato sera così divertente e diverso dal solito. «Buonanotte Giulia, sei stata strepitosa…» mi avevano gridato dal finestrino dopo avermi riaccompagnata a casa. «Bisogna rifarlo al più presto…» aveva detto una voce mentre la macchina spariva nella luce incerta dell’alba. “Certo che bisogna rifarlo…” avevo pensato mentre cercavo di aprire la porta senza far rumore e raggiungere finalmente camera mia per il meritato riposo, un desiderio che doveva attendere ancora perché c’era qualcuno che mi stava aspettando nella penombra della mia stanza. «Ti sei divertita?» La voce di Marzia era simile a un sibilo, ma questa volta ero preparata perché speravo nella sua presenza, ma di più in quello che stava per dirmi. «Sì, è stato davvero bello, da rifare assolutamente… E tu? È stata una serata interessante anche per te?» «Direi proprio di sì, soddisfacente oserei dire: vuoi i particolari?» «Prima vorrei quello che mi hai portato…» «Immaginavo…» aveva sussurrato allungando la mano verso di me; le sue dita lunghe e affusolate stringevano qualcosa che mandava uno scintillio purpureo quando veniva illuminato dalla scarsa luce che filtrava dalle persiane abbassate, una sorta di piccolo gioiellino, diverso da quello che mi aspettavo. «Non devi essere delusa; allunga la mano e accetta quello che ti ho portato», mi aveva detto gioendo della mia iniziale frustrazione. Quello che ricevetti sul palmo aperto fu il coronamento della serata, la gioia finale, quella più grande e intensa: un orecchio delicato, minuto, con un piccolo lobo da cui brillava un orecchino di rubini, lo stesso che avevo notato portare dalla ragazza di Lucas quella sera in discoteca. «Ti piace?» Marzia mi guardava sorridendo, soddisfatta della mia gioia nel vedere l’oggetto che mi aveva portato.


32 «È bellissimo, proprio quello che volevo…» le avevo risposto mentre non riuscivo a staccare gli occhi dalla prova tangibile della mia vendetta. «Voglio tutti i particolari, ti prego.» «Sei sicura di volerli davvero sapere?» «Sì, certo! Voglio sapere come hai umiliato quella stronza e come l’hai fatta soffrire; voglio sapere tutto!» )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

Capitolo 1...................................................................................... 5 Capitolo 2.................................................................................... 13 Capitolo 3.................................................................................... 20 Capitolo 4.................................................................................... 25 Capitolo 5.................................................................................... 33 Capitolo 6.................................................................................... 39 Capitolo 7.................................................................................... 47 Capitolo 8.................................................................................... 53 Capitolo 9.................................................................................... 60 Capitolo 10.................................................................................. 69 Capitolo 11.................................................................................. 78 Capitolo 12.................................................................................. 86 Capitolo 13.................................................................................. 93 Capitolo 14................................................................................ 100 Capitolo 15................................................................................ 107 Capitolo 16................................................................................ 115 Capitolo 17................................................................................ 122


Capitolo 18................................................................................ 130 Capitolo 19................................................................................ 139 Capitolo 20................................................................................ 145 Epilogo...................................................................................... 149


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Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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