Chez Alì

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MARTINA FRAGALE

CHEZ ALÌ

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CHEZ ALÌ Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-481-9 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Gennaio 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova


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I

«Piantiamola con il buonismo… bisogna essere ciechi, ma dai!» Parla a scatti, agitando istericamente una sigaretta spenta. La mia fra l’altro, ma gliel’ho già fatto notare tre volte negli ultimi cinque minuti. «Guarda, sarò giusto. Se fossimo negli anni Quaranta, potrebbe anche passare per un sex symbol. Il problema è che non siamo affatto negli anni Quaranta.» Quasi sbava. «Oggi una donna grassa fa schifo e sa di fare schifo… e quindi che fa? Avvelena l’esistenza agli altri! Così, giusto per sentirsi meno sfigata.» Accende un’altra sigaretta. La quarta. «Antonio… il punto però non è la tua capa, vero?» Un sospiro e uno sbuffo di fumo. «Come hai fatto a capirlo?» Finalmente posso sorridere senza sembrare fuori luogo. «Be’ tesoro, fa’ un po’ tu… se mi chiami alle quattro del mattino e mi inviti a prendere un cappuccino all’alba - di domenica! - i casi sono due. O vuoi morire, o è successo qualcosa e me lo vuoi raccontare.» Finalmente crolla e quando fa così mi si stringe il cuore e non posso fare a meno di adorarlo, o meglio, di adorare ciò che ho visto subito in lui, ciò che nessuno vede mai: il clown reduce da una notte di circo, il funambolo triste dal trucco sfatto e dalle fragili ossa di vetro. «È andata male. Ma proprio male…» «Fidanzato.» «E non solo.» «Sieropositivo!» Antonio scoppia sgangheratamente a ridere. «Cristo, Magda…» «E io che ne so, scusa?» «Ma no… fidanzato con una donna.» Be’, questo è il classico coup de scène che proprio non mi aspettavo. Il soggetto - di sfuggita - lo avevo visto anch’io ed era quello che si può


4 tranquillamente definire una checca persa. Persino troppo persa per uno come Antonio, che davanti al classico “metro” berlinese di birra una gara di rutti non se la nega. «Ma scusa, chi è la donna che si fidanza con uno così?» «Una dutch probabilmente… comunque la cosa non mi riguarda. Mi ha dato picche, questo è il punto.» In realtà il punto è un altro. Uno che ti rimorchia esplicitamente, ti chiede di uscire e ti porta in un locale con tanto di poltroncine leopardate e luci psichedeliche, con te ci vuole stare, eccome… e se all’improvviso batte in ritirata è che magari gli è venuta la strizza per le conseguenze. Se poi ha la fidanzata, la strizza ci sta. A trent’anni suonati, Antonio ha la testa di una sedicenne in calore che prende fischi per fiaschi. È il tipo che davanti a ogni avventura - anche la più trucida - s’infiamma d’amore puro e immacolatissimo. Sì, la strizza ci sta. Non deve essere edificante veder piombare in casa della tua fidanzata - o peggio, dei suoi genitori - un esemplare spiazzante, dal viso asimmetrico e con un’improbabile criniera rosso tiziano, che urla come un ossesso che tu sei l’amore della sua vita. Come è ovvio, evito accuratamente di dargli la mia versione dei fatti e mi limito a sfregarmi le mani intirizzite in religioso silenzio. Almeno, ci provo… «Insomma, io sono lì su quel cazzo di divanetto zebrato…» «Ma scusa, non era leopardato?» «Cristo santo, Magda…» «Okay, scusa.» «Sono lì che mi susino tutte le idiozie che mi propina (e sono parecchie) e intanto mi preparo al grande momento. Stupido è stupido, capiamoci… anche un tantino triviale, ma assomiglia a Peter O’Toole nel Ladro dell’arcobaleno.» «Tutto freschezza, insomma.» «Magda, ti prego!» «Okay, okay… vai avanti.» «Arriva il classico istante di silenzio. Io avvicino la mia mano alla sua…» «E…» «E quello allontana la mano, prende il cellulare (con gli strass, Magda, con gli strass!) e mi fa: “dammi un secondo, se no Chiara mi ammazza”.»


5 «No…» «Sì, te lo giuro!» «E con gli strass come la mette? Secondo te li toglie quando è con lei?» Antonio mi guarda sinceramente ammirato. «Ma lo sai che la tua devozione ai particolari è quasi una religione? Se in questo momento stramazzassi a terra davanti ai tuoi occhi, saresti capace di metterti ad analizzare la traiettoria della mia caduta!» Scoppiamo entrambi in una fragorosa risata liberatoria. Mi alzo dal marciapiede rattrappita dal freddo. «Senti, bella Otero… mi sembra che sia arrivato il momento di un cappuccino decente.» «Alì?» «Ovvio.» Ci infiliamo nell’intricato groviglio di strade che defluiscono da Corso di Porta Ticinese e in breve ci imbuchiamo mezzi assiderati sotto un’insegna violetta: “Chez Alì”. Esotico e convenzionale; un bar qualunque, ma non per noi. Dietro al vetro troneggia un enorme narghilè che ogni tanto - dopo la chiusura - Alì ci invita a fumare con lui nel retro; oggi però, tutto ciò che vogliamo di fumante è un cappuccino. Assaporiamo quasi con gratitudine la vampata di calore che ci accoglie all’ingresso. Una vecchia stufa di ghisa, rimediata alla bell’e meglio in chissà quale robivecchi, la polverosa boiserie degli anni Cinquanta… e Alì, naturalmente. Alì, che con tranquillità imperturbabile ci apostrofa con il consueto: «Voi due non dormite mai!» Antonio si appoggia al bancone con aria di sufficienza. «Stiamo andando a messa a pregare per la conversione degli infedeli come te.» Alì coglie la palla al balzo. «Bravo, bravo! Anch’io prego sempre per te… in moschea. Due cappuccini?» «Sì, per carità!» Aspettiamo i cappuccini in silenzio osservando Alì, e come sempre mi sorprendo a cogliere in questo sparuto angolo di Milano, in un piccolo caffè irrimediabilmente anonimo e ordinario, l’impronta inattesa di un’eleganza demodée. Non si tratta certo della boiserie, che nell’uniformità asettica della luce a neon sembra quasi bizzarra, e


6 nemmeno della disarmante casualità dei quadri appesi alle pareti. Si tratta piuttosto di Alì, o meglio, della lentezza di Alì e dei suoi gesti. In una città dove tutto è freneticamente direzionale, finalizzato all’azione, dove anche le vie scorrono in totale e irreversibile anonimato come tapis roulants, non c’è nulla di più trascurato, di più dimenticato dei gesti e della loro bellezza così meravigliosamente superflua. Ricordo una sera in cui - per puro caso - ero capitata a cena a casa di un’anziana signora in odore di nobiltà. Non avevo mai visto un nobile in vita mia. Tutto sembrava perfettamente normale. Niente stemmi tatuati sui piatti, niente ritratti degli avi appesi alle pareti; io, che mi aspettavo nientepopodimeno che di entrare in un quadro di Boucher o di Watteau, c’ero quasi rimasta male. Poi la vecchia signora mi aveva passato una salsa che voleva farmi assaggiare. E aveva fatto un gesto, normalissimo ma al tempo stesso totalmente diverso da tutti i gesti che mi ero vista scorrere sotto gli occhi fino ad allora. Era un movimento rotatorio, lento, leggerissimo. Così bello che non ricordo nemmeno più il sapore di quella salsa. Certamente l’anziana nobildonna (era poi davvero nobile? Chissà!) doveva aver ereditato quel gesto dai suoi antenati. Profumava di passato, di quieti pomeriggi di pigrizia. Di vanità per il superfluo. I gesti sono lo spartiacque fra noi e il passato. Sono qualcosa di irrimediabilmente perduto, l’eco lontana di un ricordo che a volte riaffiora sotto la melma del nostro presente assordante. Mentre riscaldo le mani davanti alla stufa, osservo Alì e assaporo con voluttà, quasi con gratitudine, l’armoniosa lentezza dei suoi movimenti. Antonio segue il mio sguardo e capisce al volo. «Ma guardalo… sembra un rituale, e invece sta solo preparando un cappuccino. Sai Magda, in fondo credo che a noi manchi proprio questo.» «Il cappuccino?» non posso trattenermi di puntualizzare. Ormai fra noi è un gioco, il nostro gioco; questa volta, però, Antonio mi ignora del tutto. «Ma lo sai quanta pace uno deve avere dentro per preparare un cappuccino in questo modo? Può crollare il mondo, ma sta tranquilla che uno così non lo smuovi nemmeno.» Del tutto ignaro, Alì si avvicina al nostro tavolo e ci gratifica di due cappuccini fumanti. Sul mio c’è un cuoricino di cacao.


7 Mi basta sorbirne un sorso per sentirmi riconciliata con il mondo. «Magari è un discorso di fede. Hai visto anche i suoi figli, o i suoi amici… spesso e volentieri vivono delle situazioni materiali da incubo, ma hanno sempre una tranquillità incrollabile, come se avessero il passaporto per il paradiso assicurato. Noi non siamo così.» «Mah, è inutile che ci mettiamo a disquisire sulla morte di Dio. Queste son pippe. A me importano i fatti, e il fatto è che mentre io sono una frocia senza arte né parte, che ha appena ricevuto un due di picche e deve sopportare ogni giorno una cicciona truculenta sullo sfondo di un lavoro perfettamente precario, Alì è in pace con Dio e col mondo e prepara il cappuccino come se stesse celebrando un rito.» Già. Il punto è un altro, ma ci sfugge ogni volta; ogni volta che veniamo a riscaldare le nostre piccole vite atrofizzate alla fiamma di quei gesti e ci balena in un guizzo inafferrabile una verità, un piccolo barlume che fa capolino nelle nostre coscienze per scomparire subito. Inizio a raccogliere con il polpastrello i granelli di zucchero caduti sul tavolo. «A proposito di vite precarie… anch’io devo parlarti. Ti ho detto che mi hai svegliata, ma la verità è che non dormivo affatto.» «Senti baby, se stai per farmi la cronaca di una notte rovente, alzo le chiappe e me ne vado!» «Idiota… bella notte rovente, con Marco sull’Appennino che non si fa sentire da due giorni.» «E che ci fa il bocconiano sull’Appennino?» «Una specie di convention, ma non è questo il punto.» Avrei preferito evitare l’argomento. Antonio parte in quarta. «La convention del fine settimana? Ci mancava solo questa! E, di grazia, perché l’idiota non si fa sentire da due giorni? Cos’è, l’azienda vieta le comunicazioni con il mondo esterno?» «Questi sono fatti miei, semmai. Comunque Marco non c’entra nulla con la mia insonnia. La questione, ed è da un bel po’ che ci rimugino sopra, è che alla fine ho preso una decisione.» Antonio mi guarda con uno strano scintillio negli occhi. «Brava.» Cado letteralmente dal pero. «Brava cosa?» «Brava. Hai deciso. Lo pianti.»


8 Lo trucido spietatamente con un lungo sguardo e scandisco nel modo più tagliente possibile: «Come ti dicevo, Marco non c’entra nulla. La decisione riguarda me stessa. Ho deciso di andar via di casa.» Improvvisamente mi sembra di essere sul set di Guerre stellari, nella scena in cui Darth Vader pietrifica Luke Skywalker con il fatidico “i am your father”. Antonio sembra entrato nella fase stand by. Mi sgrana addosso due occhi dilatati all’inverosimile e non muove un muscolo. «Magda, tesoro… che diavolo dici?» Tutto sommato lo stupore me lo aspettavo; perfino da Antonio, che certo non è la persona più inquadrata del pianeta. «Dico che, all’alba dei trent’anni, mi è venuta la voglia malsana di prendere la mia vita in mano e uscire di casa. Soffoco. È come se avessi ancora addosso il grembiulino delle elementari.» Antonio è sulle spine. Sta cercando disperatamente di capirmi. «Allora. Ragioniamo. Ti sei laureata un anno fa, a pieni voti (come il sottoscritto) in qualcosa di assolutamente inutile alle magnifiche sorti e progressive (come il sottoscritto). Giusto?» Annuisco. «Non hai un lavoro con cui tu ti possa mantenere. Vivi con i tuoi e nessuno ti crea problemi se un amico in crisi esistenziale cronica ti butta giù dal letto la domenica mattina all’alba. Insomma, diciamo che sei relativamente libera. Giusto?» «Giusto.» «Ok.» Si accarezza il mento con aria assorta, ma visto che non ha un filo di barba, il gesto gli riesce bizzarro. «Ok. E quindi manca il movente.» A volte mi sento un’extraterrestre. Non è la prima volta che mi capita di avere delle necessità incomprensibili ai più e di non sapere con chi parlarne. Antonio è “diverso” e ama sottolinearlo, ma spesso e volentieri mi rendo conto che la sua diversità è comunque più canonica della mia. «Lo so. Sembra tutto molto campato per aria, e forse lo è, ma questa notte ho davvero deciso. È vero, la libertà non mi manca, ma mi manca l’indipendenza. Ormai è diventata qualcosa che vivo solo d’estate… ma è naturale che sia così? È naturale che l’indipendenza sia solo una


9 parentesi vacanziera? Non credi che in fondo ci sia qualcosa di fondamentalmente sbagliato nella nostra quotidianità?» «Complimenti baby, come discorso delle sei del mattino non c’è male. Strampalato, ma con una sua coerenza. Fra l’altro mi ricorda qualcosa.» Gli lancio uno sguardo interrogativo. «Dai, non dirmi che te ne sei dimenticata. Millenovecentonovantacinque. Avevi appena finito di leggere Narciso e Boccadoro…» Vorrei sprofondare. Davanti a me Antonio si sganascia squassando il tavolino di pugni. «Ti hanno fermata alla frontiera svizzera con ventidue chili di sale!» Dovevo immaginarmelo, queste son cose che non si dimenticano. «Dopo un interrogatorio serrato, hai confessato che eri scappata di casa perché volevi perderti per i sentieri del mondo e che pensavi di mantenerti contrabbandando sale venduto a peso d’oro perché la Svizzera non ha sbocco sul mare!» «Va bene. Diciamo che ero molto sensibile all’effetto Hermann Hesse… ora però le cose sono un po’ diverse. Non ti sto dicendo che ho intenzione di perdermi per i sentieri del mondo. È esattamente il contrario. Ho bisogno di concretezza, di vivere come se non avessi trent’anni solo all’anagrafe.» Antonio rimane in silenzio per qualche secondo. «Però, scusa se te lo dico, almeno ai tempi della fuga in Svizzera avevi una prospettiva economica… il contrabbando di sale. Ora - come dire? - mi sembra che i tuoi orizzonti di guadagno non siano così rosei. Non parlavi di concretezza baby?» La porta del caffè si apre di schianto. «Buongiorno sciur Batista. ‘Me la va?» mastica Alì in un milanese piuttosto discutibile. Come sempre il sciur Batista mi adocchia al primo colpo. «Ciao bela tusa!» «Sempre queste preferenze per Magda… e noi non esistiamo?» «Ti te salϋdi minga, perché te se on culatϋn… varda ammò lì, cunt una tusa inscì bela!» Scoppiamo a ridere. Alì, impassibile, inizia a preparare senza domandare nulla il solito cappuccino senza schiuma.


10 Quella di Alì e del sciur Batista è una di quelle amicizie strambe che possono nascere solo nel multicolore, intricato arlecchino di questi anni strani, sullo sfondo di una Milano ancora più strana, una città fatta di universi paralleli e non comunicanti, porto di mare e dolceamara alcova di ricordi. Ai confini di questo popoloso patchwork linguistico, un giorno un ex partigiano sull’ottantina che parlava solo milanese era entrato nel caffè di un egiziano a cui quasi nessuno rivolgeva la parola, e che quindi parlava solo in arabo. Dio solo sa cosa si erano detti, ma una cosa è certa: si erano capiti. Un anno dopo Alì parlava in milanese, con un accento terribile ma con invidiabile scioltezza. Il sciur Batista, che era vedovo e non aveva avuto figli dalla sua adorata Nella, aveva paradossalmente trovato nel cuore della Milano da bere un surrogato di casa, qualcuno a cui snocciolare con toni e lunghezze epiche fatti e misfatti dell’epopea partigiana. Alì lo ascoltava in silenzio, con un’attenzione magnetica che non lasciava spazio a domande; io e Antonio riscoprivamo la meraviglia che avevamo provato leggendo la prima volta i poemi di Omero, e - davvero - ci sembrava che le gesta del sciur Batista e dei suoi amici avessero contorni epici, che gli attori fossero figure statuarie, lontane dagli inconsistenti ectoplasmi che quotidianamente ci ruotavano intorno. Come giustamente aveva detto Antonio una volta, in fondo l’epica omerica era molto più vicina all’epopea partigiana di noi, nonostante ci fosse solo uno spartiacque di mezzo secolo fra la nostra generazione e l’occupazione tedesca. Improvvisamente Antonio si dirige a razzo verso la strana coppia proprio nel momento in cui Alì sospira un “mi ghe capisi nagott”. «Abbiamo un problema.» Alì interrompe per un nano secondo il rito del cappuccino. «Voi due?» «Noi quattro. Ma in realtà Magda non sa di avere un problema.» Il sciur Batista scoppia a ridere. «Bel rebelott!» «Eh no, però! In italiano per favore…» I due si scambiano un’alzata di sopracciglia, mentre il sciur Batista sibila con tono di scusa: «Lè mès terun, por fiö.» «Allora. La situazione è questa: Magda vuole andare via di casa.» Alì si volta verso di me con un sorriso radioso.


11 «Auguri… e tanti complimenti per il tuo matrimonio.» «Veramente non sto per sposarmi.» Cala una cortina di gelo. Antonio taglia corto con una delle sue tirate al vetriolo. «Alì, se vedessi il soggetto che dovrebbe sposare, ti sparirebbe il rammarico. Meglio essere una femmina perduta che la mogliesoprammobile di uno così. Il fidanzato di Magda è una di quelle persone che entrano in azienda come se entrassero nell’esercito, mettendo i neuroni sotto formalina.» «Le cose non stanno proprio così…» «Taci, donna! Comunque, grazie a Dio, non è per sposarsi con Mister Nulla che Magda se ne va di casa. La ragazza dice che ormai è sulla trentina (scusa cara, ma il dettaglio è importante) e a questa età ha il dovere di essere indipendente.» «Brava!» L’esclamazione del sciur Batista ci spiazza tutti. Antonio cade dalle nuvole. «Ma come brava?» «La gha trent’an, scüsa. Nani, alla vostra età ai miei tempi eravamo già tutti fuori di casa da un pezzo. Le donne, lè vera, di solito se ne andavano per sposarsi… ma non erano mica tutte così. Ce n’erano di donne, nella brigata in cui combattevo. Facevano le staffette e tel disi mi, a volte avevano più fegato di noi. E poi, caro el me fiö, ai tempi chi non aveva il pane andava a cercarselo, om o dona.» «Appunto! Il fatto, però, è che Magda non ha uno straccio di lavoro al momento.» «Non è vero.» Questa volta sono io a spiazzare l’uditorio. Antonio mi fissa con aria inebetita. «Come sarebbe a dire?» «Sarebbe a dire che non è vero. Ho trovato lavoro, o così pare. Almeno… da qui a gennaio.» Antonio mi squadra fra l’incuriosito e il sospettoso. «Garzanti? Einaudi?» «Black Sun.» «E che è? Una casa editrice satanica?» «No, un centro solarium.»


12 Alì e il sciur Batista ci osservano a braccia conserte, come se fossero al cinema. Antonio porta involontariamente una mano al cuore e sfodera la sua espressione ferita da “quoque tu Brute”. «Magda, tesoro, non puoi lavorare in un solarium. Va bene passare al lato oscuro della forza. La casa editrice satanica l’accetterei anche, ma l’impero delle teste vuote no! Ti ricordi “La storia infinita”? Atreiu e il Fortunadrago? Ecco, è come se in questo momento tu li tradissi. È come se passassi dalla parte del Nulla.» Sto per scoppiare a ridere, ma per fortuna il sciur Batista mi anticipa. «Scüsa nani, ma la vita lè minga una fantasia. Il lavoro è lavoro. Ti dà una casa, un piatto, magari una famiglia; ai miei tempi, c’erano giovani con una testa così… gente che aveva fatto gli studi, mica come me… magari avvocati, maestri. Li dovevi vedere come andavano a spalare la neve d’inverno! Te li trovavi anche per strada a vendere i giornali. Con la crisi e la guerra, chi non lo aveva, il lavoro se lo inventava.» «Io ero attore.» D’altra parte si sa, i grandi colpi di scena sono una prerogativa di chi se ne sta abitualmente zitto in un angolo. Alì, per la prima volta, ci lascia letteralmente di sasso; solo il sciur Batista ridacchia compiaciuto un: «El saveven minga, i do tusan!» «Teatro classico? Shakespeare, Molière?» mormora Antonio che, completamente dimentico del mio “tradimento”, guarda Alì come se fosse una divinità. «Qualcosa di Shakespeare, soprattutto all’inizio.» Improvvisamente fissa lo sguardo nel vuoto e inizia a sciorinare, in un abracadabra sconosciuto, qualcosa di incomprensibilmente bello e triste. Nessuno osa fiatare; solo il sciur Battista ci osserva divertito e ridacchia con un’aria da sfinge soddisfatta. Alì si gode per qualche secondo il nostro stupore prima di levarci d’impaccio. «Amleto, prima scena terzo atto.» Antonio quasi evapora per l’emozione. «No… l’essere o non essere?» «In arabo. Però Shakespeare l’ho recitato poco. Io ero soprattutto, come si dice… attore che fa ridere?» «Attore comico» rispondiamo all’unisono, ancora più stupiti. È difficile immaginarsi Alì, con la sua consueta maschera di impassibilità, che fa scintille davanti a un pubblico sghignazzante.


13 «E che ci fai qui a fare caffè e cappuccini, per Dio?» Antonio è agguerrito. Probabilmente sta cercando di riprendere il filo del discorso o forse, per analogia, gli è balenata l’immagine della sua migliore amica, laureata in teoria della semiotica, che si aggira in irredimibile anonimato fra semianalfabeti color mattone. Alì sgrana un sorriso che vale più di orazione in regola, e nei suoi occhi balenano in un lampo trent’anni di vita. «Ho famiglia. Una moglie e cinque figli da sfamare.» Antonio abbassa lo sguardo e anch’io rimango sovrappensiero per qualche secondo. So che stiamo pensando la stessa cosa e che misuriamo in silenzio la distanza che ci separa dalla strana coppia. È quasi uno spartiacque linguistico e anch’io, mentre rivendico la legittimità delle mie ansie di indipendenza, so di pensare a qualcosa di totalmente diverso. In fondo appartengo a una jeunesse dorée livellata al di là delle differenze sociali - da un’innata idiosincrasia verso tutto ciò che sa di greve e vincolante, figli e famiglia in testa. Forse non è tanto la coscienza del futuro ciò che ci manca; l’anello morto della catena è in realtà la nostra percezione del presente. Un’ancora rimasta incagliata nella trappola per topi di un “for ever young” che si configura come l’unico - e forse l’ultimo - degli imperativi categorici. Alì ci osserva con una sorta di indulgenza paterna; dobbiamo sembrargli davvero molto piccoli. Non so se si renda conto però di quanto la nostra malattia, questa strana sindrome di “eterna leggerezza” sia in realtà un’epidemia generazionale. Rimaniamo tutti e quattro in silenzio. Io e Antonio ci sentiamo improvvisamente soli e spolpati come ossi di seppia abbandonati sulla rada. Alì sistema piatti e tazzine. «Non avete troppo l’aria di chi va a pregare in chiesa per me. Meglio il letto, mi sa.» «Che vuoi farci? La fede è forte, ma la carne è debole!» Improvvisamente ci è caduto sulle palpebre il peso di una notte insonne. Usciamo dal bar in silenzio, ognuno chiuso nell’autismo del proprio rimuginare. Corso di Porta Ticinese è semideserto, inondato dal chiarore nebbioso di ottobre. Davanti alla cappa severa di Sant’Eustorgio, il fantasma sonnacchioso di una bicicletta. «Niente colpi di testa baby, ok? Non farmi preoccupare.» Lo dice sinceramente, sembra un po’ triste.


14 «Idem con patate. Niente piagnistei. Morto un Papa se ne fa un altro… e poi il tuo Peter O’Toole non ha nemmeno fatto in tempo a diventare papa!» «Lascia stare il mio angelo biondo. Vedi tu di non marcarmi male. Ci sono porte che una volta aperte non si richiudono più, e ne hai un esempio vivente sotto gli occhi, o meglio… sull’Appennino toscoemiliano.» «Ti riferisci al mio Marchino?» «Il tuo Marchino ce lo siamo bell’e giocato, baby.» Mi appendo al suo collo, fra l’esasperato e il divertito. «Va bene, va bene… ti prometto che preserverò i miei neuroni dal Nulla che avanza. Contento? Ti fidi?» «Devo fidarmi per forza, non ho scelta. Ciao baby, e mi raccomando, se - puta caso - un giorno ti servisse un Fortunadrago, fai un fischio. Io ci sono sempre.» So bene che ci rivedremo fra un paio di settimane. So anche che in queste due settimane ci sentiremo regolarmente tutti i giorni… eppure rimango a guardare con infinita tenerezza la sagoma dinoccolata che scompare, inghiottita dalla nebbia. È come quando si parte per un viaggio e si rimane incollati al finestrino del treno fino all’ultimo, lo sguardo rivolto a chi rimane sulla banchina. È un attimo. Poi accendo l’ennesima sigaretta e mi incammino in silenzio nella direzione opposta.


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II

La casa mi era piaciuta subito, sapeva di buono. Era tutta tintinnii di campane a vento e odore di biscotti alla cannella appena usciti dal forno. E poi non capita tutti i giorni di avere una medium come padrona di casa; last but not least, non capita tutti i giorni di trovare un bilocale in affitto a quattrocentocinquanta euro, a Milano. La cifra era misteriosa, come era stata misteriosa la telefonata. Al mio serrato e puntiglioso interrogatorio, la signora Celeste De Vico (voce calda da contralto) aveva risposto che la casa non era infestata né da topi, né da scarafaggi… riguardo agli spettri era stata evasiva. Le quattrocentocinquanta euro non erano una bufala. Alla signora De Vico non interessavano i soldi, ma qualcosa che mi avrebbe chiarito vis à vis il giorno dopo, davanti a una tazza fumante di tè verde. Il timore di essere finita in una tratta di bianche mi era passato subito, quando ad aprirmi la porta era venuta una signora di età indefinibile. Aveva due grandi occhi azzurri, assolati e chiari come spicchi di cielo. A dire la verità mi era venuto il dubbio che soffrisse di qualche strana forma di strabismo, perché mentre parlavamo teneva lo sguardo fisso in un punto imprecisato al di sopra della mia testa; tutto si era chiarito un’ora più tardi, alla terza tazza di tè. «Hai un’aura straordinariamente pulita… come quella dei bambini e degli animali.» Sfido chiunque a controbattere un’affermazione di questo tipo, e infatti mi ero limitata a tenere il bordo della tazza di tè saldamente incollato alle labbra. Imperterrita, la signora De Vico aveva aggiunto, con assoluta nonchalance: «Quattrocentocinquanta euro vanno bene o preferisci che facciamo quattrocento?» Le cose stavano così: Celeste (mi pregava di chiamarla per nome) sarebbe partita di lì a poco per il Messico, dove avrebbe vissuto per un anno in una comune guidata da un famoso sciamano. Ciò che le stava a


16 cuore, quindi, non era tanto ridurre all’osso lo stipendio dell’affittuario, quanto preservare la propria dimora da influssi negativi. Le case - si sa - sono come spugne. Assorbono inesorabilmente lo stato d’animo di chi le abita, per questo Celeste preferiva incassare la metà di un affitto normale, ma non rischiare che qualcuno le contaminasse l’ambiente costringendola a interminabili cerimonie di purificazione. Di me sembrava soddisfatta, così almeno mi aveva detto accompagnandomi alla porta. «Niente spettri, quindi…» le avevo chiesto con un po’ di apprensione. «Tranquilla, tranquilla…» Il sorriso era radioso e rassicurante, ma la serenità mi era venuta meno quando, chiudendo la porta, aveva aggiunto: «Nessuno di loro è cattivo.» «Insomma, se ho ben capito ti ha scelta per fare da baby sitter ai suoi spettri…» Antonio è una larva umana. Sono le cinque del mattino e una pioggerella fine, quasi impalpabile, batte con insistenza sul selciato di via Magolfa. Le strade sono silenziose, ma tutt’altro che deserte. Almeno altre due persone sembrano infatti avere il mio stesso problema; la zona è a traffico limitato per soli residenti e l’unica alternativa per chi deve fare un trasloco e non vuole sobbarcarsi la burocrazia dei permessi, è eludere la sorveglianza arrivando a orari antelucani. Il rumore assordante di un furgoncino senza marmitta rompe improvvisamente il silenzio. Sotto lo sguardo allarmato degli altri traslochisti clandestini, il Bolide Rosso - soprannominato anche Cometa de la Revolucion - arranca pietosamente fino a noi. Floriano smonta con un balzo. Ha una sigaretta spenta in bocca e il solito look da spaghetti western. Io e Antonio siamo convinti che sia una mossa per preservare l’anonimato, perché Floriano non è un uomo qualunque, ma un militante marxista delle gloriose - quanto sconosciute - “Brigate Internazionali Rosa Luxembourg”. È l’unico di noi a non aver nemmeno tentato di mettere a frutto la sua laurea in filosofia teoretica e ad aver cercato volontariamente lavoro in fabbrica per forgiare la coscienza delle masse operaie e condurle verso il sol dell’avvenir. Il mio letto made in Ikea frana rovinosamente sul selciato fra le bestemmie dei traslochisti anonimi.


17 «Cazzo, ma ti sembra normale tenere lo sportellone del retro chiuso con una catena da bicicletta? È già tanto che tu non abbia perso tutto per strada…» squittisce Antonio inviperito, mentre tenta di non far crollare a terra il resto. «Il popolo non ha soldi compagno, ma se vuoi puoi dare il tuo contributo alla lotta e al Bolide Rosso.» «Ma certo, dimenticavo il mecenatismo verso il proletariato in lotta! Scusa, ma la serratura che fine ha fatto?» «Un compagno senzatetto (leggi: un barbone) ha rotto la serratura per dormire dentro al Bolide e ripararsi dal freddo.» In realtà io la storia la conoscevo ed era più articolata. Il Bolide Rosso, che aveva appena ritirato le stampe del nuovo numero di “Vox populi Vox belli” (il mensile dell’associazione) aveva fatto la felicità di tre senzatetto maghrebini, che si erano riscaldati improvvisando un falò con metà dei giornali e avevano passato la notte rintanandosi nella metà restante. Per quanto riguarda la catena da bicicletta, be’, era tutto ciò che rimaneva della bicicletta di Floriano; comprata alla Fiera di Senigallia fra le bici rubate, e rubata per l’ennesima volta da qualcuno che l’aveva probabilmente rivenduta alla Fiera di Senigallia. Un esempio perfetto di ecosistema urbano. Accatastiamo bagagli e mobilia il più velocemente possibile per permettere a Floriano di portare il Bolide al sicuro, in zona franca, e intanto raccontiamo la storia della medium. «Spiriti e aure… che idiozia! La new age è il nuovo oppio dei popoli. Un oppio da discount. È la borghesia che la propina alle masse per evitare che si ribellino.» Antonio - un comodino in bilico su un ginocchio - sfodera il più amabile dei suoi sorrisi. «Eh, certo… elimina la new age e vedi che rivoluzione ti scoppia! Spartachista dei miei stivali, sveglia! L’Unione Sovietica non esiste più da vent’anni. Perestroika, Gorbachov… toc-toc, non ti dice nulla?» «Le tue sono obiezioni borghesi. Il nostro è un pensiero scientifico.» «Ma per favore! Una dottrina, per essere scientifica, deve essere falsificabile; voi, ogni volta che la storia vi dà torto, cambiate le carte in tavola e fabbricate una nuova interpretazione ad hoc. I fatti son fatti, caro il mio compañero. Firmato: Karl Popper.» «Karl Popper era un filosofo borghese.»


18 «E te pareva! Tutti borghesi, tutti cattivi. Meno male che ci siete voi a distribuire bibbie rivoluzionarie! A proposito, scusa; come si chiama il giornale? Vox populi…» «Vox belli!» conclude orgoglioso Floriano, senza cogliere l’ironia. Probabilmente il titolo è farina del suo sacco. «Ma certo. Vox Populi Vox Belli! Scusa tovarich, nessuno dei tuoi colleghi operai ti ha mai chiesto cosa vuol dire? Mi sembra un’idea eccellente mettere un titolo in latino a un giornale scritto per gli operai!» «Ma ci siamo noi a fare da tramite. E poi è un titolo profetico. Quando non ci sarà più la borghesia a tenerlo nelle tenebre dell’ignoranza, il popolo parlerà anche il latino.» Il fischio di una sirena squarcia improvvisamente il silenzio. «Cristo, la pula!» Floriano salta sul Bolide e fa un segno ad Antonio. «Salta su, recchia! Così mi aiuti a posteggiare…» «E Magda?» «Io resto qui di guardia. Dai, salta su che arrivano!» In realtà è solo un’ambulanza che ha sbagliato strada. Gli altri traslochisti si sono dileguati. Siamo rimasti solo io, gli scatoloni e il brusio sottile della pioggia. Via Magolfa è un lungo nastro di silenzio che scorre nella luce grigia dell’alba. Lo percorro lentamente, fino a incontrare il Naviglio e mi ritrovo - ancora una volta - a godere di questo semplice, inatteso incantesimo quotidiano che sempre si rinnova; svoltare l’angolo e non essere più a Milano, e questo proprio nel cuore di Milano. Mi era capitato anche a Firenze quando, seguendo una svolta alle spalle dei Giardini di Boboli, mi ero trovata all’inizio di una stradina di campagna. Forse non c’è niente di anomalo. In fondo qualsiasi londinese doc può concedersi un’evasione bucolica a Richmond o a St. James Park senza uscire da Londra, ma per Milano è tutto un altro discorso. Qui, almeno fino a Baggio, non ci sono grandi parchi. I giardini cittadini sono delle aiuole recintate a uso e consumo di cani e dog sitter, e la collinetta di San Siro è un meraviglioso sfottò eretto per coprire le macerie di guerra. Eppure anche Milano ha la sua evasione nascosta, l’inaspettato squarcio nella tela… e questo proprio dove nessuno se lo aspetta: i Navigli, questo surrogato cittadino di un lungomare che da venerdì a domenica brulica di chiassosi luccichii


19 mondani. I Navigli sono un caleidoscopio di momenti diversi. Di notte sono il trionfo della Milano da bere, l’inesorabile buco nero che fagocita i dané scippati alla parsimonia dell’italiano old style da figli e nipoti scialacquatori… ma basta percorrerli all’alba, o la sera presto, per godere dell’inspiegabile magia che li trasforma in un onirico “altrove”, l’unico luogo di Milano in cui abbia senso passeggiare senza dover per forza andare da qualche parte. L’unico angolo in cui è ancora possibile un rendez-vous con la lentezza. Improvvisamente una mano mi abbranca alle spalle. «Cos’è, il fascino discreto del proletariato?» Guardo Antonio con un punto interrogativo negli occhi. «No, pensavo avessi lasciato armi e bagagli in beneficienza al popolo. Mancava solo il cartello “Prendete e Moltiplicatevi”.» «E dai, non c’era nessuno…» «Appunto. Sali un attimo, che Karl Marx sta tentando di montarti il letto.» In realtà Floriano sta solo distribuendo bulloni per casa mentre mastica bestemmie sulle istruzioni Ikea. «Un cazzo, non si capisce un cazzo!» Antonio gli lancia un’occhiata noncurante mentre si lima le unghie. «Secondo me è una mossa della borghesia per confondere il popolo.» «Recchia, dalle la cosa…» «Cosa? Ah, giusto! Baby, c’è già posta per te.» «Ma non è possibile, sulla casella non c’è ancora il mio nome!» «Macché casella postale! Dimentichi che siamo in un covo di spiriti. Era infilato sotto la porta» mi sventola sotto il naso un foglio piegato «chérie, un messaggio dall’al di là.» Apro il foglio con una certa inquietudine, poi tiro una gomitata ad Antonio. «Un messaggio dall’al di là, vero? L’inchiostro è quello di una bic… non mi risulta che gli spettri scrivano con la bic.» «Questa è un’obiezione classista baby! Ora se un povero spettro non scrive con la stilografica non è più uno spettro… che tempi! Comunque, che dice?»


20 NON RIESCO A TROVARTI È LA SECONDA VOLTA CHE PASSO È SUCCESSO QUELLO CHE AVEVANO DETTO LE CARTE ORA NON SO COSA FARE CHIAMAMI È URGENTE. C. Sintetico e laconico, non c’è che dire. «Che te ne pare baby?» «La punteggiatura fa spavento.» «Magda.» «Dimmi.» «Io mi riferivo al senso della frase. Il sugo… chiamalo come vuoi.» «Il senso… cosa vuoi che ti dica? Sarà l’ennesima casalinga frustrata che sta pensando se tagliare o no la gola al marito cornaiolo.» «Sai baby, a volte credo che tu abbia letto troppa Agatha Christie. Hai il giallo nel sangue. Potrebbe anche essere qualcosa di meno cruento, ti pare? Che ne so, magari è lei che cornifica il marito.» «O magari non c’è nessun marito. Potrebbe essere una sessantenne sfiorita che aspetta ancora il principe azzurro.» Floriano - che è appena riuscito a montare letto e libreria - ci punta contro un cacciavite. «O magari è una questione di denaro. Lo volete capire che ciò che muove il mondo è il capitale?» Per una volta sono d’accordo con lui. «Be’, sì… è un’ipotesi. Potrebbe anche essere una povera crista ridotta sul lastrico dalla sorte, perché no?» Floriano annuisce. «Ma certo recchia, lo capisci o no? Ciò che muove gli esseri umani non è il cuore, no… è questo!» Con un gesto plateale porta la mano alla tasca dei pantaloni e all’improvviso sbianca, continuando a tastare parossisticamente. «O cazzo!» «Che c’è?» «Puttana Eva!» «Ehi, compagno…» «Ma no! Mi hanno fottuto il portafoglio!» Raccoglie in fretta e furia cacciavite e martello e si precipita come un fulmine giù dalle scale. Ci guardiamo allibiti.


21 «Non è possibile, dovrebbe andare a Lourdes.» «Meglio di no, sarebbe capace di affogare nell’acqua benedetta. Sai baby, il problema di Floriano è che crede di fare la rivoluzione, ma in fondo fa solo beneficienza.» «Suo malgrado.» «Già. Forse un giorno dovremmo dirglielo.» Intanto Antonio estrae da un sacchetto una tovaglia verde, un thermos e dei dolci strani. «Per la bela tusa da parte della strana coppia.» «Alì e il sciur Batista?» «Per la colazione inaugurale della tua casa. I dolci li ha preparati Atinah e la tovaglia è un regalo del sciur Batista, l’aveva ricamata sua moglie. Il caffè è un mio contributo e il thermos me lo devi ridare.» Nel caos ancora anonimo che imperversa nella stanza, la tavola apparecchiata spicca come un assurdo, o come un’ombra di focolare domestico. Fa casa, emana calore come se fosse qualcosa di vivo e pulsante. Mi rendo conto che, in fondo, Alì e il sciur Batista rappresentano una specie di surrogato urbano ai nonni che non ho mai conosciuto. La casetta con il comignolo che fuma nel folto della selva oscura. In fondo, nel magma informe di questi anni strani è qualcosa che a tentoni cerchiamo tutti. La strana coppia è la nostra madeleine proustiana - come la chiama Antonio - solo che in questo caso i dolci di Atinah e la tovaglia ricamata non risvegliano nessun ricordo personale, fanno solo da spia a un latente senso di vuoto e lo colmano per un breve, prezioso istante in cui “il gelo del cuore si sfà”. «Scherzi a parte, la situazione mi spaventa un po’ baby.» «Non ti riferirai al biglietto, vero?» «Proprio a quello, tesoro. Insomma, non sappiamo nulla della tua padrona di casa, tranne il fatto che se n’è andata in Messico a tempo indeterminato a scuola di voodoo…» «Sciamanesimo.» «Ok. Sta di fatto che questa è sparita di punto in bianco. A quanto ne sappiamo potrebbe anche essere una truffatrice di anime infelici che ha tagliato la corda. Potresti trovarteli tutti fra capo e collo, che ne sai? La tipa del biglietto potrebbe pensare che tu sia nipote della medium e aspettarti sul pianerottolo per sgozzarti.» «Io avrò letto troppi gialli, ma tu hai visto troppi film di Tarantino.»


22 Antonio ingurgita famelico una baklava. «Ma non ti ha lasciato un recapito? Un amico da contattare, qualcosa…» Effettivamente Celeste mi aveva dato il numero di un amico, per qualsiasi evenienza. Frugo nel caos della mia borsa e allungo ad Antonio un biglietto da visita semidistrutto. «Ah, ma allora siamo a posto!» Lo guardo con aria interrogativa; per tutta risposta mi passa il biglietto da visita su cui leggo: “Mario La Torre. Cacciatore di spiriti, demoni e altre presenze indesiderate”. Rimango allibita, il foglietto fra le dita. Antonio si copre il volto con le mani. «Ci mancava solo l’acchiappafantasmi!» Scoppio a ridere. «C’è poco da scherzare baby, questo potrebbe essere un covo di pazzi omicidi. Certo che se insieme a te ci fosse qualcuno, puta caso il tuo fidanzato, le cose sarebbero diverse. Te lo chiedo giusto per dovere di cronaca; dov’è l’idiota e perché oggi non è qui?» Era logico che prima o poi la domanda sarebbe arrivata. «Marco è a Francoforte. L’ha saputo all’ultimo momento, è un viaggio di lavoro che proprio non si poteva spostare. Non ho nemmeno voluto insistere…» La verità è che gli ho sbattuto il telefono in faccia non appena me l’ha detto. Probabilmente la parte della fidanzata comprensiva non mi calza molto, perché Antonio mi osserva poco convinto, un’ombra di tristezza negli occhi. «Comunque, ed è l’ennesima volta che te lo dico, questi sono fatti miei. E suoi, al limite.» «Certo, certo…» Impilo furiosa piatti e bicchieri di carta. Antonio inciampa in uno scatolone (ma so che è un disperato tentativo di attrarre l’attenzione). Lo sbircio mentre si pulisce gli occhiali e strabuzza gli occhi davanti a uno specchio in stile liberty, mostruosamente kitsch. «Gusti sobri, la tua medium.» «Che ne sai? Magari è il regalo di uno spettro. Sai com’è, a caval donato…» Storce il naso con una smorfia.


23 «Non mi sorprenderebbe. Sento che da oggi inizierò a non stupirmi più di nulla. Il soprannaturale è entrato nelle nostre vite.» Raccoglie un sacchetto della spesa che sembra pieno di carta. «Vai di già?» «Devo, baby. Il sonno della ragione genera mostri, e la mia capa è uno di quei mostri. Devo essere in cassa per le sette spaccate, se no palla di lardo dà in escandescenze.» Improvvisamente mi viene in mente una cosa. Lo osservo a braccia conserte. «Questa però me la devi spiegare.» «Cosa?» «Perché lavorare alla cassa di un supermercato è moralmente più accettabile che lavorare in un centro solarium?» Abbassa lo sguardo impacciato, con un’aria da cospiratore che non mi sfugge. «Be’, sai… il supermercato è uno spazio neutro, al di là della morale. Ci puoi trovare chiunque, dalla sciura Pina a Gillo Dorfles. Mica come un centro solarium, dove entra solo chi ha un quoziente intellettivo pari a zero.» «Non è tutto.» «Come non è tutto?» «Non è tutto. Dai, spara.» Antonio scoppia dalla voglia di parlare. Sbuffa compiaciuto ed estrae dal sacchetto una brochure. È la pubblicità di una mostra sui Fiamminghi. Ha un’aria da Robin Hood soddisfatto. «Vedi baby… io vendo broccoli e amuchina, ma dalla cassa sottobanco - regalo cultura.» Lo guarda disarmata. In momenti come questi non riesco mai a capire se ho davanti agli occhi un pazzo o un genio. «Ma come fai? Li metti nel sacchetto della spesa?» «No, questi sono metodi da volantinaggio. Io chiacchiero, faccio l’amabile. Spiego che a Brescia c’è una mostra bellissima, sfoglio il volantino… poi sai, la casalinga media è un po’ come i bambini. Le fai vedere qualcosa di colorato e le brillano gli occhi.» Esce felice, come se finalmente fra di noi non ci fossero più segreti. Io rimango perplessa fra gli scatoloni. Me la vedo, la sciura Pina di turno, le sporte che rigurgitano lattughe e detersivi, con gli occhi fissi su un


24 pazzo in camice verde che con aria da carbonaro in incognito le bisbiglia cose incomprensibili. Fiamminghi… maestri del colore… Brescia, Villa Giulia… guardi il cagnolino, sembra vero… e tutto questo davanti a una fila di gente inferocita. Non c’è niente da fare, l’umanista a piede libero è un saltimbanco visionario con la cospirazione nel sangue. Poco importa che davanti a lui ci sia un operaio che sogna solo di comprarsi la Porsche o una casalinga con i neuroni paralizzati da pomeriggi di talk show… poco importa, perché lui - il rivoluzionario, il talebano della cultura - non li vede. La realtà si prende gioco di lui e lui gioca con la realtà, felice e grottesco. For ever and ever.


25

III

«A sinistra ci sono le creme abbronzanti, a destra quelle estetiche. Antirughe, scrub, seboregolatrici, opacizzanti, all’acido glicolico… guardatele tutte. Quella all’acido glicolico non va data a chi sta andando a farsi la lampada, ovviamente.» «Perché?» Ho fatto la domanda giusto per mostrare di essere attenta, ma mi rendo conto subito di aver commesso un errore. Grosso. La collega mi guarda come se improvvisamente mi stessi coprendo di squame verdi. «Perché ovviamente» questa volta sottolinea l’ovviamente in modo inappellabile «l’acido glicolico, con il sole o la lampada, fa venire le macchie. Tu non usi creme, vero?» «Solo idratanti. Le compro al supermercato.» La collega aggrotta le ciglia schifata. Io per vendetta sogno di vederla uscire dal solarium maculata come la Pimpa. Sono qui da mezz’ora e mi sono già fatta un’amica. Bene. Regola numero uno: guardarsi dalla ferocia femminile e ricordarsi sempre che l’unica fortuna dell’umanità è che la guerra non sia mai stata combattuta da donne. Per il resto, qui dietro al bancone dei prodotti mi sento un pesce fuor d’acqua, ma penso che in fondo potrò resistere. Certe esperienze bisogna prenderle per ciò che offrono di nuovo e così, di primo acchito, mi rendo conto che questo posto rappresenta qualcosa di realmente inedito per me. Per esempio, pensavo di trovarmi davanti a un universo esclusivamente femminile e rigorosamente sotto ai quaranta, invece il primo a entrare è un sessantenne distinto, evidentemente un habitué, considerata la disinvoltura con cui paga l’importo senza far domande. «Abbiamo una nuova recluta, vedo…» mi sorride in modo sfacciato. «Buongiorno signore.» «Ma come signore? Così mi fai sentire vecchio!»


26 Cristo, potrebbe essere mio nonno. Allibisco e immagino Umberto Eco che, con aria da vecchio rattuso, mi chiede di dargli del tu. Peggio di un horror degli anni Ottanta. La collega interviene in mio aiuto. «Scusala Claudio, è nuova» e intanto scarabocchia su un foglietto che mi mette sotto il naso: Mai dare del lei non siamo in tribunale. Con l’altra mano mi indica di andare in ufficio. Già, devo ancora firmare il contratto. Mi dileguo nel corridoio sotto il peso di un’occhiata di scherno. Quando entro in ufficio ho l’impressione di essere diventata piccola, molto piccola. «Accomodati, un secondo e arrivo.» La voce alle mie spalle è studiatissima. «Ecco qui. Piacere, Chiara.» Ho l’immediata sensazione di trovarmi davanti alla perfezione. Sì, il termine giusto è proprio perfezione, non bellezza. La bellezza è qualcosa di vivo, una sorta di legge armonica, di consonanza. In questo caso, invece, la sensazione è diversa. Statica. È come se ogni particolare fisico fosse stato sottoposto a un meticoloso check in e il controllo avesse dato il suo ok su tutto. I capelli hanno una piega perfetta, le mani sono perfettamente curate da una french manicure priva di sbavature, la pelle è uniformemente dorata e il tailleur griffato è impeccabilmente abbinato con le scarpe. È tutto talmente irreprensibile da non sembrare vero. Unica incrinatura, un guizzo di insofferenza nel grigio metallico degli occhi. «Magda.» Mentre le stringo la mano, noto che mi sta radiografando mentalmente. «Mi servono nome e cognome al completo, da documento. Magda…» Sospiro sconsolata. «Magda Calimera Lo Greco.» Ecco, lo sapevo. Sono la tragedia della mia vita, quei nomi e quel cognome. D’altra parte si sa, è la spietata legge della nemesi storica; le colpe dei padri ricadono sempre sui figli, e mio padre - in quanto a colpe - ci aveva dato dentro pesantemente. Intendiamoci, niente orge, niente stupri e niente figli seminati per il mondo, solo una grande, smisurata passione per l’opera lirica… e un indissolubile legame con le proprie origini salentine. Negli anni Settanta mio padre era magro, gnuro e smaccatamente terun. C’era di più; era un sessantottino


27 convinto ma ignorava i furori rockettari dei suoi compagni. Passava le giornate a fumare marijuana e a sognare la fondazione di una sorta di sociologia dell’opera lirica. La cavia sarebbe stata un’opera praticamente sconosciuta, la “Rondine” di Puccini; una specie di “Traviata” in cui la mantenuta innamorata, anziché schiattare fra i colpi di tosse, sceglie di andarsene - non si sa dove - per non compromettere il futuro dell’amato e restituirlo all’immacolato abbraccio materno (siamo in Italia, la mamma non poteva mancare). Un melodramma senza risvolti trash, quindi, in cui nessuno muore sbudellato e in cui Violetta si chiama Magda. Insomma, per farla breve, armato di audacia, spirito di rinnovamento e quintalate di fumo, mio padre scrive l’articolo bomba e, tanto per dargli un taglio moderno e contestatario, gli appioppa il titolo che avrebbe segnato fatalmente la sua e la mia esistenza: “Where the fuckin’ hell is going Magda?”. Poi, senza consultare il guru del dipartimento che gli faceva da padrino, invia direttamente la patata bollente a una famosa e patinatissima rivista universitaria statunitense. Il finimondo. L’aborto della carriera accademica di mio padre e la fine della sociologia dell’opera lirica. Niente di strano, quindi, se quattro anni dopo il dottor Augusto Lo Greco decide di consegnarmi il fardello del suo fallimento accademico chiamandomi con il nome dell’eroina della “Rondine”; Magda per scelta, quindi, e Calimera per necessità. Per chi è lontano dal suol natio, l’omaggio al paese natale (cuore della Grecía Salentina) è praticamente d’obbligo. Se poi il paese natale si chiama Calimera, be’… son cazzi del nascituro. In poche parole, uno strazio. A cui si aggiungeva lo scherno degli amici di mio padre che capeggiati da mia madre implacabile quando si trattava di ricordare a mio padre il suo fallimento - esclamavano non appena uscivo da una stanza: “Where the fuckin’ hell is going Magda?” E giù a ridere. Tutto questo - per fortuna - la donna perfetta che mi sta di fronte non lo sa. Si limita ad aggrottare le ciglia mentre scrive sul contratto. «Ok, una firma qui e un’altra qui. A posto. Senti, per il badge, direi che Calimera lo lasciamo da parte; in quanto a Magda… potremmo pensare a qualcosa di più simpatico. Che ne dici di Maggie?» Dico che fa schifo. «Maggie… carino.»


28 «Bene, Maggie. Sara mi ha detto che ti ha già mostrato i prodotti. Se hai domande, chiedi pure, io sono la vostra responsabile. Al colloquio ti hanno spiegato che non si tratta di un semplice lavoro di cassa, vero?» «Sì, dovrò anche proporre dei prodotti.» «Prodotti e trattamenti estetici, esattamente. Abbiamo un totale giornaliero di incassi da raggiungere. E un totale mensile da fatturare assolutamente. In parole povere, sul totale giornaliero possiamo anche soprassedere, su quello mensile no. Chi non collabora, è pregato di cercarsi un altro lavoro… a Black Sun chi pensa di rimanere a scaldare la sedia non va avanti molto. E non va avanti molto nemmeno chi si fa in quattro ma non riesce a ottenere risultati. A noi non interessano gli uomini di buona volontà, ci interessa fare budget. Fare budget, per tutti noi, vuol dire non chiudere, e questo al giorno d’oggi non è poco. Considera che, in questa via, il nostro è l’unico punto vendita che dopo tre anni di attività è ancora aperto.» Il ragionamento non fa una grinza. Di questi tempi a Milano i negozi spuntano come funghi e chiudono a velocità lampo. «Per voi, inoltre, fare budget mensile vuol dire portarvi a casa una crema o una maschera a scelta e usufruire di un trattamento estetico o di un credito per le lampade. A proposito, vedo che…» Squilla il cellulare. La metamorfosi è immediata. La donna perfetta si trasforma in una donna in carne e ossa. Attacca senza rispondere, ma quando alza lo sguardo verso di me, le brillano gli occhi e c’è un fremito di impazienza nella sua voce. «Dicevamo? Ah, sì! Vedo che sei nuova in questo ambiente. Che ne dici di fare una lampada? Così vedi come funziona. Sai, capita che ti arrivi qualcuno a cui devi spiegare come si usano.» Metodologie di vendita, lezione numero uno: come dire a una persona che è bianca come un cadavere senza avvilirla. Antonio non me lo perdonerà mai. Sarebbe capacissimo di depennarmi seduta stante dalla sua esistenza attuale e dalle reincarnazioni successive. Squilla il telefono. «Maggie, è per te. No, non qui… prendila dal telefono di cassa.» Mentre esco, con la coda dell’occhio vedo che afferra il cellulare con uno scatto nervoso. Al bancone, la collega mi allunga il ricevitore. «Le telefonate personali sul cellulare, per favore!» gracchia acida.


29 «Pronto?» «Pulcina…» «Marco, vaffanculo!» «No, aspetta… non riattaccare.» «Ma sei impazzito? Chi ti ha dato questo numero di telefono?» «È da un’ora che assillo tutti i Black Sun di Milano. Al cellulare non mi rispondi mai…» Rimango in silenzio, un groppo in gola e il cuore a mille. «Quando finisci il turno?» La collega mi fulmina, ma muore dalla curiosità di carpire qualche parola. «Alle tre e mezza…» sibilo a denti stretti. «Passi a prendermi? Prendiamo un caffè insieme?» Rimango in silenzio. Non so che pesci pigliare. «Dai pulcina, mi sei mancata tanto. Ti prego… ti chiedo solo un caffè.» «E va bene.» Non ho le palle, cristo. Non ho davvero le palle. «Ok, io vengo… ma dobbiamo parlare, Marco. Dobbiamo parlare sul serio.» Al di là dell’apparecchio sento chiaramente un sospiro di sollievo, che mi fa arrabbiare ancora di più con me stessa. «Va bene pulcina. Parliamo di tutto quello che vuoi.» «Di tutto quello che voglio? Marco, è una sola la cosa di cui dobbiamo parlare, cristo santo. Abbiamo un problema! Grosso.» «Abbassa la voce pulcina! Sei al lavoro, ed è il tuo primo giorno.» È vero. È il mio primo giorno e ho appena sciorinato tutta la collezione primavera-estate di gaffes. «Hai ragione. Ne parliamo dopo.» Ma qualcosa mi dice che non ne parleremo affatto. Riattacco con la strana impressione di essermi fatta fregare per l’ennesima volta. «Maggie, la signora al bancone…» Sfodero un sorriso clownesco, disponibile ed efficiente. Benvenuta nel mondo reale, baby. Se l’intellettuale umanista è un saltimbanco visionario, io in questo momento non sono nemmeno quello. Sono un punto interrogativo sospeso fra due mondi. E mi rendo conto che stono, stono in entrambi.


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IV

L’uomo grasso ha le mani sui fianchi e il busto eretto. Se ne sta lì, saldamente piantato in mezzo alla stanza, con la sua divisa verde militare e il cappello da cow-boy sul cranio. Dietro di lui, su un piedistallo che sembra un altare, un computer acceso con un logo azzurrino che ruota sul desktop. Davanti a lui venti personaggi con la stessa divisa militaresca. Venti personaggi glabri e gelatinosi. Vergogna e silenzio. E il silenzio pesa. «Voi non esistete!» Venti paia di occhi si abbassano all’unisono. «Voi non esistete, perché altrimenti avreste una qualche… come dire… utilità. E invece siete inutili, totalmente inutili!» Vergogna e silenzio. E il silenzio pesa. «In un mese abbiamo avuto un calo delle vendite del tre per cento. Ripeto, perché forse siete anche sordi: tre per cento! Io non lo so se mi potete capire, o se sto parlando al muro. Noi siamo un esercito, e questa è una guerra! In una guerra, una battaglia persa si chiama sconfitta; un uomo sconfitto è un uomo morto!» Il cow-boy in divisa è paonazzo, le vene del collo gonfie come tubi di spurgo. Vergogna e silenzio. E il silenzio pesa. «Però una spiegazione ci sarebbe…» Quello che ha parlato è un vermetto sulla quarantina. Gli trema la voce, ma è un po’ meno gelatinoso degli altri. L’intervento fa scalpore, ma uno scalpore silenzioso. Sulla bocca dell’uomo grasso si disegna una smorfia di scherno. «Ma bene, benissimo. C’è una spiegazione, meno male! Forza Gabriele, siamo tutti ansiosi di ascoltarti» il tono è mellifluo, quasi gattesco. «Ecco… sì, una spiegazione ci sarebbe. Le offerte di questo mese sono meno competitive rispetto a quelle applicate dalla concorrenza sullo stesso tipo di articolo. Il problema non è il prezzo, ma la modalità di


31 pagamento. La concorrenza sta proponendo una rateizzazione in dodici mensilità, noi al massimo in due tranches.» Il grassone lo fissa per alcuni secondi con evidente disprezzo. «Interessante, Gabriele… interessante. Solo che, vedi, non spetta a te discutere le strategie di vendita dell’azienda. Tu sei un soldato e il soldato deve combattere. Le battaglie o si vincono o si perdono, e se si perdono non servono spiegazioni e sai perché?» Suspence. Questa volta neanche il vermetto osa fiatare. «Perché dopo una sconfitta ci sono solo o prigionieri o morti! Dimmi Gabriele, tu cosa sei? Un prigioniero o un morto?» Senza aspettare risposta, il cow-boy grasso esce dalla sala riunioni. Rimane al suo posto un uomo sulla trentina, biondo, in divisa ma senza il cappello da cow-boy. Aspetta che il rumore di passi nel corridoio si sia allontanato, poi rivolge ai vermetti un sorriso simpatico, disteso. «Riposo…» Tutti accolgono l’evidente ironia con una risata liberatoria. Il giovane uomo aspetta pazientemente che torni il silenzio. «Be’, credo che tutti la pensiamo allo stesso modo. Qui qualcuno esagera. Tu, Gabriele, stai tranquillo… non sei né un morto né un prigioniero.» Risate. «Ragazzi, per qualcuno forse siamo un esercito. Io preferisco vederci come una famiglia, e in una famiglia ci si aiuta. Riguardo al nostro calca volutamente sulla parola - problema dell’ultimo mese, verrò da ognuno di voi e analizzeremo insieme la situazione. Una via di uscita la troveremo, io ho fiducia in voi, ma… - suspence - …ma bisogna crederci.» I vermetti annuiscono con convinzione. «Questo vuol dire che, qualsiasi cosa succeda, dobbiamo spingere sulle vendite… e per spingere non intendo fare il possibile. Chi fa il possibile è un bravo impiegato, ma voi non siete bravi impiegati, voi siete molto di più. Siete dei conquistatori del mercato. E tanto più le cose sono difficili, tanto più voi dovete credere nell’obiettivo. Tutti. Non c’è spazio per il disfattismo, e sapete perché? Vi racconterò una cosa. Avrete sentito parlare della guerra di trincea.» Un mormorio di assenso (qualcuno si guarda con attenzione la punta delle scarpe).


32 «Indovinate chi erano i primi a essere fucilati.» Nessuno osa rispondere. «I disfattisti. E sapete perché? Perché abbassavano il morale delle truppe e questo voleva dire una sola cosa.» Va alla lavagna e segna una croce, con un gesto deciso. «La fine. Per tutti! Questo naturalmente non vuol dire che verrai fucilato, Gabriele; qui non siamo in guerra, ma il discorso vale lo stesso. Siamo un organismo, un corpo in cui tutti gli organi devono funzionare. È la legge della vita.» Quando il giovane uomo biondo entra in ufficio, il grassone è di spalle, il viso rivolto alla finestra. Il cappello da cow-boy giace inerte su una sedia. Si volta appena. «Entra Marco, entra pure. Sai, mi piace la tattica del poliziotto buono e del poliziotto cattivo, hai avuto un’ottima idea. Certo però, che la parte di quello cattivo tocca sempre a me!» «Che vuol farci capo! È un ruolo che le va a pennello.» Ridono. Entra una ragazza con due tazzine di caffè. L’uomo grasso aspetta che la donna sia uscita, poi si china verso il giovane guardandolo negli occhi. «E di Gabriele Salvati cosa ne pensi?» Il giovane sorseggia il suo caffè, senza fretta. «Va eliminato.» Il grassone scoppia a ridere, esterrefatto. «E poi il cattivo sono io! Non ho parole, sei davvero spietato!» Il giovane finisce di bere tranquillamente il suo caffè. «Non è questione di essere spietati. È da tre mesi che lo tengo d’occhio. Il suo fatturato è calato, ma il punto non è nemmeno questo. Ultimamente è negativo, negativo su tutto. Come fa una persona così a motivare un team di venditori?» Il grassone si passa una mano fra i capelli radi. «Pare che abbia dei problemi seri in famiglia…» «Lo so, sono uscito apposta a pranzo con lui il mese scorso. La figlia ha un problema di salute grave.» L’uomo grasso sorride con un certo sollievo.


33 «Perché eliminarlo allora? Se la figlia ha bisogno di cure, lavorerà il triplo. Le cure costano.» «Senza dubbio. Però il suo problema non è la quantità, ma la qualità del lavoro. Questo mese ha lavorato più degli altri, ma il suo punto vendita è quello che ha fatturato di meno. Secondo lei perché? Trasuda ansia, è tetro… il suo potere motivazionale è ridotto ai minimi termini. Ci serve una persona così? No.» L’uomo grasso rimane in silenzio per qualche secondo. È di spalle, il viso rivolto alla finestra. «A volte voi giovani mi fate paura, paura sul serio… ma avete ragione. Ci penserò su. Fra l’altro, Marco, ti ho fatto venire anche per un altro motivo che ti riguarda molto da vicino.» Il giovane raddrizza istintivamente la schiena, lo sguardo attento. Con un gesto nervoso spegne il cellulare, che gli vibra in tasca da qualche secondo. Il capo lo guarda, un lampo divertito negli occhi. Quel cucciolo che scalpita, forte e spietato come solo i cuccioli sanno essere, l’ha creato lui. È come la caccia, e nel DNA di ogni uomo l’istinto atavico del predatore è duro a morire. Fai sentire al cucciolo l’odore del sangue e il cucciolo diventerà adulto. Lui a Marco aveva fatto sentire l’odore del potere, e aveva colto nel segno. Per i giovani della generazione di Marco, nati in anni agiati e inguaribili cocchi di mamma fino ai trent’anni e oltre, i soldi sono certamente qualcosa di ambito ma la vera chimera, il vello d’oro da conquistare, è il potere: il lato oscuro dell’indipendenza. L’uomo grasso si accomoda sullo schienale, le mani incrociate sul ventre. «A Francoforte te la sei giocata davvero bene. Ti hanno notato, sai? E sei piaciuto molto. Sei determinato, il lavoro non ti spaventa, parli bene il tedesco e hai anche una buona formazione a livello di coaching. Insomma, pare che ci sia una proposta interessante per te. Tieniti forte: promozione alla direzione di sette filiali tedesche. Un mese di affiancamento, e poi direttamente dietro alla scrivania. Questa volta toccherà a te fare il capo! Complimenti figliolo…» Gli dà una pacca sulla spalla, visibilmente commosso. Il giovane deglutisce. «E… per quando sarebbe previsto il trasferimento?»


34 «Per il mese prossimo. Giusto per dare a me il tempo di trovarti un sostituto, e a te di sistemare le tue cose con calma. Per la casa non preoccuparti, ci pensa l’azienda e non credere che badino a spese! Ho visto la casa di un dirigente, a Stoccarda… roba che qui non ti sogni neanche!» Il giovane rimane soprappensiero per qualche secondo. Il cellulare ha ricominciato a vibrare, ma questa volta lo tiene in mano qualche secondo prima di spegnerlo, gli occhi fissi sul piccolo schermo luminoso. Ha uno sguardo strano, che il suo capo non riesce a decifrare. «Be’, che succede? Pensavo di darti una notizia bomba!» Il giovane si scuote. Calcola volutamente le parole. «È una notizia bomba, altroché! Solo che non mi aspettavo un trasferimento oltralpe.» Il capo lo fissa, deluso, ma non si capisce se la delusione sia reale o calcolata. «Già. La fidanzata, la famiglia…» Marco è visibilmente imbarazzato. «Più che altro il tempo è veramente poco. Intendiamoci, non sto rifiutando…» Il grassone tamburella pensieroso sul tavolo con le dita. Rimane in silenzio per alcuni secondi. E il silenzio pesa. «Non credevo che la distanza fosse un problema per te; poi tu sai benissimo come funzionano queste cose. Magari fra tre anni ti ritrovi qui come direttore commerciale nazionale. Comunque, sia chiaro, nessuno ti obbliga ad andare, questa che ti offriamo è una possibilità. Quel posto fa gola a molti. L’azienda ha pensato a te ma non avrebbe certo problemi a trovare qualcun altro.» Il grassone ha toccato la corda giusta. Il giovane si sporge sulla scrivania con aria risoluta, questa volta la voce è ferma e determinata. «Sono felice che l’azienda abbia pensato a me per una posizione di questo tipo e sono certo che non deluderò le aspettative. Partirò non appena lo riterrete necessario.» Il grassone sorride, soddisfatto. «Ma bene… bene! Non avevo dubbi, comunque. Un’offerta così viene fatta una volta sola, e tu lo sai. Saresti stato un pazzo a rifiutare. In questo caso quindi…»


35 La porta si apre ed entra la stessa ragazza che ha portato le tazzine di caffè. Sul suo volto è disegnata un’espressione a metà fra la perplessità e il disgusto. «C’è una ragazza strana fuori… una specie di hippie che chiede di parlare con il dottor Molteni. Dice di chiamarsi Magda.» Marco sbianca sotto lo sguardo divertito del capo. «Magda? Non si chiama Magda la tua ragazza?» «No, cioè… sì, ma non è lei. È mia cugina. Devo darle delle chiavi.» «Se è questione di un minuto vai pure. Io, intanto, faccio entrare Hermann.» «Hermann?» «Stavo giusto per dirtelo… sai come sono i crucchi, devono sempre portarsi avanti! È arrivato Hermann Kreupel da Francoforte. È qui per dare un’occhiata alle nostre vendite, ma vuole approfittarne per parlare con te.» Marco è evidentemente sulle spine. Digita nervosamente un messaggio e spegne definitivamente il cellulare. «Mia cugina può aspettare, non è urgente.» Il grassone scoppia sgangheratamente a ridere. «Be’, allora mi auguro per te che sia veramente tua cugina! Lisa, di’ alla ragazza che il dottor Molteni al momento è impegnato e di’ a Kreupel che, se vuole, può venire. Anzi, aspetta che vengo con te» si china sul giovane «vi lascio soli. So che Kreupel preferisce fare le sue valutazioni faccia a faccia.» La vita è sempre così. Quando le cose cambiano, lo fanno sempre nel giro di cinque minuti. L’imprevisto domina il mondo, la fortuna e la sfortuna arrivano quando pare a loro, non è questione di fatalità. Il giovane fissa il vuoto perplesso. In fin dei conti sa solo di aver fatto una scelta, ma il contenuto, le implicazioni reali, gli sfuggono. L’unica cosa certa è che questo è l’inizio di una lunga, lunghissima catena di scelte in fondo alla quale il risultato finale potrebbe benissimo non piacergli. Chi si illude di fregare il destino scegliendo la propria strada, in realtà fa semplicemente da attore sotto la regia ineludibile della pura casualità. Il giovane è talmente assorto nel proprio flusso di pensieri, che non sente nemmeno entrare il nuovo venuto. Hermann Kreupel è l’esatto opposto del cow-boy grasso. Non c’è niente di eclatante o di grottesco nel suo fisico asciutto, nell’azzurro freddo degli occhi.


36 Guarda il giovane con stupore, e di fatto è strano, strano davvero. C’è qualcosa di straordinariamente simile in quei due uomini, nel tedesco brizzolato e nel giovane biondo seduto alla scrivania. Sembra quasi una collusione di piani temporali diversi, l’incontro di due età distinte dello stesso uomo. «Dottor Molteni…» l’accento tedesco è marcato. Marco si scuote bruscamente. I convenevoli sono scarni. Qualche complimento per la laurea e il master, alcune domanda generiche sullo stato attuale delle vendite, un paio di considerazioni riguardo all’impatto dell’ultimo prodotto sul mercato italiano. Dopo alcuni minuti, Kreupel si accomoda sullo schienale della poltrona. Marco capisce che sta per arrivare al sodo. «Bene, molto bene. Non posso che confermare in pieno tutto ciò che mi è stato riferito a Francoforte riguardo a lei. Il suo responsabile mi ha detto che le ha già esposto la nostra proposta.» Marco annuisce. «Cosa le ha detto esattamente?» «A quanto ho saputo dovrei fare un mese di affiancamento per poi passare alla direzione di sette filiali di Francoforte.» «Non è tutto.» Marco è stupito. «Non è tutto?» «No. Ma questo il suo capo non lo sa. Rifletta. Non le sembra strano uno spostamento addirittura internazionale per la direzione di sette filiali tedesche? Avremmo potuto benissimo scegliere una figura a Francoforte o a Stoccarda, le pare?» In effetti il dubbio gli era venuto ma, frastornato dai cambiamenti, non si era fermato a pensarci troppo sopra. «In realtà quello che abbiamo pensato per lei, è qualcosa di totalmente nuovo, una figura professionale che ancora non esiste. Mi spiego. L’azienda ha vissuto un periodo di espansione molto intenso negli ultimi due anni. Oggi abbiamo mercati nuovi e molto vitali, come quello italiano o quello canadese. Ma l’espansione ha i suoi rischi e dobbiamo affrontarli prima che nascano. Ora è il momento di consolidare e di rinsaldare il legame dei vari mercati con la casa madre. È il momento di… centrare… come dite qui in Italia?» «Centralizzare.»


37 «Centralizzare, esattamente. Per questo ci serve una figura formata in Germania, ma con una mentalità internazionale, non tedesca. Questa figura dovrebbe garantire alla casa madre un collegamento capillare con le filiali di diversi paesi.» Marco inizia lentamente a capire. «Non starei fisso in Germania, quindi.» «Per il primo anno sì, poi certamente no. La sua deve essere una figura itinerante, che risiederà in paesi diversi per periodi di sei mesi, un anno… a seconda delle situazioni.» Eccola, la vertigine. La sensazione misteriosa che accompagna sempre le grandi profondità o le grandi altezze, i deserti sconosciuti in cui l’aria è tersa e rarefatta e in cui l’unica costante, ineliminabile, è la solitudine. Ebbrezza e paura. Purezza e freddezza. Sono i connotati fondamentali della trasparenza e dell’ignoto. Kreupel osserva le emozioni che scorrono silenziose sul volto di Marco. «Comunque il primo paese in cui potrà sperimentare il suo nuovo ruolo sarà il suo. L’Italia sta diventando una scheggia impazzita. Certe pagliacciate vanno eliminate e alcune teste dovranno cadere. Sarà lei a tagliarle.» Marco guarda il tedesco con un sorriso. Un sorriso teso. «Mi si chiederà quindi di fare pulizia… avrò a che fare anche con persone che conosco?» «Ma naturalmente! Naturalmente… quando lei avrà visto come lavoriamo in Germania, capirà che per certi personaggi e per certi metodi non c’è più posto.» Il grassone. Dovrà pugnalare il grassone. È lui che lo ha formato. È lui che lo ha mandato a Francoforte. Ma la vita è un ecosistema, in cui il pesce grosso mangia il pesce piccolo. Non è colpa sua, non è colpa di nessuno se il grassone ha nutrito il suo cucciolo fino a farlo diventare più grosso di lui. Kreupel lo cova con uno sguardo di pietra. Il lungo, fisso sguardo del predatore che sa di essere predatore. È il momento topico, e lo sa. «Ora sa tutto, o almeno tutto ciò che deve sapere. È una missione che pensa di poter svolgere? Ma soprattutto, è una missione che vuole svolgere?»


38 Vuoi seguire il richiamo della vertigine e lasciarti cadere? (verso l’alto o verso il basso; la profondità non ha coordinate). Vuoi salire sulla vetta da cui guarderai il mondo dall’alto e sarai solo, completamente solo? «Sì, lo voglio.» ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD


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