Centoventotto, Andrea Mafessoni

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ANDREA MAFESSONI

CENTOVENTOTTO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ CENTOVENTOTTO Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-458-8 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Aprile 2021



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PROLOGO 00000

Il proiettile espulso da una Beretta 92FS calibro nove millimetri può arrivare a viaggiare alla velocità di quasi quattrocento metri al secondo, equivalenti a circa millequattrocentoquaranta chilometri orari, pari alla bellezza di milletrecentododici piedi nel sistema di misura anglosassone. Ciò equivale all’incirca a uno virgola due volte la velocità del suono, più di tre volte e mezza la velocità massima mai raggiunta in un circuito di Formula Uno: percorrerebbe una distanza pari a quella dell’intero Golden Gate di San Francisco in poco più di tre secondi. Quando si preme il grilletto dell’arma, il percussore dietro alla pistola scatta, andando a colpire violentemente la cartuccia e detonando la polvere da sparo all’interno. Il forte rinculo generato dall’esplosione determina lo spostamento all’indietro del carrello; la camera di scoppio si muove di conseguenza e libera una parte di canna bucata da cui viene espulsa la cartuccia usata, assieme ai gas di combustione. Contemporaneamente, il proiettile parte e percorre la canna dell’arma, uscendo dalla bocca di fuoco. Le rigature all’interno conferiscono al colpo un movimento giroscopico, ossia una rotazione intorno al proprio asse, che garantisce un mantenimento della stabilità lungo la traiettoria. A questo punto il proiettile è uscito dall’arma e può proseguire la sua corsa per anche due chilometri, poi il suo moto a parabola lo porterà, prima o poi, a impattare contro il terreno. O contro un sasso. O contro un albero. Questa volta, il proiettile trapassò il tessuto cutaneo di un torace e andò a impattarsi contro la terza costa sternale destra alla velocità di quasi trecento metri al secondo. L’impatto frammentò l’osso in minuscole schegge che lacerarono le arterie e perforarono i tessuti interni, causando l’immissione improvvisa di aria nello spazio polmonare. In uno scenario del genere, l’aumento di pressione sul torace va a costituire un ostacolo alla naturale espansione del polmone, che collassa


5 a una velocità proporzionale alla quantità di aria che penetra nella cavità. In gergo tecnico il processo è detto “pneumotorace post traumatico”; un individuo in queste condizioni può sopravvivere anche per delle ore, prima che la morte sopraggiunga per esaurimento di ossigeno. O almeno potrebbe, se un secondo e un terzo colpo non venissero sparati in rapida successione contro di lui, trapassandone il petto e dipingendo uno schizzo di sangue brillante sulle tende color pastello della cucina. Perché, essenzialmente, questo è ciò che avvenne. L’impatto dei colpi mandò l’uomo a sbattere contro il piccolo davanzale interno della finestra, poi il suo corpo si accasciò a terra. Nella stanza calò un profondo silenzio. Il telefono del defunto segnalò la ricezione di un messaggio con alcuni bip bip bop, mentre il diretto interessato giaceva riverso in una pozza di sangue che pian piano si allargava fino a bagnare la base del frigorifero. La poca luce dei lampioni che filtrava dall’esterno illuminava una piccola cucina moderna, dove elettrodomestici, maniglie dei cassetti e dettagli delle mensole sfoggiavano la stessa tonalità di nero lucido. Il set di bicchieri elegantemente ordinato sulla mensola accanto al piano cottura e i piatti disposti sui ripiani in ordine di grandezza parevano espressione di una vita consumata più tra cocktail bar e cene di lavoro aziendali che non tra le mura domestiche della propria abitazione. Affettati confezionati, due yogurt al mango e un pacco da sei di Heineken aperto di fretta facevano capolino dal piccolo frigo nell’angolo della stanza, rimasto semiaperto. Sulla superficie dell’elettrodomestico poggiavano calamite per turisti a forma di Tour Eiffel, piramidi di Giza, Colosseo. Una riproduceva la Statua della Libertà, ma la testa si era staccata in seguito a una caduta. Saldamente attaccata sotto la calamita, svolazzava una bolletta dell’Enel, solo un po’ macchiata di sugo. Il tavolo da pranzo era seminuovo, acquistato presso un’azienda di mobili romana. Gambe intrecciate in ottone e piano ottagonale in olmo bianco. Unico dettaglio, la spruzzatina di sangue che imperlava uno spigolo e che andava via via gocciolando sul parquet, come il rubinetto chiuso male di un mattatoio. Una goccia. Due gocce. Tre. La clessidra della vita di un uomo che muore. Quattro gocce. Cinque.


6 Sei. Poi basta. Non gocciolava più. La stanza pareva, in tutto e per tutto, l’allegra e costosa cucina moderna di un allegro e benestante single moderno. Un allegro e benestante single moderno, morto. Le ultime spire di fumo biancastro si levarono dalla canna della pistola e si dissiparono nell’aria, sfiorando appena il rilevatore di fumo sul soffitto. *** Abbassò l’arma. Aveva sparato tre colpi. Il caricatore di una Beretta 92FS semiautomatica contiene quindici proiettili nove per ventuno millimetri dal peso di pochi grammi ciascuno. Quindici preziose sculture minimali con blindatura in rame e anima di piombo, quindici piccole perle di ingegneria balistica incamiciate in metallo, quindici bambine vestite da albero alla recita della scuola elementare della morte. Ciascuna di quelle piccole opere d’arte richiedeva ore di lavorazione per essere ultimata; tuttavia, ciascuna poteva spedire un uomo a verificare le proprie credenze religiose in poco più di un secondo. Aveva sparato tre colpi. Contò dodici colpi rimasti. Infilò l’arma nella borsa di tela nera che pendeva dalla sua spalla e camminò piano verso l’uscita. Aprì il pesante portone di mogano e venne presto inghiottito dalla città, mischiandosi alle altre forme anonime che la percorrevano ogni giorno.


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1. 00001

Nell’interpretazione religiosa della filosofia zoroastriana, dopo la morte l’anima del defunto si ritroverà a dover percorrere il “cinvato pertush”: il ponte dell’oltretomba che collega il picco del giudizio con la sacra vetta del monte Alborz. In base all’ammontare di peccati compiuti in vita, il ponte avrà una larghezza più o meno ampia, permettendo ai buoni di raggiungere agevolmente il paradiso e facendo precipitare le anime cattive nell’abisso dell’inferno, dove le attenderà il malvagio Ahriman, dio dell’inganno e della menzogna. Presso gli antichi sumeri, era invece credenza comune che la Terra fosse un enorme disco piatto che divideva l’An-Ki, la regione del Cielo, dal Kur, il mondo sotterraneo degli inferi. Secondo il sumero medio, dopo la morte l’essere umano avrebbe continuato la propria esistenza nelle terre degli inferi, soffrendo e rimpiangendo per l’eternità la vita perduta in superficie. Gli antichi culti egizi parlavano di un mondo sotterraneo chiamato Amenti, abitato da mostruose creature primordiali; i miti dei greci optavano per la versione più soft dell’Ade, il regno delle ombre e degli spiriti dell’oltretomba. Riccardo Senna non aveva particolari convinzioni riguardo alla vita ultraterrena, ma di una cosa era certo. Se l’inferno esisteva, aveva la forma della metropolitana di Milano all’ora di punta di una giornata estiva. Corpi accaldati stipati come bestiame in pochi metri quadrati annaspavano nella carrozza della metro della linea verde, cercando spazio vitale tra la massa umana sudaticcia. Signori corpulenti con polo appiccicose respiravano a fatica, pressati a forza contro le pareti del vagone color dentifricio al mentolo. C’erano pendolari con valigia al seguito che trascinavano i propri bagagli sotto gli sguardi irritati della gente costretta a scansarsi, e persone in equilibrio precario che a ogni


8 curva sbattevano le une contro le altre, come birilli di carne umidi in una pista da bowling troppo stretta. Addossato alla porta della metro, Riccardo teneva gli occhi chiusi, mentre gradualmente il tessuto della sua camicia di lino andava fondendosi con la pelle sudata. Minuscole gocce imperlavano la sua fronte, mentre la voce femminile della metro scandiva le fermate con clip audio a bassa qualità: “Prossima fermata, next stop: Loreto. Corrispondenza con metropolitana linea 1. Connection with underground line 1.” Riccardo estrasse il telefono dalla tasca dei pantaloni e lanciò un’occhiata all’orario. Erano le sette e mezzo e il suo display mostrava noci di cocco, palme dorate, sole tropicale. “Apertura porte a destra, doors open on the right”, cantilenò la vocina. Normalmente, il giovedì era il suo giorno libero. Normalmente, in una mattinata come quella, sarebbe rimasto a letto a dormicchiare fino alle nove e mezzo. Poi, con molta calma, avrebbe aperto il suo portatile e avrebbe guardato una puntata di Breaking Bad, in lingua originale. Magari avrebbe accompagnato il tutto con un cornetto al lampone, o una sana dose di caffelatte in tazza. A quel punto, normalmente, si sarebbe accomodato alla sua scrivania e avrebbe fatto un check delle sue mail, ma solo per estrema precauzione, senza aspettarsi alcunché di particolare. Infine, si sarebbe rimesso a letto e avrebbe guardato una seconda puntata di Breaking Bad, in lingua originale. Questo è ciò che avrebbe fatto, normalmente. Normalmente, non avrebbe ricevuto una telefonata improvvisa alle sette e venti del mattino, in cui veniva messo al corrente che durante la notte il suo capo aveva dipinto un graffito sulle pareti di casa con il proprio sangue, e che ora giaceva morto presso l’obitorio di via Ponzio con il petto perforato e i polmoni bucati come le braccia di un eroinomane a Berlino. Normalmente, non avrebbe dovuto infilarsi al volo in un completo elegante color blu Denim, rischiando per poco di inciampare nel cavo del suo pc in carica, e non avrebbe dovuto correre fuori sotto il sole cocente estivo per prendere la metro. Normalmente, non si sarebbe ritrovato stipato in un vagone con altre decine di individui grondanti sudore e nervosismo mattutino, mentre un mendicante barbuto con una squallida giacca sformata a trama mimetica


9 implorava a gran voce qualche spicciolo per la sua famiglia, cercando di sovrastare il frastuono del treno in corsa. «SI-GNORI-VI-PRE-GOASCOLTA-TEMI-HO-POVE-RA-FAMIGLIAEBAMBI-NI-NON-MAN-GIA-NO!» Normalmente, sarebbe stata una bella giornata. «IT’S A BEAUTIFUL DAY!» le note dei Queen si diffondevano dagli auricolari dell’uomo grasso alla sua destra, a un volume che superava drammaticamente la soglia tollerata dall’umore di Riccardo quel giorno. Le note rock si fondevano con lo stridore metallico generato dallo sferragliamento della metro sui binari di acciaio, creando una sinfonia infernale che assomigliava al suono che avrebbero prodotto mille robot sventrati da motoseghe a gasolio. O un mucchio di mattoni in un tritacarne. O una singola serata di musica elettronica a Londra. La testa di Riccardo pulsava dolorosamente. Chiuse gli occhi, cercando di proiettarsi sulle soffici spiagge hawaiane riprodotte sul display del suo smartphone. Si immaginò disteso su una confortevole amaca color paglia, mentre sorseggiava un Long Island con una spruzzatina di rum bianco e la brezza del tramonto lo cullava dolcemente al ritmo delle onde. Ecco il profumo vagamente salato della sabbia lambita dal mare. Ecco le ali distese di un ultimo solitario gabbiano che plana lontano all’orizzonte. «SI-GNORI-VI-PRE-GO-HO-BAM-BINI-SONO-PIC-COLI-NONLAVO-RO!» “Prossima fermata, Next Stop: Centrale FS. Corrispondenza con metropolitana linea 2.” «I FEEL GOOD, I FEEL RIGHT!» Il cervello di Rick era un grosso pendolo di sangue che batteva contro l’interno del cranio. Tum. Tu-tum. Appoggiò pollice e indice sulle palpebre e premette con forza; la pressione allentò leggermente il dolore martellante. Visualizzò scie luminose e scintille bianche nel buio. Ramificazioni di nervi ed esplosioni di luce. Tum. Tu-tum.


10 “Prossima fermata, next stop, Garibaldi FS. Corrispondenza con metropolitana linea 5, stazione ferroviaria Porta Garibaldi, Malpensa Express…” Aprì gli occhi. Tirò un sospiro di sollievo. Era la sua fermata. La metro rallentò fino a fermarsi. Le porte si aprirono, e Riccardo abbandonò finalmente quella bolgia infernale, seguito da una fiumana di persone che si riversò sulla banchina. La gente si divise in mucchi e i mucchi si divisero in mucchietti, poi, piano piano, tutti si dispersero nel dedalo di scale e corridoi della stazione. *** Riccardo aveva trascorso la nottata sveglio a lavorare al software di gestione della RSS Lens. Doveva essere crollato intorno alle quattro del mattino, perché non serbava alcun ricordo di eventi successivi a quell’ora. L’ultima immagine che conservava era delle sue dita al lavoro sulla tastiera retroilluminata del suo pc, con le palpebre affaticate dal monitor che andavano via via chiudendosi per la stanchezza. Poi in rapida sequenza venivano il buio, i flash sfuocati dei suoi sogni e infine la suoneria spaccatimpani del suo telefono che lo aveva svegliato di soprassalto alle sette e venti del mattino per segnalare una chiamata in arrivo. Come primo pensiero cosciente, si era fatto i complimenti da solo per essere riuscito a trascinarsi dalla scrivania al letto senza andare a sbattere contro una porta chiusa o urtare un mobile con il ginocchio, poi aveva allungato una mano verso il comodino e cercato a tentoni il telefono, per far cessare quel trillo insopportabile. «Pronto?» aveva biascicato all’apparecchio, ancora a occhi chiusi. «RICK, DOVE CAZZO SEI?!» La voce all’altro capo della chiamata apparteneva a Franco Sartori, uno dei dirigenti interni della sua azienda. Insieme al rumore della sveglia, ai litigi dei vicini di casa e al frastuono del martello pneumatico che batteva sull’asfalto del marciapiede, faceva parte della compilation dei suoni che Riccardo amava meno ascoltare al mattino presto. «Franco? Sto dormendo, che c’è?» aveva farfugliato, alzando la mano per coprirsi dai raggi del sole che invadevano la stanza. «CHE C’È? Apri bene le orecchie, genio! HANNO AMMAZZATO CLAUDIO, ecco che cazzo c’è!»


11 «C…Claudio?» La testa gli ronzava e gli faceva un male terribile. «Ma sei sbronzo?! CLAUDIO! Claudio Moneta! Alza il culo e vieni in ufficio, è pieno di giornalisti! Ivan sta andando fuori di testa!» «S-sì ho capito… dammi un attimo…» «MUOVITI!» L’avviso sonoro di chiusura chiamata gli aveva impedito di controbattere ulteriormente. Rick aveva sospirato, rassegnato. Si era trascinato fuori dal letto, trattenendo invettive elaborate contro i disturbatori della quiete mattutina. Davanti allo specchio del bagno, mentre cercava di ristabilire un contatto con la realtà tramite abbondanti dosi di acqua fredda, aveva notato un dettaglio particolare del suo riflesso. I suoi occhi avevano un colore diverso. «Cazzo», aveva imprecato a mezza voce. Si era addormentato senza rimuovere il prototipo della Lens dall’occhio sinistro. Galleggiante nella superficie del suo bulbo oculare, la sottile lente cristallina aderiva perfettamente all’iride, tracciando sfumature azzurre in contrasto con il naturale color castano dei suoi occhi. Un’analisi più attenta della superficie rivelava minuscoli circuiti elettronici che nuotavano nell’idrogel, generando riflessi di luce argentei. Aveva rimosso con cura l’apparecchio, con la manualità di un orefice esperto che lavorava a un gioiello prezioso, e lo aveva deposto nell’apposita custodia di gel protettivo sulla sua scrivania. Poi, era tornato in bagno per il suo consueto rituale mattutino: lavaggio viso, lavaggio denti, rasatura e applicazione intensiva di dopobarba aromatizzato al cardamomo. Solo nel momento in cui le setole naturali di tasso del suo spazzolino sfregavano contro la superficie dei suoi premolari, Rick aveva preso consapevolezza del contenuto della conversazione telefonica avvenuta poco prima. Rick, dove cazzo sei? Hanno ammazzato Claudio, ecco che cazzo c’è. Una goccia di dentifricio mista a saliva era colata dalla sua bocca, dipingendo una macchia verdastra all’aroma di eucalipto sulla superficie bianca del lavandino. Hanno ammazzato Claudio.


12 Era corso in camera, si era vestito in fretta ed era uscito dall’appartamento sbattendo la porta, diretto alla stazione della metro di Lambrate. Cazzo. Claudio Moneta. Claudio Moneta e Ivan Greco erano i fondatori della sua azienda, la Mirror ICT. Quando Rick era più giovane e frequentava la facoltà universitaria di ingegneria informatica, i due comparivano spesso ai vertici delle classifiche stilate dai suoi compagni di corso sulle proprie figure ispiratrici, alternati tra il nome di Steve Jobs e quello di John Romero, il creatore di Doom. Stando alle numerose leggende metropolitane in circolazione sui due, la coppia si era conosciuta al Politecnico di Milano, durante una lezione sui microprocessori o qualcosa del genere, ed era diventata in breve tempo inseparabile. Due novelli Bill Gates e Paul Allen, o Steve Jobs e Stephen Wozniak. O Bonnie e Clyde, ma senza i furti, il sesso e le rapine a mano armata nelle tabaccherie. Rick aveva ascoltato versioni differenti della loro storia, ma tutte concordavano nell’affermare che i due studenti fossero delle menti brillanti, seppure molto diversi tra loro nel carattere. Ivan era una testa calda: un ragazzo audace e visionario, presuntuoso come poteva esserlo solo un giovane che aveva a poco a poco assunto la consapevolezza di avere capacità molto superiori a quelle dei suoi coetanei. Claudio era invece la figura più tranquilla della coppia: un carattere mite e pacato, estremamente competente dal punto di vista tecnologico, ma apparentemente privo dell’ambizione e del desiderio di cambiare il mondo che sembravano infervorare il suo amico. Rick aveva sempre fatto il tifo per lui. A ventiquattro anni, dopo aspri contrasti con i suoi professori, Ivan aveva mollato l’università e si era messo in proprio, fondando una startup con Claudio e iniziando a sviluppare app per telefono. I due avevano chiamato la loro società Mirror, come gli specchi, strizzando l’occhio al processo di replica di contenuti digitali identici su server diversi, che in gergo tecnico era detto “mirroring”. Negli anni successivi, l’azienda si era imposta sul mercato nazionale e i due avevano maturato la decisione di allargare il campo e iniziare a sviluppare oggetti smart, servizi di domotica e sistemi di visione artificiale. L’impresa aveva poi fatto un mucchio di soldi, abbastanza da potersi permettere di inglobare aziende più piccole ed espandersi in nuovi settori, e ben presto nella lista


13 avevano fatto la loro comparsa robot, sensori di misurazione, accessori per automobili, orologi connessi a Instagram, frigoriferi parlanti, citofoni intelligenti e assistenti virtuali per lavatrici. Otto anni dopo, la Mirror era una multinazionale plurimilionaria, con quotazioni in borsa, centinaia di dipendenti e sede centrale in un grattacielo a Milano. Otto anni dopo, Riccardo si laureava a pieni voti in ingegneria informatica e iniziava a lavorare alla Mirror in qualità di ingegnere del software junior. Otto anni dopo, Claudio Moneta veniva attraversato da tre proiettili nove millimetri full metal jacket e trapassava sul pavimento del suo cucinotto vomitandosi sangue addosso. La vita è meravigliosa, aveva concluso Rick, uscendo di casa.


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2. 00010

Riccardo pensò ai principi fisici che regolavano le interazioni termodinamiche, affermando che l’energia totale in un sistema isolato si mantenesse costante nonostante avvenissero scambi entropici al suo interno. Pensò al sale da cucina, formato da ioni di sodio e cloro che si legavano tra loro formando reticoli cristallini geometricamente perfetti, e agli eleganti moti di propagazione delle onde sulle superfici acquatiche perturbate, descritti da precise equazioni matematiche a termini sinusoidali. Pensò che nonostante i principi fisici di armonia generale dell’universo e il sommo ordine che governava ogni fenomeno naturale, equilibrando le particelle della materia, ancora c’era gente che non capiva che sulle cazzo di scale mobili della metro bisognava stare sulla cazzo di destra. «Permesso!» sbraitò. Una coppia di turisti cinesi che occupava il lato sinistro del passaggio si scansò scandalizzata. Arrivò in cima alla scala e svoltò a destra, diretto all’uscita. Lungo il cammino, una donna che imbracciava un bloc notes e pubblicizzava l’apertura di una qualche palestra con sauna e idromassaggio tentò di fermarlo per affibbiargli un volantino, ma Rick proseguì a passo spedito evitando di rivolgerle lo sguardo. Una volta aveva portato una ragazza a cena in un ristorante cinese sui navigli. Stavano insieme da tre mesi e quella sera lei aveva insistito per ordinare i biscotti della fortuna. Il bigliettino nel biscotto di Rick recitava “nulla può fermare l’amore vero”. Pensò che lo stesso principio poteva applicarsi benissimo a un milanese che andava di fretta. Fece slalom tra la folla che occupava il corridoio interno della stazione. Schivò al pelo un trolley trainato da un ragazzo con un’orrenda t-shirt giallo fluo che gli passò di fianco tutto trafelato. Due settimane dopo la ragazza lo aveva lasciato con un messaggio nel quale diceva che si scusava, ma erano troppo diversi per funzionare. Il


15 giovedì dopo l’aveva rivista a parco Sempione, che passeggiava mano nella mano con il suo nuovo fidanzato. Si appuntò mentalmente di ordinare il budino alle noci, la prossima volta. Prese l’ultima scala mobile, girò a sinistra e arrivò finalmente all’uscita. Un ragazzo sui diciassette anni prese la rincorsa e scavalcò con nonchalance il tornello d’acciaio, con l’agilità di chi pareva aver già compiuto quel gesto decine di volte. Dall’interno del suo cubicolo, l’addetto alla sicurezza metropolitana osservò il giovane, scuotendo la testa, e sospirò con la rassegnazione di chi pareva aver già compiuto quel gesto centinaia di volte. Rick salì le scale della metro e uscì all’aria aperta. Il sole estivo era già alto nel cielo, ed ebbe la netta sensazione che un individuo invisibile stesse tenendo un phon ad aria calda puntato contro di lui. Un impiegato in giacca e cravatta, visibilmente accaldato, gli passò accanto sventolando un dépliant di un’agenzia di viaggi a mo’ di ventaglio. Se non ci ucciderà il riscaldamento globale lo faranno le camicie sudate, pensò. Affrettò il passo. Arrivò in ufficio che erano le otto passate. Una folla di giornalisti stava già assediando l’esterno dell’edificio, trattenuta a stento dagli agenti di sicurezza dell’azienda. Rick tentò di defilarsi attraverso la folla senza farsi notare, ma una giornalista con delle mèche bionde e un grazioso neo sotto la narice sinistra lo notò e lo intercettò mentre tentava di raggiungere l’ingresso. «Buongiorno, sono Sara, di Canale Cinque: lei è un dipendente della Mirror?» gli chiese, piazzandogli il microfono a pochi centimetri dalla bocca, come una mamma che imboccava il figlio con un grosso cucchiaio di zuppa. «Hm sì…» tagliò corto Rick, allungando il passo verso la porta a vetri. «Ha saputo quello che è successo? Come ha reagito alla tragica notizia?» «Ehm, sì… non bene, cioè male…» farfugliò lui. Non sapeva esattamente cosa dire. Fece una pausa tentando di elaborare un pensiero articolato, mentre fissava la palla nera del microfono penzolare di fronte alle sue labbra. Una mamma che imboccava il figlio molto, molto assonnato. «Conosceva personalmente il signor Moneta?» tentò di nuovo l’intervistatrice, accelerando il passo per rimanergli a fianco. Indossava un vestito elegante rosso pomodoro con gonna a quadri, e ricordava


16 vagamente una delle protagoniste di un film horror che Rick aveva visto qualche sera prima. Mentre sgranocchiava arachidi tostate seduto sul divano, Riccardo aveva assistito con soddisfazione allo spettacolo della donna appesa a un gancio e fatta a pezzi con un’accetta dal cattivo della pellicola, e pensò che avrebbe fatto volentieri lo stesso con quella giornalista dalle mèche bionde e un grazioso neo sotto la narice sinistra che si ostinava a fargli domande alle otto del mattino. «Devo ripeterle la domanda? Non mi ha sentito?» Accetta che cala violentemente all’altezza della spalla destra, fracassando con uno schiocco la clavicola. Urlo straziante fuori campo. Inquadratura del sangue che schizza sul soprammobile a forma di Babbo Natale sul caminetto. «Signore? Mi sta ascoltando?» Fortunatamente per Rick, l’attenzione di tutti i presenti si spostò di colpo verso l’ingresso dell’edificio, dove stava facendo la sua comparsa una figura che aveva tutta l’aria di essere di un umore molto peggiore di quello di Riccardo. Ivan Greco varcò la soglia della Mirror ICT e si avviò verso la rampa di scale che portava alla strada. Indossava un completo color navy con cravatta abbinata che pareva la trasposizione in chiave seta e stoffa di un paio di stipendi mensili di Rick, e degli occhiali da sole scuri antiriflesso. Al suo fianco camminava la fidanzata, Virginia Salerno, con un impeccabile tailleur a doppio bottone con gonna a tubino nera e un’espressione vagamente preoccupata dipinta sul volto. Con grande gioia di Rick, la giornalista si scusò e si affrettò a raggiungere la massa dei colleghi che si accalcarono tra loro per essere i primi a raggiungere e intervistare il capo dell’azienda attraverso la muraglia umana degli addetti alla sicurezza. Rick si godette la scena dei giornalisti che si fiondavano su Ivan facendo domande a ripetizione, e nel mentre ne approfittò per sgusciare tra la folla indisturbato. Alla sua sinistra i flash delle macchine fotografiche scattavano a mitraglia, dipingendo lampi di luce sulla superficie impenetrabile degli occhiali scuri di Ivan. «Signor Greco, una dichiarazione sull’omicidio di questa notte?» «Pensa che la Mirror possa proseguire nonostante la scomparsa di Claudio Moneta?» «Ha qualche idea su chi possa aver commesso un delitto del genere?»


17 «Potreste non rompere le palle?» tuonò lui, per tutta risposta. Si fece largo tra la massa di gente e si infilò nella berlina nera che lo attendeva sul ciglio della strada. Un mormorio di disapprovazione percorse la folla, e Virginia Salerno, visibilmente a disagio, si voltò a lanciare un’occhiata a mo’ di scusa per il comportamento del fidanzato. Rick assistette alla scena e si fece due risate. Ivan Greco non era rinomato per il suo amore verso il mondo del giornalismo, e più volte si era lasciato andare pubblicamente a pesanti commenti su reporter e cronisti, da lui definiti “una massa di pettegoli ignoranti”. Tutto sommato, si disse, non poteva dargli eccessivamente torto: i giornalisti comparivano in testa alla sua classifica personale delle persone-irritantiche-svolgono-lavori-socialmente-inutili, assieme ai PR delle discoteche, ai fashion blogger e ai vigili che ti facevano la multa proprio nel quarto d’ora in cui lasciavi la macchina in sosta. Nei suoi anni di carriera in campo tecnologico, Rick si era spesso ritrovato a leggere articoli di giornale in cui venivano messi a confronto i loro prodotti con quelli della concorrenza, rimanendo più volte impressionato dalla sicurezza con cui gli autori snocciolavano sequenze di specifiche tecniche a casaccio per conferire alle loro trattazioni una parvenza di rigore scientifico. Dual core. Teraflops. Bandwith della memoria. Leggere cose del genere gli faceva affiorare improvvise pulsioni omicide, e si figurava intento a picchiare selvaggiamente reporter incamiciati con il suo manuale universitario di Architettura dei Processori da ottocento e più pagine. “No, ti prego, non farlo!” Bam. Ottocentotrentasei pagine si abbattono senza pietà sul volto belloccio del giornalista dai capelli biondi. Nell’urto, una pagina raffigurante uno schema di trasmissione dati alla CPU si stacca dal libro e volteggia nell’aria. Rick si posizionò di fronte alle fotocellule della porta scorrevole e attese che il telaio in vetro scorresse di fronte a lui. Il caso della Mirror Lens, la loro ultima fatica aziendale, era un perfetto esempio di come i giornalisti fossero perennemente incapaci di spiegare le loro tecnologie in maniera accurata. Il prototipo era stato presentato da Ivan alla fiera internazionale della tecnologia di Berlino, a settembre dell’anno precedente, e il suo funzionamento si basava su un progetto ideato da Claudio Moneta per mappare in digitale i dati ottenuti


18 dall’occhio umano. Se Rick avesse dovuto spiegare la dinamica del minuscolo apparecchio a qualcuno, avrebbe probabilmente detto una cosa del tipo: “La lente in polimetilmetacrilato può analizzare i fasci di onde elettromagnetiche del cervello associati a uno stimolo ottico e ricostruire in modo univoco l’immagine di partenza attraverso un cammino all’inverso, codificando e decodificando la traccia dell’attività elettrica della corteccia visiva. Lo scan viene effettuato grazie a dei sensori EEG per l’elettroencefalografia posti all’interno dell’idrogel della lente, e le informazioni ottenute sono processate algoritmicamente e registrate in codice esadecimale nella memoria dell’apparecchio. Da qui, tramite connessione bluetooth, è possibile accedere ai dati e visualizzare l’immagine ricomposta in digitale.” Invece i giornalisti, per rendere la vita più facile ai lettori, avevano deciso di ripiegare su tre slogan più riassuntivi: Registra tutto ciò che vedi. Comanda gli oggetti col pensiero. Registra i tuoi sogni. Rick rise tra sé. Stronzate per fare presa sul grande pubblico. Ma i giornalisti, come sempre, ci erano andati a nozze, e negli articoli successivi dati in pasto alle stampe avevano rafforzato il concetto: “La lente che registra i sogni. La lente magica di Ivan Greco che permette di immagazzinare tutto ciò che vediamo, anche quando dormiamo”. Rick capiva la necessità della Mirror di ottenere finanziamenti, ma trovava questo modo di pubblicizzare la cosa tremendamente irritante. Specie quando era lui a sbattere la testa sulle linee di codice del software per notti intere fino a collassare sulla scrivania per il sonno. Il masochismo lavorativo non è mai abbastanza apprezzato, pensò. Rick fece un respiro profondo, varcò la soglia dell’ingresso ed entrò alla Mirror.


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3. 00011

In ufficio c’era parecchia agitazione. La gente correva da una stanza all’altra, maneggiando pile di moduli e rispondendo ai telefoni che squillavano in continuazione. Riccardo si imbatté in Filippo Croce, del terzo piano, paonazzo in volto e con un bloc notes in mano, che camminava tutto trafelato verso gli uffici dell’amministrazione. «Ehi Rick, hai saputo?» «Ho saputo.» «Bella merda, eh?» «Già.» Filippo indossava una camicia azzurra, una delle sette che indossava a rotazione. Quella del giorno prima era bianca con le righine verticali nere e ocra; domani sarebbe toccato a quella grigia col taschino. A Filippo piacevano le camicie ben stirate e il cinema australiano. Aveva una collezione di orologi da polso. Alle macchinette prendeva sempre il caffè zuccherato tre su cinque. «Rick, dimmi sinceramente… era Claudio a capo del progetto della Lens giusto?» Già. E ora è a capo del progetto aziendale per la gestione degli spazi interni dell’obitorio. «Sì.» «Quanto è grave la situazione adesso? Senza di lui, intendo…» Uno spettacolo. Ufficiosamente parlando, tutto ciò che la direzione può fare ora è diramare un comunicato interno in cui consiglia a tutti i dipendenti del progetto di raggomitolarsi a terra in posizione fetale e dondolarsi avanti e indietro piangendo. «Abbastanza. Era Claudio a gestire tutto: senza di lui saremo un po’ disorientati, immagino…» Filippo sospirò. Aveva una chiazza di barba mal fatta sotto l’orecchio sinistro e Rick continuava a fissarla. A Filippo piacevano i paragrafi ben formattati e guardare il tennis alla domenica pomeriggio. Quando


20 scriveva usava solo le biro nere e mai quelle blu, perché quelle blu, diceva, gli davano fastidio. Dopo aver preso il caffè alle macchinette, si lamentava sempre che c’era poco zucchero. «Immagino. Beh, in bocca al lupo Rick. Sarà una giornata lunga.» «Ciao, Fil.» La chiazza di peli imboccò un corridoio laterale e sparì dietro a una fotocopiatrice. In piedi nel mezzo della stanza, Rick si godette per qualche minuto la brezza leggera del condizionatore a parete, pensando che ogni militante di Greenpeace che organizzava fiaccolate di protesta contro lo spreco di energia elettrica nel mondo non aveva mai vissuto una giornata d’estate a Milano con trentanove gradi all’ombra. Chiuse gli occhi, lasciando che l’aria fresca gli accarezzasse il viso. Ecco un lembo di vento che rapisce cristalli di soffice sabbia dorata. Ecco l’onda spumosa che accarezza la superficie limpida del lungomare. «RICK!» Trattenne il fiato. Allungò il passo verso l’ascensore. Ecco un’avvenente fanciulla con collana di fiori che mi porge un Long Island in noce di cocco con cannuccia di bambù e ombrellino decorativo. «RICK, FERMATI UN SECONDO!» Si voltò rassegnato. Il volto della fanciulla hawaiana assunse gradualmente le forme di un grugno livido a lui fin troppo familiare. Ecco una faccia che avrei fatto volentieri a meno di vedere. «‘giorno Franco. È sempre bello vederti.» Non c’era molto da dire su Franco Sartori. Era grasso, urlava spesso e la quantità di sigarette che fumava giornalmente avrebbe potuto assicurargli una brillante carriera come sponsor ufficiale della Marlboro. La parola “cazzo” andava a costituire una porzione significativa degli intercalari da lui usati all’interno di una conversazione. «Era ora che arrivassi, cazzo!» disse. «La metro era in ritardo.» «Strano. Quella cazzo di verde è sempre in ritardo.» Rick tornò con la mente al barbone della metro. Le incrostazioni sulle guance che parevano continenti in rilievo su un planisfero di pelle sporca. Gli occhi iniettati di sangue che fissavano senza troppa speranza i passeggeri del treno, mentre allungava in avanti un bicchiere di plastica del McDonald aggiustato malamente con dello scotch, per elemosinare


21 qualche euro. Si immaginò Franco al suo posto, con indosso uno squallido parka mimetico, che suonava un violino malconcio in legno di palissandro. Lui faceva su e giù con l’archetto e il violino suonava una bella canzone da violino, tipo uno stralcio di musica classica o la colonna sonora di Pirati dei Caraibi. E l’archetto faceva zarazam-zam zarazamzam e Franco cantava, e cantava a Rick che dannazione, non ci voleva in un momento delicato come questo, e che la polizia non aveva trovato nessuna traccia utile sull’assassino nell’appartamento e che le azioni della Mirror avevano avuto un tracollo del sette percento. «…del sette per cento, Rick! Che gli dico agli azionisti io eh? Ivan è furibondo, non l’ho mai visto così agitato!» Mentre parlava, Rick riusciva a percepire ogni grammo di catrame nelle vie aeree di Franco. Ogni molecola di benzopirene. Ogni singola tossica particella di acroleina che infiammava le mucose interne della laringe fino a danneggiare la frequenza respiratoria. Ogni anno, nel mondo, circa sei milioni di persone morivano per cause derivanti dal fumo di sigarette. Più o meno una persona ogni cinque secondi. Sedicimila persone ogni ventiquattr’ore. Undici virgola quattrocentoquindici persone al minuto. Potevi morire di tumore ai polmoni. Di infarto cardiaco. Di cancro alla cavità orale. Ti veniva un aneurisma dell’aorta addominale: l’arteria si dilatava per sei centimetri buoni fino a scoppiare, e tu morivi per emorragia interna. Se eri particolarmente sfortunato, ti beccavi una psoriasi e la tua pelle si ricopriva di simpatiche placche eritematose simili a pustole, che prudevano e ti conferivano un aspetto piuttosto spiacevole alla vista. Sei milioni di morti all’anno. Più dei soldati morti nella Seconda guerra mondiale. Beccati questa, Hitler, pensò Rick. Franco continuò a spiattellare qualcosa sull’attuale quota di punti percentuale della Mirror sul totale dei dati azionistici del mercato nazionale. Qualunque cosa significasse. Disse che senza Claudio erano in un brutto casino e che Ivan era stato chiamato dalla polizia per accertamenti riguardo a un possibile movente collegato al lavoro che la vittima stava svolgendo presso l’azienda. Disse tutto ciò, e aggiunse una buona percentuale di “cazzo” qua e là per marcare il concetto. Rick gli disse che aveva incontrato Ivan e che sì, in effetti non sembrava di ottimo umore. Gli disse che, data la situazione, ora avrebbe fatto meglio a correre alla sua scrivania e andare avanti con il progetto, per evitare che restassero indietro più di quanto già non fossero.


22 Franco annuì e si leccò i denti ingialliti dalla nicotina, poi imprecò un paio di volte e scappò via per fumarsi una sigaretta. Rick sospirò di sollievo. Intorno a lui lo squillare di telefoni unito al suono dei tasti battuti a computer componeva una melodia di fondo involontaria che sapeva di monotonia e alluminio. Dodicesima sinfonia di allegria aziendale in re minore. Il suono del progresso che avanzava. Si diresse all’ascensore. Premette la freccina in su. Il cerchio di luce blu elettrico attorno al tasto era una buona rappresentazione del cerchio stretto attorno al suo cranio in quel momento. Hello emicrania, my old friend, canticchiò mentalmente. Un ronzio annunciò l’arrivo dell’ascensore. La cabina metallica comparve dal profilo del piano superiore e si allineò vibrando al pianterreno. I politici dicono tanto che i giovani devono sbattersi e faticare per ciò in cui credono e poi l’Italia è il paese al mondo con il maggior numero di ascensori, pensò. Le porte si aprirono. Rick scambiò un gesto d’intesa con il suo riflesso sulla parete a specchio di fronte, poi si voltò per premere il pulsante del sesto piano. Indugiò un istante sulle sferette sporgenti che componevano il sei in alfabeto braille, poi spinse il pulsante in avanti. Le porte dell’ascensore iniziarono a chiudersi. Gli venne in mente una barzelletta. Faceva più o meno così: due uomini camminano carponi lungo le rotaie di un treno. Visibilmente affannati, superano una traversa dopo l’altra appoggiando le ginocchia sulle assi di legno e tenendosi alle rotaie laterali… Dita laccate di smalto porpora irruppero all’improvviso nello spazio della cabina passeggeri. Le ante di acciaio si bloccarono, vibrarono qualche secondo e poi tornarono indietro. …Uno dei due uomini si volta, la fronte imperlata di sudore. Dice ehi, ma quanto è lunga questa scala? Virginia Salerno entrò nell’ascensore e disse: «Uff, appena in tempo!» Il secondo uomo indica davanti a sé e con voce sollevata risponde: Profumo di gelsomino e acqua di sale invase lo spazio della cabina. …tranquillo, finalmente arriva l’ascensore. Le porte si chiusero.


23 Calò il silenzio. Rick si aggiustò nervosamente il colletto della camicia, mentre di fronte a lui Virginia si sistemava in maniera tale da dargli le spalle. Lui cercò di isolarsi dal silenzio imbarazzante nell’ascensore estraendo lo smartphone e fingendo di controllare importanti mail di lavoro, mentre contemporaneamente avviava un giochino per telefono e si metteva a far saltare una pallina rossa su un rettangolo gialloblù. Cento punti nel gioco della pallina rossa. Meno duemila punti nel gioco Io VS la mia sindrome da ansia sociale. Non era mai stato troppo bravo in quel gioco. «Cristo, che idiota!» L’esclamazione improvvisa riscosse Rick dai suoi pensieri. Era stata Virginia a parlare, e lui rimase per un momento interdetto. Sebbene non fosse un esperto conoscitore delle meccaniche di relazione interpersonali, persino lui riusciva a capire che un’espressione del genere non era propriamente contenuta nell’elenco delle frasi di circostanza da dire in ascensore, come “Eh, fa proprio caldo oggi” o “Uff, non vedo l’ora che sia venerdì”. «Che diavolo ti deve passare per la testa per rispondere così in diretta?» proseguì la sua compagna di ascensore, senza lasciare intendere se si aspettasse effettivamente una risposta. «Siamo già abbastanza nei casini con la stampa senza che quel genio si metta a fare queste uscite davanti alle telecamere!» Rick intuì che il bersaglio della sfuriata doveva essere Ivan e la sua uscita contro i giornalisti di poco prima. Ridacchiò tra sé, iniziando a capire la situazione. Pensò a Ivan e Virginia. Rifletté sul fatto che non sapeva molto della giovane donna, oltre al fatto che possedeva un master in ingegneria biomedica acquisito all’università di Utrecht, in Olanda, che affiancava il fidanzato alla dirigenza dell’azienda e che era un sacco bella. Da quanto ne sapeva lui, lei e Ivan si erano conosciuti su un volo diretto a Eindhoven pochi anni prima, circa a metà strada, cronologicamente parlando, tra l’istante in cui Claudio Moneta sedeva in un’aula universitaria intento a scarabocchiare circuiti elettronici su un foglio a quadretti e quello in cui giaceva morto in una pozza di sangue con tre pallottole nove millimetri in corpo. Le uniche altre informazioni in possesso di Rick su Virginia provenivano da articoli di riviste di gossip incentrati sulla relazione della donna con Ivan, con titoli dal dubbio


24 gusto come “Gli ingegneri più sexy dell’estate” o “La bella e il ricco nerd”, e dai vari pettegolezzi delle pause caffè, che obiettavano maliziosamente come Virginia avesse imboccato una corsia preferenziale nella vita andandosi a scegliere un partner milionario. «…tanto quella che poi deve sbattersi per chiamare i giornalisti e scusarsi sono io, no?! Che nervoso!» Virginia concluse quello che doveva essere stato un lungo monologo portandosi il palmo della mano sulla fronte e sbuffando in segno di esaurimento. Solo allora alzò lo sguardo e parve accorgersi della presenza di Rick. Lui la guardò un po’ imbarazzato. «Chiedo scusa, non avevo intenzione di farti ascoltare le mie sfuriate. È… stata una mattinata difficile…» disse lei, facendo un profondo respiro. Rick pensò con nostalgia al suo letto comodo e al suo pc che proiettava la terza stagione di Breaking Bad e si disse che se c’era qualcuno che meritava compassione per aver passato una mattinata difficile, quello era lui. «Sì beh, siamo tutti un po’ scossi, immagino…» «Claudio era un brav’uomo. Lo so che si dice sempre, in queste occasioni, ma… boh, lui lo era davvero», mormorò Virginia. Rick pensò alla volta in cui aveva chiesto a Claudio se avesse un euro per il caffè e lui gli aveva risposto che non aveva moneta. L’ora dopo, in pausa pranzo, lo aveva visto comprare una bottiglietta d’acqua con due monete da cinquanta centesimi. Si disse che il killer non doveva aver avuto poi tutti i torti. «Beh, sì, sono d’accordo. Sicuro non era uno stronzo», disse. Virginia rise. «Ho conosciuto un sacco di stronzi nella mia vita, ma una cosa è certa: Claudio non era tra questi.» Ho conosciuto un sacco di scollature insignificanti nella mia vita, ma una cosa è certa: la tua non è tra queste, pensò Rick. Virginia attaccò con un racconto nostalgico: «Sai, quando ho conosciuto Claudio la prima volta, Ivan mi aveva detto che…» Rick si costrinse a fissare i suoi orecchini, per non sembrare indiscreto. Erano sottili forme rettangolari in oro bianco con piccoli diamanti tondi: parevano minuscole pallide ghigliottine e creavano riflessi argentei con le luci artificiali dell’ascensore. Indossava anche un sottile pendente che raffigurava piccoli fiori color platino, i cui petali andavano intrecciandosi in spirali argentate. La collana scendeva evidenziando le forme del seno che…


25 Dannazione Rick, concentrati! «…Loro due erano molto diversi all’epoca. Beh, non che in seguito le cose siano molto cambiate. A Claudio non è mai importato molto dei soldi o del successo. Lui voleva solo che le cose si facessero bene e con calma. Una volta stavamo discutendo e…» Il peso di una tetta si aggira mediamente intorno ai 500 grammi. Il seno dà un contributo del circa cinque percento al totale della massa grassa di una donna media e va a costituire da solo circa l’un percento dell’intero peso corporeo femminile. «…non sei d’accordo?» concluse Virginia, fissandolo con sguardo divertito. «Eh? Oh, sì, più o meno!» esclamò lui. Sorrise, temendo ulteriori domande. Ci fu una pausa di qualche secondo. Virginia si fece scura in volto. «Claudio era un mio buon amico», sussurrò. «Spero che trovino presto il colpevole e gliela facciano pagare cara.» Rick deglutì. D’un tratto ebbe la percezione di cosa avesse reso quella donna così giovane capace di arrivare in cima alla dirigenza di un’azienda. Fu questione di un attimo. Con la stessa velocità con cui era passata dal sorriso a quello sguardo glaciale, Virginia sembrò tornare in sé e si rivolse a Rick con fare cordiale: «Comunque sia, tu sei Riccardo giusto? Lavori al progetto Lens, se non sbaglio.» Rick si sorprese che lei conoscesse il suo nome. Con un pizzico di orgoglio, rispose: «Sì, esatto. Lavoro come sviluppatore sul software del progetto.» Sorrise. Virginia annuì e sembrò rimuginare qualcosa tra sé. «Senza Claudio, l’intero progetto subirà un grosso rallentamento. Siamo già in ritardo sulla tabella di marcia e adesso non potrà che andare peggio. Sembra quasi che…» Ding. Le porte dell’ascensore si aprirono. Sesto piano. Il suo capolinea. «Come non detto», osservò lei. «Ti lascio al tuo lavoro.» «Sarà uno spasso, immagino», replicò Rick, alzando teatralmente un sopracciglio. «Potrebbe andarti peggio. Buon lavoro, Riccardo.» «Rick», rispose lui, quasi istintivamente. «Come scusa?»


26 Lui sorrise e portò due dita al petto. «È il mio soprannome. Mi chiamano tutti così.» Virginia annuì, divertita. «Allora buon lavoro, Rick.» Ding. Le porte dell’ascensore si chiusero. La figura di Virginia Salerno venne inghiottita dalle fauci di acciaio inox antigraffio e scomparve alla sua vista. «Si torna al lavoro», mormorò tra sé Rick. Si diresse alla sua scrivania, si sedette e accese il computer. Tempo dieci minuti ed era immerso in un universo mentale parallelo, fatto di linee di codice software e algoritmi di programmazione. Quando si alzò dalla scrivania e staccò il cavo di collegamento USB del prototipo Lens, era ormai sera e il sole era freddo e cominciava a calare all’orizzonte.


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4. 00100

Inquadrate il volto sorridente e pacioccoso di un bambino con le lentiggini. L’inquadratura è ferma sull’espressione immobile, quasi ebete, stampata sul viso del bimbo, mentre fissa la barretta di cioccolato stretta tra le sue mani come se tenesse tra le dita la chiave di accesso alla felicità cosmica. Il bambino ha le lentiggini e le lentiggini sono il fattore fondamentale. Un bambino con le lentiggini è un bambino solare, spensierato e sorridente, e non ti fa pensare a quei ragazzi di adesso che passano i pomeriggi chiusi in casa davanti ai videogames a uccidere persone virtuali mentre indossano grosse cuffie ingombranti di plastica nera e sbraitano insulti al microfono. Quelli sono bambini cattivi. Loro non hanno le lentiggini. L’inquadratura rimane fissa per un po’ sul sorriso innaturale del bimbo caruccio, fino a che il suo sguardo comincia ad apparire un filino inquietante, poi lo zoom si riduce e sotto il volto del bambino allegrotto compare un marchio pubblicitario in grafica vettoriale, che riproduce il nome di una multinazionale specializzata in dolciumi. Lo zoom diminuisce ancora e il faccione compiaciuto del bimbo golosone si riduce a un particolare sulla confezione rossa e bianca di una doppia barretta al cioccolato, saldamente ancorata sulla destra a un fermo metallico a spirale. Allargate ancora un po’ il campo dell’inquadratura e ai lati della doppia barretta compariranno, rispettivamente sulla sinistra e sulla destra, una brioche confezionata al latte con striature arancio albicocca e contenuto ridotto di grassi idrogenati e un pacchettino di taralli all’aroma artificiale di rosmarino. Allargatelo ancora e troverete lattine di coca-cola, merendine extra zuccherate e pacchettini di biscotti alla crema con gocce di cioccolato extra fondente. Immagini di famigliole felici stampate sulle confezioni si mischiano a slogan commerciali di pace e armonia, in una sorta di


28 monumento all’estetica alimentare dipinto con colori brillanti e senza olio di palma. Il tutto è disposto ordinatamente in righe e colonne dietro al pannello di vetro di una macchinetta automatica che sta elargendo un resto di diciotto centesimi. Allargate ancora il campo e troverete Rick, intento a raccogliere piccole monete di rame dallo scompartimento inferiore della macchinetta. «Illuminàti», disse Marco. L’ufficio era silenzioso a quell’ora del pomeriggio, e l’unico suono udibile in sottofondo era il ronzio della fotocopiatrice. Due monetine piccole da un centesimo, poi una moneta grande da cinque. «Stai certo che l’assassino non lo trovano. Insabbieranno tutto. Come l’omicidio di Kennedy. O il casino dell’11 settembre.» Sicuro, pensò Rick. «Secondo me c’entra con Facebook. Diceva sempre che gli sarebbe piaciuto hackerare Facebook. Secondo me deve avercela fatta. Ha scoperto qualcosa di davvero grosso e qualcuno si è incazzato.» Un’altra grande da cinque cent e tre piccole da due. «Insomma, non puoi mica fottere con Zuckerberg. Se è così ricco, un motivo ci sarà. Mica diventi così ricco con solo un sito. Non credi?» Due più cinque più cinque più sei fa diciotto. Diciotto centesimi. Si alzò soddisfatto. Marco stava ancora blaterando qualcosa a riguardo delle vere cause dell’attuale crisi economica. Qualcosa a proposito di una finta carenza di carburante organizzata dai dirigenti delle principali multinazionali americane. E di conflitti bellici indotti per accaparrarsi il petrolio. «È tutta colpa di Jay Z», concluse soddisfatto. Rick sospirò. Marco sapeva essere molto simpatico, quando non parlava di cospirazioni globali o teorie sul nuovo ordine mondiale. Era anche lui un dipendente del progetto Lens, ma si occupava principalmente della componentistica hardware, vale a dire cavi, circuiti integrati e altre cose elettroniche che andavano toccate e collegate con le mani. Aveva i capelli biondi e gli occhi piccoli e cisposi, e dalla larghezza delle occhiaie che esibiva ogni giorno al lavoro si sarebbe potuto ricavare l’impressione che non avesse mai dormito un giorno nella sua vita. «Piuttosto, hai idea di cosa parlerete alla riunione?» chiese. Quella mattina, Rick si era svegliato con un’emicrania feroce. A letto, mentre la campana di marmo nel suo cervello faceva din don contro le


29 pareti del suo cranio, aveva controllato il telefono, trovando una mail non letta da parte di Virginia Salerno. La mail lo informava che era prevista una riunione straordinaria per quel pomeriggio, per discutere di “questioni di estrema importanza riguardanti l’andamento del progetto Lens”. «Non ne ho idea. Probabilmente dovremo rivedere la suddivisione del progetto adesso che Claudio non c’è più. Ridistribuire i compiti. Cose così…» Diede un morso alla barretta al cioccolato e caramello che la macchinetta aveva appena sputato fuori, mentre alla sua destra Marco aveva ripreso a blaterare cose. Cose complottistiche, per lo più. «Il 10 aprile del 1912 il transatlantico RMS Titanic entra ufficialmente in servizio presso la flotta britannica della White Star Line. Quattro giorni dopo, a venti minuti dallo scoccare della mezzanotte, impatta un iceberg nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico. La nave cola a picco, portando alla morte di millecinquecento diciotto passeggeri sui duemiladuecento ventitré totali. È il 14 aprile del 1912.» Rick si specchiò nella superficie di vetro del distributore. L’occhio sinistro era iniettato di sangue, lì dove la notte precedente aveva indossato il prototipo della MRR Lens. Pochi centimetri dietro l’orbita infiammata, il suo cervello rimbombava al ritmo dei battiti del suo cuore. Tum. Tum. Tum. Serrò i denti per il dolore. «Nel 2012 la nave da crociera italiana Costa Concordia, di proprietà della compagnia di navigazione Costa Crociere, urta uno scoglio durante la traversata tra Civitavecchia e Savona e affonda presso l’Isola del Giglio. È il 14 gennaio 2012, esattamente novantanove anni e nove mesi dopo la tragedia del Titanic. Nove nove nove.» Ogni pulsazione era un sottile ago che bucava la sua retina e risaliva il nervo ottico, fino a conficcarsi nella massa sanguinolenta del suo cervello. «Che all’inverso è sei sei sei. Il numero dell’occulto. Uno dei numeri degli Illuminati. Coincidenze?» «Sì, Marco sono coincidenze! Ora ti prego, smetti di parlare per qualche secondo prima che mi scoppi la testa.» Marco lo fissò divertito, ravanando rumorosamente taralli da un pacchettino di plastica. «Secondo me lavori troppo. Quante ore passi davanti a quel computer ogni giorno?» gli chiese.


30 Rick gli lanciò un’occhiataccia. In effetti era da un po’ che meditava di prendersi una vacanza. Magari su una nave da crociera. Si immaginò la cosa: stavi spaparanzato al sole ai bordi di una piscina per una settimana, bevendo cocktail analcolici gratuiti e flirtando con le quarantenni divorziate in cerca di un nuovo inizio per la loro deprimente vita sentimentale. Se ti andava bene, facevi colpo e rimediavi una serata focosa in una cabina Sea Premium con balconcino vista mare e minibar. Se ti andava male, la murata di dritta della nave impattava contro uno scoglio alla velocità di ventuno nodi, causando uno squarcio di sei compartimenti stagni nella fiancata sinistra dell’imbarcazione, e ti ritrovavi a remare su una lancia pieghevole sballottata dalle onde con l’aragosta della cena sullo stomaco e un giubbotto di salvataggio giallo evidenziatore addosso. «Sono un ingegnere informatico, Marco. Stare ore davanti al computer è il mio lavoro», gli rispose, massaggiandosi le tempie con indice e medio. Marco non ribatté e si infilò in bocca una manciata di taralli, facendoli scricchiolare tra i denti. Rick cercò di ignorare le pulsazioni sorde della sua scatola cranica e controllò l’ora sul telefono. Erano le tre meno dieci. «Vado», disse. «Ho riunione.» «Divertiti», gli rispose Marco. «Ah, e se vedi De Marzi, digli che ho un problema con il chip di trasmissione dati C2. Ma forse lo risolvo per domani pomeriggio.» Rick pensò che un giubbotto giallo evidenziatore gli sarebbe stato terribilmente male sopra quella camicia. *** La scena è più o meno questa: c’è un grosso tavolo ovale bianco, lucido, con dei sostegni minimali di acciaio a forma di cono. Sulla parete c’è un largo display che proietta staticamente il logo dell’azienda e attorno al tavolo stanno seduti loro sei, in cerchio, su sedie di colori diversi. Potrebbe sembrare una scena ambientata in un asilo nido privato, se non fosse che sono tutti in giacca e cravatta e non in pannolone e nessuno sta mangiando il proprio vomito. Tutti si guardano attorno o fissano il proprio telefono: sono in attesa, perché due sedie sono ancora vuote e sono due sedie tremendamente importanti. Ecco le onde spumose del mare che si infrangono sul bagnasciuga.


31 Ecco una spiaggia deserta in cui non c’è nulla da fare se non aspettare che i due mancanti si sbrighino. Rick controllò nuovamente l’ora sul cellulare. Erano le tre e cinque e sia Ivan che Virginia mancavano all’appuntamento. Il 4 luglio 1776 tredici colonie della costa est americana dichiarano la propria indipendenza dall’impero britannico, andando a costituire il primo nucleo degli Stati Uniti d’America. Nello stesso periodo viene fondato l’Ordine degli Illuminati, il cui simbolo è una piramide a tredici livelli. Le tredici file di mattoni dovrebbero rappresentare i tredici periodi di tredici anni necessari per la conquista del potere e l’instaurazione di un nuovo ordine mondiale. Di fronte a lui, Franco Sartori giocherellava rumorosamente con il suo accendino in acciaio, aprendolo e chiudendolo a intervalli regolari. Click. Click. Click. L’Apollo 13 fu lanciato alle ore 14:13 dal complesso 39, cioè tre volte tredici. Il logo del McDonald’s ruotato di novanta gradi comporrebbe palesemente il numero tredici, inoltre, la M è la tredicesima lettera dell’alfabeto. Click. Click. Papa Francesco fu eletto pontefice il 13 marzo 2013, tredici giorni dopo le dimissioni del predecessore. Inoltre, fu eletto a 76 anni e sommando sette più sei otteniamo tredici. Click. Il nome Franco Sartori è composto da tredici lettere. Coincidenze? La porta della stanza si aprì con un tonfo e tutti si riscossero. Ivan fece il suo ingresso nella stanza, seguito da Virginia subito dietro. «Buongiorno a tutti, scusate il ritardo. Abbiamo avuto un leggero contrattempo.» Ivan indossava un completo elegante grigio scuro con camicia di seta bianca. Tasche a filetto sul petto e abbottonatura frontale. Cravatta rossa standard. Rick sapeva che da qualche parte nel mondo doveva esistere un corso di meditazione ascetica che insegnava alla gente come sopravvivere un’intera giornata estiva con un completo del genere addosso, ma ancora non lo aveva trovato. Per contrasto, gli aloni di sudore sotto le sue ascelle iniziavano a somigliare in maniera preoccupante a una raffigurazione pittorica espressionista di metà Novecento.


32 Ivan si sedette. Virginia fece lo stesso. Ora c’erano tutti, al gran completo. Erano la grande famiglia felice del progetto Lens. I sei moschettieri della Mirror. Re Arturivan e i cavalieri della tavola degli stronzi. Ivan si schiarì la voce. «Vi ho convocati con urgenza», esordì, «perché c’è una questione della massima importanza di cui vorrei discutere.» Tutti si raddrizzarono inconsciamente sulle sedie. «Suppongo che siate stati messi tutti al corrente della tragica perdita che abbiamo avuto in azienda…» Rick intuì che stava per arrivare la parte imbarazzante dei dolorosi compianti funebri. Il requiem alla memoria di Claudio. Per evitare il disagio della conversazione si guardò attorno, studiando i suoi compagni di stanza. Alla sua sinistra, su una sedia color giallo canarino, stava Osvaldo Biaggi, responsabile di controllo gestione. Volendo tessere il suo ritratto per un necrologio, le sue caratteristiche sarebbero state: occhiali tondi tartaruga e un mutuo biennale speso presso studi dentistici. «Claudio era una valida risorsa per la nostra società. Ma non era solo questo: era un mio grande amico e fidato collaboratore fin dai tempi dell’università. Quando Claudio e io ci siamo incontrati…» Destra, sedia verde pisello: Walter De Marzi, responsabile della progettazione hardware. Sembrava incazzato, ma era una cosa di routine. Lui sembrava sempre incazzato. Tranne quando non beveva caffè. In quei giorni sembrava molto incazzato. «…e ogni volta che siamo stati in difficoltà su un progetto, Claudio è sempre stato il primo a mettere tutto sé stesso per trovare una soluzione che ci permettesse di andare avanti. Inoltre…» Franco si era scelto la sedia blu cielo. Aveva smesso di giocherellare con il suo accendino e fissava Ivan, tutto serio in volto. Alla sua destra sedeva Virginia, con una bellissima camicetta rosa decorata da nastri di seta nera. Braccialetto ad anelli dorati. Collana a pendente scura. La sua sedia era rossa: un rosso chiaro, tipo fragoline di bosco. «…membro leale… dipendente fidato… persona su cui contare… famiglia Mirror…» poco lontano da lei, Ivan continuava ad attaccare tra di loro parole con un tono cerimoniale che Rick trovava a dir poco fastidioso. E infine, sedia bianca, c’era lui: Riccardo Senna. Con una camicia sudata e un’emicrania lancinante. Ivan parlava del suo amico morto e tutto ciò


33 che Rick riusciva a pensare era che “Claudio Moneta” aveva tredici lettere. Come “polmone bucato”. Come “colpi nel petto”. Come “Riccardo Senna”. Coincidenze? «So bene che la morte di un collega è un argomento delicato e sono il primo che in questo momento vorrebbe parlare di altro. Ma come la signorina Salerno vi illustrerà a breve, abbiamo un grosso problema pratico da risolvere», concluse Ivan. Fece un cenno a Virginia. Lei annuì e si alzò, diretta verso il pc fisso nell’angolo della stanza. Estrasse dalla tasca una penna USB e la collegò alla macchina. Poi si voltò verso di loro e si schiarì la voce. «Ieri pomeriggio sono stata convocata presso la stazione di polizia per le procedure di riconoscimento del corpo di Claudio. Ebbene, ho notato qualcosa che non avrei dovuto notare.» Fece click con il mouse. Dopo che il cuore di un individuo cessa di battere, il sangue in circolo nell’organismo si deposita per gravità nelle zone più basse e coagula. Dopo circa un’ora dal decesso la congestione del sangue determina il manifestarsi di macchie viola sulla pelle, e dopo circa sedici-ventiquattro ore il contatto tra l’emoglobina del sangue e l’idrogeno solforato prodotto dai processi putrefattivi forma solfoemoglobina, che conferisce al cadavere la caratteristica colorazione verdastra. De Marzi soffocò a stento un’imprecazione di sorpresa. Gli enzimi lisosomiali liberati delle cellule del corpo creano un ambiente favorevole per il proliferare della flora batterica, che avvia il processo di decomposizione e produce gas di scarto come ammoniaca e metano. Questi si espandono all’intorno del corpo, dilatando i tessuti, e vanno a creare un vistoso rigonfiamento nella zona addominale, come se il cadavere fosse stato attaccato per la bocca a una pompa da biciclette e gonfiato come un palloncino. Osvaldo strabuzzò gli occhi attraverso gli occhiali tartaruga. Dopo qualche giorno dalla morte, un cadavere appare quindi livido, di un pallore verdastro e insolitamente rigonfio, ed esattamente così appariva il cadavere di Claudio Moneta nell’immagine a media risoluzione che Virginia stava proiettando sul display aziendale. «Cristo», esclamò Osvaldo, «ma questo non è materiale della polizia?»


34 «Sì, lo è», tagliò corto Virginia. «Qualcuno ha qualche osservazione più intelligente?» Rick taceva e fissava il volto tumefatto del cadavere di Claudio. Era terribilmente strano, considerando che aveva visto quello stesso ammasso di carne e muscoli camminare meno di quarantotto ore prima. Pensò alla morte: al fatto che passavi la vita a cercare il filtro giusto da applicare alla tua foto profilo sui social per poi ritrovarti in tutti i casi ad assomigliare alla brutta copia di un pugile asiatico gonfio di botte. Fissò le macchie violacee sulle braccia biancastre di Claudio. I fori di proiettile sul petto perforato di Claudio. Forse in futuro gli sarebbe stato possibile personalizzare la loro immagine post mortem, pensava. Se lo immaginava già: immagini commemorative con filtro vintage. Foto sulle lapidi con le orecchie e il naso da cane. Bare con le citazioni di Bukowski. «Non riesco a capire: che cosa dovremmo notare esattamente?» chiese De Marzi. Virginia ingrandì la foto del volto. Un primo piano del viso verdastro del defunto occupò l’immagine, in una sorta di versione horror del grande fratello di Orwell. Rick guardò le guance incavate di Claudio, color purè precotto. Le labbra rinsecchite di Claudio. Gli occhi gonfi di Claudio. Gli occhi di Claudio. Oh, cavoli. «Porca puttana» sussurrò Franco. Gli occhi di Claudio apparivano tumefatti e le cornee opache a causa dell’evaporazione dei liquidi oculari. Ma sull’iride destra, galleggiante nel bianco di un bulbo leggermente afflosciato, era chiaramente visibile il riflesso celeste di una lente a contatto trasparente. *** Per un breve momento nessuno parlò. Virginia li fissava, in attesa di un loro commento che tardava ad arrivare. Fu Rick a rompere il silenzio. «Nessuna possibilità…» esordì speranzoso, «…che Claudio stesse semplicemente portando delle lenti da vista quando è morto?»


35 «Negativo», ribatté Virginia in tono grave. «Claudio non aveva problemi di vista. Inoltre, ciò non spiegherebbe come mai ha addosso una sola lente anziché due. Potrebbe avere perso la sinistra quando gli hanno sparato, ma allora la scientifica avrebbe dovuto trovarla vicino al corpo. No, credo proprio che la realtà sia un’altra…» «È una Lens», concluse De Marzi. Virginia annuì. Calò nuovamente il silenzio, interrotto solo dagli sciocchi periodici dell’accendino con cui Franco aveva ripreso a giocare nervosamente. Rick intuì che tutti loro stavano pensando alla stessa cosa. Pareva la fine di una proiezione al cinema, quando tutti fissavano i titoli di coda che scorrono e attendevano leggermente imbarazzati per vedere se qualcuno dava inizio a un applauso perché nessuno voleva essere il primo a battere le mani. Solo che questa volta non erano seduti su comode poltroncine reclinabili rosse e, sfortunatamente per lui, Rick non stava masticando popcorn al caramello. Fissò una minuscola macchia di inchiostro sulla scrivania bianca, mentre pensava alle conseguenze della scoperta che avevano fatto. Claudio era morto indossando la Lens. L’ultima versione del prototipo aveva risolto le problematiche hardware legate alla cattura dell’immagine in movimento. È in qualche modo possibile che…? «Domanda…» esordì Osvaldo. «Ammettendo che quella che indossava Claudio fosse una Lens, perché la cosa dovrebbe essere così importante? Voglio dire, mi pareva di ricordare che nelle ultime versioni la registrazione visuale non funzionasse tanto bene…» I denti bianchissimi di Osvaldo Biaggi parevano file di custodie per telefono ordinate geometricamente. Simmetrici come le scatole da scarpe impilate sugli scaffali dei negozi, lucidi come le superfici riflettenti delle piastrelle dei bagni. Sulla sua lapide personalizzata, Osvaldo avrebbe fatto scrivere la citazione di un autore che non aveva letto. «Funzionava, invece», lo interruppe brusco De Marzi. «Abbiamo risolto i problemi con l’ultimo aggiornamento del firmware. L’ultima volta che abbiamo fatto i test, siamo riusciti a ottenere una registrazione video stabile a quattro e ottanta pixel.» «Ma quindi…» mormorò Osvaldo, senza concludere la frase. Ci fu una pausa di qualche secondo. Tutti pensarono la stessa cosa, ma fu Virginia per prima a dare voce ai loro pensieri.


36 «…Quindi sì, è possibile che Claudio abbia registrato il volto del suo aggressore.» Anche scoperta shock ha tredici lettere, pensò Rick.


37

5. 00101

Il tachimetro della macchina segnava i quarantacinque chilometri orari e l’ago del contagiri segnava all’incirca duemila giri al minuto; il tergicristallo che sferzava con foga a destra e sinistra sul parabrezza dell’auto, invece, segnava con chiarezza che fuori pioveva da far schifo. «Tempo di merda», imprecò Marco, sterzando a sinistra per evitare una pozzanghera. Al suo fianco, sul sedile passeggeri della Punto rossa, Rick seguiva con lo sguardo un rigagnolo d’acqua correre sulla superficie del finestrino e catturare minuscole gocce di pioggia. Lamentarsi del brutto tempo a Milano era totalmente inutile, pensava. La pioggia rappresentava una presenza costante nella vita della città, al pari del traffico, dei venditori abusivi in metro e della gente che fermava i passanti per strada chiedendo denaro da donare a enti benefici quando in realtà cercava solo soldi per la droga. New York aveva l’Empire State Building e la Statua della Libertà. Parigi aveva la “Tour” e tutti quegli edifici fichi in stile Liberty che piacevano tanto ai turisti cinesi. Milano aveva la pioggia. Un sacco di pioggia. L’acqua battente tamburellava con forza sul vetro, mentre fuori la gente tentava di resistere alle violente raffiche di pioggia facendosi scudo con ombrelli di tela scuri. Ogni dieci secondi circa, in strada qualcuno suonava un clacson. Poi qualcuno rispondeva, e lo strombazzare collettivo andava a costituire una delle classiche colonne sonore dell’ecosistema milanese. Rick pensò che se Beethoven fosse stato di Milano, al posto dell’“alla Gioia” avrebbe scritto “l’Inno al daicazzomuoviti”. Marco inchiodò per evitare di tamponare un’auto troppo lenta, poi picchiò sul clacson un paio di volte e la sorpassò bestemmiando. Rick alzò gli occhi al cielo. Il nervosismo era palpabile nelle strade di Milano. Era un ente fisico, come la pioggia o la cappa di smog che avvolgeva perennemente la


38 metropoli e faceva sì che d’estate ci fossero quaranta gradi all’ombra. A Milano avevi una sola scusa per andare piano: essere morto. In tutti gli altri casi, stavi rallentando il traffico. Ergo, stavi facendo perdere tempo alle persone. Ergo, stavi facendo perdere soldi alle persone. In quella città, “il tempo è denaro” non era un proverbio. Era una legge ontologica. Il rigagnolo d’acqua raggiunse il fondo del finestrino e scomparve alla sua vista. Rick chiuse gli occhi e, per l’ennesima volta nell’arco di quella mattinata, si chiese come avesse fatto a cacciarsi in una situazione così irrimediabilmente stupida. Ecco il profumo salino della brezza del mare che mi accarezza le guance. Ecco sei persone sedute a una scrivania che fissano la foto di un cadavere proiettata su un display a muro. *** ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD


INDICE

PROLOGO. 00000 ................................................................................ 4 (1.) 00001 ........................................................................................... 7 (2.) 00010 ......................................................................................... 14 (3.) 00011 ......................................................................................... 19 (4.) 00100 ......................................................................................... 27 (5.) 00101 ......................................................................................... 37 (6.) 00110 ......................................................................................... 47 (7.) 00111 ......................................................................................... 52 (8.) 01000 ......................................................................................... 63 (9.) 01001 ......................................................................................... 73 (10.) 01010 ....................................................................................... 88 (11.) 01011 ....................................................................................... 97 (12.) 01100 ..................................................................................... 107 (13.) 01101 ..................................................................................... 114 (14.) 01110 ..................................................................................... 123 (15.) 01111 ..................................................................................... 130 (16.) 10000 ..................................................................................... 138 (17.) 10001 ..................................................................................... 148 (18.) 10010 ..................................................................................... 161 (19.) 10011 ..................................................................................... 170 EPILOGO. 10100 .............................................................................. 181 RINGRAZIAMENTI ........................................................................... 185



AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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