Uomini, donne, ghiaccio e lime

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Massimiliano Blandino

UOMINI, DONNE GHIACCIO e LIME

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UOMINI, DONNE, GHIACCIO E LIME Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Massimiliano Blandino ISBN: 978-88-6307-335-5 In copertina: immagine proposta dall’Autore Finito di stampare nel mese di Dicembre 2010 da Logo srl Borgoricco - Padova



INTRODUZIONE FREDDA

Le donne: chi sono le donne? Dove le ho viste per la prima volta o per l’ultima, in quali città, in quante forme, avvolte in quali abiti? Che cosa so di loro oltre al fatto accettabile che io le riconosca come altro dagli uomini, altro dalle pagine scritte, dalle bugie sull’amore, dalle certezze sfoderate dagli insicuri manuali sul sesso senza problemi o dagli sterili test stampati fra i gossip estivi e compilati con totale noia da sdraiati, sulle spiagge svendute ai nuovi amanti dell’era della nevrosi? Non so rispondere, ma quella sera, mentre ti aggiustavi le calze prima di uscire dalla nostra casa e ridevi la risata dell’amore, ho iniziato a capire qualcosa delle donne, perché cercavo grandi risposte, quando poi, nel gesto minimo di sfiorarti le cosce per sentire se le tue gambe fossero ben fasciate dai collant, sapevi perfettamente che io ti stavo osservando, in diagonale, discreto e che non farti più uscire da quella porta, e farlo in piedi appoggiandoti alla sottile separazione blindata tra il nostro dentro e il fuori di tutti, era il risultato che volevi, che ti aspettavi da me. Ma tu eri la donna di carne e sapevi che non avevo scampo, che non avrei detto no, che ero niente di più che un intreccio muscolare involontario e vulnerabile alla tua pelle fango, dove non mi sarei salvato, affondato nel nostro cerchio di braccia. E la casa era vuota, il giorno era uguale alla casa e la notte ci asciugava il sudore mentre io continuavo a farmi le stesse stupide domande su di te e sulle donne, forse perché ero sensibile all’ossessione o forse perché qualcosa tra di noi non poteva esistere se non mediato dai nostri corpi, un uso ed abuso continuo della nostra biologia cellulare, l’analisi sensuale della nostra fisiologia destinata al miscuglio, al disordine delle idee in cambio dell’ordine delle nostre cadenze ritmiche dettate dagli amplessi. E chi eravamo noi se non un già visto patetico, una psoriasi sull’epidermide della socio-cultura, un abbozzo di comprensione, un essere uniti fino all’orgasmo e separati fino a quello successivo.


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BRIGIDA

Sdraiato dopo la notte, rivolto al sole nascente in ascesa dietro l’alluminio anodizzato della finestra, ti osservavo a occhi semichiusi e appiccicati dalle poche ore di sonno, mentre ti aggiustavi piano le calze autoreggenti infilando la mano tra la fodera e lo spacco di una corta gonna blu gessata. Ti preparavi per il CDA, quella specie di cerimonia massonica che prendevi terribilmente sul serio e della quale mi parlavi sempre con enfasi, come se si trattasse di un magico evento arturiano di una leggenda fantasy. Ma quella mattina mi venne l’idea di misurare la forza della nostra passione. Erano trascorsi venti minuti da quando avevi iniziato a vestirti con tutta la sapienza di una donna ai vertici della sua carriera. Davanti allo specchio del bagno che mi scagliava manciate di fotoni dispettosi negli occhi, ti eri esercitata con il trucco a mutare la tua maschera di muscoli sottocutanei, intorno agli zigomi e alle tue labbra, stirando l’epidermide verso la perfezione di una creazione di cera. Ti eri acconciata i capelli in modo da occultarli tra le mani in un bozzolo di seta scura dietro la nuca, sfruttando tutta la tua abilità d’illusionista. Ma, quando si trattò di infilarti le scarpe, quelle nere che allacciavi alle caviglie con quel fare da ballerina di charleston che ti rendeva così diversa dalle solite virago in cerca di prede maschie da sbranare, io ti tesi il tranello. Le facevo dondolare dalla mia mano destra, seduto sul letto con un mezzo sorriso che mi cambiava il volto in un birbante affettuoso. Avevi portato le tue mani sui fianchi e le tue unghie smaltate di rosa antico graffiavano la camicia di seta bianca aperta sul tuo seno come una ferita di un ghiacciaio che lasciava libera una lingua calda di terra scura. Eri freneticamente bella, perché sentivo la tua fretta lottare con il tuo desiderio di giocare con me ancora cinque minuti. Ma il CDA era così inevitabile, come lo erano le sue luci artificiali sopra al lungo tavolo circondato dai cavalieri dell’apocalisse finanziaria e


6 lo era anche la mia passione per te, come lo erano le tue gambe prive di tacchi e la mia voglia di averle tra le mie in un infinito lenzuolo, in un letto senza uscite di sicurezza, senza sveglie ai suoi bordi, senza stanza intorno, solo altare bianco di un rito erotico privo di scopo. Il gioco era tutto lì: dovevi prendere le tue scarpe griffate. I minuti passavano e tu eri già colma d’insofferenza ed io accusavo un intenso colpo al cuore pensando che avrei perso la partita, perché ero un debole uomo innamorato di una forte donna fedele ad oltranza alla sua deontologia professionale. L’ordine che rappresentavi con le tue mani sui fianchi e il tuo logos tra le sopracciglia minime, schiacciavano i miei tentativi di sfoderarti il mio migliore caos primordiale in agguato e nascosto tra i miei muscoli addominali, nutrito dal desiderio di rubarti tutto il tuo tempo, l’intero futuro immediato che ti apprestavi a rincorrere tra i grattacieli. Io gettati un’occhiata alla finestra aperta mentre continuavo a tenere lontane le tue mani dalle scarpe e accortomi che ormai non potevo più resistere ai tuoi assalti, le feci volare giù dal trentesimo piano, in bocca al serpente giallo dei taxi che strisciava lento verso il centro della città. Pensai immediatamente allo smalto delle tue unghie sulla mia faccia, chiusi gli occhi aspettando un tuono d’insulti dalla tua bocca. Mi schiacciai forte gli indici nelle orecchie e attesi in un perfetto brusio interiore la fine del nostro amore. Quando le riaprii insieme alle palpebre, eri in ginocchio per terra che ridevi a crepapelle: mi avevi evidentemente perdonato. In realtà mi ero illuso che la passione avesse trionfato, perché ciò che ci aveva salvato da una volgare tragediucola sentimentale, erano state le tue scarpe griffate finite in testa al direttore generale al quale, quella stessa mattina, avresti dovuto esporre le tue perfette teorie di marketing. Il caso volle che passasse proprio trenta piani sotto la nostra puerile kermesse: il caso appunto, non la mia fortuna.


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FLORES

Sapevi sempre cosa volere e cosa no, quando ti avvicinavi e mordevi il tuo labbro inferiore ed esordivi con interrogazioni come: “Se dovessi andarmene ora, qui, su due piedi, cosa faresti?” e approfittavi del mio corpo finito nei tuoi occhi e del tuo nei miei. Non mi potevi certo sembrare meno bella malgrado più crudele e i miei segni di debolezza, come l’insistente cercarti con le labbra il collo, la dicevano lunga sulla mia vulnerabilità. Ma quell’altra volta, che in piedi sopra il nostro letto cinguettavi la Carmen mostrandoti indifferente alla mia eccitazione, confessandomi che te la stavi facendo con un cretino di mia illustre conoscenza, non resistei alla tentazione di schiaffeggiarti. “Tu eres maldito, pero tu me gusta lo mismo”. Ti eri stracciata il rossetto sul polso insultandomi in un pessimo spagnolo. Flores, cattiva attricetta over quaranta, piena di fronzoli per il cervello, discreta ballerina di flamenco imparato dopo il lavoro. Sostenevi di essere iberica fino al midollo, anche se la Spagna l’avevi vista soltanto nei documentari; di positivo, è giusto ricordare che non ti eri ancora data al bisturi, ma a chi del bisturi aveva fatto una professione. Facevi l’assistente alla poltrona del mio dentista, quello stupido che mi aveva staccato il settimo molare superiore, quello sano, accanto al dente del giudizio che al contrario mi deformava la faccia con il suo ascesso insopportabile. Tu mi tenevi la garza sotto la lingua e premevi l’aspiratore perché non lo risputassi. Un meraviglioso incontro, con il tuo seno che m’immaginavo ben separato sulle tue costole, dietro alla divisa bianca, fino a quando non mi accorsi che il cretino mi aveva appena estratto il dente buono, perché guardava lo stesso seno che ammiravo anch’io da un’angolazione anestetica. Lo vidi arrossire, mandarti via con un bisbiglio, sedersi accanto a me, ma io lo interruppi immediatamente risparmiandogli le ciance giustificatrici, domandandogli se la laurea l’avesse presa per corrispondenza.


8 La cosa che mi fece più strizzare i nervi fu quando cercò di convincermi che il dente buono presentava un inizio di carie che presto l’avrebbe eroso integralmente. “Vede qui, la corona? E qua, lo smalto? E qua, sotto la radice”. E giustamente, visto che io non ero altro che il paziente profano in materia, non mi restò che chiedergli se aveva un buon avvocato e un’assicurazione, perché altrimenti sarei uscito fuori nella sala d’aspetto gremita di ignari stupidi pazienti immersi in odontofobie o magazine rivoltanti e rivoltati, urlando l’incompetenza del loro dentista. La storia non finì così, perché ci pensasti tu a metterci una pietra sopra, o meglio ti ci mettesti tutta tu sopra l’imbecille, estorcendogli incontro dopo incontro il mio risarcimento danni. Nel frattempo venivi a letto con me perché lui non si decideva a mollare la cornuta dottoressa, odontoiatra anche lei, praticante nello stesso studio del compiacente marito e quel giorno che ti schiaffeggiai c’era più di un motivo per lasciarti e non per essere lasciato da te. A parte i soldi che mi volevi dare e che eventualmente mi avrebbero ripagato l’impianto, mi avevi detto che, comunque fossero finite le cose, lui non l’avresti lasciato. La mia vendetta fu forse troppo dura, ma non seppi mai che espressione ti s’irrigidì sul volto quel giorno che dovevi farti estrarre anche tu il dente del giudizio, quel giorno che l’imbecille non era presente in studio per un contrattempo e che sua moglie fu più che contenta di sostituire dopo aver saputo da me della tua tresca con lui. Anche se ti cavò il dente buono, non reclamasti, sapevi di aver pagato il giusto prezzo ed io avevo pareggiato i conti con te. C’incontrammo un anno dopo, tu stavi ancora con lui ed io con sua moglie: ci eravamo guadagnati entrambi due impianti gratuiti.


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GODEL

Dio non è morto, si è solo assentato. Questo pensava lo scienziato scettico, ne era certo. Il suo ateismo professionale non era così penetrato a fondo nel suo tessuto cerebrale da stordirlo al punto di non ammettere del tutto l’esistenza del Creatore. Probabilmente, seguitava ad elucubrare con se stesso, appartato in qualche singolarità nuda (buco nero), in un letargo siderale affine a quello che provocò in certi mammiferi terrestri. Chissà per quanto tempo ancora si sarebbe crogiolato in quel sonno. No, si era lasciato alle spalle il nostro cosmo, la nostra inutile esistenza tra una glaciazione e l’altra, per riprovarci in un universo parallelo, giusto per tenere fede alla nuova ed eterna alleanza che gli impediva di gettarci addosso un nuovo diluvio, limitando fortemente il suo arsenale punitivo. Intanto, il telecomando stava adagiato nella coppa della mano destra della sua mano e alla domanda del telequiz, chi scrisse la Summa Teologica, un gruppo di cellule neuronali del suo lobo prefrontale sinistro, formularono, connettendosi alla velocità della luce con il lobo temporale dello stesso lato, il nome di Tommaso d’Aquino. Fu solo una risposta mentale che lambiva il baratro del sonno, che le onde lunghe dell’encefalo stavano per stimolare, coadiuvate da una lieve tempesta ormonale. Si alzò dal divano, bianco come una nebbia umana poco consistente, finendo quel che rimaneva della sostanza alcolica stesa sul fondo di un bicchiere. La musica cupa che lo colpì dietro le spalle, sottolineava, in stile bachiano, che la risposta del concorrente era clamorosamente errata. Come aveva potuto confondere Agostino con Tommaso? L’uomo semiaddormentato oscillò attraversando l’ambiente living che lo circondava, proteggendolo dai rumori febbricitanti del sabato sera che dalla strada salivano rimbalzando istericamente e falsamente gaudiosi sulle imposte già chiuse.


10 Sentì parlare e respirare pesantemente dalla camera da letto, percepì queste parole: “Voglio morire, voglio finire, ti prego fammi andare, non trattenermi più con te”. Le registrò come si registra un comune vociferare in una sala d’attesa di un dentista, si versò un’abbondante dose di whisky nel bicchiere e si diresse in camera: passò oltre la porta nel momento in cui un ragno tesseva la sua tela bavosa. Clarissa, ma avrebbe ancora potuto chiamarla Godel, era in preda ad una forte dose di antidepressivo: il roipnol l’aveva scaraventata, senza nessun rispetto per i suoi cicli circadiani, in un viaggio onirico che avrebbe dovuto, per almeno dieci ore, pacificare i suoi sensi prima del sorgere di una nuova terribile giornata, passata a contemplare l’intera metà inferiore del suo corpo completamente paralizzata. L’aveva conosciuta in un locale di lap-dance; lei ci lavorava per pagarsi l’università, lui ci andava per non pensare e contemplare le più belle gambe che avesse mai visto. Godel era il suo nome d’arte, era la regina di quello scadente locale dal patetico nome di Cyberose, che forse voleva significare un’armonia tutt’altro che erotica tra cibernetica e botanica. La statuaria donna stava per terminare la sua tesi sulla psicologia della devianza, poi avrebbe smesso di appiccicarsi su quel palo metallico, unta di paraffina e stanca di autoerotismo e falsi ammiccamenti sparpagliati negli occhi di ridicoli avventori come lui. Li fece incontrare la noia per la vita, li costrinse ad amarsi per non rischiare di odiarsi oltre, intrappolati com’erano nell’involucro impermeabile della loro coscienza, figlia legittima del loro assurdo tempo sociale, un tempo di discontinuità mentale e disfacimento etico adatto ad un mondo incolore privo di ogni purezza, saturo di disumanità. Un ingegnere dei sistemi complessi, quale lui era, poteva deporre la ragione per scivolare tra le cosce di un’aspirante psicobiologa, alle prese con lo studio della personalità criminale? Il loro amore li deviò, li rese fluidi, li ricompose come se la loro consistenza non fosse altro che una gelatina o della plastilina sensibile alle alte temperature della passione. Erano entrambi atei e di questo non avevano bisogno di parlare mai, non era in discussione la loro fede nel nulla eterno, fino a quando il destino percorse la loro strada in contromano, un destino da sei cilindri e duecento cavalli motore, nero come l’abito sdrucito della vecchia canaglia ossuta che aspetta ghignando dietro le spalle di tutti i mortali.


11 Accadde un sabato sera come quello e tutto ciò che rimase di Godel fu Clarissa, finita nelle secche della vita e nelle budella della sfortuna, una sagoma che tingeva di blu oltremare il buio della stanza e il materasso antidecubito che accoglieva la sua ombra. Uno stereo a tutto volume strillava Like a Virgin e la vita dava sempre l’impressione di dover continuare all’infinito; era quella la sua grande abilità. Lo scienziato scettico, il suo uomo, le sedeva accanto mezzo ubriaco, in parte confortato da uno sfondo onirico che si stava delineando sulle sue retine reticenti alla fase rem, che non tardò a farsi avanti. Sognò per alcuni minuti ipnotizzato dalla voce di lei che non smetteva di chiedere al Dio nel quale non aveva mai creduto la fine del suo supplizio. Lo sfondo diventò una distesa di sabbia, le onde la bagnavano e depositavano orme invece che alghe. Era sicuro che quelle impronte erano di Godel, la fantastica tentatrice, le gambe più belle del mondo. Corse su quella spiaggia seguendo i passi di danza che la sua donna aveva seminato dietro di sé. Corse l’ora del fuoco e degli altri elementi fino a quando non inciampò su di un manichino che non doveva trovarsi in quel sogno, forse in un incubo, ma non lì. Cadde, ma la sabbia non lo fermò; si aprì un nero cerchio sotto di lui e ci precipitò dentro senza peso afferrando il manichino per una mano. La sua caduta sembrava interminabile come quella che subì Lucifero all’inizio dei tempi; la mano di plastica che stringeva, era l’unica sensazione calda in un buio algido. Poi, la mano inanimata prese a muoversi e come una strana metamorfosi lui si trovò a baciare il volto finto di Godel. Preda di un’ eccitazione che non aveva più provato, l’abbracciò con veemenza e la toccò come un musicista insiste freneticamente su di un infinito pianoforte. Tutto avvenne nell’arco di un’insostenibile caduta, come un miracolo inaspettato ma tanto atteso, perché le sue mani sentirono la forma degli arti inferiori di Godel riapparire da quelle sabbie mobili nelle quali erano state risucchiate. Le sue dita percepirono una pelle tesa che avvolgeva muscoli turgidi privi d’imperfezione: “Dio esiste!” gridò nel sogno, così forte che la caduta s’interruppe e lui e Godel si ritrovarono abbracciati sulla sabbia,


12 accarezzati da una spuma calda che sfiorava le sua mano nascosta nella nuova vita tra le gambe di lei. Si svegliò malgrado una parte di sé tentava di non farlo; si destò perché non era ancora morto, ma avrebbe voluto esserlo quando ritrasse la sua mano dalla pozza di urina tra le esili cosce di Clarissa.


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HYPERDONNA

Avevi le fattezze del cristallo, le movenze del titanio, i pensieri logici di una creatura plasmata dai test di psicanalisi avidamente compilati sulle riviste di gossip o di buona salute. Non mi vedevi se non con uno sguardo bionico, preso a prestito dalle più forti eroine dei mondi virtuali, creati da programmatori ridotti a sfogare il proprio testosterone sui circuiti di rame di involuti nano-chip sessuali. Eppure non saltavi giù da un palazzo di vetro alto seicento metri senza romperti l’osso del collo, non riuscivi ad evitare di ferirti con il coltello da cucina, non riuscivi a deviare le pallottole più veloci e devastanti, non sapevi impugnare una katana, per poi rotearla con l’abilità di una femmina occidentale sadica e vendicativa vestita di isoprene giallo. Facevi finta di essere immortale, ma ti dimostravi un essere sgraziato, dalla taglia sentimentale ridotta quanto i tuoi fianchi e il tuo peso, ad un numero sempre più piccolo, per riuscire nella tua trasformazione in una donna invisibile, inafferrabile, invincibile. Se avessi potuto assumere in te la forza muscolare di un titano, lo sguardo duro di un eroe olimpico, la bellezza esotica di una amazzone solitaria e votata alla guerra costante contro il maschio, l’avresti fatto, avresti assunto su di te e in te, il destino di una guerriera che cavalca la storia, che cavalca un purosangue, che crede in una crociata senza fine per rivendicare la grandezza del suo unico Dio, adulatore, buono, consolatore, Narciso. C’erano specchi ovunque dove poterti amare, oggetti da desiderare, luoghi che premiassero la tua infedeltà allo slancio disinteressato. C’erano solo occhi e da quelli ti sentivi sempre osservata e per questo ti difendevi con le armi bizzarre dei supereroi, la bellezza ad oltranza, lo sguardo fintamente intelligente, gli occhi tristi per un occasione triste, vacui per un party alla noia, le labbra carnose, gli zigomi alti e turgidi, i denti bianchi, gli abiti di plastica attillati, il ventre esposto allo smog, le tue idee, idee prese a prestito, i tuoi pensieri, quelli di qualcun altro, il tuo disinteresse totale per le fonti, il tuo unico interesse, la forma. Recitavi bene, sentivi che essere una grande attrice senza aver frequentato accademie era possibile in ogni ambiente, perché eri una donna


14 camaleonte, e con le tue simili donne rettile, mostravi la lingua sibilante e guizzante per aggredire le tue tante nemiche e le tue false amiche di cui ti circondavi con la scusa di essere estremamente sociale e non destare sospetti sulla tua misoginia profonda. Non farsi scoprire era la difficoltà del tuo agire. Mutare pelle, adattarsi, cambiare percorso spesso, non per volontà, ma per vedere cosa succede di speciale, per non sentirsi dare della banale o della donna priva d’iniziativa, poco moderna, poco responsabile, poco chic, poco solare, poco vera. Io credevo di essere stato scelto e di averti scelto. Io credevo, ma in realtà ho scoperto di non essere stato che un idiota, manipolato dai tuoi arcani poteri superficiali, di una superficiale techno-girl dei fumetti. Per renderti finalmente reale e genuina mi sono finto morto, e talmente eri istupidita dal ruolo che ti eri appiccicato dalle sopracciglia alle unghie finte dei tuoi piedi, ci avevi creduto, piangendo come si deve, solo che eri in cattiva compagnia, in compagnia di te stessa, una te stessa d’emergenza, priva di spessore, di anima, priva di vero dolore per la mia scomparsa. Così ti recasti in banca per esercitare e prelevare l’unico interesse che avevi, addolorata più che mai. Ti dissero che qualcosa ti avevo lasciato nella cassetta di sicurezza. Quando l’apristi, sola nella stanzetta, senza occhi che guardassero quanto eri falsa, ci trovasti l’unica cosa che ti rappresentava per quella che eri: uno sghembo poligono di specchio.


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UN’ISTERICA CON DUE BARBONCINI

E’ il dubbio che genera l’intuito, mentre la rapidità con cui si affermano i nuovi inconsistenti miti, la cui durata è più breve dello schiudersi di un fiore notturno al plenilunio, genera stupidità infinita, vuoto mentale. E’ possibile commettere un’idiozia vantandosene per l’eternità? Certo che è possibile, anzi è auspicabile, come uccidere il vicino di casa dopo aver studiato un piano meticoloso correlato dall’appendice “B”, nel caso qualcosa andasse storto. Non avete mai pianificato l’omicidio del vostro vicino di casa? Un parricidio, un matricidio, un uxoricidio, un infanticidio? E’ ora di pensarci seriamente, non sto affatto scherzando, è ora di liberare un’energia che i modelli culturali, in una mai interrotta catena di dogmi più o meno efficaci, per troppo tempo, hanno ridotto a una leggera scossa elettrica tra le scapole, sulle mani, per degenerare in astrazioni, allucinazioni, fantasie morbose, che non hanno avuto seguito, che si sono lasciate plagiare da sogni irrealizzabili, a torto definiti dalla psicanalisi, istinto di morte: thanatos, per i più colti. Male, molto male non aver realizzato simili pensieri o averli accantonati con un’alzata di spalle o un sorrisetto ironico davanti a uno specchio, mentre vi contemplavate sgocciolanti d’acqua gelata al risveglio da un brutto incubo che vi aveva visto protagonisti di un assassinio in piena regola. Morfeus vi aveva messo in una mano un grosso strumento di morte, un’affilata lama d’acciaio e dall’altra serravate nel pugno i lunghi capelli neri di vostra moglie e appesa a quelli, la sua testa mozzata e sgocciolante di sangue scuro. Non bisogna lasciarsi andare a un’ira incontrollata, perché il principio della semplicità viene inesorabilmente fatto a pezzi da un sistema nervoso troppo fragile: il vostro. Non occorre essere dei mostri per uccidere, in verità, per come stanno le cose nel mondo, siamo tutti dei potenziali omicidi, abbiamo una vocazione , direi un orientamento congenito all’assassinio. Prendiamo l’esempio del cancro, calza a pennello.


16 In fondo che cos’è una terapia, allopatica o olistica che sia, se non una guerra chimica combattuta contro le forze del male che vogliono impossessarsi dei nostri corpi? E le erbe cattive in un campo di grano o gli insetti infestanti? Il problema è metterci d’accordo su cos’è buono e degno di continuare a riprodursi e vivere e ciò che non rientra in questa definizione. Non prendete alla leggera tutto questo, è tremendamente serio comprendere ciò che è bene e ciò che è male e non pensiate che sia stato raggiunto un verdetto finale. Credetemi, la vulnerabilità della nostra carne ci fa terrore e se non ci intimidisce e ci votiamo alla cosiddetta incoscienza, è solo per dimostrare di non aver paura di perdere definitivamente le nostre spoglie mortali. E’ un giochino che funziona bene,” io non ho paura”, un gioco infantile praticato alla nausea almeno da quando l’uomo è quasi sapiens – perché integralmente non lo è stato mai, tenta di arrivarci – un gioco che ha dei vincitori e dei vinti, coraggiosi e codardi: il resto è vanagloria. Poi, i vinti, i deboli, i vigliacchi, i pusillanime, si sono inventati il coraggio al contrario, quello passivo, quello del porgi l’altra guancia, della non violenza ad oltranza, alla quale pochi si conformano con vero spirito rinunciatario. Abolita la caccia, si pratica la macelleria intensiva, abolita la guerra nel primo mondo, la si pratica negli altri due e si fa fare il lavoro sporco ai professionisti, ai ministeri della difesa, nei quali s’insediano illustri personaggi, laureati in strategia militare e di negoziazione, rotti a tutto, che sanno minacciare con diplomazia, ricattare sul filo della democrazia e del politicamente corretto, ricevendo applausi dagli altri illustri attori guerrafondai del pianeta. E allora? Appunto; e allora di che cosa stiamo parlando? DI UCCIDERE CON LE PROPRIE MANI!!! Niente è più difficile della semplicità; torno a ripetere. Uccidere è un esercizio che non va preso alla leggera, uccidere non come estrema ratio, ma come appagante senso della propria esistenza personale che fa acqua da tutte le parti. Il contrario è immolarsi, suicidarsi, sacrificarsi, crocifiggersi, autoeliminarsi. Non sto parlando di diventare un killer: quello è un lavoro a tempo pieno, un contratto con un mandante, non è nobile, è mercenario.


17 Intendo uccidere come attività extraprofessionale, quasi ludica, un hobby, un passatempo, come la caccia, solo che la caccia non conduce alle conseguenze morali dell’omicidio e per quanto sia condannata dalla società civile, è comunque tollerata, sottoposta a leggi che ne limitano di fatto l’esercizio nelle forme e nei modi prestabiliti. Se si è capaci di stare al gioco delle leggi, è facile dar fuoco alle polveri e far strage di quaglie, lepri e cinghiali, cercando di fare un po’ di attenzione alle specie in via di estinzione, e se cade un tenero orsacchiotto, si può sempre sostenere di aver mirato fra i rami in direzione di un fruscio, senza intenzioni malvagie. A questo servirebbero le guardie forestali, a controllare quel tipo di azioni in mezzo al verde più totale, mentre l’omicidio è un’altra storia, per praticarlo non occorre altro che preparazione, concentrazione, freddezza e decisione. Il campo è totalmente sgombro, la pratica si può svolgere liberamente senza impedimento alcuno, senza controllo. Il freno inibitorio è soltanto dentro di noi, lo abbiamo interiorizzato e liberarcene non è così semplice come pensate. E’ facile sostenere di essere in grado di uccidere qualcuno, ma è decisamente complicato trovare la forza interiore per farlo. Uccidere è un atto liberatorio, fa parte della struttura antropologica dell’uomo, è inevitabile come bere e mangiare. Non si può pensare che sia sufficiente essere vegani per non essere complici di qualche orribile distruzione animale o umana. Il percorso a ritroso del riso integrale dal piatto alla risaia, dove è stato coltivato, è disseminato di miliardi di esseri morti, forme di vita biologica che hanno permesso il sollazzo moral-gastrico di un vegetariano. Se s’intendeva questo per la pratica dell’Ahymsa, come ci fu tramandata dai saggi indiani, qualcosa non è andato per il verso giusto. Che lo sappiano tutti i frugivori della terra: i due terzi dei vegetali che digerite nei vostri puri stomaci hanno alle spalle storie di violenze inaudite, talmente orribili che vi farebbero rigettare tutto all’istante. Non volevo urtare la vostra ecologica sensibilità, non ho ancora appreso fino in fondo la teoria e la pratica del cinismo all’ennesima sfrontatezza. Vi consiglio vivamente la lettura istruttiva della storia della patata, dello zucchero di canna, del tabacco o del caffè e di tutte quelle spezie che in Borsa si giocano e vanno sotto il nome di Coloniali.


18 In breve, ritornando sull’argomento uccidere, occorrerà fare una premessa: bisognerà documentarsi e prendere ispirazione dai grandi del passato e vestire i panni degli umili e mansueti discepoli. Non saranno di certo i romanzi neri o gialli ad ispirarci, ma le biografie reali, degli assassini più spietati, ma soprattutto più intelligenti. Meglio abbeverarsi alla fonte di alta montagna che alle pozze fangose di pianura. Purezza, cristalline informazioni, dati chiari su cui lavorare, riflettere e condurre una meticolosa ricerca. Mio malgrado, trovandomi nella posizione di chi ha molto tempo da perdere e un odio viscerale per l’inquilina del piano di sopra, ho cercato di praticare l’arte dell’omicidio. L’isterica donnetta, scialba all’eccesso, è ora concime per le piante del mio terrazzo, dopo essersi decomposto rapidamente nella mia compostiera. Il rovescio della medaglia, perché anche questa storia ha una faccia nascosta, è che mi sono preso cura dei suoi odiosi cani soltanto per far sparire le sue ossa. Le rose sono rinvigorite, le ortensie gioiscono alla luce della primavera; Chen, il cuoco cinese, aspetta con ansia di cucinare i miei pelosi ospiti, spacciandoli per vitello alla piastra, ma mi sono affezionato a loro e proprio non ci riesco a farli fuori.


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KU

F. fece un ultimo tentativo prima di congedarsi definitivamente dalla società anonima di cui faceva parte. Voleva creare un luogo di assoluto silenzio nel suo bilocale, quel silenzio che mai era riuscito a realizzare a causa della presenza assordante di Sabrina. F. era pavido, nevrotico, suscettibile a dismisura, farcito d’informazioni come un brutto tacchino d’arrostire, consumato fino al midollo e quindi stanco di vivere una vita da ultimo della fila. Era sorto in lui un desiderio beckettiano di spogliarsi nudo e di legarsi su di una poltrona nel centro della cucina, con un tavolino al suo fianco sul quale avrebbe posato il telefono cellulare. Era un desiderio scaturito da troppe letture assurde, inconcludenti, che non si addicevano ad un uomo di quarant’anni che già da un pezzo avrebbe dovuto addentare la grande mela erotico-pubblicitaria che i media gli offrivano da ogni angolo della città e che inutilmente Sabrina gli porgeva imitando una Eva distorta, come unico collante per una relazione fiacca, eufemismo per “disastrosa”. Si risolse, dopo aver studiato a fondo le religioni orientali e i mistici cristiani, di tapparsi tra quei fatiscenti muri in affitto per sprofondare in un anodino vuoto di coscienza, molto simile a quello sperimentato dopo gli sporadici orgasmi avuti con Sabrina. Sapeva che gli ostacoli erano molti, ma tutti più o meno sormontabili. Aveva passato l’intero mese di agosto a insonorizzare le stanze e aveva speso di tasca sua una fortuna per i tripli vetri e le porte a tenuta stagna, a prova di qualsiasi rumore. Il risultato fu al di sopra di ogni sua aspettativa, in particolar modo, dopo aver svuotato tutte le stanze da ciò che lui considerava superfluo. Si trattenne dal vendere un misero guardaroba, sostituì il letto con un futon e si liberò di ogni elettrodomestico. Pagò un anno di affitto in anticipo, acquistò cibo in scatola a scadenza lunghissima, acqua naturale, mille candele di cera e due sai da francescano che trovò ad un mercato delle pulci di provincia. Nulla doveva entrare e nulla doveva uscire dalla sua spoglia abitazione.


20 Si licenziò dallo schifoso posto di lavoro che lo aveva tenuto legato mani e piedi ad una orribile scrivania e a un computer. Fu grazie ai soldi della liquidazione che preparò il luogo del silenzio che da sempre aveva cercato. Avrebbe potuto cercarlo in un eremo, in una cattedrale gotica, in cima al K2, ma F. era ben conscio che l’uomo è sempre in agguato e deturpa il silenzio anche solo con la sua presenza invadente, saccente e, in ultima analisi, cretina. Si predispose immediatamente alla meditazione, seduto con le gambe incrociate di fronte alla parete bianca sulla quale aveva tracciato una grossa “O” quale simbolo del ku buddhista. Chi lo avesse visto dal piano di sopra, avrebbe notato la sua incipiente calvizie che realmente lo accumunava ad un monaco con la tonsura. Ma lui non si sottopose a nessun voto: il suo tentativo incerto di liberazione spirituale e di svuotamento del suo ego, decisamente ingombrante – fodera della sua carne che sapeva destinata alla decostruzione ontologica impossibile d’arrestare – non poteva che essere annoverato tra i sistemi velatamente new-age, più affini al fai da te che a una vera ricerca mistica. Poco importava, aveva uno scopo, finalmente qualcosa in cui credere. Si concentrò sulla punta del naso socchiudendo le palpebre, incrociando gli occhi, respirando profondamente e ritmicamente, contando a ritroso e attendendo la pacificazione totale dei pensieri. Quelli, al contrario, si fecero insistenti e turbinanti e, in meno di una manciata di secondi, lo condussero nei luoghi di distrazione che solo la mente non allenata al rigoroso silenzio o a estenuanti digiuni, non può evitare. Vide Gesù Bambino che compiva miracoli con il fango e abbandonava la casa paterna per dirigersi al tempio e uno psicanalista neofreudiano che cercava di convincere la povera Maria e lo sconcertato Giuseppe, a portarglielo in studio per somministrargli un’abbondante dose di ritalin. In quel preciso istante, altri genitori di altri santi della Chiesa chiedevano aiuto all’occhialuto scienziato affinché aiutasse anche loro. Allora, lo scienziato, vedendo che la folla s’ingrossava, salì su un monte e disse: “Beati coloro che crederanno ai farmaci senza leggerne gli effetti collaterali; beati gli ultimi nella scala sociale e intellettuale che prenderanno alla lettera ogni fandonia che sarà loro propinata, perché saranno i primi ad allungare le loro mani negli scaffali dei centri commerciali; beati i miti e i puri di cuore, perché saranno gli agnelli pa-


21 squali da sacrificare al dio del profitto; beati tutti quelli che si rifugeranno nella psicofarmacologia, perché avranno allucinazioni che la legge consentirà e che saranno chiamate Regno dei Cieli.” F., in preda a quelle visioni goliardiche, non si accorse che la sua produzione di CO2, anidride carbonica, tipica dei mammiferi e pericolosa nel caso di luoghi ermeticamente chiusi, gli stava procurando aritmie cardiache e respirazione affannata. Erano trascorse molte ore da quando aveva spiegato le ali della sua anima sulla via imperscrutabile del ku. Convinto che gli sarebbero occorsi solamente tre giorni e tre notti, al fine di illuminarsi integralmente, trascurò bellamente tutte le nozioni di chimica elementare che aveva appreso nei suoi pochi e infruttuosi anni di liceo – ad esempio che la CO2, oltre una certa soglia, è un veleno mortale che può portare alla perdita totale dei sensi, cosa che avvenne all’inizio della seconda notte di profonda samadhi. Gli sembrò di fluttuare in spazi non euclidei, di ascendere e inabissarsi in strani imbuti rotanti, che gli ricordavano le rappresentazioni a scopo divulgativo dei buchi neri. Ebbe la netta sensazione che qualcuno lo stesse spiando al di là dei fenomeni entottici e degli strani animali semiumani che gli si appressavano sulle retine. In bilico tra il mondo dei vivi e quello dei morti, emerse dalla sua affievolita capacità cognitiva un nocciolo solido di coscienza ben radicata nel pragmatismo moderno di cui non si era ancora totalmente liberato: aveva dimenticato di staccare i fili del campanello dell’abitazione. Probabilmente fu una infelice premonizione, perché il campanello trillò in quell’esatto momento, ridestandolo dal sonno al biossido di carbonio che lo aveva rintronato come una campana di bronzo suonata da uno sdrucito lama tibetano. Si alzò barcollando, invaso da un formicolio che s’impossessò dei suoi piedi, strisciando fastidiosamente fino al centro dei suoi quadricipiti sofferenti. Riuscì, in qualche maniera ridicola, a trovare le chiavi che si era trattenuto dal buttare dentro il water e ad aprire la porta. Un vento impetuoso lo spinse all’indietro inchiodandogli la schiena sul tatami che ricopriva il pavimento del minuscolo ingresso. Una strana luce da luna-park trafiggeva il cielo; un arpione scintillò e si ficcò sulla soglia, ancorandosi nel cemento sotto il tappeto di steli di riso.


22 F. si mise a carponi come un bambino che gioca a nascondino, muovendosi cautamente verso la porta spalancata. L’arpione era legato a una fune tesa: F. sbirciò oltre la soglia. Una luce dalla forma umana stava lentamente arrampicandosi sul pendio ripidissimo di una montagna della quale non si poteva intravvedere la base e sulla cui sommità si trovava il suo minimale mondo. F. era sconcertato, si sedette a due metri dall’arpione e attese che quell’essere entrasse nella sua casa. Quando vide la mano lucente attaccarsi al pavimento, sussultò: poteva anche trattarsi della sua fine. “Un gran bel modo di morire” pensò, mentre nervosamente si mordeva le unghie. Quando la figura si fu completamente eretta sulla soglia, F. capì di trovarsi all’inizio del tempo e senza via di scampo. La figura di luce trasse da un’ampia manica del suo abito una bianchissima busta di carta, formato A4, ficcandogliela proprio sotto il naso; poi estrasse una volgarissima biro bic e fu in quell’istante che F. si sentì chiedere: “Una firma qui, grazie!” Il resto, inutile dirlo, fu soltanto la squallida consapevolezza della richiesta di divorzio di Sabrina.


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LA METAMORFOSI DI LOLA

C’era ancora la guerra fredda quando ci baciavamo; i russi e gli americani si odiavano attraverso la cortina di ferro e il muro di Berlino segnava il confine tra l’amore narcisistico per l’individuo e l’abnegazione per una collettività schiaccciata da un imperialismo che tracimava falsa bontà sociale: così almeno si diceva o ci veniva raccontato. In fondo, si trattava ancora di un’epoca di grandi narrazioni e del numero infinito di creduloni ai quali raccontarle. Ma andava bene così: si lottava per un credo, per la liberazione o per l’avvenire. Nessuno alla lunga aveva ragione, come fu dimostrato un ventennio più tardi: la gente impazzì del tutto e le teorie socio-psicologiche più moderne avanzavano ipotesi sul futuro delle masse, senza nessuna certezza sulla loro bontà. Ma tu ed io di questo non avevamo sentore e facevamo quello che i ragazzi fanno quando si specchiano addosso il mondo: cercano di nutrirsene con la vana speranza di non saziarsi mai. Indossavamo jeans, indossavamo t-shirt, stavamo dalla parte di chi era contro, contro le centrali nucleari, contro gli armamenti, armati di pace e contestazione. Eravamo convinti, presuntuosi, usavamo espressioni che si chiudevano con un “mai” o un “per sempre”: ci amavamo di un amore tutto verde ed ecologico. Tu eri semplicemente Lola, Lola da guardare, Lola sulla spiaggia, Lola all’università, Lola alle riunioni sindacali, Lola l’impegnata con i libri sotto il seno e la fronte alta. Alle feste si ballava I will survive, si muovevano i piedi e le spalle, ad un ritmo che nel tempo sarebbe divenuto irrefrenabile, mentre da qualche parte nel mondo si continuava a morire per infiniti motivi. Poi arrivò uno strano tiranno che si pubblicizzava come buono e giusto e ci proponeva la fine di un’era: il consumo di massa. Io e te opponemmo resistenza per un anno, due, tre, ma poi iniziammo a cedere e ci ritrovammo ben presto a canticchiare i Led Zeppelin solo in occasioni ormai neanche più speciali: eravamo noi due a non essere più originali, a non essere più individui, disciolti tra gente che non cre-


24 deva più nel radicale cambiamento, ma si attrezzava a divenire una schiatta di volgari mammiferi d’adattamento. Ci portavamo dentro gli slogan che non rappresentavano più nulla se non vecchi graffiti metropolitani, graffi policromi su nuovi muri, su nuove difese, su di una terra sempre più fredda, incapace di nutrire sogni e aspettative. Il tiranno si faceva forte a dismisura e ci sottraeva il tempo della pace, il tempo della contestazione, il tempo per l’incontro, il tempo per parlare, il tempo per pensare. Imparasti come me un nuovo linguaggio, diventavi più donna, ma un tipo di donna più affine alla cibernetica, una donna che pensava pensieri spezzettati, che soffriva e gioiva solo in determinate occasioni, anche quelle per niente speciali. Il tiranno ci offriva la finzione, ci offriva il sacro veleno che ci toglieva la vista, che ci rendeva sordi. Eppure il mondo era dominio dei nostri sensi: com’era possibile? E il muro crollò e la tecno imperversava nelle nostre macchine, l’alcolismo pure, e nel mondo si continuava a morire per i soliti motivi. Noi non ci amavamo più di un amore ecologico, ma di un surrogato sentimento economico, perché non ci mancasse nulla di quello che il tiranno ci proponeva. A mano a mano la tua metamorfosi si fece come incandescente, al punto che tu brillavi di luce riflessa ogni volta che ti specchiavi nelle vetrine del centro e ne coglievi il perfetto taglio dei tuoi nuovi abiti di direttrice di banca. Il telefono che squillava tra noi divenne un prodotto portatile e miniaturizzato, scomparve l’ansia di sentirci; il nostro interrogarci si limitava all’elenco di numeri sempre più lunghi e difficili da memorizzare: “Amore, dettami il codice IBAN perché ho i minuti contati e devo firmare un contratto”. IT... venticinque cifre… Stairway to Heaven. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...


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