Orazio

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ORAZIO INCANTO E DISINCANTO


Redazione: Alessandra Casiroli, Giulia Dellanoce, Paola Fulghieri, Chiara Gronchi, Azra Gualterotti, Alessio Incatasciato, Agata Licata, Simone Malaspina, Cristina Polidori, Elisabetta Polidori Grafica e impaginazione: Simone Malaspina Coordinamento: Marialetizia Mangiavini

Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale. Quest'opera è distribuita con Licenza

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Ai genitori della IV B del Liceo Classico P. Verri di Lodi‌ e a tutti gli adulti che amano leggere.

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ORAZIO INDICE Invito alla lettura

pag. 3

Pirra (Hor. Carmina, I, 5)

pag. 4

Un messaggio per cogliere la vita (Hor. Carmina, I, 11)

pag. 6

Un invito a Cena (Hor. Carmina, I, 20)

pag. 11

Nunc est bibendum (Hor. Carmina, I, 37)

pag. 14

Felicità , un bicchiere di vino‌ (Hor. Carmina, I, 38)

pag. 18

Barine (Hor. Carmina, II, 8)

pag. 21

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INVITO ALLA LETTURA di Marialetizia Mangiavini

Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli. “Le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l'uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l'origine.” (Italo Calvino, Perché leggere i classici ) E’ con le parole di Italo Calvino che vogliamo iniziare questo libricino, di cui i vostri ragazzi vi fanno dono. Ci auguriamo che la raffinata semplicità di questi versi , l’ incanto dei colori, profumi, sapori, il maturo, saggio disincanto del poeta possano essere per voi un momento di quiete nelle giornate frenetiche di lavoro, una occasione per godere della bellezza e riflettere sulla vita. La nostra fatica è dedicata a chi legge e a chi rilegge: sia che abbiate ricordi degli anni trascorsi al liceo classico, sia che i vostri studi vi abbiano portato in altre direzioni, la lettura che intendiamo offrirvi vuole essere un ponte tra generazioni. Un modo particolare e inconsueto per condividere gli studi, i valori, la crescita dei vostri figli. Tutti loro hanno lavorato con impegno, hanno scritto queste pagine per voi. Confidiamo che scarichiate su uno smatphone o un tablet questo ebook, che lo leggiate, che esprimiate i vostri commenti e pareri. Non è l’opera di uno studioso: ma proprio per questo ha una sua freschezza che, speriamo, vi piacerà. Noi ce l’abbiamo messa tutta… Buona lettura!

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Pirra

(Hor. Carmina, I, 5) di Paola Fulghieri e Chiara Gronchi

Saggezza e maturo disincanto per guardare sorridendo da lontano. Ironia, indice del distacco e dominio delle proprie passioni. Esperienza con la quale descrivere dolcemente un amore giovanile. Orazio ha superato l’ostacolo della sofferenza amorosa, ma si riconosce nella beata illusione di un giovane innamorato e si domanda: Per quanto tempo un amante può essere felice? Quanto a lungo dura l'incanto amoroso? Fino a dove può stregarci? Vale la pena lasciarsi coinvolgere totalmente dalla passione? La dolcezza di un attimo sfuma e si tramuta in amaro rimpianto. L'estasi dei sensi diviene tormento dell'anima. Orazio ci trasporta in questo cammino di consapevolezza, dapprima illudendo e stregando anche noi. Poi, improvvisamente ,l'idillio si frantuma; insieme al poeta attraversiamo una tempesta e con le vesti ancora bagnate giungiamo a riva. Pirra, una moderna femme fatale. Orazio, narratore maturo. Il giovane, ingenua illusione dell’adolescenza. Quis multa gracilis te puer in rosa perfusus liquidis urget odoribus grato, Pyrrha, sub antro? cui flauam religas comam, simplex munditiis? Heu quotiens fidem mutatosque deos flebit et aspera nigris aequora uentis emirabitur insolens,

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qui nunc te fruitur credulus aurea, qui semper uacuam, semper amabilem sperat, nescius aurae fallacis. Miseri, quibus

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intemptata nites. Me tabula sacer uotiua paries indicat uuida suspendisse potenti uestimenta maris deo.

Chi è quel ragazzo snello che fra molti petali di rose, profumato di liquide fragranze, ti stringe a sé, Pirra, nel dolce antro? Per chi raccogli la bionda chioma con semplice eleganza? Oh quante volte piangerà la mancata fedeltà e le sorti traditrici e inesperto il mare mosso dai neri venti guarderà stupito, lui che ora gode illuso del tuo splendore, lui che sempre disponibile, sempre amabile ti spera, ignaro del mutevole soffio. Miseri, quelli per cui risplendi ancora sconosciuta. A me la sacra parete del tempio con il quadro votivo mostra le mie vesti ancora umide che ho offerto al Dio signore del mare.

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Nell’antro in cui si trovano Pirra e il suo amante (vv.1-5) si respira un’aria sensuale e idilliaca (multa in rosa, grato sub antro). Un giovane alle prime armi (gracilis puer), cosparso di liquide fragranze (perfusus liquidis odoribus), gode ingenuo dell’amore di Pirra. La donna lo abbaglia con la bellezza della bionda chioma (flavam) dolcemente intrecciata, semplice e insieme ricercata (simplex munditiis). A infrangere l’incantesimo amoroso interviene Orazio (vv.5-13) che, memore della sua esperienza, prova compassione per il ragazzo e paragona la volubilità di Pirra ad un mare tempestoso (aspera aequora) al quale egli inesperto (insolens) guarderà stupito (emirabitur) dopo essersi lasciato illudere dalla suo splendore (credulus aurea). E ignaro del destino mutevole (nescius aurae fallacis) spererà di mantenerla sempre sua , sempre innamorata,(semper vacuam, semper amabilem sperat) come tutti gli altri giovani, destinati ad essere infelici (miseri), che ne sono ammaliati.

Inizia così il carme 8 di Catullo… “Miser Catulle, desinas ineptire, et quod vides perisse perditum ducas.”

Misero Catullo, falla finita con le tue follie, e ciò che vedi perduto consideralo perduto.

Molto diverso è l’atteggiamento di Catullo. Il poeta, amante infelice (miser) e ancora sensibile alle ferite d’amore, non riesce ad avere la stessa visione distaccata che invece Orazio ha quando, ormai maturo, scrive della propria esperienza guardando con un sorriso ai giovani inesperti e inconsapevoli, definiti anche da lui “miseri”. L’aggressività con cui Catullo in altri carmi si rivolge a Lesbia (chiamandola anche prostituta, cagna.., fango della terra ‘’lutum’’ ) è conseguenza di una età differente, e di un amore vissuto in maniera diversa dai due amanti : per l’una piacevole passatempo, per l’altro l’amore della vita. Catullo, ancora giovane, si impone inutilmente di allontanarsi dalla follia amorosa, mentre Orazio ha superato la tempesta ed ora è in grado di dominare i propri sentimenti e di parlarne con ironico disincanto .

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Un messaggio per cogliere la vita

(Hor. Carmina, I, 11)

di Cristina e Elisabetta Polidori

Siete arrivati dunque a questo punto del fascicoletto. Avete le gambe un po’ intorpidite. Cambiate posizione. Magari ora vi trovate seduti sulla vostra poltrona preferita. O state leggendo in autobus. O in biblioteca. Spaparanzati sul letto. Non lo so. Ma forse, quando chiuderete queste pagine, quando vi alzerete dal letto o scenderete alla vostra fermata, questo breve intervallo di sogno si perderà nella nebbia e ricomincerà la vostra vita, con problemi insormontabili, pensieri… Una volta John Lennon disse: “Passiamo tutta la vita senza accorgerci di stare vivendo”. Saremo pure in pensiero, tristi o preoccupati. Proiettiamo la nostra vita al futuro, ma in realtà non ci accorgiamo che siamo chiamati a vivere ora, adesso che siamo vivi, che respiriamo. Anche mentre vi state accingendo alla lettura, mentre mettete gli occhiali, mentre leggete questa frase, voi siete vivi. . E potete fare grandi cose. Invincibili. Potete amare, viaggiare, conoscere, sognare… Immaginiamo allora di allontanarci per un momento da tutto ciò che ci circonda. Siamo su una scogliera di molti anni fa e sentiamo l’infrangersi cadenzato delle onde schiumose. La sabbia fredda ci avvolge i piedi, soffice, mentre il vento gelido sferza il viso. Ma chi sono quelle due persone là in fondo sulla riva? Un vecchio e una giovane. Stanno parlando, ma il sibilo del vento non ci permette di sentire. Avviciniamoci.

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati. Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare

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Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem quam minimum credula postero.

Tu, Leuconoe, non chiederti quale futuro gli dei abbiano deciso per te, quale per me; tanto tu, mortale, non potrai mai saperlo. E non consultare gli oracoli babilonesi: è molto meglio accettare qualunque cosa accadrà. Sia se Giove ci attribuisca ancora molti inverni, sia se questo, che adesso infrange le onde del Tirreno contro gli scogli, sia l’ultimo, sii saggia, filtra il vino e tronca le lunghe attese: breve è la vita. Anche adesso che parliamo, il tempo invidioso è già fuggito: cogli l’attimo credendo il meno possibile nel futuro.

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pluris hiemes (vv.4-6): la metafora dell’inverno allude genericamente per i romani all’intera durata dell’anno; un poeta italiano verosimilmente avrebbe reso l’espressione con “primavere”. vina liques (v.6): il filtraggio del vino era un’azione abituale: i romani infatti, prima di portarlo in tavola, filtravano i resti del mosto d’uva che si depositava dunque sul fondo. spem longam reseces (v.7): il verbo reseco significa in realtà “potare rami troppo lunghi, recidere” carpe diem (v.8): anche il verbo carpo è attinto dalla sfera agricola: esso vuol dire “raccogliere un fiore o un frutto”. Le speranze così vengono indirettamente paragonate a rami troppo lunghi, mentre la vita a un fiore o a un frutto maturo.

È Orazio, il famoso poeta latino, che sta parlando alla giovane Leuconoe: sono solo poche parole, piccole e fragili, ma di fronte a centinaia di anni sono resistite immortali. La loro semplice bellezza colpisce i lettori di tutte le epoche: il dialogo non si esaurisce nel passato, ma scavalcando i secoli, sembra raggiungere un eterno presente. E così, quando il poeta si rivolge alla ragazza, con quel “tu” iniziale, anche a noi sembra di essere lì ad ascoltare quelle parole e il mare, su una spiaggia, duemila anni fa. Immaginiamoci la scena: il dialogo tra i due è iniziato già da un po’; Leuconoe è ingenua, semplice, come rivela anche il suo nome, letteralmente, “dall’anima candida”; confida i suoi sogni e le sue speranze, ma Orazio, maturo, saggio, posato la interrompe pacatamente. Inizia la poesia. A parlare ora è solo il poeta che esorta la ragazza a non fare come tutti gli altri che si interrogano sul loro destino consultando gli oracoli caldei; a quel tempo infatti erano piuttosto famosi nel campo della divinazione gli oracoli assiro-babilonesi che, con i loro calcoli astrologici (numeros Babylonios) leggevano le stelle basandosi sulla data e sull’ora di nascita. Tutti si affidavano a loro, da generali vittoriosi a fanciulle innamorate: a quanto pare erano quelli che ci azzeccavano meglio. Secondo Orazio, però, conoscere il proprio futuro è nefas, ovvero non consentito alla natura mortale degli uomini, ma appannaggio solo degli dei. In latino infatti i termini fas e nefas contengono l’idea di legge divina, opposta allo ius, che è invece quella civile. Orazio tuttavia non vuole limitare il suo consiglio solo a una questione puramente religiosa, ma piuttosto a una più umana e concreta: sapendo cosa succederà domani, non si vivrebbe più l’oggi, mentre il presente, la vita vera, sfuggirebbe via. “Accetta piuttosto” dice il poeta “qualunque cosa accadrà. Questo inverno potrebbe essere l’ultimo, chi lo sa?, o forse solo uno dei tanti…”

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Davanti a loro infuria il mare Tirreno che si infrange in onde schiumose sugli scogli corrosi dalla salsedine. Ma tu, Leuconoe, e anche tu, lettore di ogni tempo, vivi con semplicità, filtra il vino, magari con degli amici sinceri, per scaldarti dal freddo dell’inverno. La felicità forse è solamente questa. Si trova tra le bucce secche degli acini nel fondo di un’anfora, o di un bicchiere in compagnia di amici sinceri. La vita è breve: sii accorto e recidi le speranze troppo lontane. Il tempo, essere avaro e invidioso, anche ora che parliamo sta fuggendo, anche adesso che scriviamo, anche adesso mentre voi leggete: lui continua nella sua eterna corsa instancabile. Come raggiungerlo? Come competere con un corridore così bravo? Fai esattamente l’opposto. Fermati. Cogli l’attimo. Carpe diem. Semplice ed efficace. Queste due sole parole ebbero un’eco travolgente nella letteratura di ogni tempo. Seneca, nelle Lettere a Lucilio, ripropone il messaggio oraziano rivolgendosi al suo amico.

Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas complectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. Dum differtur vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult.

Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene.

Il tempo è poco: la cosa migliore è viverlo amando quando si può essere ricambiati, come scrive il Tasso nel capitolo XVI della Gerusalemme Liberata. “Cogliam la rosa”, ovvero “carpe diem”… Nel giardino incantato della maga Armida giungono due cavalieri cristiani, Carlo e Ubaldo, per liberare dalle dolce insidie il valoroso Rinaldo; arrivati però in questo luogo meraviglioso si presenta loro uno strano animale che comincia addirittura a parlare: un pappagallo. Ecco cosa dice:

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"Deh mira" egli cantò "spuntar la rosa dal verde suo modesta e verginella, che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa, quanto si mostra men, tanto è piú bella. Ecco poi nudo il sen già baldanzosa dispiega; ecco poi langue e non par quella, quella non par che desiata inanti fu da mille donzelle e mille amanti. Cosí trapassa al trapassar d’un giorno de la vita mortale il fiore e ’l verde; né perché faccia indietro april ritorno, si rinfiora ella mai, né si rinverde. Cogliam la rosa in su ’l mattino adorno di questo dí, che tosto il seren perde; cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando esser si puote riamato amando." L’amore è il sentimento che contrasta la fugacità del tempo e permette di vivere pienamente e intensamente. Nel carme V di Catullo, tra i mille baci che il poeta da alla sua Lesbia, riecheggia un velato senso di nostalgia e tristezza. Vivamus, mea Lesbia, atque amemus, (…) Soles occidere et redire possunt: nobis cum semel occidit brevis lux, nox est perpetua una dormienda. Da mi basia mille, deinde centum, dein mille altera, dein secunda centum, deinde usque altera mille, deinde centum (…)

Viviamo, mia Lesbia, e amiamo (…) Il sole può tramontare e ritornare: quando cade per sempre la breve luce della vita noi, dobbiamo dormire una sola eterna notte. Dammi mille baci, poi altri cento, poi altri mille, poi ancora cento, poi altri mille, poi cento. (…) Celebre di Lorenzo il Magnifico il ritornello della Canzona di Bacco e Arianna, composto per i carri dell’irriverente carnevale fiorentino: “Chi vuol esser lieto sia, di doman non c'è certezza.” Un filosofo americano vissuto alla fine dell’ottocento, Henry David Thoreau, abitò per due anni, due mesi e due giorni in una capanna sulle sponde del lago Walden in

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Massachusetts, completamente isolato. Ecco cosa scrisse nel libro “Walden, ovvero vita nei boschi”, il resoconto della sua avventura: Andai nei boschi per vivere con saggezza, vivere con profondità e succhiare tutto il midollo della vita, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. E infine come non citare il film “L’attimo fuggente”? L’innovativo professor Keating insegna ai suoi alunni a vivere veramente e lo fa tramite la poesia, in un modo tutto suo. Nelle sue lezioni non può mancare l’ode oraziana… Questo è l’estratto del film in cui Keating mostra ai ragazzi le foto di ex alunni di molti anni prima, e da questa occasione trae un importante insegnamento di vita. Perché, strano a dirsi, ognuno di noi in questa stanza, un giorno smetterà di respirare, diventerà freddo e morirà. Adesso avvicinatevi tutti, e guardate questi visi del passato: li avrete visti mille volte, ma non credo che li abbiate mai guardati. Non sono molto diversi da voi, vero? Stesso taglio di capelli, pieni di ormoni, come voi, invincibili, come vi sentite voi. Il mondo è la loro ostrica, pensano di essere destinati a grandi cose, come molti di voi, i loro occhi sono pieni di speranza, proprio come i vostri. Avranno atteso finché non è stato troppo tardi per realizzare almeno un briciolo del loro potenziale? Perché vedete, questi ragazzi ora, sono concime per i fiori. Ma se ascoltate con attenzione, li sentirete bisbigliare il loro monito. Coraggio, accostatevi. Ascoltateli. Sentite? Carpe... Sentito? Carpe... Carpe diem... Cogliete l'attimo, ragazzi... rendete straordinaria la vostra vita...

But if you listen real close, you can hear them whisper their legacy to you. Go on, lean in. Listen, you hear it? – Carpe – hear it? – Carpe, carpe diem, seize the day boys, make your lives extraordinary. Sta calando la sera sulla scogliera, ma il vento continua a sferzare gelido. “Fa un po’ freddo qui fuori.” “Già. Forse è meglio rientrare.”

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Un invito a Cena

(Hor. Carmina, I, 20) di Giulia Dellanoce, Alessio Incatasciato e Simone Malaspina

Affascinanti, i rapporti umani. Affascinante l'amore, affascinante l'odio, affascinante l'amicizia. Affascinanti perché forse non riusciamo ancora bene a capire cosa sia a farci entrare in sintonia con una persona piuttosto che con un'altra. Pensando al circolo di Mecenate, si può correre il rischio di immaginarlo come la redazione di un giornale, i cui membri si sforzano ogni giorno per accaparrarsi i favoritismi del caporedattore, e, perché no, di Augusto stesso. Eppure Orazio stesso scrive in una satira "non c'è casa purior hac, più pulita di questa", appunto riferendosi al circolo. Quello che legava Mecenate al nostro Orazio, era molto più di un contratto di lavoro: era profonda stima, era amicizia sincera. Era un'amicizia che andava oltre la differenza di indole, oltre la differenza di scelte di vita. Poco importava se Mecenate era abituato a feste sfarzose, a vini pregiati, a cerimonie sontuose, mentre Orazio preferiva ritirarsi in campagna. I due godevano della reciproca compagnia, del reciproco rispetto, tanto che da questo delizioso carme, che può sembrare un semplice invito a cena, traspaiono l'affetto e l'ammirazione di Orazio per il suo stimato datore di lavoro. Affascinanti, i rapporti umani. Affascinante, l'amicizia.

Vile potabis modicis Sabinum cantharis, Graeca quod ego ipse testa conditum levi, datus in theatro cui tibi plausus, care Maecenas eques, ut paterni fluminis ripae simul et iocosa redderet laudes tibi Vaticani montis imago.

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Caecubum et prelo domitam Caleno tu bibes uvam; mea nec Falernae temperant vites neque Formiani pocula colles.

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Berrai un vino sabino di poco valore in semplici boccali, quel vino che in un’anfora greca ho io stesso sigillato e imbottigliato, quando ti fu dato in teatro un applauso, caro cavaliere Mecenate, tale che le rive del fiume dei tuoi avi e la festosa eco del colle Vaticano ti rendevano le lodi. Berrai Cecubo e uva spremuta con torchio caleno; né le mie tazze sono addolcite da viti di Falerno né dai colli di Formia.

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L’invito a pranzo, tema presente nella lirica alessandrina, era già stato ripreso a Roma dai poeti neoterici e da Catullo. Destinatario del carme è Mecenate: nato da un’antica famiglia etrusca, Augusto lo scelse come suo consigliere e gli diede il compito di organizzare il circolo culturale di intellettuali e di poeti che diffondessero la politica culturale dell’imperatore. Essendo un uomo famoso, ricco e benvoluto, è definito “cavaliere” (eques v.5), e Orazio ricorda l’applauso della folla che lo accolse nel teatro di Pompeo nel 59 a.C., tanto fragoroso da essere sentito anche sul Vaticanus mons. Il giorno di questa festa, Orazio imbottigliò e sigillò un vino della Sabina, regione laziale dove il poeta aveva una villa, donatagli da Mecenate stesso. È questo il vino che l’autore offre al futuro ospite, ben lontano da quelli pregiati e raffinati che si sorseggiavano nelle sale del palazzo di Augusto: un vino vile, da bere in un modicus chantarus, ovvero in una tazza di terracotta. L’insistenza di Orazio sulla differenza tra i vini a cui Mecenate è abituato e il suo modesto Sabino sembrerebbe riflettere l’ideale di vita semplice del poeta: questa contrapposizione, infatti, sottolinea la fiera scelta oraziana di allontanarsi dalla politica, e “vivere nascosto”, come predicava Epicuro. Il tema del vino apre e chiude il carme, abbracciando un affettuoso elogio al suo protettore, trattato dal poeta con la rituale modestia, che gli consente di esaltare, pur senza adulare, l’importanza dell’ amico Mecenate a Roma.

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Cecubo: vino rosso molto pregiato di origini antichissime. Viene prodotto ancora oggi in piccole quantità nel Lazio, tra Fondi e Terracina, e nell’alto casertano Caleno: vino di Cales, l’odierna Calvi, poco a nord di Capua in Campania Falerno: re dei vini, rosso e spesso addolcito col miele, molto invecchiato. Veniva prodotto nel Casertano Formiano: vino bianco corposo e pregiatissimo, prodotto nei pressi di Formia, nel Lazio meridionale

Proponiamo qui il carme XIII di Catullo, dal quale probabilmente Orazio trae ispirazione. Ma Catullo, di ritorno dalla Bitinia e senza un soldo, è più ironico nel rivolgersi all’amico Fabullo:

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Cenabis bene, mi Fabulle, apud me paucis, si tibi di favent, diebus, si tecum attuleris bonam atque magnam cenam, non sine candida puella et vino et sale et omnibus cachinnis. haec si, inquam, attuleris, venuste noster, cenabis bene; nam tui Catulli plenus sacculus est aranearum. sed contra accipies meros amores seu quid suavius elegantiusve est: nam unguentum dabo, quod meae puellae donarunt Veneres Cupidinesque, quod tu cum olfacies, deos rogabis, totum ut te faciant, Fabulle, nasum.

Ti invito, o mio Fabullo, ad una lauta cena, fra pochi giorni, se te lo consentiranno gli dei, purché sia tu a portarti a cena abbondante e succulenta, non senza una bella ragazza e vino e sale e un mucchio di risate. Se — come dico — sarai tu a portare tutto ciò, ti invito, bello mio, ad una lauta cena. Purtroppo il borsellino del tuo Catullo è pieno solo di tele di ragno. In cambio avrai un’affettuosa accoglienza e in aggiunta quello che c’è di più attraente e raffinato: ti offrirò il profumo che Veneri e Amorini hanno donato alla ragazza del mio cuore. Tu, o Fabullo, quando lo sentirai, pregherai gli dei che ti trasformino tutto in un unico naso.

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Nunc est bibendum

(Hor. Carmina, I, 37)

di Alessandra Casiroli e Azra Gualterotti

Mostro fatale? Regina dall’animo virile? Donna seducente? Questo il ritratto di Cleopatra che emerge dal carme di Orazio. Il poeta inizia l’ode dipingendola come un monstrum, ma verso dopo verso ne rimane ammaliato, come era capitato a due grandi uomini della storia romana: Cesare e Marco Antonio. Quest’intrigante femme fatale è passata dalla storia al mito, stregando schiere di scrittori, pittori e persino registi. Pensate solo al film del 1917 con la meravigliosa Theda Bara, scandalosa per la sua nudità provocatoria, oppure all’immortale Elizabeth Taylor, raffinata e regale o addirittura coprotagonista insieme a Totò nel 1963. Ci auguriamo che quest’ode possa stregare anche voi lettori.

Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus, nunc Saliaribus ornare pulvinar deorum tempus erat dapibus, sodales. Antehac nefas depromere Caecubum cellis avitis, dum Capitolio regina dementis ruinas funus et imperio parabat contaminato cum grege turpium morbo virorum, quidlibet impotens sperare fortunaque dulci ebria. Sed minuit furorem vix una sospes navis ab ignibus, mentemque lymphatam Mareotico redegit in veros timores Caesar, ab Italia volantem remis adurgens, accipiter velut mollis columbas aut leporem citus venator in campis nivalis Haemoniae, daret ut catenis fatale monstrum. Quae generosius perire quaerens nec muliebriter expavit ensem nec latentis classe cita reparavit oras, ausa et iacentem visere regiam voltu sereno, fortis et asperas tractare serpentes, ut atrum corpore conbiberet venenum, deliberata morte ferocior: saeuis Liburnis scilicet inuidens priuata deduci superbo, non humilis mulier, triumpho.

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Ora si deve bere, ora si deve battere la terra con piede libero, era ora di ornare il letto degli dei con banchetti degni dei Salii. Prima era un sacrilegio portare fuori dalle cantine dei padri il Cecubo, mentre una regina folle preparava rovina per il Campidoglio e morte per l’impero con il suo gregge lercio di uomini depravati, sfrenata nelle speranze, ebbra del dolce della fortuna. Ma spense la sua pazzia la sola nave scampata a stento alle fiamme, e Cesare riportò la sua mente delirante per il vino Mareotico alla paurosa realtà, incalzandola coi remi nella sua fuga in volo dall’Italia, come lo sparviero insegue le tenere colombe o il cacciatore una lepre nelle pianure innevate della Tessaglia, per mettere in catene il mostro fatale. Però lei cercando una morte più nobile, non temette la spada, come una donna, né cercò rifugio con veloce nave su spiagge nascoste; avendo il coraggio con volto sereno di guardare la reggia in rovina e di tenere impavida tra le mani serpenti feroci per assorbirne con tutto il corpo il nero veleno, resa più fiera per aver scelto lei stessa la sua morte, impedendo alle crudeli navi Liburniche di portare via per un superbo trionfo come una donna comune, lei, una donna regale.

Cesare era assorto nei suoi pensieri. Faceva caldo nei suoi appartamenti in Egitto e faceva ancora più caldo perché il generale continuava a camminare avanti e indietro per la stanza. “Uff… questi Egizi! Non si mettono mai d’accordo! Sempre disordini tra fratello e sorella per governare! E ora cosa dovrò fare con quella Cleopatra e suo fratello Tolomeo? Si scannano per il trono e tocca a me metterli d’accordo. Un po’ come a Roma…” I suoi pensieri vengono interrotti dall’arrivo di un servitore. “Signore, un dono per lei da parte della regina.” “Un dono per me dalla regina? Originale questa Cleopatra. Non l’ho neanche mai vista” Ed ecco che nella stanza sfarzosa viene portato un sontuoso tappetto arrotolato. Il tappeto viene aperto e... meraviglia! Compare avvolta tra le pieghe una splendida donna! Indossa una veste raffinata e succinta, porta preziosi gioielli orientali. Immaginate la reazione di Cesare… inutile dire che quella notte divennero amanti e dalla loro lunga relazione nacque Cesarione. Ma perché Cleopatra si trovava nel tappeto? Il suo obbiettivo era sedurre Cesare per ottenere la sua protezione e salvarsi dal crudele fratello Tolomeo, anche lui pretendente al trono d’Egitto, pronto ad uccidere la sorella. Cleopatra non solo era meravigliosa, ma anche intelligente e ambiziosa. Le mire della regina non si fermarono solo a Cesare, ma il suo splendore orientale si impadronì del cuore di un altro generale, il nipote di Cesare, Marco Antonio. Fu la sua rovina. Antonio restò ammaliato da questa donna affascinante, descritta da Plutarco come “voce dolcissima simile ad uno strumento musicale con molteplici corde in qualunque idioma

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volesse esprimersi … piccola, esile e spregiudicata”. Anche loro due divennero amanti ed ebbero pure due gemelli, Cleopatra Selene e Alessandro Elios, ma nella loro storia non ci fu un lieto fine. La regina era estremamente spregiudicata e un’abile stratega, ma non aveva fatto i conti con Ottaviano Augusto, un giovane condottiero romano di soli 20 anni. Costui con un astuto discorso in senato screditò Antonio, dichiarandolo perso e stregato da un mostro orientale, Cleopatra, e talmente pazzo da voler spostare la capitale dell’impero da Roma a Alessandria. All’udire questo il popolo si indignò, il senato andò su tutte le furie: fu subito preparata una spedizione militare diretta da Augusto stesso, il quale dichiarò guerra a Cleopatra, disgustato di pronunciare il nome di Antonio. La battaglia di Azio fu una disfatta per l’esercito egiziano, Augusto vinse, Cleopatra si uccise. La vittoria portò a Roma non solo un bottino ricchissimo, ma anche una gioia sfrenata. Ecco che Orazio esorta dunque a bere, a danzare e a festeggiare perché il Serpente del Nilo (così viene chiamata la regina nell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare) è morto e l’armata Romana ha sbaragliato il turpe esercito; uomini depravati, eunuchi, che Orazio chiama “gregge sozzo ed infetto”, sono i paladini Egizi. Finalmente dopo tanto tempo di paura non sì è più oppressi dalla minaccia orientale: è tempo di bere! E’ lo scontro tra due diverse culture: quella romana del mos maiorum (le tradizioni degli antenati) e quella Egizia, raffinata e amante del lusso. La politica di Augusto aveva riportato la società Romana all’ordine del passato, al ritorno agli antichi costumi, dignitosi, onesti e austeri. Il poeta ritrae questa donna come una regina folle, tessitrice di trame e morte contro l’Impero Roma. E’ un mostro fatale, una creatura prodigiosa, un volere del destino. Anche Orazio però non può fare a meno di subirne il fascino. Alla vista della reggia assediata Cleopatra si trasforma in una regina fiera e dignitosa. Sa affrontare la sconfitta con coraggio: non sceglie la fuga, non è una donna qualunque, non teme la morte, ma la affronta a testa alta, da regina. Con un coraggio quasi maschile impugna aspidi feroci e si dà la morte. Quale sarebbe stata la sua sorte se non avesse compiuto questo gesto fatale? Sarebbe stata portata nel trionfo di Augusto come un bottino di guerra. Immaginate l’umiliazione che avrebbe provato la regina d’Egitto a essere trascinata in catene nel foro romano, derisa e insultata da tutto quanto il popolo. Lei, una

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donna straordinaria, una regina dal coraggio maschile, un’ammaliatrice che ha stregato due dei più grandi uomini della storia di Roma non poteva accettare di essere portata in trionfo come una preda qualunque. Mostro fatale? Donna dall’animo virile? Intrigante seduttrice? Una machiavellica ante litteram. Una donna non ha forza fisica, ma un instrumentum regni più persuasivo: il fascino.

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Salii: sacerdoti sacri al dio Marte che veneravano in lunghe processioni nelle quali si muovevano saltando (dal verbo salio); portavano scudi secondo il mito caduti dal cielo. Mareotico: vino egiziano pregiato e inebriante Orazio usa la tecnica della aemulatio, in una gara di bravura con i suoi modelli greci. Egli infatti riprende il tema dell’ebrezza e della gioia sfrenata da un carme di Alceo nel quale il poeta esorta a ubriacarsi per la morte del tiranno Mirsilo. “Ora, bisogna ubriacarsi e ciascuno a forza / beva, poiché Mirsilo è morto.”

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Felicità, un bicchiere di vino…

(Hor. Carmina, I, 38)

di Giulia Dellanoce e Agata Licata

L’ultimo pomeriggio d’estate. L’ ultimo tiepido raggio di sole. Orazio, lontano dal frenetico ritmo cittadino, si trova nella villa in Sabina che gli era stata regalata da Mecenate, il suo protettore. Un fresco pergolato, una corona di mirto, un calice di vino: basta poco a riempire il poeta di una gioia pacata, di una gioia genuina, sincera. I raggi d’oro colorano il giardino, scaldando il poeta con mille sfumature di luce. Cosa si può desiderare di più? Perché affannarsi, perché lasciarsi risucchiare dal vortice dell’ ambizione? Perché tormentarsi, nell’ attesa di una felicità effimera, di una felicità pagata a caro prezzo, quando siamo seduti all’ombra di una vite?

Persicos odi, puer, apparatus, displicent nexae philyra coronae, mitte sectari, rosa quo locorum sera moretur. Simplici myrto nihil adlabores sedulus, curo: neque te ministrum dedecet myrtus neque me sub arta uite bibentem.

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Odio, ragazzo, i lussi persiani, non apprezzo le corone intrecciate di tiglio, smetti di cercare dove la rosa tardiva fiorisca. Non voglio che ti affanni ad aggiungere altro al semplice mirto: il mirto non è sconveniente né a te che mi servi, né a me che bevo sotto un ombroso pergolato.

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Siamo nel 23 a.C., Roma è capitale di un impero vastissimo, che comprende una grande varietà di popoli con usanze e costumi molto diversi fra loro. Come al giorno d’oggi è nell’immaginario comune lo stereotipo dell’americano sempre di fretta, dello svizzero puntuale e dello spagnolo amante delle feste, così i Romani, a quel tempo, associavano ai Galli la forza, la violenza e la ferocia in battaglia, ai Greci il primato negli studi filosofici, e infine ai Persiani l’amore per il lusso. La ricchezza delle vesti e l’eleganza degli ornamenti erano così ricercati e desiderati da questi ultimi che sono divenuti, senza dubbio, il loro tratto distintivo; al punto che qualsiasi autore volesse fare riferimento ai Persiani, non poteva non soffermarsi su questo aspetto. Eschilo, drammaturgo greco del V secolo, nella sua tragedia, intitolata, appunto, Persiani, veste Atossa e il figlio Serse con abiti ricchi, adornati e sfarzosi; Erodoto, storico della Grecia classica, parla a lungo dell’opulenza dei costumi orientali. Perfino Lucrezio, poeta latino dell’età cesariana, nel De Rerum Natura, fa riferimento alla ricercatezza dello stile persiano. Orazio, che si definisce ironicamente “porco del gregge epicureo”, non poteva che scegliere questa caratteristica come principale oggetto di biasimo per esprimere il suo ideale di vita. Non a caso, pone quest’ode a conclusione del I libro, attribuendole particolare importanza. Il primo verso costituisce, si può dire, un vero e proprio manifesto dell’ideale epicureo del raffinato poeta: “odio il lusso persiano”, il messaggio è chiaro, diretto, efficace. Chiare, dirette ed efficaci infatti sono le parole scelte dal poeta: apparatus contiene la radice del verbo pareo, che significa “apparire, mostrarsi”; di conseguenza il termine indica l’insieme degli unguenti, degli aromi e dei profumi che caratterizzano appunto l’elaborato stile persiano. L’oggetto dell’odio di Orazio è separato dal suo aggettivo da un iperbato, che porta le due parole a incorniciare l’ incipit dell’ ode. Nell’ode, egli si rivolge al suo servo, che nel primo verso chiama puer, e lo invita a non affannarsi nella ricerca delle rose tardive. Quest’ultima immagine, molto suggestiva, è pervasa dal lèpos caratteristico della lirica oraziana, ed evoca al lettore l’ immagine di un giardino in autunno, illuminato dalla luce del tramonto, pervaso dall’ ultimo tepore estivo, in cui fiorisce ancora l’ ultima rosa. “Ancora qualche rosa è ne’ rosai, ancora qualche timida erba odora” scrive Gabriele d’Annunzio, senza dubbio suggestionato da questa romantica e decadente immagine.

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Nella seconda parte dell'ode, rivolgendosi nuovamente al suo servo, che ora è ministrum (coppiere), lo esorta a non affannarsi nella ricerca di elementi superflui. È proprio questo il messaggio epicureo che Orazio predica: per essere felici è sufficiente godere di ciò che si possiede, appunto cogliere l'attimo nel senso di viverlo pienamente senza preoccupazioni o affanni vani, rifiutando gli sfarzi persiani, le rarissime rose d’autunno, e gioendo della semplicità del mirto e della vite, le piante dell’amore e del vino. Il mirto, sacro a Venere, non porta vergogna al poeta che canta l’amore; l’arta vitis offre al poeta il rifugio appartato e idilliaco che lui andava cercando, per fuggire dalle ansie e dagli affanni che tormentavano la vita degli uomini, anche nel periodo dell’apparente pax augustea.

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Barine

(Hor. Carmina, II, 8) di Paola Fulghieri, Chiara Gronchi e Agata Licata

Giunti alla fine di questo libretto vi aspettereste un’immagine tranquilla, una conclusione idilliaca, ma al contrario vi proponiamo una scena intensa, travolgente e sensuale, come lo era la protagonista, Barine. E così, come trasportati da una macchina del tempo, pensate di trovarvi al centro di un banchetto dell’alta società romana. Davanti a voi vedete danzare una bellissima donna, centro dell’attenzione di tutti, e in sottofondo udite il suono di un flauto che accompagna il suo ballo. Sembra che ci sia solo lei nella stanza, lo sguardo di ognuno è ammaliato di fronte a questa figura tanto femminile quanto tormentosa. Vediamo quali effetti è in grado di suscitare con la sua bellezza..

Ulla si iuris tibi peierati poena, Barine, nocuisset umquam, dente si nigro fieres vel uno turpior ungui, crederem: sed tu simul obligasti perfidum votis caput, enitescis pulchrior multo iuvenumque prodis publica cura.

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expedit matris cineres opertos fallere et toto taciturna noctis signa cum caelo gelidaque divos morte carentis.

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Ridet hoc, inquam, Venus ipsa, rident simplices Nymphae, ferus et Cupido semper ardentis acuens sagittas cote cruenta.

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Adde quod pubes tibi crescit omnis, servitus crescit nova nec priores inpiae tectum dominae relinquunt, saepe minati.

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Te suis matres metuunt iuvencis, te senes parci miseraeque nuper virgines nuptae, tua ne retardet aura maritos.

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Se alcun castigo ti avesse mai punita dei tuoi spergiuri, o Barine, se tu diventassi più brutta anche solo per un dente nero, o per un’unghia, ti crederei. Ma tu, non appena hai giurato con promesse false, risplendi ancor più bella e avanzi, comune turbamento dei giovani. Ti giova farti beffe delle ceneri sepolte di tua madre, delle costellazioni della notte silenziosa, con tutto il cielo e gli dei che non conoscono la gelida morte. Sorride di questo, lo dico, la stessa Venere, ridono le ingenue ninfe e il crudele Cupido sempre intento ad aguzzare le sue ardenti frecce sulla pietra macchiata di sangue. Oltre a ciò per te cresce tutta la gioventù, una nuova schiera di schiavi, né i vecchi anche se spesso hanno minacciato di farlo, non abbandona la dimora dell’empia padrona. Te temono le madri per i loro figli, te i vecchi padri avari, e le giovani ragazze appena sposate, al pensiero che il tuo fascino possa attardare i mariti.

Tra le tante figure femminili delle odi oraziane, Barine merita un’attenzione particolare. Sensuale, provocante, bella. Desiderata, ma allo stesso tempo temuta, come leggiamo nell’ultima strofa, da madri (matres) che si preoccupano per i loro figli, da vecchi avari (senes parci) e persino da giovani spose (miserae nuper virgines nuptae) tormentate dalla costante presenza della cortigiana. Barine non ha paura di nulla, né di infrangere promesse né offendere gli dei. La donna non esita, infatti, a giurare il falso sulle ceneri della madre (matris cineres opertos) e sul cielo stellato, sede degli dei immortali. Giurerebbe il vero solo se in gioco ci fosse la sua bellezza e soltanto in questo caso, ironicamente, Orazio le crederebbe. Gli dei non solo non intervengono di fronte alla sua spregiudicata leggerezza, ma si divertono assistendo ai suoi giochi amorosi (ridet hoc Venus ipsa, rident simplices Nymphae). La donna è così esperta nelle arti dell’amore che neanche Cupido può scalfirla con le sue frecce (ardentis sagittas) e, suo complice, arruola nuovi schiavi alla sua schiera amorosa. Nessuno di loro, pur essendosi ripromesso di farlo, è mai riuscito ad abbandonare la dolce e amara dimora di Barine (inpiae tectum dominae).

Come per voi può essere divertente leggere questi i versi e immaginare il gioco amoroso di Barine, così anche per gli dei, spettatori celesti, accomodati sulle nuvole, mentre degustano nettare e ambrosia, è uno spettacolo piacevole e dilettevole guardare i vani affanni umani, le loro effimere promesse e gli attimi felici.

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Questa scena di Orazio è comune anche a Ovidio, che parlando degli spergiuri amorosi scrive:

Iuppiter ex alto periuria ridet amantum Et iubet Aelios inrita ferre Notos. (Ovidio, Ars amatoria, I, vv. 633-634)

Giove dell’alto sorride agli spergiuri degli amanti E lascia che i venti di Eolo se li portino via senza effetto.

Quando si ama una persona, il timore che qualcuno possa portarla via è costante e assillante. Barine è fonte di angoscia per le madri. È la rivale delle giovani mogli, ancora insicure riguardo alla fedeltà del marito. È una figura di tentazione, una distrazione, una seduzione. È l’illusione effimera che con gesti esperti e studiati sa come trarre nella sua rete i giovani amanti. Foscolo riprende Orazio scrivendo:

Fiorir sul caro viso Veggo la rosa, tornano I grandi occhi al sorriso Insidiando; e vegliano Per te in novelli pianti Trepide madri, e sospettose amanti. (Ugo Foscolo, All’amica risanata, vv. 18-23)

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Ora allontaniamoci dalle vie di Roma, dai banchetti, dalle feste, dalle case tranquille di campagna, dalla riva del mare‌ ritorniamo alle nostre vite, alle nostre giornate; salutiamo queste persone affascinanti, queste donne seducenti, amici sinceri; e come ci hanno sicuramente lasciato qualcosa, ci hanno fatto sorridere, riflettere sulla vita.

Aut prodesse volunt aut delectare poetae

Come diceva Orazio, i poeti hanno un compito difficile: emozionare e far pensare allo stesso tempo. crediamo che lui ci sia riuscito benissimo con noi, con voi, con i lettori di ogni tempo.

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