La guerra di Dio di Alessandro Camilletti

Page 1



ALESSANDRO CAMILLETTI

LA GUERRA DI DIO ROMANZO STORICO

{zeroI91}


LA GUERRA DI DIO

Copyright © 2011 Alessandro Camilletti TUTTI I DIRITTI RISERVATI © 2011 zero91 s.r.l., Milano.

Prima edizione: giugno 2011 ISBN 978–88–95381–40-4 La riproduzione di parti di questo testo, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma senza autorizzazione scritta è severamente vietata, fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi.

Stampato in Italia

Questo libro è stampato su carta FSC amica delle foreste. Il logo FSC identifica prodotti che contengono carta proveniente da foreste gestite secondo i rigorosi standard ambientali, economici e sociali definiti dal Forest Stewardship Council.

WWW.ZERO91.COM


LA GUERRA DI DIO



Marchesato di Monferrato



PROLOGO ANNO 1203; 15 AGOSTO, SOLENNITÀ DELL’ASSUNZIONE. ALBA.

I

l maresciallo Ademar piegò leggermente la testa da un lato. Con la mano rattrappita e rigida scostò senza fretta la fronda di lentisco che gli ingombrava la visuale, e dinanzi ai suoi occhi vuoti e fissi, la nuova alba – la seconda di quella interminabile e assurda notte – sfolgorò in tutta la sua maestà. Silenzioso e avviluppato dal buio, come un elemento qualsiasi del paesaggio, Ademar la osservò immobile per lunghi istanti, quasi senza prestarvi alcuna attenzione. Semplicemente tutto accadeva davanti a lui ed egli non aveva motivo, e forse neanche la forza, per ignorarlo. I grandi tronchi delle possenti querce e quelli snelli e ossuti (ma non per questo all’apparenza meno solidi) dei carpini eleganti lo circondavano in ogni direzione, stendendosi a perdita d’occhio, e gli infondevano un senso di protezione abbastanza tangibile da permettere alla sua mente di abbandonarsi a quella visione senza quasi pensare più a nient’altro. La foresta intorno a lui sembrava una gabbia attraverso cui guardare le innocue meraviglie del mondo con sguardi carichi di stupore; le sue forti sbarre sarebbero state sufficienti a ripararlo da tutto quello che di malvagio si nascondeva all’esterno. Eppure qualcosa nel modo in cui quella luce sanguigna avvolgeva le chiome degli alberi o filtrava attraverso i tronchi, irradiando di 9


riverberi irreali la terra ancora umida accanto a lui, non cessava di inquietare la sua anima. Non passò molto perché quei riflessi gli facessero salire alla mente vaghe immagini di tragiche profezie e biblici cataclismi. Cercò di rammentare qualche storia che gli era capitato di ascoltare nel corso della sua vita e che avesse a che fare con un simile portento naturale, ma non gli venne in mente nulla. Certo, era probabile che una vicenda così esistesse davvero ma, semplicemente, lui la ignorasse: non era un segreto per nessuno che egli frequentasse assai poco assiduamente gli uffici liturgici, e ancora meno i libri sacri. Potrei essere io stesso un profeta, si ritrovò a pensare. Il prediletto a cui fu dato di assistere alla visione di una duplice aurora nell’arco di un’unica notte. Colui che interpreta i segni del cielo quando ormai gli eventi e i destini sono già compiuti davanti agli occhi di tutti. Il “profeta del giorno dopo”. Suo malgrado però, la sola idea di accostare se stesso a qualcosa di “prediletto” gli fece storcere la bocca in una smorfia fin troppo amara. Si sentiva esausto. Dopo un tempo infinito trascorso a terra, accovacciato e immobile, i muscoli sempre tesi e pronti a scattare a ogni più piccolo rumore, Ademar si rese finalmente conto di non poter reggere in quello stato ancora per molto. Era evidente che anche la sua mente stava perdendo lucidità, irretita da quella scena inconsueta. E il pensiero di questa debolezza lo irritò. Spostò lievemente il peso del corpo da una parte all’altra perché, nel frattempo, la gamba destra gli si era indolenzita; cercò di muoverla con estrema cautela, ma un nuovo e improvviso dolore lo fece imprecare tra i denti. Anche il collo lo tormentava, già da alcuni giorni, e la notte appena trascorsa a vegliare tra i cespugli umidi del sottobosco non aveva fatto che peggiorare la situazione. Quel dolore fisico veniva così a sommarsi a quelli propri dell’anima che le due aurore avevano subdolamente insinuato nel suo cuore: il tetro sconforto di chi sa di aver perduto per sempre qualcosa della propria vita di cui aveva fatto esperienza di fronte alla prima; l’insicurezza, la sfiducia, e la paura con cui, attimo dopo attimo, accoglieva la seconda. 10


Il languido pianto di una tortora selvatica risuonò a un tratto distintamente nell’aria, interrompendo il corso dei suoi pensieri. Ademar riconobbe il segnale e capì che i due uomini che aveva mandato in avanscoperta quasi un’ora prima stavano ormai tornando. Pochi rumori di rami e sterpaglie calpestati anticiparono il loro arrivo e, ben presto, il capitano di compagnia Manfredo e il suo compagno, Arduino, furono accanto a lui. Fu Manfredo a prendere subito la parola, dopo appena un cenno di deferente saluto. «Mio signore, il sentiero è sorvegliato. Sarebbe inutile cercare di forzare il passo, i soldati a guardia sono troppo numerosi e… beh, ho avuto l’impressione che si aspettino di veder passare qualcuno di là prima o poi.» Questa volta Ademar si rizzò in piedi. Un pensiero irritante gli attraversò la mente. «Spiegati meglio.» «Ecco signore, abbiamo trovato il sentiero e l’abbiamo percorso per un breve tratto. Quasi subito però abbiamo deciso di lasciarlo, per evitare rischi, e abbiamo proseguito costeggiandolo al riparo degli alberi. Credo che saremmo morti se non avessimo agito così: fino al villaggio non abbiamo notato niente di strano, ci siamo anche avvicinati per dare un’occhiata all’interno, ma, dopo qualche altro centinaio di piedi abbiamo sentito dei rumori davanti a noi e, grazie a quelli, abbiamo individuato dei soldati che si erano appostati al margine della strada.» Il capitano fece una pausa carica di significato. «Signore, erano pronti per un’imboscata.» L’irritazione di Ademar si tramutò in sconforto. E rabbia, per non aver saputo prevedere quella circostanza. Il lato ovest di Ovilia, infatti, era sempre stato quello lasciato più sguarnito dagli assedianti, ed era stato naturale per lui individuare proprio in quella stradina che attraversava il bosco in tutta la sua lunghezza la migliore via per aggirare ogni possibile minaccia e portarsi velocemente il più lontano possibile dall’esercito nemico. Il sentiero collegava la città al vecchio villaggio dei boscaioli. Poi, da lì, ridotto a poco più che una pista in mezzo agli alberi, piegava verso sud, insinuandosi agile tra le colline. In passato gli uomini che vivevano nella foresta se ne erano serviti essenzialmente come di una seconda via di transito e di commercio fino a Bergamasco e 11


Carentino, assai provvidenziale quando, con l’approssimarsi della stagione fredda, le frequenti esondazioni del Belbo rendevano impraticabile la ben più nobile strada che costeggiava il letto del fiume. E anche se erano già trascorsi lunghi mesi da quando i boscaioli avevano dovuto abbandonare le loro capanne, Ademar aveva confidato ugualmente che la via fosse ancora in buone condizioni e che gli avrebbe concesso il vantaggio di restare ben nascosti fra gli alberi per almeno mezza lega. Grazie a essa avrebbero oltrepassato in tutta fretta la piccola catena collinare per lasciarsi alle spalle il tratto di viaggio più pericoloso; e allora avrebbero anche potuto rifiatare, in attesa di riprendere il cammino col favore dell’oscurità. Quel piano era stato in qualche modo la sua unica consolazione nelle ore buie e disperate appena passate sul margine del bosco, accovacciato tra rovi di pungitopo e cespugli di ligustro e ginepro come un ladro o un bracconiere, mentre cercava di rimanere lucido pur tra mille pensieri di angoscia e mille domande che non avrebbero forse mai avuto una risposta. E adesso che anche questo conforto sfumava, sentì la tristezza invadergli l’anima. Siamo stati superbi; e i nostri nemici non hanno perso tempo. Tutto a un tratto fu colto dalla consapevolezza che i mesi trascorsi dai soldati del balivo all’esterno delle mura di Ovilia avevano finito per annullare la disparità di cognizione di quei territori. Eravamo tranquilli perché avevamo a portata di mano tutto quello che ci serviva, ma intanto i loro esploratori hanno studiato il terreno e i loro cacciatori hanno setacciato i boschi e le campagne in cerca di selvaggina e frutti. Tutti i passaggi ormai saranno noti e sorvegliati. I due uomini, intanto, lo fissavano in paziente attesa di una sua risposta. A entrambi Ademar aveva ordinato di togliere la cotta di maglie di ferro durante la loro ricognizione: la priorità assoluta era passare inosservati e il rumore o i riflessi metallici nella notte li avrebbero potuti facilmente tradire; e, una volta individuati, difficilmente sarebbero scampati alle spade degli uomini di Raimondo. Non solo. Qualcuno avrebbe potuto riconoscerli per esploratori e immaginare che un gruppo più nutrito avesse trovato rifugio fra gli alberi, e allora la fine di tutti loro sarebbe stata questione di ore. Così, invece, senza neppure i mantelli – aveva ordinato a tutti di 12


abbandonarli ancor prima di partire – e i corpetti di cuoio recanti gli emblemi del loro rango militare, non c’era nulla che potesse distinguerli da due boscaioli o due semplici viaggiatori. Manfredo quella notte, abbandonando la città, aveva lasciato al loro destino sua moglie e i suoi tre bambini, l’ultimo – il piccolo Lapo – ancora in fasce. Se aveva avuto tempo di pensare che forse non li avrebbe mai più rivisti, pure non lasciava che nulla dei suoi sentimenti filtrasse attraverso la durezza del suo volto. Di Arduino, invece, Ademar non sapeva quasi nulla. Non doveva essere più tanto giovane, ma conservava ugualmente lineamenti morbidi e un’espressione stranamente infantile per uno che aveva deciso di consacrare la sua esistenza alla vita militare. I suoi occhi però parlavano di atroci sconvolgimenti interiori e, quando i loro sguardi si incontrarono, al maresciallo parve di vedere in essi il riflesso della sua stessa anima. «Seguiremo il sentiero fino al villaggio» disse infine Ademar. «Quindi proseguiremo verso nord-ovest, attraverso il bosco. I passi sulle colline potrebbero essere sorvegliati, perciò dovremo fare il giro.» Poi, intuendo la successiva domanda del suo capitano: «D’ora in avanti procederemo tutti insieme. Se ci sarà uno scontro, più saremo uniti più possibilità avremo di sopravvivere.» E lo scontro forse sarebbe stato inevitabile, visto che, sebbene sul momento quella gli sembrasse di gran lunga la soluzione meno pericolosa, aggirando le colline sarebbero stati costretti a uscire allo scoperto, allungando considerevolmente il tragitto, e proprio nella direzione del loro nemico. Non ci resta che confidare nella segretezza della nostra missione. O, almeno, nella speranza che nessuno ci reputi tanto sciocchi da passare di là. «Coraggio, indossate le armature e radunate tutti.» I due si congedarono ed egli ne approfittò per gettare uno sguardo tutto intorno. Diede un’occhiata complessiva a tutta la compagnia e fu soddisfatto dell’impressione che ne ebbe: nonostante il morale comprensibilmente a terra e la notte passata senza chiudere occhio, nonostante apparissero tutti sporchi e dolorosamente incerti su quello che sarebbe stato il loro futuro, 13


nessuno dei suoi uomini mostrava tracce di eccessivo nervosismo o segni di cedimento tali da far presagire alcun tipo di problema. Non importa se adesso hanno paura, si disse, rammentandosi improvvisamente dell’eroico esempio dei quattro sventurati che ora mancavano all’appello e che avevano dimostrato la loro lealtà fino all’estremo sacrificio della propria vita. So che quando giungerà il momento si comporteranno esattamente come mi aspetto da loro. Ne provò orgoglio. Ma anche invidia, perché si rendeva conto che loro sapevano esattamente quello che dovevano fare, e cioè obbedire ai suoi ordini; mentre lui poteva solo sperare che quegli stessi ordini non li portassero tutti verso un tragico destino. Per questo non poteva permettersi di sbagliare. Non poteva permettere che accadesse ancora qualcosa a uno qualsiasi di loro; ma avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per difenderli e preservarli da ogni pericolo. Perché quello era il suo compito, ed egli era più che mai deciso a onorarlo, anche a prezzo della sua vita se fosse stato necessario. Finalmente riacquistò tutto il suo autocontrollo. E soltanto allora, con almeno quella nuova certezza nel cuore, si decise a lasciare la sua posizione per avvicinarsi alla fanciulla che, unica presenza femminile in quel gruppo di soldati, fino a quel momento non aveva ancora avuto il coraggio di guardare direttamente in volto: colei che aveva giurato di scortare sana e salva oltre le linee nemiche; il vero motivo per cui tutti loro avevano lasciato mogli, figli, case e ogni altro avere in balia del nemico. Ma soprattutto, l’unica speranza che gli rimaneva che non tutto fosse definitivamente perduto. «Perdonatemi mia signora» disse rivolgendosi a lei con un leggero inchino e cercando di mantenere un tono di voce il più possibile neutro per non gettare ulteriore turbamento nel suo animo ferito, «vi prego di preparavi. Tra poco riprenderemo il cammino.» Come aveva previsto, la risposta della fanciulla non fu altrettanto riguardosa: «Credetemi, maresciallo: non c’è niente che io possa fare per essere più pronta di così.» E senza neppure sollevare gli occhi verso di lui, gli mostrò le mani vuote, in un gesto che Ademar non riuscì a decidere se di accusa o di semplice corollario alle sue parole. «Tuttavia» proseguì, «vorrei poter avere il tempo di mangiare qualcosa.» 14


C’erano astio e frustrazione nella sua voce; armi che – neppure questo era un segreto – la giovane donna sapeva rendere all’occorrenza affilate come rasoi. E, sebbene egli non si fosse aspettato niente di meno, quelle semplici frasi ebbero ugualmente il potere di ferire nel profondo la sua sensibilità, beccandolo come tanti ferri acuminati sulla carne nuda. La sicurezza di poco prima svanì immediatamente. «Sono desolato, ma sarà meglio che attendiate finché non saremo più al sicuro» disse con maggiore freddezza e subito si voltò, temendo che, se lei lo avesse guardato negli occhi, le sue emozioni lo avrebbero certamente tradito. Conosceva Eloisa da sempre. Era già un capitano di compagnia quando lei era nata, cosa che gli aveva permesso di partecipare a quell’evento in maniera privilegiata. Ma quando cinque anni dopo aveva assunto il comando della Guarnigione e si era trasferito, armi e bagagli, nel maniero del barone suo padre, i loro incontri avevano finito per divenire qualcosa di piacevolmente quotidiano e anche il legame che fin dal primo momento egli aveva spontaneamente provato per lei era naturalmente cresciuto in consapevolezza e profondità. Ademar aveva sempre saputo di essere destinato a quell’incarico, e anche che per poterlo assolvere avrebbe dovuto rinunciare al matrimonio, ad avere figli legittimi e, più in generale, a una famiglia sua. Era forse per questo che certe volte (e soprattutto quando la stanchezza portava con sé un po’ di malinconia e di solitudine), vedendo quella bambina giocare sempre da sola nei corridoi o nelle grandi stanze vuote del maniero, si era sorpreso a chiedersi se non potesse essere un po’ anche figlia sua; se almeno lei avrebbe mai potuto dargli un po’ di quell’amore filiale che altrimenti gli sarebbe stato negato per sempre. La proteggeva con la più grande attenzione e spesso, quando nessuno poteva vederlo, cercava di divertirla, giocando con lei come pensava dovesse fare un vero padre. Lei però non ricambiava mai il suo slancio e – triste a dirsi – più che altro sembrava sopportarlo pazientemente, un poco con distacco, consapevole forse che quei giochi non erano mai troppo lunghi né troppo insistenti. Quando il tempo lo permetteva trascorreva 15


invece ore intere nel cortile a cercare i suoi gatti preferiti. Con la promessa di un po’ di cibo riusciva a radunarli tutti nei pressi di una vecchia fontana che non funzionava più chissà da quanti anni e lì fingeva di essere una regina intenta a ricevere la sua corte. C’era anche un gatto tutto spelacchiato e malconcio, con un orecchio mozzato e la pelliccia tigrata. Quello era il suo capitano delle guardie; le ferite le aveva ricevute in battaglia mentre difendeva coraggiosamente la sua dama. Dalla sua camera al primo piano Ademar l’aveva osservata molte volte senza che lei se ne accorgesse, e il vederla preferire la compagnia dei suoi amici felini a quella delle altre persone aveva in parte alleviato le ferite del suo amor proprio. Allora aveva preferito attribuire quel senso di sollievo alla serenità che sembrava circondarla in quei momenti. Ma, quando poi lei era cresciuta e quegli episodi erano riaffiorati nella sua memoria, egli aveva capito con un po’ di vergogna che erano stati solo l’orgoglio e l’egoismo a governare i suoi sentimenti. Era giunto alla conclusione che probabilmente non sarebbe mai stato un buon padre e che era un bene che non avesse avuto figli. Crescendo, Eloisa non aveva mutato carattere, né atteggiamento. Anche in quell’istante, la freddezza e il distacco erano per lei una protezione naturale contro la paura; sicuramente nessuna armatura, per quanto impenetrabile, le avrebbe offerto lo stesso conforto. Ademar si sforzò di pensare a questo per giustificare quel contegno ostile. E poi sapeva che non era con lui che ce l’aveva la fanciulla. La scenata della notte precedente era ancora troppo vivida nella sua mente.

Erano in quattro nella Sala delle Mappe. Il barone Gualtieri di Ovilia aveva appena scambiato qualche sommessa battuta con Arrigo, il maggiore dei suoi due figli maschi, oltre che il primogenito. Adesso camminava con passi veloci e nervosi avanti e indietro per la piccola stanza senza guardare nessuno di loro. Alla pigra luce delle candele il suo viso stanco appariva rigido come una maschera di legno. I 16


lunghi capelli ondulati, solitamente ben curati, gli ricadevano sulle guance in maniera sgraziata e scomposta; ogni volta che si girava di scatto per tornare sui suoi passi una grossa ciocca volteggiava in aria celando completamente l’accentuato pallore delle sue guance scavate. Una cappa di elegante tessuto color porpora lunga fin quasi ai piedi copriva la sua tunica da notte e imitava, amplificandoli, i movimenti dei suoi capelli. Pensava in maniera frenetica, gli occhi fissi davanti a sé, terribili d’ira e di sdegno. Arrigo, dopo aver ascoltato con molta attenzione ciò che suo padre gli aveva sussurrato un attimo prima, era rimasto fermo in un angolo, timoroso forse di suscitare la sua ira al minimo gesto o suono. Ademar e il capitano Manfredo lo imitavano, sapendo bene che, in quel momento, il loro unico compito era di attendere i suoi ordini. L’unico rumore all’interno della stanza era quello dei passi del barone e del suo respiro affannato. Fuori invece si udivano già, benché attutite dai muri e dalla lontananza, le grida della gente: comandi urlati chissà da chi tra lo scompiglio generale, urla di paura o di disperazione, strepiti e schiamazzi mescolati a mille altri rumori confusi insieme. «Perché mia figlia non è ancora qui? Quanto ci mette quella donna a prepararla?» proruppe all’improvviso Gualtieri, perdendo malamente la pazienza e sfogando quasi con un grido la frustrazione repressa fino a quel momento. «Non avevo forse detto chiaramente di sbrigarsi?» Poi, guardando direttamente il maresciallo: «I tuoi uomini sono pronti?» «Sono tutti qui fuori, mio signore. Attendono i tuoi ordini.» «Sai quello che devi fare, vero?» «Sì, mio signore.» Qualcuno bussò. Tutti si voltarono in quella direzione mentre la smunta faccia di un giovane servitore faceva timidamente capolino tra lo stipite e la porta appena dischiusa. «E tu chi saresti?» l’apostrofò il barone di malagrazia. Il ragazzo fece un mezzo passo indietro, investito da quelle parole e dall’aria di gravità che impregnava la stanza. «Sono… sono Mariano, signore» rispose con un tremito mal controllato nella voce. «Mi hanno comandato di portarle questo. Mi hanno detto che era 17


urgente e che dovevo salire fino alle sue stanze. Sono andato prima in camera sua, ma…» «Va bene, va bene.» Con un gesto spazientito della mano Gualtieri gli fece capire di aver ascoltato abbastanza. «Perché non è salito Malachia?» «Ecco signore, Malachia è malato. Sono due giorni che non viene nelle cucine perché la febbre l’ha costretto a letto. Ha incaricato me di sostituirlo… naturalmente sotto il comando di Abelardo, il suo siniscalco, signore.» A mano a mano che il giovane servitore parlava, il volume delle sue parole era scemato progressivamente, fino a divenire un sussurro quasi indistinto. Per tutto il tempo era rimasto con un piede dentro la stanza e uno fuori, frenato dalle parole cariche di collera del barone. Un braccio teso in avanti, rigido come il ramo di un albero, mostrava a tutti il motivo, o forse meglio, la giustificazione, per la sua comparsa: si trattava di un semplice zaino di cuoio, uno di quelli normalmente usati per trasportare cibi e bevande. Nel complesso la scena avrebbe potuto definirsi in parte grottesca e in parte patetica. Da sotto le sopracciglia folte e cespugliose il barone rivolse ad Ademar un’occhiata ammiccante in direzione del ragazzo; poi si voltò verso un angolo della stanza che non era occupato da nessuno di loro, lasciando intendere che non desiderava prolungare oltre quella conversazione. Il maresciallo si avvicinò al garzone e prese lo zaino dalle sue mani. Provava pena per lui, per quel suo sguardo perso e impotente; perciò, nel sospingerlo con garbo fuori dalla porta, lasciò che la sua mano cadesse affettuosamente sulla sua spalla e, cercando di apparire rassicurante, gli sussurrò: «Rimani nel maniero e non ti succederà niente. Non uscire, qualunque cosa accada. Se non hai niente da fare, va’ da Malachia; è solo e la tua compagnia gli darà coraggio.» Mariano, un po’ più sollevato, piegò leggermente la testa in avanti, a significare che aveva compreso. Quindi si voltò e si allontanò per il corridoio. Intanto i soldati che attendevano fuori dalla sala, vedendo Ademar apparire sull’uscio, si voltarono all’unisono verso di lui, rivolgendogli occhiate cariche di attesa e domande inespresse. Con un gesto lieve 18


della mano però, egli fece capire loro che avrebbero dovuto pazientare ancora. Quindi rientrò senza perdere altro tempo e richiuse la porta dietro di sé. Aprì lo zaino per controllare che ci fosse tutto il necessario e lo affidò al suo capitano, che lo indossò senza fare alcun commento. Per alcuni istanti all’interno della stanza ripiombò un cupo e ostinato silenzio. Poi, finalmente, la porta si riaprì ed Eloisa varcò la soglia, seguendo l’anziana donna che ora le faceva da cameriera, ma che in passato era stata sua nutrice. Il maresciallo notò che la fanciulla era vestita in maniera assai più dimessa del suo costume, non tanto però da non essere riconosciuta immediatamente come una persona di alto lignaggio. E subito pensò che fosse un bene perché, qualunque cosa fosse successa, era convinto che la sua vita sarebbe stata più al sicuro se quel particolare fosse stato ben evidente. «Alla buon ora, Lucilla! Perché ci hai messo tanto?» Come prima, il barone quasi urlò, sbottando in faccia alla donna con lo stesso esasperato sgarbo con cui si era già rivolto al garzone di cucina. La meschina si arrestò di colpo, come stordita dalla ferocia di quelle parole, e per un momento parve perfino sul punto di indietreggiare. Sotto l’impeto di quella inaspettata accoglienza, la sua esile figura sembrava più piccola e fragile che mai. «Ma signore» osò appena replicare, «che cosa succede? Si sente la gente gridare là fuori e giurerei…» «Basta così, Lucilla! Non ho tempo da perdere con i tuoi cicalecci! Hai fatto piuttosto quello che ti ho comandato?» «Certo signore, anche se non capisco…» ma l’occhiata di fuoco che le scoccò il barone la fece immediatamente desistere dal terminare la frase. Gualtieri abbandonò di colpo ogni interesse verso di lei e si avvicinò invece a sua figlia. «Dove l’hai nascosto, piccola mia?» Eloisa estrasse dallo stivale destro una piccola daga, una misericordia, come si chiamava nel gergo dei soldati, e la mostrò al padre. «Ma padre… che succede? Perché tutto questo?» Era incredibilmente calma, per quanto spaesata; sembrava la spettatrice di una rappresentazione drammatica che avesse perso il filo della narrazione. 19


«Stai tranquilla, bambina» cercò di rassicurarla il barone, senza concederle tuttavia alcuna spiegazione. «Non ne avrai bisogno. Si tratta di una semplice precauzione.» E intanto con una mano le accarezzò i capelli. «Ti affido ad Ademar. Ti porterà fuori dalle mura per un passaggio nascosto, e poi al sicuro fino a Bergamasco.» Quindi cavò una lettera sigillata da una tasca interna della vestaglia e gliela porse. «Nascondila sotto le tue vesti, in modo che non possa essere trovata facilmente. La consegnerai solo al conestabile della città; il suo nome è Merigo. Lui ti conosce e ti accoglierà come meriti. Bada che nessun altro oltre a lui abbia a leggerla, per nessun motivo! Hai capito bene? Per nessun motivo!» La seconda volta pronunciò quelle parole in tono quasi minaccioso, scandendole molto lentamente affinché risultasse chiara oltre ogni dubbio la loro importanza. Poi le diede un piccolo bacio sulla fronte, mentre lei rimaneva rigida, in un atteggiamento tutt’altro che affettuoso. «Ora va’! Non c’è più tempo.» E, dopo aver fatto un cenno con gli occhi al maresciallo, si voltò nuovamente. Ademar sentì una fitta nel petto, ma sapeva che, a quel punto, indugiare avrebbe solo peggiorato le cose. Le si fece incontro per condurla via. «Ci siamo: è l’ora.» Eloisa tuttavia non si mosse. Guardava la sua vecchia nutrice con un’espressione di timore e di meraviglia insieme, che egli non sapeva interpretare in alcun modo. «E Lucilla?» domandò al padre che già le dava le spalle. «Voglio che venga con me.» «È fuori discussione. Dovrai viaggiare veloce. Lucilla resterà.» La donna chiamata in causa intanto seguiva quella discussione in evidente stato di ansia e, dal modo in cui assecondava con lo sguardo pieno di speranza le parole della sua figlioccia, era evidente che anche lei avrebbe mille volte preferito accompagnarla anche in capo al mondo piuttosto che vederla andar via senza poter avere sue notizie. Ademar osservava quella scena con crescente preoccupazione: non voleva recare un dolore a Eloisa, ma, se la nutrice fosse andata con loro, temeva che la missione ne sarebbe stata compromessa. Non dubitava che la donna avrebbe fatto quanto era in suo potere per non 20


essere di intralcio; ma, anche così, non avrebbe mai potuto avere la meglio sulla sua vecchiaia. Nemmeno per amore della sua bambina. «Non andrò senza di lei!» insistette la fanciulla, la voce stridula di sdegno e un tono che sembrò a tutti fin troppo imperioso. Soprattutto al barone che, perdendo definitivamente il controllo, si lanciò verso la figlia come se volesse schiacciarla sotto il peso della propria autorità e, senza più alcun freno, sfogò su di lei tutta la sua rabbia: «Osi discutere i miei ordini? Figlia insolente! Tu farai quello che ti comando, e senza obiettare oltre. Maresciallo, portatela via!»

Ademar non aveva potuto far altro che trasportarla di peso fuori dalla stanza, cingendole la vita con un braccio e sollevandola da terra, mentre lei ancora tendeva disperatamente le mani verso l’anziana donna. Era stato così facile sollevarla; il corpo caldo scosso da fremiti incontrollati e il profumo dei suoi lunghi capelli castani erano sensazioni ancora vive nelle sue mani e nella sua memoria. Non l’aveva mai stretta a sé a quel modo, neppure da bambina. Fuori dalla stanza, al riparo dallo sguardo severo del padre, il suo scoramento e la sua angoscia si erano sciolti in pianto. Un pianto silenzioso e composto che Ademar aveva continuato a sentire dentro le orecchie per tutta la notte, nonostante da allora Eloisa avesse fatto del suo meglio per non mostrare oltre la sua debolezza e tenere racchiuso, nell’intimità del suo cuore, il dolore di quella separazione. Ma quello sfogo era stato comunque sufficiente a mettere in subbuglio l’anima del maresciallo. Era rimasto sconvolto e disorientato nello scoprire improvvisamente aspetti tanto fragili della personalità di lei, dopo che, per anni, ella aveva mostrato agli altri unicamente il suo lato più imperturbabile e distaccato. E soltanto quando erano ormai trascorse diverse ore da quegli eventi ed ella aveva finalmente ripreso il controllo delle proprie emozioni, seppur con la sgradevole sensazione di aver perduto qualcosa, Ademar era riuscito a sentirsi più sollevato. Così, tra le tante cose che erano accadute quella notte, egli aveva scoperto anche che, se l’indifferenza 21


di Eloisa era per lui qualcosa con cui aveva da tempo imparato a convivere, nessuna difesa poteva invece salvarlo dalla sua fragilità. Gli uomini, frattanto, si erano nuovamente radunati ed erano quasi pronti per mettersi in marcia. Oltre agli esploratori con cui aveva appena parlato, degli altri soldati che completavano la compagnia, soltanto di due Ademar rammentava il nome. Gagliazzo era un tipo smilzo ma irruente, abile con la spada e fidato in caso di scontro; era un bene che facesse parte del gruppo. Quando si rese conto che il momento di rimettersi in marcia era giunto, scostò il rovo di spini che aveva sradicato e usato quasi come una coperta per mimetizzarsi nel buio e, dopo aver dato un’ultima occhiata in giro, si alzò lentamente, accompagnando ogni piccolo movimento con smorfie di dolore che via via gli suggerivano i suoi muscoli indolenziti. Aimone era un poco più basso di statura e più proporzionato. Tentava inutilmente di farsi crescere una barba scura che potesse dargli forse maggiore dignità, ma la natura non voleva assecondarlo, lasciando sulle sue guance vistose zone spelacchiate come la testa di un gatto rognoso. Era di indole incerta e non amava prendere iniziative, preferendo di gran lunga affidarsi al giudizio degli altri. Anche senza conoscerlo, si poteva intuire che la spada che gli pendeva dalla cintura gli serviva solo per completare la divisa della Guarnigione. Come un rituale continuo e inconsapevole, infatti, la sua mano non faceva che posarsi a ogni momento sopra l’impugnatura della sua arma preferita: un guizzante martello d’arme formato da un corto manico di legno e da una testa munita di un devastante becco ricurvo, capace di forare con facilità (e Ademar aveva già potuto constatarlo con i propri occhi) anche la corazza apparentemente più imperforabile. Anche se non gliene aveva mai parlato, egli sapeva che l’uomo aveva un figlio di sei o sette anni, nato da una relazione capricciosa che era finita subito dopo la nascita del piccolo. Quasi niente poteva dire invece degli altri, eccetto che uno di loro, che poteva chiamarsi Giannetto o Guidotto, o qualche altra cosa del genere, aveva giurato al cospetto del barone e degli altri soldati della Guarnigione Scelta appena tre giorni prima, pren22


dendo così il posto dello sfortunato Ferrando, un veterano morto con il cranio trapassato da una freccia mentre era di guardia sopra il camminamento delle mura a sud. Non aveva mai preso parte a un vero scontro, ma il maresciallo sapeva per esperienza, anche personale, che molte volte la voglia di ben figurare quando si è giovani e inesperti poteva essere un’arma invincibile. Sperava solo che avrebbe mantenuto abbastanza sangue freddo da rimanere lucido e non farsi separare dal gruppo, perché spesso era proprio così che finiva la carriera dei novellini. Nessuno di quegli uomini aveva scelto di trovarsi lì. Quando, quella notte, l’esercito di Feliziano si era aperto una breccia nelle mura di Ovilia e vi si era riversato all’interno, devastando e incendiando tutto quello che incontrava sul suo cammino, era quella la compagnia che montava la guardia presso il maniero del barone. Era toccato a loro presentarsi presso la Sala delle Mappe quando il barone stesso aveva ordinato l’adunata. E dunque era stato il caso (o forse in una simile circostanza avrebbe dovuto definirsi Destino?) a disporre che fossero loro a portare a termine la missione. Anche Ademar non si era potuto sottrarre al volere del suo signore e, mentre tutta la città, ridestata di soprassalto, si riversava nelle strade per provare a difendersi con la forza della disperazione da quell’irruzione improvvisa e feroce, egli aveva guidato quel piccolo manipolo il più lontano possibile dagli scontri e dal pericolo. D’altro canto, sapeva anche che tutti loro dovevano in qualche modo ritenersi fortunati. Era vero, tre di quegli uomini erano già morti nel corso della fuga e un quarto era stato lasciato indietro senza che si potessero avere notizie della sua sorte; ma era ben conscio che ai loro compagni rimasti dentro le mura sarebbe toccata una sorte ancora peggiore: probabilmente uccisi nei loro letti, quelli che si fossero fatti sorprendere; o giustiziati, coloro che avessero sperato di avere salva la vita in cambio della resa. Gli assalitori avrebbero anche potuto essere generosi con la popolazione o con la milizia ordinaria una volta sazi di stupri, di saccheggi e di morte, ma non avrebbero certo corso il rischio di tenere in vita i loro nemici più pericolosi. Al contrario, con la loro presta esecuzione, avrebbero chiaramente fatto capire a tutti che 23


non esisteva alcuna speranza di una eventuale futura insurrezione. Avrebbero spezzato una volta e per sempre la spina dorsale delle forze militari del barone per non doversi più guardare le spalle. E Ademar conosceva troppo da vicino l’odio del balivo Raimondo, come pure la sua sete di vendetta, per illudersi che, se Ovilia fosse caduta definitivamente, le cose avrebbero potuto andare diversamente. Quel pensiero risvegliò in lui tutta la sua rabbia e lo convinse che avrebbe fatto meglio a non indugiare ancora. Fece un cenno al capitano che gli si avvicinò in un attimo. «Come si chiamano quei tre laggiù?» gli domandò Ademar, indicando appena con la mano gli uomini di cui non era riuscito ancora a rammentare il nome. Manfredo si lasciò sfuggire un’espressione di autentico stupore per quella richiesta; evidentemente aveva sempre dato per scontato che egli dovesse conoscere a memoria i nomi di tutti i suoi soldati. Subito però riprese il controllo e la allontanò dal suo volto. «Beh, quello con la barba e i baffi biondi è Fulvo… voglio dire, in verità il suo nome è Fulvio, ma nemmeno sua madre lo chiama più così; è per via…» «…del colore dei capelli e della barba» lo anticipò Ademar. Il capitano annuì. «Quello con cui sta parlando adesso è Guidone. Il terzo, quello più piccolo di tutti, si chiama Ramon, ma tutti lo chiamano Cispa; credo sia castigliano, o qualcosa del genere.» «Sta bene. Allora ascoltami attentamente. Fulvo e Guidone dovranno rimanere indietro e ci copriranno le spalle. Cispa (pronunciò quel nome involontariamente sottovoce e con un po’ di timore, immaginando che dovesse trattarsi senza dubbio di un insulto, una parolaccia o qualche altra cosa di ancora peggiore), Gagliazzo e io scorteremo madonna Eloisa al centro del gruppo, dove sarà più protetta. Tu sarai davanti a noi e ti occuperai del prigioniero. Slegagli i lacci ai piedi, che possa correre in caso di bisogno. Se cerca di rallentarci, convincilo a sbrigarsi; e se dovessimo darci alla fuga per salvare le nostre vite, abbandonalo.» Fece una pausa carica d’effetto. «Fa’ solo in modo che i suoi compagni non lo ritrovino vivo. Quanto ad Aimone e Arduino, saranno la nostra 24


avanguardia. La loro posizione sarà una trentina di piedi davanti al resto del gruppo. È tutto chiaro?» L’uomo fece cenno di sì con il capo. «Ah! Ancora una raccomandazione: qualunque cosa deciderai di fare col prigioniero, fallo in modo che Eloisa non veda niente. Ma se non crea problemi, che non gli accada nulla; è un ostaggio prezioso.» Manfredo annuì ancora. Poi si voltò e si allontanò per consegnare a ognuno gli ordini che aveva ricevuto. Infine, anche per Ademar venne il momento di prepararsi. Mentre si allacciava il fodero della spada alla fibbia ripensò velocemente a tutto il suo piano e di nuovo gli sembrò che fosse buono. Si tranquillizzò un poco e attese che tutti fossero al loro posto. Vide Manfredo parlare con il prigioniero; era impossibile capire che cosa gli stesse dicendo, ma immaginò che gli avesse intimato di non fare scherzi perché quello smise di fissare per terra e, alzando un poco la faccia verso di lui, fece segno di aver capito. Per sicurezza infatti era stato imbavagliato fin dal primo momento, perciò non poteva parlare se non a gesti. La ferita che gli era stata inferta la sera precedente, mentre veniva catturato, aveva sanguinato molto durante la notte e ora tutto il lato destro della casacca era intriso di sangue rappreso. A un occhio inesperto poteva sembrare uno spettacolo raccapricciante, ma lo squarcio non doveva essere troppo profondo né troppo esteso, perché Guidone aveva colpito con il piatto della spada, e non con il taglio. Piuttosto, ora che si era rimesso in piedi, dava segni di avere difficoltà a mantenere l’equilibrio. Ademar sperava che il suo capitano fosse più bravo di lui a capire se stesse solo facendo finta oppure no; e comunque, avrebbe senz’altro preferito non doverlo lasciare in mezzo al bosco con la gola squarciata. Intanto perché con la vita di quell’uomo in mano sua avrebbe avuto una carta in più da giocare contro il balivo di Feliziano; e poi perché troppe cose in quella assurda vicenda dovevano ancora essere chiarite, ed egli era forse il solo che potesse farlo. Si voltò verso Eloisa e vide che anche lei era ormai in piedi e pronta per mettersi in marcia. Stava tenendo gli occhi fissi sull’uomo 25


legato e imbavagliato con un’espressione che non si poteva dire se di pena o di disprezzo: come al solito, i suoi sentimenti non erano facilmente identificabili per lui. Era chiaro comunque che quello spettacolo la faceva sentire a disagio. Forse si stava domandando anche chi fosse quell’uomo e perché, invece di ucciderlo come gli altri, si fossero presi la briga di catturarlo per trascinarlo con loro. In fondo, se aveva dovuto sacrificare il conforto della sua nutrice perché non intralciasse la loro fuga, era comprensibile che ora si sentisse indignata per la presenza di un ostaggio che, viste le sue condizioni, avrebbe potuto essere un ostacolo ancora maggiore. Non immaginava certo che tutto era già stato predisposto affinché non sorgessero complicazioni a causa sua. Aimone e Arduino erano già ai propri posti e lanciavano continue occhiate all’indietro per sapere quando cominciare a incamminarsi. In breve tutto il gruppo fu pronto e nelle posizioni che erano state stabilite. Ademar diede il segnale. Pensò che, forse, quello che stava per incominciare sarebbe stato il giorno più lungo della sua vita.

26


PARTE PRIMA



CAPITOLO 1 ANNO 1201; SECONDA METÀ DI LUGLIO. ORA TERZA.

«N

on preoccuparti Arrigo! Non ho alcuna intenzione di stare via così a lungo.» Il barone Gualtieri di Ovilia fece una pausa, chiedendosi se avrebbe davvero potuto tenere fede a quella promessa; poi, temendo che il suo silenzio palesasse i suoi pensieri al figlio, si affrettò a riprendere il filo del discorso, cercando di apparire disinvolto e sicuro. «Non ho intenzione di farmi coinvolgere nei sogni di gloria di Bonifacio. Quando tutto sarà pronto, partirò, compirò il mio dovere di vassallo e di cristiano, poi tornerò.» Si voltò per guardare il giovane dritto in faccia, prima di proseguire con un nuovo tono di voce talmente serio da divenire volutamente ridicolo: «Spero solo che per allora sarai ancora contento di rivedermi…» Arrigo accettò il gioco. «Che domande! È naturale» disse cercando di imitare la stessa inflessione canzonatoria del padre. «Un consigliere vecchio e saggio fa sempre comodo quando si ha sulle spalle il peso del comando.» Si sforzò di mascherare il suo divertimento, ma ugualmente una fila di bei denti bianchi e forti apparve per un breve istante tra le sue labbra socchiuse. Padre e figlio procedevano fianco a fianco sui loro cavalli lungo la strada che portava da Vignale a Moncalvo, dove prevedevano di arrivare in tempo per il pranzo. Bonifacio, signore del Monferrato, a cui erano legati da vincoli di vassallaggio, li chiamava alla sua 29


corte perché, insieme a tutti gli uomini più illustri del marchesato, benedicessero con la loro presenza le nozze del figlio Guglielmo e della marchesina Elena del Bosco e, con l’occasione, confermassero, alla presenza del legato pontificio, il loro proposito di unirsi con i loro uomini alla Crociata che si stava preparando. Il maresciallo Ademar apriva la strada insieme ad Arnaldo, uno dei dieci capitani del suo piccolo esercito personale, la Guarnigione Scelta, o, come la chiamavano tutti, la Guardia del Barone; si voltava di tanto in tanto per essere sicuro che tutto fosse in ordine e che non ci fossero nuove disposizioni per lui. Poco dietro, altri cinque capitani facevano quadrato attorno al carro coperto sul quale viaggiava sua figlia Eloisa insieme alla nutrice Lucilla e ad Abelardo. A quest’ultimo il barone aveva imposto il titolo di siniscalco, imitando l’esempio delle famiglie più in auge del tempo. Oltre a servirlo personalmente come suo maggiordomo, a lui era affidato il compito di vegliare sul lavoro di tutti i servitori di palazzo, provvedendo alle necessità del maniero perché tutto fosse sempre in ordine e ben organizzato. Gli ultimi due capitani che viaggiavano con loro chiudevano la piccola carovana, fungendo da retroguardia. Avanzavano così, al piccolo trotto, da quasi due ore e, benché fossero ancora a metà mattinata, l’aria cominciava già a surriscaldarsi per effetto del sole cocente. Il barone si passò una mano sulla fronte per detergere le prime fastidiose goccioline di sudore. «Ah, è così che vedi tuo padre? Un vecchio? E chi ti dice che ti lascerò comandare ancora quando sarò tornato? Forse è stato un errore decidere di partecipare a questa crociata; credo proprio che non partirò più.» «Ma padre, i tuoi doveri di vassallo e di cristiano…» Si guardarono in faccia e, stavolta, scoppiarono e ridere entrambi. In fondo il barone era contento di avere una buona occasione per mettere alla prova il figlio. Arrigo era stato educato per quello: comandare al posto suo quando lui non ci fosse stato più o, semplicemente, fosse stato troppo vecchio. Non era questo il caso, certo. Non ancora, e non dal punto di vista anagrafico, perlomeno. I lunghi anni già trascorsi sotto quel carico di responsabilità co30


minciavano però a farsi sentire. Troppo presto forse era venuto il suo momento; troppo giovane era rimasto da solo a portare quel fardello. Sarebbe stata una liberazione lasciare tutto in mano a lui, ritirarsi in Terrasanta a espiare le proprie colpe, non pensare più a niente… Ma poi non sarebbe stato anche quello un ulteriore torto? Tutta colpa di quel dannato Raimondo. Che possa sprofondare all’inferno! L’idea dell’insopportabile arroganza della città di Feliziano e, soprattutto, del suo molesto e odioso balivo riaffiorò improvvisa nella sua mente dopo una notte di tregua. Per l’ennesima volta, sentì il sangue avvampargli nelle vene: una sensazione di malessere che l’aveva roso pian piano per tutti quegli anni, quasi sfibrandolo; una spina nel fianco che aveva avvelenato i suoi giorni già troppo tristi. Poteva liberarsi di quella spina semplicemente togliendola dalle proprie carni per infiggerla in quelle del figlio? Ovviamente no; non era ancora giunto il momento per lui di abbandonare tutto. «So che non mi deluderai.» Il suo tono era tornato serio, adesso. «Tuttavia sarà necessario fare molta attenzione. Non dovrai mai abbassare la guardia.» «Sì, padre mio; lo so. E non lo farò. Anche se con Raimondo lontano da qui non potrà esserci alcun problema. E poi è un uomo molto vecchio ormai; potrebbe anche non tornare affatto, liberandoci una volta per tutte della sua presenza.» Nonostante cercasse di apparire obbediente e sottomesso, una malcelata contentezza permeava le sue parole. A Gualtieri non sfuggì che una sorta di ebbrezza per il nuovo ruolo a cui era stato chiamato aveva invaso il suo animo. «E suo figlio Chiaffredo?» azzardò, giusto per provare la sua reazione. «Non temi che possa decidere di portare avanti la politica del padre?» «Chiaffredo è un burattino nelle mani di Raimondo; senza di lui non farà niente di compromettente.» Indubbiamente era ciò che pensava anch’egli. Tuttavia quell’atteggiamento sprezzante e parzialmente superficiale non incontrava per niente la sua approvazione. Si chiese se non fosse il caso di 31


ammonirlo in qualche modo. Era giovane, certo, ed eccitato; e forse desiderava rassicurarlo perché partisse con l’animo sereno. Ma anche così stava solo dimostrando la sua ingenuità. Decise che sarebbe stato meglio riprendere il discorso in seguito, quando tutta quell’euforia fosse un poco scemata. «Comunque non mi fido di loro; se ne avranno la possibilità, ci creeranno problemi, come hanno sempre fatto finora.» Arrigo dovette rendersi conto che insistere su quella linea non l’avrebbe portato lontano. Annuì con fare condiscendente e quando rispose, anziché quella di un uomo avvezzo al comando, la sua voce era tornata a essere quella di chi è piuttosto abituato a obbedire. «Terrò gli occhi ben aperti padre… non mi lascerò sorprendere.» Così andava meglio. Il barone non nascose la sua soddisfazione. Dopotutto c’erano ancora molte cose – cose gravi e foriere di segnali allarmanti – di cui il giovane non era stato messo al corrente, non essendo ancora giunto il momento opportuno; ed era comprensibile quindi che egli non avesse la sua stessa percezione circa la gravità della situazione. Quanto a lui, invece, quelle cose gli pesavano sul capo come un macigno. E, soprattutto, il ricordo dell’ultimo incontro avuto con Raimondo continuava a tormentarlo senza sosta, intossicandogli l’anima ogni volta (ed erano tante!) che gli si riaffacciava alla mente. Il fatto risaliva ormai all’estate precedente, quando entrambi si erano ritrovati da soli quasi per caso su una delle terrazze del castello di Occimiano, dove si erano recati su richiesta del loro comune signore, il marchese Bonifacio, per importanti questioni riguardanti la politica del marchesato. Era sera ed egli rammentava ancora assai vividamente come l’odore dell’erba medica appena tagliata, a stento percepibile nelle sale interne, fosse estremamente pungente lì fuori, all’aria aperta; sospinto in ogni direzione da una bava di vento stanca e appiccicosa, non faceva che rendere il caldo proprio di quella stagione ancora più insopportabile. Una volta terminata la cena però, giullari e saltimbanchi gli erano sembrati un tormento ancora peggiore: era fuggito pertanto verso di essa, in cerca di un po’ di sollievo nella solitudine e nel silenzio della notte. «Signor barone, la spettacolo non è di vostro gradimento?» 32


Era stato Raimondo a parlare, sbucandogli alle spalle senza alcun preavviso. La sua voce effeminata e gracidante, più adatta forse a un vecchio sagrestano che a un uomo del suo rango e della sua smodata ambizione, lo aveva rapito ai suoi pensieri, facendolo quasi sobbalzare. Ignorarlo ostinatamente per tutto il giorno non era dunque bastato a tenerlo a distanza. «Balivo Raimondo!» aveva replicato lui, prima ancora di rendersi conto di ciò che stava accadendo e, più che altro, obbedendo a un riflesso condizionato. «La fuga è un’arte che richiede una certa applicazione. Voi ve ne servite assai di frequente, a quanto pare; dovete essere un vero esperto ormai.» Raimondo aveva parlato lentamente e con ostentata calma, misurando attentamente le parole affinché fosse chiaro che la cortesia era solo nel tono e non nelle intenzioni. L’ironia, del resto, era tutt’altro che sottile, e il barone non aveva avuto alcuna difficoltà a interpretare il vero significato di quella frase. «Quando avanzare significa cadere in trappola, ritirarsi è una mossa astuta.» Forse era colpa del vino, o forse era stato solo un attimo di debolezza, ma non se l’era sentita di dare spago a quelle nuove provocazioni. Il suo orgoglio, quella sera, sembrava come assopito sotto una coltre di malinconia e, per l’ennesima volta, aveva voluto tentare la strada della diplomazia. «Signore, non cadrò nella vostra trappola; ormai dovrebbe essere chiaro. Invece forse, prima o poi, sarete voi a fare un passo falso che potrebbe costarvi molto; Bonifacio non permetterebbe mai che il marchesato venga spaccato, e voi finireste per perdere tutto quello che avete.» «Credete davvero che Bonifacio faccia differenze su quale casato debba governare il feudo?» «State dimenticando che sono suo vassallo. Mi deve protezione.» Un mezzo sorriso pieno di sarcasmo era comparso a quel punto sul volto di Raimondo e il tono vagamente incolore di poco prima aveva subito lasciato il posto a uno di aperta sfida. «Raccontate a tutti di essere stato danneggiato e provocato da me in più di un’occasione; non mi risulta però che fino a ora egli abbia alzato un solo dito per aiutarvi. No, io dico che Bonifacio ha cose molto 33


più importanti su cui concentrare la sua attenzione, esattamente come suo padre; altrimenti come potreste spiegare il fatto che ciò che doveva essere mio è stato distrattamente affidato a voi?» L’acredine che adesso grondava da quelle parole pronunciate a denti stretti era stata una vera insolenza e già aveva incominciato a incrinare fortemente i suoi iniziali buoni propositi. Tuttavia, benché avesse dovuto fare appello a tutto il suo autocontrollo per evitare che il suo viso si contraesse in una smorfia feroce, Gualtieri non aveva ancora voluto darsi per vinto. «Il vecchio Guglielmo non ha mai fatto nulla nella sua vita “distrattamente”, potete esserne certo. Se il feudo è stato concesso a mio padre è perché mio padre l’ha meritato….» Più di voi!, era la naturale conclusione della frase, ma egli si era limitato a lasciarlo intendere senza rimarcarlo. Raimondo era rimasto immobile, il volto contratto e inespressivo. Lo aveva fissato coi suoi occhietti vitrei, piccoli e come persi fra il trionfo di peli bianchi che incorniciavano la sua faccia. E, per un momento, il barone si era illuso davvero di avere davanti a sé nient’altro che un vecchio patetico e stanco contro cui sarebbe stato inutile, se non perfino riprovevole, accanirsi. «Anche senza l’intervento del marchese sareste sempre in inferiorità. Uno scontro aperto non vi lascerebbe scampo. Pensateci!» Il balivo aveva scosso un poco la testa, come ridestandosi da un sogno a occhi aperti. «Dicono che l’opinione di un bravo comandante meriti di essere sempre ascoltata con attenzione.» «Il baliato è una concessione assai rara; qualcosa che dovrebbe riempirvi di orgoglio.» «Ah sì, voi dite? Dovrei essere orgoglioso di un misero contentino che quel vecchio folle mi ha concesso per chiudermi la bocca dopo avermi insultato e umiliato?» «Vi ha dato libertà in materia di economia e indipendenza militare; avete il diritto di amministrare la giustizia nel vostro…» «Giustizia? Ma se io non cerco altro che quella!» «Suvvia, finiamola una volta per tutte di farci infantili ripicche e viviamo in pace da buoni vicini.» Il barone gli aveva offerto allora la sua mano in un gesto di fraterna riconciliazione che, per contro, quell’uomo sedizioso e 34


perverso aveva deliberatamente ignorato. Pure, anziché lasciarsi trascinare dall’ira che quel concitato scambio di battute aveva risvegliato in lui, Raimondo aveva ripreso il controllo di sé con una rapidità che lo aveva stupito e impressionato. Prima di rispondere aveva portato la faccia talmente vicina alla sua che egli aveva potuto trattenere a fatica un’espressione di disgusto, investito da un senso estremo di fastidio e dall’odore nauseante del suo alito. Le sue parole erano state come il sibilo di un serpente velenoso: «Sarò in pace solo quando mi sarò ripreso ciò che mi è stato rubato.» Quindi, senza attendere alcuna replica, si era voltato e se ne era tornato nel salone interno, lasciando Gualtieri a macerare nella sua indignazione e in una rabbia resa tanto più nera sia dalla vergogna di essere apparso debole e sentimentale agli occhi del suo nemico quanto dalla collera verso se stesso per essere stato così sciocco da concedergli l’opportunità di umiliarlo in quel modo. Eppure, ora che un anno era già trascorso da quell’incontro, egli non poteva non ammettere – e solo Dio poteva sapere con quale tristezza nel cuore! – quanto il balivo avesse avuto ragione nel parlare a quel modo di Bonifacio. I furti, gli assalti a tradimento e le ingerenze ingiustificate da parte della città di Feliziano erano continuate e si erano anzi moltiplicate, mentre la sue richieste di intervento avevano continuato a rimanere lettera morta. Del resto, la stessa Crociata che stava pian piano prendendo forma non era forse la definitiva conferma del fatto che il marchese fosse molto più concentrato sulle questioni della Terrasanta piuttosto che su quello che avveniva sotto il suo naso? E adesso il matrimonio di suo figlio con la marchesina Elena del Bosco proprio alla vigilia della partenza; un evento che gettava luce sulle sue reali intenzioni: rafforzare l’alleanza con il secondo casato più influente del marchesato, prima di lasciare tutto in mano a Guglielmo. No, Bonifacio non sarebbe affatto tornato da quel viaggio. Aveva visto la sua famiglia partire, uomo dopo uomo. Aveva appreso da quaggiù delle terre conquistate, dei matrimoni prestigiosi, dell’onore che i suoi congiunti avevano sparso sopra il loro e il suo nome. Infine, aveva preso atto delle loro morti, infami e tragiche, tutte. Egli aveva un conto aperto di là del mare con i miscredenti che 35


avevano assassinato i suoi fratelli, e tanti progetti rimasti in sospeso da portare a compimento. Ora che la prematura scomparsa di Tibaldo di Champagne lo aveva improvvisamente rilanciato nel ruolo di comandante della spedizione con piena facoltà di amministrare i fondi della Crociata, il suo momento sembrava davvero essere arrivato: se Gerusalemme fosse tornata nelle mani dei cristiani non era difficile prevedere che sarebbe stato proprio Bonifacio ad assumere il titolo di Advocatus del Santo Sepolcro. Eppure, per Gualtieri, c’era anche una sorta di ottusità in tanta ostinazione, una fissazione ammaliatrice che somigliava molto a una specie di maledizione. Era stato il loro padre Guglielmo, detto il Vecchio, a inaugurare quella lunga serie di viaggi verso l’Oltremare. Partito per l’ultima volta ormai quindici anni prima, aveva incontrato il suo destino a Tiro, cinque anni dopo essere giunto in Oriente. Suo figlio primogenito, Guglielmo come il padre – anche se chiamato da tutti Lungaspada – riposava a quell’epoca sotto quella stessa terra già da quattordici anni, consumato dalle febbri malariche. Il prode Corrado, anch’egli marchese del Monferrato, seppur per breve tempo, era stato ucciso invece in un’imboscata nei pressi di Tiro. Mentre a Ranieri, il più giovane, era toccato lo stesso destino, ma a Bisanzio. E Bonifacio dove avrebbe finito i suoi giorni? Il barone era convinto che non sarebbe stato nella sua casa. Tutti avevano considerato la Crociata come un sorta di pozzo dei desideri, capace di realizzare i loro sogni più sfrenati. A lui sembrava piuttosto che fosse un pozzo senza fondo in cui troppe persone continuavano a gettare il proprio tempo, le proprie risorse e, in ultimo, la propria vita. Era stato veramente Dio a ideare tutto questo, come predicavano il papa e i vescovi? Allora Dio non l’aveva fatto di certo perché voleva che i cristiani recuperassero la Città Santa, bensì per punirli per i loro peccati e la loro infinita superbia. Fu uno scalpitio di cavalli al galoppo a distoglierlo infine dalle sue speculazioni. Proveniva da dietro e, stando al progressivo aumento di intensità, era chiaro che si stava avvicinando verso di loro. Subito i soldati si misero in all’erta e il maresciallo Ademar decise di abbandonare il suo posto in cima alla fila per farglisi accanto e 36


offrirgli la sua protezione. La strada però era completamente libera e pianeggiante e non ci volle molto perché tutti riconoscessero nei due uomini che si avvicinavano a gran velocità Manfredo e Bertone, i capitani della sua scorta a cui era stato ordinato di procedere in avanscoperta davanti al resto della carovana perché non ci fossero intoppi e il viaggio filasse liscio e senza sorprese. A giudicare dallo stato in cui avevano ridotto i loro cavalli, dovevano aver corso un bel po’ prima di riuscire a raggiungerli. La comitiva si fermò e il maresciallo andò loro incontro per ascoltare le ultime novità. Dalla sua posizione, invece, il barone non poteva udire nulla di quello che i tre si stavano dicendo; perciò si limitò a ricambiare gli sguardi che Ademar, forse inconsapevolmente, gli lanciava a tratti, cercando di indovinare dalle loro espressioni se dovesse aspettarsi qualche guaio oppure no. Infine il maresciallo tornò nuovamente da lui per riferire ciò che aveva appreso. «Signore, gli esploratori mi hanno appena informato di aver incontrato degli uomini a circa mezz’ora da qui: due contadini che trasportano una manciata di caratelli di vino sopra un carretto trainato a mano. Si stavano riposando sul ciglio della strada, all’ombra di alcuni meli.» Gualtieri rimase in silenzio. «Hanno raccontato di essere partiti da Casorzo verso Vignale per vendere il loro vino e di aver approfittato di quegli alberi per rifiatare un po’ all’ombra.» Ademar parlava con calma, scegliendo con cura ogni parola per non rischiare di tralasciare nulla dei particolari del racconto. Il barone, conoscendolo, decise di attendere pazientemente che il suo maresciallo completasse quelle descrizioni accessorie per arrivare al punto. «Secondo il capitano Manfredo però – e devo riconoscere che questa è anche la mia opinione – ci sarebbero ottimi motivi per nutrire dei dubbi circa la veridicità delle loro parole. Anzitutto, gli è sembrato strano che avessero deciso di fermarsi sul lato della strada che dà verso Vignale quando, provenendo da Casorzo, sarebbe stato più logico farlo dall’altra parte. Inoltre, nonostante il sole e la fatica che dovevano sostenere per trainare il carretto, egli 37


ha notato che i due non sembravano per niente stanchi e neppure sudati. Apparivano invece molto ansiosi di ottenere la sua condiscendenza, al punto che gli hanno subito offerto un po’ del loro vino pregiato», e marcò quella parola per sottolineare come quel comportamento fosse del tutto inusuale. «Cosa che, naturalmente, lo ha fatto insospettire ancora di più.» Finalmente il barone cominciava a capire dove il maresciallo volesse arrivare; tuttavia, intuendo che ci fosse ancora dell’altro, non lo interruppe. «Manfredo è sceso da cavallo con la scusa di assaggiare il vino» proseguì infatti Ademar, «ma, in realtà, voleva dare un’occhiata più da vicino al carretto. Così si è accorto che, mezzo nascosti dalle botticelle, quei due si stavano portando appresso anche un forcone con le punte di ferro e una scure nuova e lucida che sembrava appena uscita dalla fucina di un armaiolo.» «Due attrezzi molto costosi per chi non può permettersi neanche un asino per trainare una carretta» sottolineò Gualtieri, mostrando così di aver accolto il senso implicito di quelle parole. «Infatti, signore; e anche due attrezzi che non hanno nulla a che vedere con il loro mestiere.» «Forse temevano di essere assaliti durante il viaggio?» s’intromise Arrigo, che aveva seguito tutta la conversazione fino a quel punto con grande attenzione e in rigoroso silenzio. Il maresciallo si girò verso di lui. «È quello che hanno detto loro quando hanno visto che gli attrezzi avevano attirato la sua attenzione.» «Ma voi non gli credete.» Più che una domanda, questa volta si trattava di una constatazione. «Secondo me, se avessero veramente avuto paura di essere sorpresi sulla strada non avrebbero perso tempo a quel modo; neanche se fossero stati così stanchi da sputare sangue.» Seguì una pausa in cui ognuno rifletté per conto proprio. Il barone Gualtieri tornò immediatamente col pensiero all’odiata immagine di Raimondo e alle sue continue angherie. Possibile che stavolta si sia spinto fino al punto di tenderci un’imboscata? si chiese tra sé. In effetti non sarebbe stato difficile prevedere che la carovana 38


sarebbe transitata di là, una volta scartata la via – più diretta, ma ovviamente a loro preclusa – che passava per Feliziano. «E il vino? Il capitano l’ha bevuto?» si affrettò a domandare prima che la sua mente si abbandonasse a nuovi e inopportuni voli di fantasia. «No signore; ha fatto finta, però; giusto per non destare sospetti. È rimontato a cavallo e, insieme a Bertone, hanno proseguito oltre come se nulla fosse. Poi, dopo essersi allontanati dalla loro portata, sono tornati indietro per un’altra strada.» E questo spiega come mai li abbiamo visti arrivare alle nostre spalle. Gualtieri rimase immobile per un lungo momento, lo sguardo fisso davanti a sé come se stesse valutando attentamente la sua prossima mossa. La verità, invece, era che egli conosceva già fin troppo bene in cuor suo ciò che avrebbe dovuto fare; ma il pensiero di quell’eventualità non lo entusiasmava per niente. Per questo la sua successiva domanda fu più che altro un espediente per guadagnare ancora un po’ di tempo: «Credete che ci aspettino per offrirci del vino intossicato? Potremmo sempre rifiutare e ignorarli.» «Non è questo che mi preoccupa, signore.» Ademar fece un’altra pausa, nuovamente cercando dentro di sé quali espressioni fossero più appropriate a esprimere le sue congetture. «Quegli uomini potrebbero essere delle sentinelle» disse infine in un sussurro, così che nessuno, oltre a loro tre, potesse udire le sua parole. «Molti altri potrebbero attenderci a quest’ora, nascosti tra gli alberi.» E così il tempo era scaduto! Il maresciallo aveva detto tutto quello che doveva essere detto, e ora aspettava i suoi ordini. «Quand’è così non ci resta che tornare sui nostri passi. Prenderemo la via per Camagna e proseguiremo per Moncalvo passando da ovest. La deviazione ci farà perdere molte ore, ma almeno eviteremo di correre rischi inutili. Avvertite gli uomini… e anche mia figlia; forse deciderà di cavalcare un po’, visto che il viaggio sarà più lungo.» Era evidente che Ademar condivideva in pieno quella decisione perché la tensione sul suo viso scemò di colpo in un’espressione più 39


rilassata. Chinò la testa in segno di obbedienza e, voltato il cavallo, si allontanò per eseguire i suoi ordini. Il barone Gualtieri, invece, si sentiva più avvilito che mai: cos’altro avrebbe dovuto aspettarsi per il futuro? Per quanto tempo ancora sarebbe stato costretto a fare buon viso a cattivo gioco? Guardò suo figlio negli occhi così intensamente come se avesse voluto trasmettergli in quel modo ciò che stava pensando: e cioè che egli non si fidava di Raimondo, e che in nessun caso avrebbe dovuto farlo neanche lui. Per un attimo fu sul punto di esprimere quel monito anche a voce, per renderlo chiaro in maniera inequivocabile; ma poi, temendo di sembrare eccessivamente ripetitivo, se ne astenne. «Andiamo» disse invece laconico e quasi con rassegnazione. «La strada è ancora lunga.»

Giunsero alla porta principale della città di Moncalvo quando mancava forse un’ora al tramonto, e fu un po’ come trovarsi faccia a faccia con un mondo completamente nuovo e affascinante, lontano dalla loro vita abituale come la fantasia può esserlo dalla realtà. Già da lontano il profumo di quell’aria di festa li aveva solleticati, guidandoli fin lì come una scia invisibile, ma al tempo stesso inconfondibile. Adesso invece quei suoni, quelle grida e i vocii carichi di euforia sembravano volerli investire con tutta la forza della loro vitalità: una sorta di eccitazione tangibile che si poteva quasi afferrare e che da lì sembrava capace di viaggiare per ogni angolo del mondo, ad annunciare a tutti che un grande evento stava per accadere in quel luogo. Per un attimo i disagi del viaggio e le indignazioni che l’avevano caratterizzato sembrarono di colpo lontani, cose che forse non erano mai neanche esistite. Gualtieri si voltò verso il carro coperto dove viaggiava Eloisa. Ogni cosa dentro e fuori quelle mura sembrava rimandare a letizie imminenti e piaceri senza fine, ed egli era certo che quel semplice telone non sarebbe stato sufficiente a riparare i suoi occupanti dalla contagiosa esuberanza che tutti loro stavano già respirando. 40


Per questo, presago del fatto che anche sua figlia avrebbe alfine ceduto alla naturale curiosità femminile, attese alquanto che ella si decidesse a mostrare il suo viso per spiarne l’espressione di sorpresa che certamente le si sarebbe dipinta sul volto alla vista di tante meravigliose promesse. Ma quando i minuti passarono ed egli realizzò che le sue speranze sarebbero state ancora una volta disattese, quell’iniziale entusiasmo si tramutò in nuova amarezza. In fondo – pensò – nessuno meglio di me dovrebbe sapere che quando Eloisa si mette in testa una cosa niente e nessuno al mondo potrebbe riuscire a farle cambiare idea. In effetti, Eloisa non si era fatta vedere per tutto il giorno. Nemmeno quando si erano fermati per pranzare aveva voluto abbandonare il riparo del carro, preferendo farsi servire in disparte dalla sua nutrice. Gualtieri non aveva insistito, abituato ormai a offrire il dolore che scaturiva in lui da quel comportamento come parte integrante della sua espiazione. Aveva solo sperato che quel viaggio sarebbe servito a distrarla almeno un poco dall’atteggiamento ombroso e sfuggente che ella si era calato addosso quasi come una seconda pelle e che, come un’insanabile testimonianza della sua colpa, da così lungo tempo ormai lo tormentava giorno dopo giorno. Per questo egli non si era arreso di fronte alla sua iniziale riluttanza, ma aveva insistito perché, con la sua presenza, allietasse il loro viaggio e il breve soggiorno in quella città traboccante di gioia e di divertimenti. A Moncalvo ella avrebbe finalmente incontrato il marchese Bonifacio di persona, insieme alla sua degnissima consorte e a tutti gli uomini più insigni del marchesato. Avrebbe avuto l’occasione di gustare pietanze prelibate, preparate con le spezie più rare e più costose appositamente per il banchetto nuziale. Avrebbe potuto intrattenersi con le canzoni più belle e struggenti che i migliori trovatori di Provenza avrebbero portato per l’occasione fin dalle loro lontane terre oltre le Alpi. Avrebbe danzato intere notti al suono di musiche celestiali, mentre tutti avrebbero ammirato la sua bellezza e i cavalieri avrebbero fatto a gara nel porgerle i loro omaggi. In breve, tutto quello che gli era venuto in mente per solleticare la sua fantasia egli l’aveva usato, nel tentativo di far 41


scaturire in lei almeno un briciolo di entusiasmo. Adesso non gli restava che sperare che quell’indifferenza tanto ostentata fino ad allora cedesse, pian piano, sotto i colpi di tutte quelle lusinghe che egli aveva prospettato così a piene mani. Diede l’ordine di avanzare. Ma non fecero che pochi passi oltre la grande porta che subito furono fermati dalle guardie del marchese che stazionavano all’interno della città: quattro uomini in armatura scintillante e la livrea con lo stemma del loro signore, lo scudo d’argento col capo di rosso. Uno di loro gli si fece incontro senza alcun entusiasmo e, con fare indolente, si informò sui loro nomi e la provenienza. Poi, ottenuto ciò che desiderava, si allontanò pigramente per una stradina laterale e stranamente disadorna, lasciandoli ad attendere il suo ritorno per un tempo che al barone parve perfino oltraggioso. Quando infine ricomparve si limitò a riferire loro le istruzioni che aveva ricevuto. «Proseguite sulla strada principale fino al maniero; là sarete accompagnati alle vostre camere» disse senza rivolgersi a nessuno in particolare e con lo stesso tono svogliato e privo di cortesia con cui li aveva accolti. «La scorta può accamparsi dentro o fuori le mura, a vostro piacimento; ma ho l’ordine di avvertirvi che risse e schiamazzi non saranno tollerati, per ordine del marchese.» Risse e schiamazzi? Ma come osava parlargli in quel modo? Gualtieri quasi balzò da cavallo. Quel comportamento e quelle parole irriverenti risvegliarono in lui una nuova ondata di irritazione così violenta da stringergli il petto in una morsa dolorosa; e tanto più perché proveniente proprio da quell’ambito che più di qualunque altro avrebbe dovuto farlo sentire sostenuto e protetto, e da cui viceversa, più che da ogni altra cosa, si sentiva tradito. Istintivamente mise mano alla spada e, per un breve istante, assaporò il conforto che il contatto con l’elsa gli trasmetteva: quel senso di onnipotenza e di sovrumana giustizia insieme che solo la forza e la volontà di uccidere possono donare a un uomo. Appena un attimo, prima che la consapevolezza di quanta assurdità ci fosse in quel gesto lo facesse desistere, obbligandolo a escogitare sul momento un significato per quella movenza completamente inopportuna. Serrò invece i pugni con tutta la forza attorno alle redini del suo cavallo finché 42


non sentì la sua collera completamente imbrigliata all’interno di quella stretta. E solo allora cercò e trovò con lo sguardo Ademar, che era rimasto appena più indietro di lui. «Maresciallo» disse col tono più sobrio e asciutto di cui fu capace, «disponete l’accampamento dentro le mura. Poi venite a rapporto nel mio alloggio.» Quindi, senza più voltarsi, si incamminò verso il maniero.

Il maresciallo Ademar lo raggiunse nella stanza, piccola ma confortevole, che il marchese gli aveva fatto assegnare nell’ala nord del maniero appena un’ora dopo. Il barone non avrebbe saputo dire se tanta celerità fosse essenzialmente un buon segno o uno cattivo. Da quando si era impossessato della camera, quasi non aveva smesso un attimo di camminare avanti e indietro, cercando di calmarsi e di non farsi schiacciare dal peso delle sue paure e dei suoi mille dubbi. Ma non voleva che altri lo vedessero in quello stato; perciò, quando udì bussare alla sua porta, si lasciò scivolare su una sedia, il mento appoggiato sul palmo della mano e lo sguardo rivolto verso l’unica finestra, in un atteggiamento che, nella sua mente, avrebbe dovuto suggerire come i suoi pensieri fossero liberi e lontani da ciò che accadeva intorno a lui. «Avanti» rispose con naturalezza a quella richiesta di intrusione, lieto di sentire la propria voce ferma e pacata. Il maresciallo entrò, richiuse la porta alle sua spalle e, come al solito, attese il permesso di fare il suo rapporto. «Dimmi Ademar, quali nuove?» lo esortò il barone, rivolgendosi a lui con il tono confidenziale che sempre prediligeva per i loro incontri privati, e tanto più in un’occasione come questa, in cui l’idea di poter condividere le sue riflessioni con un amico piuttosto che un semplice soldato alle sue dipendenze gli sembrava quanto mai allettante. «Che cosa sei riuscito a scoprire?» «Signore» disse Ademar, «l’accampamento è stato approntato all’interno delle mura, come avete ordinato. Gli uomini, ancorché sempre vigili e pronti a ogni evenienza, sono allegri e in vena di 43


facezie. E, in generale, direi che tutto procede nel modo migliore. Soltanto…» «Soltanto?» Il maresciallo lottò per un momento con il proprio disagio. «Sono venuto a informarvi che il balivo Raimondo non è qui.» Un silenzio carico di tensione riempì la stanza. Il balivo non è qui? Gualtieri si sentì quasi mancare, mentre minuscole gocce di sudore gli imperlarono in un attimo la fronte e tutte le membra. «Ne sei sicuro?» chiese infine, ma non tanto perché dubitasse delle parole di Ademar, quanto per cercare di distogliere l’attenzione dal suo palese sgomento ed evitare così di apparire eccessivamente debole e perturbabile agli occhi del suo interlocutore. «Ho dovuto muovermi con circospezione, perché la mia curiosità non suscitasse troppe domande. Per questo non posso affermarlo con certezza assoluta, signore, ma volevo che foste comunque informato subito. Tornerò immediatamente a finire il mio lavoro.» Il maresciallo si inchinò per congedarsi, ma egli lo fermò con un gesto della mano prima che potesse lasciare la stanza. La delicatezza di quell’uomo lo aveva sorpreso e commosso; la sua presenza lo faceva stare realmente meglio e desiderava prolungare quel momento, seppure di poco. «Non è necessario! Il balivo non è qui; conosco le tue capacità» disse trovando perfino la forza di abbozzare una specie di sorriso e lieto di constatare come Ademar non fosse rimasto insensibile a quel complimento. «Ma continua a tenere d’occhio la situazione, e se nel frattempo dovesse giungere, avvertimi… fosse anche nel cuore della notte.» «Lo farò, mio signore, non dubitate» replicò Ademar. E stavolta infilò la porta con decisione, scomparendo velocemente alla sua vista. Rimasto nuovamente solo, Gualtieri si lasciò sprofondare sulla sedia. Avvilito oltre ogni misura e non trovando un modo migliore per ingannare quell’attesa snervante, si sforzò di fare, per l’ennesima volta da quando era partito da Ovilia, il punto della situazione, senza tuttavia riuscire a dire lui stesso se nella speranza di intravedere in 44


tutti quei tortuosi passaggi una via d’uscita che ancora gli sfuggiva o se intrappolato in un labirinto mentale che non gli concedeva di pensare ad altro.

3 Tutto era cominciato tre anni prima. «La Chiesa addolorata ha pianto» aveva proclamato papa Innocenzo. «… Sorgano dunque i fedeli della Chiesa, prendano armi e scudo, sorgano in aiuto di Gesù Cristo.» Era la fine di giugno e i preparativi per la nuova Crociata erano iniziati subito, procedendo ininterrottamente per quasi tre anni con grande zelo e prodigalità da parte di tutti i partecipanti. Quell’anno, però, era accaduto qualcosa che nessuno si sarebbe aspettato: in maggio, il comandante della spedizione si era ammalato ed era morto. Il maresciallo Goffredo di Villehardouin, l’uomo che forse più di tutti aveva contribuito a spingere gli eventi fino a quel punto, era tornato in tutta fretta nel Monferrato con una proposta che Bonifacio non avrebbe mai potuto rifiutare. La lettera del marchese era giunta già a metà giugno. Impossibile ricordarla tutta a mente; pure, i temi che ne avevano costituito l’ossatura erano ancora limpidi nella sua memoria: «… obbedienza verso il papa e la Chiesa di Cristo… dovere di ogni cristiano… opportunità di beatitudini celesti…» ma anche questioni assai più pratiche come «… numero degli uomini disponibili per l’impresa… doveri di vassallaggio…» eccetera eccetera. In sostanza, Bonifacio sondava il terreno per conoscere le reali forze che avrebbe potuto manovrare una volta accettato l’incarico. Due settimane dopo, l’araldo era giunto puntuale, a Ovilia, per raccogliere in via ufficiale le adesioni alla nobile impresa. E, dal modo in cui agiva, era evidente che aveva ricevuto l’ordine di chiudere quella faccenda il più in fretta possibile. Del resto, neppure il barone aveva motivo di perdere tempo. «Siete già stato a Feliziano?» aveva perciò chiesto al messo senza tanti preamboli. «Vengo appunto di là, mio signore.» 45


«Qual è la risposta del balivo Raimondo? Parteciperà?» La domanda era stata certamente fuori luogo ed egli si era ritrovato a sperare che il marchese non lo avrebbe giudicato troppo irriverente quando quel particolare fosse giunto alle sue orecchie. Ma per lui era proprio quello il nodo della questione e, considerata la mancanza di tempo e di disponibilità dimostrata dal suo interlocutore, affrontare l’argomento in maniera diretta gli era sembrato l’unico modo per scioglierlo in maniera netta e definitiva. L’araldo era rimasto fermo e zitto per qualche secondo, in una posa che forse aveva l’ambizione di palesare tutta la sua riprovazione, mentre il barone, pur cercando di mantenere la più grande naturalezza e casualità nei suoi atteggiamenti, fremeva di impazienza. Poi il messo aveva semplicemente preso la pergamena e l’aveva aperta davanti a lui. «Guardate voi stesso, signore.» I nomi delle città che vi comparivano erano disposti secondo un ordine di percorso che partiva da Moncalvo per andare via via verso sud. Scorrendo col dito quei nomi, Gualtieri aveva trovato in breve quello che cercava. A fianco di Feliziano era scritto: quindici cavalieri, quindici sergenti, trenta fanti. Il tutto ratificato dal sigillo del balivo. «Il balivo Raimondo ha espresso la sua personale intenzione di prendere parte alla spedizione» aveva commentato l’uomo, come leggendogli nella mente la sua successiva domanda. Egli allora aveva preso la pergamena dalle mani dell’araldo e, quasi con spavalderia, accanto al nome della sua città aveva scritto: trenta cavalieri, cinquanta sergenti, cento fanti. Poi, col suo sigillo e un po’ di ceralacca, aveva siglato il suo impegno.

3 Il balivo non si era ancora fatto vivo. E l’indomani, dopo le nozze di Guglielmo, sarebbe stato convocato per confermare le sue promesse davanti al legato del papa. Tipico di Bonifacio fare due cose insieme! Ora, la sua partecipazione alla Crociata era sempre stata subordinata a quella di Raimondo; gli era impensabile l’idea di lasciare il feudo in quel momento senza la garanzia di sapere 46


anche il suo nemico lontano e innocuo. Che razza di figura avrebbe fatto se quel maledetto non fosse arrivato entro l’indomani, costringendolo a recedere dal suo impegno? Che cosa avrebbe pensato Bonifacio? Di sicuro non sarebbe stato per niente contento, questo era fin troppo certo. Poteva perfino arrivare a considerarla come un’offesa personale, dal momento che in quella spedizione egli aveva impegnato tutte le sue risorse e si era mosso in prima persona. Era chiaro che sperava, o forse addirittura si aspettava, di ottenere molto – e non solo sul piano spirituale – da quella sua partecipazione e questo implicava che non avrebbe accettato tanto facilmente l’idea che quelli che avevano promesso di sostenerlo si tirassero indietro proprio nel momento decisivo. Quanto a lui, compiacere il suo signore non era stato il solo motivo che l’aveva spinto ad accogliere quell’invito. Fin dal primo momento il pellegrinaggio (perché per lui si era sempre trattato principalmente di quello) gli era parso come un segno del Cielo. Fin dal principio aveva presagito in quella chiamata la risposta alle sue preghiere, l’opportunità che Dio gli offriva per ottenere, se non la pace in questa vita, almeno il perdono nell’altra. Ma se non fosse partito? Se quella speranza di salvezza, lungamente accarezzata, si fosse dissolta nel nulla? Dio gli avrebbe mai concesso un’altra opportunità? Si sentiva come in trappola, schiacciato tra due possibilità ugualmente terribili e cariche di conseguenze disastrose. Provò ad abbandonarsi alla preghiera: Dio misericordioso, abbi pietà di me. Mostrami un segno della tua benevolenza così che io possa lasciare tutto per venire a onorarti nella terra del Tuo martirio, pellegrino penitente e bisognoso del Tuo perdono. Si lasciò cadere in ginocchio, cercando di concentrare ogni suo pensiero in quella devota supplica, ma mille immagini diverse e incoerenti gli balenarono simultaneamente dinanzi agli occhi, gravando penosamente sul suo cuore e impedendo alla sua anima di librarsi fino alle alte sfere delle beatitudini celesti. Immagini del balivo Raimondo, suo torturatore e aguzzino, l’uomo che sembrava voler vivere per il solo scopo di tormentarlo e che godeva nell’infliggergli ogni sorta di umiliazione, e di Bonifacio, il cui favore, dopo anni di fedele 47


servizio, rischiava ora di essere irrimediabilmente compromesso. Immagini di sua moglie morta, della sua espressione dolce e della passione che sapeva suscitare in lui, e quelle delle sue amanti, nelle braccia delle quali aveva selvaggiamente cercato conforto tante volte, ma sempre invano. E poi immagini di Eloisa: immagini che sapeva avrebbero dovuto suscitare in lui ribrezzo e odio verso se stesso, ma da cui, invece, non poteva fare a meno di sentirsi irretito e vinto… Dio mio, perdonami. Cancella le mie colpe nella Tua infinita misericordia e liberami dal rimorso lancinante che mi attanaglia. … le sue braccia morbide e bianche, le gambe lisce e flessuose… Fa’ scendere su di me il Tuo Spirito, perché illumini il mio cammino verso la via della salvezza. … il volto bello e grazioso come quello di sua madre un tempo, lo sguardo perso e impaurito, così fatalmente maliardo ed eccitante… Donami la grazia di saperti dimostrare con la mente e con le opere il mio pentimento e la mia sottomissione. … i seni turgidi e i molli capezzoli perfettamente sagomati… Fammi strumento della Tua volontà, perché possa giungere un giorno al Tuo cospetto senza timore. … le cosce calde e tese, la peluria soffice e carezzevole… Ti prego, Dio mio. … il suo tesoro di purezza incontaminata… Una raffica di robusti colpi alla porta lo costrinse a ritornare in sé. Aprì gli occhi e si rese conto di essere sdraiato per terra, il respiro affannoso, eccitato quasi fino allo spasimo. Si era fatta notte e ogni cosa nella stanza era ormai completamente avvolta nell’oscurità. Facendo leva sulle ginocchia, si issò lentamente in piedi e si abbandonò a un lungo respiro, nel tentativo di placare i furiosi battiti del suo cuore. Con una mano trovò la spalliera del letto e ci si appoggiò, perché sentiva le gambe ancora tremanti sotto il peso del suo corpo, mentre con l’altra cercò di sistemare alla buona i capelli che gli scendevano scompigliati sul viso. Aveva la bocca secca e si sentiva avvampare. A piccoli passi, lasciandosi guidare dal debole chiarore lunare che penetrava nella camera, prese ad avanzare lentamente verso la finestra che era rimasta aperta. Inu48


tilmente però, perché, come ebbe modo di constatare subito, l’aria era ferma e afosa anche all’esterno e non un alito di vento spirava in quella torrida sera d’estate… I colpi alla porta si ripeterono, vibrando stavolta con maggiore intensità, e finalmente Gualtieri realizzò che là fuori qualcuno era ancora in attesa di un suo segnale di risposta. «Avanti, avanti!» si affrettò a esclamare. Questa volta la porta si aprì e, quasi completamente nascosto dalle ombre, il maresciallo Ademar fece il suo ingresso nella stanza. Anche così, però, il barone riuscì a notare l’espressione di stupore che gli si era dipinta sul volto, e si ricordò di non aver ancora provveduto a illuminare l’ambiente in alcun modo. «Devo essermi addormentato» mormorò in risposta a quel suo sguardo interrogativo. Le candele erano già sul tavolo; ne prese una in mano e la osservò come se non riuscisse a ricordare il modo di usarla. «Vi manderò subito qualcuno con del fuoco» s’intromise il maresciallo. «Sì, grazie… sarà meglio.» Solo allora Gualtieri si rammentò della conversazione che aveva avuto con lui poco prima e, tutto a un tratto, comprese quale fosse il motivo di quella visita improvvisa. Subito ogni traccia di indolenza si dileguò dalla sua mente e tutti i suoi sensi si misero in all’erta. «Ma prima… sei venuto a portarmi qualche notizia?» azzardò con cautela. «Sì, signore. Raimondo è giunto poc’anzi. I suoi uomini si sono accampati all’interno delle mura, vicino alla porta principale.» Erano le parole che aveva sperato di udire fin da quando erano arrivati a Moncalvo! Capì di essere stato tanto in tensione solo quando sentì tutti i muscoli del suo corpo rilassarsi simultaneamente a quell’annuncio. Fece per parlare, ma poi cambiò idea e si limitò ad annuire. «Devo farli tenere sott’occhio, mio signore?» proseguì Ademar. «No, maresciallo… puoi andare a riposare per stasera. Riposate tutti; è stato un viaggio faticoso.» «Sì, mio signore.» E, inchinatosi secondo il suo solito, si avviò verso il corridoio. 49


«Ah, maresciallo.» «Signore?» «Fai portare quel fuoco ora.» «Provvederò immediatamente, non dubitate.» Al barone parve che Ademar sorridesse mentre usciva dalla stanza. Lo seguì con lo sguardo finché non fu scomparso dalla sua visuale, come affascinato e colmo di gratitudine. Quindi, si lasciò di nuovo cadere sulle ginocchia e rivolse gli occhi al cielo in un atto spontaneo e liberatorio. Grazie, mio Dio! Grazie!

«Prego barone, accomodatevi.» Il marchese Bonifacio di Monferrato fece un gesto vago con la mano, come a indicare che il suo ospite poteva considerarsi libero da qualunque formalità. La stanza in cui si trovavano, benché non fosse quella delle udienze ufficiali, era piuttosto armoniosa e riccamente adornata. A pianta rettangolare, uno dei lati lunghi era occupato interamente da due grandi finestroni a tutto sesto, dai quali entrava una sontuosa luce pomeridiana. Mentre sulla parete opposta, uno splendido arazzo raffigurante scene di assedi e di battaglie faceva bella mostra di sé, impreziosendo tutto l’ambiente con la sua magnificenza. «È un pezzo molto pregiato, sapete?» disse il marchese notando l’occhiata che il barone, appena entrato, aveva subito rivolto a quella maestosa opera d’arte. «Mio padre l’ha fatto confezionare ad Arras; vi è raffigurata Gerusalemme mentre viene conquistata dai cristiani. C’è anche lui, nell’angolo in basso a destra, mentre trafigge un saraceno.» Gualtieri annuì di sincera ammirazione. Poi, lasciando da parte l’oggetto della sua curiosità, si portò più vicino a Bonifacio e, nonostante ne fosse stato esentato, si inchinò ossequiosamente. Il marchese mostrò di non farci troppo caso. «Innanzitutto voglio ringraziarvi per aver onorato mio figlio e me con la vostra presenza alle sue nozze. Lo so, avrei dovuto ricevervi subito al vostro arrivo, ieri. Ma… spero che possiate capire… i preparativi, le cose dell’ultimo momento, non c’è stato proprio il tempo.» Le sue 50


labbra scivolarono in un sorriso confidenziale e carico di complicità. «Per fortuna ho un figlio solo da sistemare. Spero comunque che siate stato trattato come si conviene a un uomo del vostro rango.» Come sempre, il grande fascino e la forza interiore che quella figura, pure non più così giovanile, emanava intorno a sé fecero breccia nella fantasia di Gualtieri. «Mio signore, comprendo perfettamente, non dite altro, vi prego. Quanto alla vostra ospitalità, in fede mia non ne conosco di più squisita. Le vostre parole mi onorano, ma, in verità, sono io ad avere il privilegio di godere della vostra benevolenza. E, come ho già avuto il piacere di dire a lui personalmente, auguro a vostro figlio Guglielmo ogni prosperità e benedizione, oltre che la felicità perpetua e una vita lunga e piena di onore.» «Bene, bene, amico mio, questo sì che è parlare! Ma… voi siete ancora a terra; alzatevi, vi prego, e avvicinatevi, così che possa presentarvi questo sant’uomo che mi è accanto.» Anziché riceverli tutti insieme in pompa magna, il marchese aveva fatto in modo che tutti i suoi vassalli, subalterni e alleati fossero introdotti al suo cospetto singolarmente e senza alcuna promiscuità. Probabilmente sperava che, in inferiorità numerica e psicologica e senza alcun termine di paragone a cui appigliarsi, nessuno di loro avrebbe avuto il coraggio di venire meno alle proprie promesse. Perfino la scelta di quella stanza sembrava confermare quel proposito: più piccola e informale rispetto alla grande sala delle udienze, non lasciava alcun ricetto, reale o mentale che fosse, dietro cui nascondersi. Per il barone però si era trattato di una brutta sorpresa: quella soluzione gli aveva precluso la possibilità di controllare le mosse del suo nemico. Raimondo, peraltro, era già stato ricevuto, ma nessuna informazione riguardo l’esito dell’incontro era trapelata e, in quanto a chiedere informazioni direttamente al marchese come aveva fatto tempo addietro col suo araldo, non se ne parlava neanche. Non restava che abbandonarsi alla logica secondo cui la presenza del balivo dovesse essere già di per sé una garanzia sufficiente. Salì i due gradini della predella su cui si trovava lo scanno di Bonifacio e il piccolo tavolino del legato pontificio. Quest’ultimo posò la lunga penna di cigno che teneva ancora in mano e, con 51


fare lento e cerimonioso, dapprima si alzò dalla sedia che aveva occupato fino a quel momento, quindi accennò appena un mezzo passo verso di lui. Da qualche parte tra le pieghe dei suoi ricchi e voluminosi paludamenti spuntò una mano guantata, il palmo rivolto verso il basso in modo che il vistoso anello pastorale non rimanesse nascosto. «Mio caro barone Gualtieri» annunciò a quel punto Bonifacio con una punta di solennità nella voce, «vi presento sua eccellenza eminentissima Soffredo, cardinale prete di Santa Prassede, legato pontificio per tutte le questioni concernenti la Crociata.» Era un uomo imponente, alto probabilmente più di sei piedi, ma non grasso. I capelli e la barba brizzolati gli conferivano un aspetto ancora più grave. Lo sguardo, fiero e deciso come quello di un comandante, dava l’impressione di un individuo risoluto e non disposto a scendere a patti. Non era difficile credere che il papa si fidasse di lui. Il barone si inginocchiò nuovamente, prese tra le sue la mano del prelato e baciò il grosso anello d’oro. «Vostra grazia, sono il vostro umile servo.» «Non mio, barone… non mio» si affrettò a correggerlo Soffredo, alzando prontamente la mano ancora libera in segno di modestia, «ma di Nostro Signore, come tutti noi. Prego, alzatevi pure in pace.» «Grazie. Permettetemi innanzitutto di affermare che la vostra omelia di questa mattina è stata davvero toccante, l’intera celebrazione, affascinante. Credo, in tutta sincerità, che il nostro futuro marchese Guglielmo abbia avuto oggi il migliore dei viatici per la sua nuova via verso la santità del matrimonio, e tutti noi che abbiamo assistito al rito ne siamo lieti e appagati.» Soffredo annuì, ma senza tracce di soddisfazione, certamente non avvezzo a esprimere riconoscenza per i complimenti ricevuti. «Siete un uomo che sa ben parlare, barone Gualtieri di Ovilia; lodate sempre il Signore per questo dono dello Spirito. Quanto a me, non di belle parole si compiace la mia anima, ma della speranza che a esse seguano fatti altrettanto lodevoli.» Aveva autorità e, a quanto pareva, nessun timore di usarla. Il barone rivolse un silenzioso ringraziamento al Cielo per avergli 52


risparmiato l’esperienza di dover affrontare la collera di quell’individuo. «Bene, vedo che siamo già arrivati alla questione principale» s’intromise il marchese, ritrovando il tono allegro e quasi spensierato di prima, e forse proprio con l’intento di stemperare quell’atmosfera di eccessiva rigidità. «D’altronde non c’è motivo di prolungare troppo la faccenda. Prima finiremo e prima potremo tornare ai nostri festeggiamenti, dico bene?… Naturalmente con rispetto parlando, vostra grazia.» «Festeggiamenti leciti e benedetti dal Cielo, marchese» lo tranquillizzò subito il legato. «I preparativi per il viaggio sono già a buon punto, sapete?» continuò Bonifacio. «Il maresciallo di Champagne, di cui certamente avrete tanto sentito parlare, insieme ai più insigni partecipanti alla spedizione, ha già preso accordi con il doge; accordi che sono stati ratificati anche da Sua Santità.» Girò la testa e lo sguardo verso Soffredo come per chiedere la sua conferma, cosa che egli volentieri concesse con un cenno di assenso del capo. «La grande flotta che ci porterà alla vittoria è già in costruzione e sarà pronta ad attenderci per l’estate prossima.» Gualtieri fu lieto che finalmente qualche notizia ufficiale sui particolari dell’operazione venisse rivelata, anche se finora nulla che si discostasse dalle voci già in circolazione. Ne approfittò per cercare di saperne di più. «Dunque si partirà da Venezia.» «A Dio piacendo, il giorno dei santissimi Pietro e Paolo, meno di un anno da oggi» rispose Bonifacio. Poi il suo tono si fece ancor più confidenziale. «Credete, amico mio, un anno è cosa breve quando si lavora per una simile impresa, ed è per ciò che non abbiamo voluto rimandare ancora questo incontro fondamentale, nonostante la concomitanza con le nozze. Cosa che, del resto, ci ha permesso di beneficiare della preziosa eloquenza di sua grazia, che voi avete già giustamente elogiato.» E così dicendo scoccò un’occhiata carica di compiacimento all’indirizzo di Soffredo, il quale tuttavia, come già in precedenza, non mostrò nessuna gratitudine per quell’ulteriore encomio. Bonifacio proseguì: «Tra pochi giorni, infatti, partirò per Soissons, dove altre importanti decisioni dovranno essere prese e 53


dove, con l’aiuto di Nostro Signore, assumerò il comando dell’esercito cristiano.» «Ed è importante che per allora il nostro comandante possa già avere un chiara idea delle forze di cui potrà realmente disporre» intervenne a quel punto il legato con un pizzico di impazienza nella voce che, agli occhi di Gualtieri, si sposava anche troppo bene con l’impressione che aveva dato di sé fino a quel momento. Anche al marchese quel particolare non doveva essere sfuggito, perlomeno a giudicare dalla concretezza di cui rivestì le sue successive parole: «Sua grazia ha perfettamente ragione, mio caro barone, ed è appunto per questo, come ben sapete, che ci troviamo qui.» Poi, rivolgendosi direttamente a Soffredo: «Orbene, non poniamo altri indugi: procedete pure.» Questa volta il legato parve soddisfatto. Si voltò per riprendere il suo posto presso il piccolo ed elegante tavolino dal quale si era scostato poc’anzi e, nel far ciò, i suoi paramenti sventolarono per qualche secondo in aria, donando a quella figura massiccia una grazia del tutto inaspettata. Sedette e per alcuni istanti lasciò che i suoi occhi vagassero tra le carte ammonticchiate alla rinfusa sopra il piano; infine, trovato ciò che stava cercando, prese il lembo sporgente di una grossa pergamena e la sfilò. Gualtieri la riconobbe immediatamente: era quella che aveva portato con sé l’araldo nella sua missione di reclutamento. «Su questa pergamena voi stesso avete apposto il vostro sigillo» esordì Soffredo senza staccare gli occhi dal foglio che reggeva in mano, «impegnandovi a fornire per il Santo Passaggio in Terrasanta trenta cavalieri, cinquanta sergenti e cento fanti.» «È così, vostra grazia.» «Dunque confermate ora, alla presenza del Sommo Pontefice Innocenzo, da me qui rappresentato, la vostra precedente promessa?» «Sì, vostra grazia, è mia intenzione confermarla.» Fece un profondo respiro. «Con una piccola rettifica, però.» Ci fu un attimo di imbarazzo generale. Lo sguardo di Soffredo saettò verso di lui, improvvisamente ostile come quello di un rapace che stia per scattare verso la sua preda. Il suo tono, fino a quel momento atteggiato a grande solennità, in un 54


istante divenne sprezzante. «Ah, vorreste dunque ridurre il numero dei vostri uomini? Pensateci bene, barone. Tutto in cielo e in terra è cosa di Dio, e se voi sarete manchevole nel rendergli ciò che già gli appartiene Egli adotterà lo stesso metro con voi, quando nella Sua infinita giustizia si chinerà sulla vostra anima nel giorno che…» «Perdonate, vostra grazia» lo interruppe Gualtieri senza dargli il tempo di concludere la frase, ma pur sempre mantenendo un atteggiamento di rispettosa sottomissione, «temo di essere stato frainteso. Non desidero affatto diminuire quel numero. Quello che voglio dire e che desidero semmai aumentarlo, con l’aggiunta di un altro cavaliere: me stesso.» Il marchese non riuscì a trattenersi e la sua risata, possente e sincera, invase la sala, sciogliendo con la sua spontaneità la tensione che solo un attimo prima l’aveva invasa completamente. Anche Soffredo mutò subito contegno. «Ah, bene… in questo caso…» balbettò, cercando senza successo di mascherare l’ira di poco prima in qualcos’altro, e mostrando invece per la prima volta, insieme con il suo imbarazzo, un piccolo brandello di umana debolezza. «Allora avvicinatevi pure e ponete il vostro sigillo su questa promessa scritta.» Trascrisse l’atto su un nuovo foglio, leggendo ad alta voce man mano che la penna scorreva scricchiolando sulla pergamena. «… Trentuno cavalieri, cinquanta sergenti e cento fanti.» Quindi lo porse al barone, avvicinando nel contempo verso di lui la bugia su cui era poggiata una candela accesa con tutto l’occorrente per sciogliere la ceralacca. «Dio non voglia che la scomunica del Sommo Pontefice vi colga nell’inadempienza del vostro voto.» Il barone prese la pergamena e, senza nemmeno rileggerla, vi appose il suo sigillo. Un sorriso ambiguo si disegnò sulla faccia di Soffredo. «Deus lo vult» disse marcando le parole con grande importanza. «Deus lo vult» gli fece eco il barone.

55



Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.