L'Arca di Noè

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MEDITERRANEO E ALTRI MARI, ATTUALITÀ, ECONOMIA, TURISMO, CULTURA, SALUTE E AMICIZIA

SPECIALE: UNA FINESTRA SUL MONDO Intervista a

Simona Rosato “ I gioielli made in Italy” di Demi Moore

Grado, Ischia, Lipari tre isole non abbastanza “Isolate”

La storia delle viti e del vino Italiano

L’Italia e le sue bellezze

angoli inesplorati ancora intatti nel nostro paese

Intervista a

Dott. Rosario Forestieri Dott.sa Teresa Condina “ La diagnosi della pervietà del Forame Ovale”

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Natur Parfums

Natur eau de toilette

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MEDITERRANEO E ALTRI MARI, ECONOMIA, TURISMO, CULTURA, AMICIZIA

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in questo numero

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EDITORIALE

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ATTUALITA’

L’Arca di Noè

Rivista Bimestrale n°0 Editore Camillo Benedetto Via Cavour 7 33100 Udine

ECONOMIA

Direttore Responsabile Gianfranco Lenarduzzi Coordinamento Editoriale Camillo Benedetto Marco Crozzoletto Davide Castrianni Redazione 33100 Udine – Via Cavour, 7 Tel.0432-204941 – fax.0432-296508 e-mail: info@l-arcadinoe.com Relazioni Esterne Fabrizio De Paulis

TURISMO

Marketing e Comunicazione Victoria Baliet

Concessionaria Esclusiva per la pubblicità CB Europe 33100 Udine – Via Cavour, 7 Tel. 0432-204941 – fax. 0432-296508 e-mail: info@cbeurope.it Web Master Davide Castrianni

CULTURA

AMBIENTE

TECNOLOGIA

Sito Internet www.l-arcadinoe.com Registrazione Tribunale di Udine n° 0306 del 26/01/2006

MODA

Impaginazione Grafica e comunicazione e-comunicazione di Ermete Srl

SALUTE

Stampa Tipografia Srl - Udine Hanno collaborato

Simone Di Biasio, Luigi Paolo Zena, A. Negrisolo, Nicola Ricchitelli, Goffredo Palmieri, Piero Acerbi, Fabrizio De Paulis, Rocco Sodo, Giusi Lamorte, Camillo Benedetto, Tania Pizzamiglio, Katia Benedetto, Michele Santoro, Flavia Capoano, Giuseppe Perisinotto, Matteo Esposito, Gerardo Pitta, Davide Castrianni, Carmensita Bellettieri, Valentina Sussi, Fabrizio Di Vito, Roberto Bertoni.

Tutto il materiale inviato non verrà restituito o resterà di proprietà dell’Editore. Lettere e articoli firmati impegnano solo la responsabilità degli autori. Le proposte pubblicitarie implicano la sola responsabilità degli inserzionisti.

Speciale “La storia delle viti” Tra impresa e pubblica amministrazione Il Made in Italy sbanca solo se tutelato Progetto CINDA: apertura allo sviluppo per i distretti appulo lucani

ENOGASTRONOMIA Il sapore dell’Aglianico Lipari, natura e imprenditorialità L’oro dimenticato La Grappa - Il Ras dei Cariofi Antichi sapori “Il formadi frant” Sulle tracce del mestiere di famiglia Mangiare bene con la focaccia siciliana

Segreteria Silvia Gazzetta

Responsabile Ufficio Legale Daniele Liani

L’Italia secondo Andreotti Avanti e dietro le dune del Mediterraneo L’interpretazione della legge nella tutela delle categorie deboli Percorso tra le vie del carcere minorile Ecoturismo in Guinea Bissau

MUSICA TEATRO SPORT

Dove la storia vive ancora L’Isola d’Oro Napoli capitale culturale del sud Gita a Rossano Calabro La gita a Maratea Una giornata a San Severo Alla scoperta di Cividale del Friuli I natali di Romolo e Remo Eco-Design: nuova avventura per l’arte contemporanea Difesa e recupero ambiente Il Malignani e il volo Senato, università e web Simona Rosato i gioielli made in Italy di Demi Moore La diagnosi della pervietà del forame ovale Il caso clinico di una diagnosi difficile Quando la realtà supera la fantasia La nuova longevità La tradizione della musica Italiana L’accademia della follia va in Argentina Mondo Ultrà Triestina: Storia d’Italia in un’alabarda


Editoriale

Editoriale A

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volte i numeri servono solo per sostenere tesi altrimenti d’argilla, altre volte fotografano la realtà. “L’Arca di Noè” rientra in quest’ultimo caso. 1.500.000 visite per il giornale on-line che ha visto la luce appena due anni fa, quando il 13 Giugno 2006 è stato caricato il primo articolo. In tutto sono stati pubblicati sino ad oggi quasi 1.500 articoli, per una media di 3 pezzi al giorno: numeri che ci fanno praticamente apparire quasi come un quotidiano. La mia idea era, è e sarà quella di “sfruttare” il Mare Nostrum non quale bacino in cui navigare al sicuro, ma come porto aperto alle navi di tutto il Mondo. L’”Arca di Noè” ha segnato il mio debutto, già ambizioso, come editore con l’obiettivo di incrementare le relazioni fra i paesi del bacino del Mediterraneo, ricercando nuove formule che tengano conto della correlazione esistente tra produttività economica e aspetti sociali, cioè l’istruzione, l’assistenza sanitaria, l’alimentazione e, non ultimo, il dialogo interreligioso. Ma ora c’è di più. L’”Arca di Noè” ha deciso di scendere dall’on-line per imbarcare un altro (gradito) ospite che dall’acqua (del Mediterraneo) in cui naviga trae linfa vitale: la carta. Ebbene sì, in parole spicce “L’Arca di Noè” in questo momento la state leggendo per la prima volta sfogliandola, e per questo numero 0 abbiamo scelto di pubblicare gli articoli migliori, quelli più interessanti soprattutto per voi, lettori esigenti nella giungla dell’editoria. In questi 2 anni e poco più ci siamo ingegnati per cercarvi di offrire sempre un’informazione diversa, e crediamo nella speranza di esserci riusciti. A tal proposito mi preme ringraziare il webmaster del giornale on-line Davide Castrianni, giornalista dalle idee stimolanti, insieme a tutti i ragazzi che hanno preso parte al 1° Concorso Europeo per Aspiranti Giornalisti, iniziativa che ha avuto un successo straordinario: riconoscenza per questo a Simone di Biasio, a Matteo Esposto, a Roberto Bertoni, a Nicola Ricchitelli, ad Alessandra Solmi, ad Elisa Canteri e a Flavia Capoano. Ma plauso va anche ai Patrocini che hanno accompagnato questa avventura. E dunque grazie al Sindaco di Venezia Massimo Cacciari e alla Sua Giunta, al Presidente della Regione Basilicata Vito De Filippo, all’Assessore alle Politiche Giovanili del Comune di Roma Carla di Veroli, al Sindaco di Melfi Alfonso Ernesto Navazio, al Sindaco di Trieste Roberto Dipiazza e alla sua Amministrazione Comunale, al Presidente della Provincia di Foggia Antonio Pepe, al Presidente della Regione Umbria Maria Rita Lorenzetti alla Sua Giunta Regionale, al Governatore della Puglia Nichi Vendola e alla Sua Amministrazione Regionale, alla Presidenza della Regione Abruzzo e all’Amministrazione Comunale di San Severo. Dunque patrocini dal Nord al Sud dell’Italia. Ma anche collaborazioni con i più importanti giornali on-line europei e mondiali, perché vogliamo raccontar-

vi le bellezze dell’Italia intera nel contesto Europeo, e oltre. Ci piacciono i colori, ma non quelli politici. È difficile oggi, ma il nostro giornale è apartitico. Politico per noi qualifica semplicemente ogni uomo-animale (di aristotelica memoria). Mi piace ricordare dei versi di Martha Madeiros: “Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce”. Il nostro progetto “L’Arca di Noè” è appena cominciato. Le domande ce le siamo poste e le risposte cerchiamo di fornirvele nelle prossime pagine di questo numero 0. Buona navigazione nella lettura. www.l-arcadinoe.com Camillo Benedetto Editore

ISTITUTO NAZIONALE PER LA GUARDIA D’ONORE ALLE REALI TOMBE DEL PANTHEON

Nel gennaio del 1878, in occasione della morte del primo Re d’Italia Vittorio Emanuele II, il Pantheon fu scelto quale dimora delle salme dei Reali d’Italia. Attualmente accoglie le spoglie mortali di Re Vittorio Emanuele II, Re Umberto I e della Regina Margherita di Savoia. 18 gennaio 2009 Roma Celebrazione del 131° anniversario della fondazione dell’Istituto. ore 09,30: deposizione di una corona d’alloro al Sacrario del Milite Ignoto all’Altare della Patria. ore 10,30: Santa Messa al Pantheon in suffragio dei nostri Sovrani defunti. PANTHEON – Roma – Via della Minerva, 20 Tel. 06 6793430 www.guardiadonorealpantheon.it


di Simone Di Biasio

Attualità

L’Italia secondo Andreotti A

che serve l’Italia nel mondo globalizzacon ottimismo - continua ancora il Presidento? «Ancora a molto: io sono ottimista». te - come quando questo paese seppe ricoOttimismo, “profumo della vita” per dirla struirsi dalle macerie della seconda guerra alla Tonino Guerra. «Abbiamo una grossa mondiale, come quando intrapresi quasi tradizione, nel segno della cristianità». Maper caso la mia carriera politica: entrambe linconia dei vecchi tempi? Per un senatore queste cose sono state portate avanti con a vita ad un passo dai novanta può anche spirito cristiano. Ricordo come fosse ieri starci, visto il mare di relativismo in cui si le parole di un contadino di questa zona alrischia di affogare. All’eterno “divo” Giulio l’indomani del secondo conflitto mondiale, Andreotti è stato posto un quesito piuttoricostruite l’abbazia. In sintesi: il senatore sto impegnativo, sicuramente ampio per a vita Giulio Andreotti sembra riservare alGiulio Andreotti poi alzarsi dalle sedie del chiostro dell’ex l’Italia un futuro da educatrice e mediatrice Senatore a Vita convento di S. Domenico di Fondi con la nello scenario dell’Europa Unita, nel segno sensazione di completa sazietà per le risposte ottenute. dei valori cristiani. Sulla stessa lunghezza d’onda anche “A che serve l’Italia?”: interrogativo provocatorio e non gli altri “ospiti” della serata, tra cui il fondatore della poco interessante, da integrare nel sottotitolo: “Il ruolo Comunità di Sant’Egidio, il professor Andrea Riccardi: del nostro paese nel mondo globalizzato”. In una piace- «Questi sono anni particolarmente difficili perché di rivolissima sera d’estate di lunedì 18 Agosto. «Finalmente definizione di alcune identità. Lo abbiamo visto nel caso posso iniziare discorsi senza finalità elettorali - scherza del conflitto di questi giorni tra Russia e Georgia, che ha inizialmente il senatore a vita - e ritengo che questa sera, portato alla ribalta realtà a noi non note le quali spiegano nella Fondi in cui torno sempre volentieri, si parli di un come il globale entri nel locale, e viceversa. È per questo tema suggestivo. Uno dei difetti della modernità è quello ed altri motivi che anche noi italiani, realtà forte dalle di avere l’impressione di poter conoscere tutto attraver- radici cristiane, abbiamo bisogno di orgoglio». Giusto, so la televisione (la “conoscenza mediata” di Thompson, anche se solo quello non basta. Ed ecco che a Riccardi ndr), invece l’immediato dopoguerra mi ha insegnato che scappa qualche frase più concreta: «Questo Paese non non è così e la scuola deve saper sopperire al problema serve solo perché è nostro. Un esempio su tutti: la nodel mancato approfondimento». Prime parole del sette stra presenza può essere oggi determinante in Africa volte premier che attraggono già il pubblico richiamato per contrastare la sfida cinese». La conferenza si chiuda questa conferenza organizzata dalla comunità di San- de con le parole dell’attuale sottosegretario agli Affari t’Egidio, in ottimi rapporti con il Mercato Ortofrutticolo Esteri Vincenzo Scotti e del mons. Ambrogio Spreafico, di Fondi per il trasporto di viveri nelle zone più povere Vescovo Coadiutore di Frosinone-Veroli-Ferentino. Il pridell’Africa. «Oggi si deve guardare a ciò che ci unisce, mo, reduce dal vertice di Bruxelles per discutere della anche se la natura umana ci spinge ad andare in senso questione georgiana, ha sottolineato anch’egli il “problecontrario. E questo - spiega ancora il Sen. Andreotti - lo ma” delle identità che nascono, risorgono e si rafforzaaveva capito già chi aveva dato vita alla società delle na- no, «laddove in Italia l’identità è già forte e per questo c’è zioni e chi ha deciso di creare l’Europa Unita. In questo da essere ottimisti». Nel finale tanti applausi e strette di contesto possiamo analizzare il futuro ruolo dell’Italia. mano al longevo Senatore che non ha paura a scherzare Si possono e si devono trasmettere ai giovani obiettivi ancora: «La vera età è quella che ci rimane da vivere». E positivi, inquadrandoli sicuramente in un’ottica cristia- poi tutti a casa, dove non servirà tirar fuori solo vecchi cina». È evidente in queste parole il rifulgere di un passato meli, ma soprattutto trovare il modo di mostrarli. Perché di educazione salesiana: rigida, ma fortemente cristiana. va bene tradizione, ma i tempi cambiano e l’Italia saprà, «Guardo al futuro dell’Italia negli scenari internazionali speriamo tutti, rinnovarsi senza perdersi.

Associazione per la Collaborazione Mongolia - Italia sito:www.mongolia-italia.mn tel, fax: 00976-77110330 e-mail: contact@mongolia-italia.mn cellulare: 00976-99007251

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Attualità

Avanti e dietro le dune del mediterraneo

a cura di Luigi Paolo Zema

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ul Mediterraneo si è scritto molto in ogni disciplina sin dall’antichità. Mare Nostrum dei Romani, ponte e luogo di incontro tra civiltà e culture, fonte di benessere ed anche, sino agli anni ‘90, luogo di scontro (mai avvenuto, per fortuna) tra le maggiori coalizioni politico-militari della storia per la presenza costante della VI Flotta degli Stati Uniti e della contrapposta forza navale sovietica. “Pozza” inquinata ed inquinante per gli scarichi degli Stati rivieraschi del Nord, rotta di “balseros” e di odierni mercanti di schiavi. Sono le più comuni espressioni, nel vano tentativo di sintetizzare taluni dei principali argomenti che hanno come focus il Mediterraneo. Negli ultimi due decenni, il Mediterraneo è stato oggetto di particolare attenzione, soprattutto, da parte di NATO (acronimo di North Atlantic Treaty Organization, organizzazione politico-militare, con sede a Bruxelles, sorta nell’immediato dopoguerra cui aderiscono oggi, sotto varie forme - dalla semplice cooperazione nel campo scientifico e della protezione civile a quella della “vera” alleanza militare - quasi tutti gli Stati Europei), USA e Canada, UEO (acronimo di Unione Europea Occidentale, organizzazione politico-militare, con sede a Bruxelles, sorta nell’immediato dopoguerra, cui progressivamente hanno aderito, sotto varie forme, la maggioranza degli Stati Europei), Unione Europea, Francia, Italia e Spagna nel tentativo - si potrebbe dire mal riuscito, ma non per esclusiva colpa dei predetti né per la carenza o limitatezza di idee, obiettivi e risorse economiche posti “sul tavolo delle trattative” - di realizzare, attraverso Fori, Convegni, iniziative in campo scientifico e, molto a margine, attività di cooperazione militare, un effettivo e costruttivo dialogo, basato principalmente sulla concessione di fondi per lo sviluppo socio economico, cioè realizzazione di progetti infrastrutturali interessanti gli Stati rivieraschi del Sud Mediterraneo come mezzo per spingerli a cooperare tra loro stessi e “non guardarsi in cagnesco” in forza di un nazionalismo dettato, anche e soprattutto, dall’esigenza di “creare”, dopo la colonizzazione, la loro Nazione. L’illustrazione delle tante iniziative in detto contesto (e gli scarsi risultati ottenuti) sarebbe inutile - attesa la consistente bibliografia e le continue, precise, esaurienti, news che i citati Organismi e Stati forniscono nei loro siti web - e, soprattutto, fuorviante rispetto al tema che, presuntuosamente, si vorrebbe trattare, augurandosi che da ciò nasca un dibattito e l’apporto di idee. In effetti, quanto di seguito si espone vuole essere soltanto un tentativo di aprire un foro di dibattito sulla realtà esistente “avanti e dietro” le dune del Mediterraneo, realtà della quale si conoscono solo gli effetti - i balseros in continuo afflusso a Lampedusa e le tante tragedie lungo le rotte che dal Sud portano a quest’isola - che lasciano, indipendentemente dalle idee socio-politiche di ciascuno, l’amaro in bocca.

Amaro in bocca per una serie infinita di considerazioni che abbracciano il sociale, l’umanitario, l’economico, il futuro non solo dell’Europa, ma, quel che lo scrivente ritiene ancor più grave, la minaccia che incombe sull’Africa “avanti e dietro” le dune e, quindi, sull’intero Continente africano. Si insegnava e si insegna, nell’illustrare i rudimenti di Fisica, che “ad ogni azione segue una reazione di segno opposto” e detto principio, con un po’ di elasticità mentale, ha trovato e trova applicazione in ogni campo da quello economico (teorie del Keynes sulle forze che regolano il mercato) a quello sociale (repressione della delinquenza anziché prevenzione o, viceversa), nel costante tentativo di riportare in equilibrio il “sistema” interessato. Si tenga presente quanto testé scritto e, “absit iniuria verbis”, si tenti di seguire (non per incapacità del lettore, bensì per difficoltà di chi scrive ad esporre con ordine le proprie riflessioni) quanto emerge da un esame asettico e sintetico - comunque criticabile - della storia dell’intero Continente africano, premessa indispensabile per vedere “avanti e dietro le dune”.

Il continente africa gli africani merce dei moderni mercanti di schiavi progetti troppo ambiziosi - il principio guida - formazione e istruzione

Il Continente Africa

L’Africa ha geograficamente un’estensione superiore a quella dell’Europa, ma è popolata da circa 200/250 milioni di abitanti e questa è concentrata in alcune aree (Egitto e Stati dell’Africa del Sud). Il tasso di crescita della popolazione, nonostante l’elevato livello di prolificità, è stato inficiato - e nessuno storca la bocca - dall’azione dei “Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” che, alternandosi e cooperando, hanno danneggiato da sempre l’Africa e continuano a distruggerla giorno dopo giorno. Essa ha subito per più di un secolo la perdita delle sue migliori forze, a quei tempi fisiche, a seguito delle razzie che i mercanti di schiavi, protetti ed “agevolati” dalle potenze coloniali europee, specie il Regno Unito, effettuavano nel “Continente nero” per poi vendere la loro mercanzia, uomini e donne africani, sul mercato americano, ansioso e disposto all’acquisto di braccia per le immense colture di cotone. “La Capanna di Zio Sam”, in biblioteca,


Attualità e “Mandingo”, in cineteca, offrono un pallido squarcio di detta amara realtà storica. Questo commercio di schiavi é paragonabile ad una lunga guerra in cui si verificano due effetti: da un lato, la “scienza” e la tecnologia fanno enormi balzi in avanti e, dall’altro, intere generazioni scompaiono con il loro bagaglio di cultura e di contributo al progresso dell’ambiente in cui sono vissuti e cresciuti. L’Africa ha subito questa lunga “guerra”, ma ricchezza, scienza e tecnologia sono ricadute su altri, non ha guadagnato nulla, ha solo perso intere generazioni (“azione”) che, viceversa, hanno contribuito (“reazione”), a porre un importante tassello nella costruzione della “superstite super-potenza” USA. Per ristabilire l’equilibrio sarebbe - si è nel campo delle folli utopie - necessario che Gran Bretagna (tutrice dei mercanti di schiavi) ed USA (mercato dei predetti) oggi restituiscano all’Africa, nella forma “più economica” per loro, le energie e le capacità a suo tempo “depredate” (atteso che l’esperimento Liberia si può dire che sia abortito). Chiunque provasse a contestare quanto sopra, dovrebbe, dapprima, documentarsi, studiare e capire la storia e ciò che i libri di storia per motivi vari non scrivono, poi, tentare di svolgere una “comparazione storica” tra i vari continenti, iniziando da quella tra Asia ed Africa. L’Asia, ad esempio, non ha subito in modo incisivo le vicende coloniali e le aberrazioni delle razzie che hanno caratterizzato la storia del Continente africano e la riprova si ha riscontrando che, oggi, l’intero cosiddetto Occidente teme l’aggressione economica ed intellettuale di Cina, India, Giappone, Corea, Taiwan, le cosiddette “tigri asiatiche”, non certamente il Sudan, la Costa d’Avorio e lo stesso Egitto. Dall’Africa i “migliori” se ne vanno - non esiste il substrato economico-sociale che li possa “assorbire” e valorizzarli - e, pur se laureati, sono spinti a migrare verso l’Europa dove, dopo un periodo più o meno lungo di “lavoro nero” e sottopagato, riusciranno, forse, ad ottenere un permesso di soggiorno per lavorare come operai nelle campagne od in qualche fabbrica. In sintesi, l’Africa impiega le poche risorse disponibili per alfabetizzare - nell’accezione più estesa del termine - le sue genti e queste, invece che restare e contribuire alla crescita del proprio Stato, emigrano e, talvolta, con la “forzata” compiacenza del proprio Governo. Forse non sarebbe male che questi Governi copiassero il modello sovietico che concedeva l’espatrio a chi lo richiedeva, subordinandolo al pagamento di una “pesante” tassa a compensazione delle spese sostenute per costui (istru-

zione, sanità, servizi, etc.). Da “piccolo”, studiando la storia e le invasioni barbariche, chi scrive si immaginava che le stesse avvenissero repentinamente (i libri di storia sintetizzano, necessariamente in due righe ciò che avviene in un secolo) con un orda di cavalieri che in pochi giorni travolgevano le “imbelli” legioni romane poste a difesa dei lontani confini e si insediavano nel nuovo territorio per poi, l’anno dopo, depredate le risorse dei luoghi occupati, proseguire nell’avanzata. Viceversa dette invasioni, a parte taluni casi (Attila e Gengis Khan), avvenivano a seguito di piccole, continue, costanti “infiltrazioni” di famiglie e genti dello stesso clan/tribù in “costante movimento” verso l’occidente più ricco di pascoli e risorse di ogni genere.

Gli Africani “merce” dei moderni mercanti di schiavi.

Oggi l’Europa sta subendo lo stesso assalto dalle genti africane di “avanti e dietro le dune”, non sono barbari, però è gente che, come i barbari, cerca un futuro migliore di quello che la sua terra può offrirgli, fatto che, forse, arricchirà “il singolo africano, la sua famiglia”, e, certamente, l’Europa (se saprà “utilizzarne” le capacità), ma, purtroppo, impoverirà ulteriormente l’Africa, se è vero che i migliori, i più forti, i più coraggiosi stanno emigrando. L’Africa era ed è diventata ancor più povera - ciò emerge dalla lettura dei redditi pro capite dei suoi Stati - ed i flussi migratori, fonti di reddito di organizzazioni criminali e di funzionari corrotti, contribuiranno ad impoverirla ulteriormente. Gli Africani, cioè la “merce” dei moderni mercanti di schiavi, fuggono dalla fame. Essi, nella stragrande maggioranza dei casi, non fuggono dai regimi che li governano, poveri o meno che siano, e molti di quelli che si imbarcano sulle carrette dei mari ne ignorano l’esistenza, i programmi di sviluppo, la loro continua lotta contro problemi più grandi della loro buona volontà e capacità. Questo significherà, per questioni di “pura sopravvivenza dell’africano”, a breve termine, l’effettivo verificarsi di ciò che lo scrivente immaginava studiando le invasioni barbariche: non più camion e “carrette” attraverso il deserto ed il Mediterraneo, a pagamento e gestiti dai “moderni” mercanti di schiavi, bensì treni, camion e navi, sottratti con violenza ai legittimi proprietari, Stato o privati, o da questi concessi, che procedono verso l’Eden/ pane/futuro per sé e la propria famiglia e scientemente sono incuranti di qualsiasi ostacolo militare, nazionale od estero, che si frapponga, pur di raggiungerlo. E’ ovviamente un quadro catastrofico quello sopra delineato, poiché significhe-

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Attualità 6

rebbe il superamento e la violenza ai già fragili ordinamenti statali africani, soggetti da ogni parte a continui “ricatti”, tribali o religiosi od economici, ma chi scrive ritiene di non essere lontano dalla realtà. Se questa sintetica disamina è condivisa - ancorché con le naturali differenziazioni, i vari distinguo e le perplessità proprie di un dibattito - rimane da esaminare se detto “futuro”, catastrofico o meno od in diversa misura per Africa ed Europa, può essere evitato o meno o, auspicabilmente e realisticamente, limitato. Al riguardo, è necessario tener presente che “avanti e dietro” le dune esistono popoli che hanno sofferto e soffrono, al di fuori degli eufemismi, la fame e che vedono nel “Nord” la loro salvezza, consci che i loro Governi non possono aiutarli o perché taluni loro funzionari sono corrotti o perché l’apparato burocratico, ereditato dai vecchi colonizzatori, è ancorato a privilegi ed incapace di “modernizzarsi” o perché sono costretti ad avvalersi delle royalties elargite dalle multinazionali per sfruttare le risorse nazionali a scapito della futura economia nazionale o perché effettivamente privi di risorse da impiegare per lo sviluppo, per citare taluni dei tanti motivi che, purtroppo, spesso, condizionano le capacità/possibilità di intervento dei loro Governi. Le critiche ai Governi di detti Stati sono facili e comparabili - e, quindi, moralmente censurabili - agli spari di un cecchino sulla gente inerme o le salve di artiglieria su un mezzo della Croce rossa o della Luna Verde. Il negativo futuro delle genti “avanti e dietro le dune”, ad avviso di chi scrive, si può evitare solo ancorando/inchiodando/ legando - siano concessi detti termini figurativi - gli Africani al loro territorio, alla loro Nazione, con programmi di sviluppo che riversano su di essi le esperienze maturate dagli “occidentali” nei secoli.

Progetti troppo ambiziosi

L’Africa ha subito, non per sua colpa, errori e nefandezze altrui ed ha “diritto” ad un risarcimento sul piano pratico, ma, d’altra parte, i finanziamenti di progetti ambiziosi da parte UE e/o di taluni Stati occidentali finiscono, anche proprio per la loro “ambiziosità”, con l’essere distaccati dalla stessa realtà dello Stato che si intende aiutare. E’ giusto pensare, per esempio, alla realizzazione di autostrade o tratte ferroviarie per facilitare gli scambi commerciali ed a dighe per regolare e meglio utilizzare le risorse idriche, ma questi progetti, pur essendo necessari per lo sviluppo, non sono sufficienti ad arrestare oggi la fuga “verso il Nord”, ad avviso dello scrivente, e quando queste opere saranno ultimate diverranno (senza alcuna ironia) delle “Cattedrali nel deserto”, inutili per i fini perseguiti inizialmente in quanto saranno utilizzate (poco e male) dai pochi rimasti. Per di più questi progetti interessano soprattutto - sia consentita l’ironia - la “sponda turistica” del Mediterra-

neo del Sud/Africa del Nord, non certamente gli altri Stati “oltre le dune” del Cairo, di Tunisi, di Algeri, cioè, il Burkina-Faso (Esiste? Dov’è? Sulla costa atlantica o nell’interno? Cosa produce?) o il Sudan (E’ indipendente o è confederato con qualche altro Stato? La gente che lo popola è di razza araba? E’ musulmana? Che produce?), per citarne alcuni ed allo stesso tempo far emergere la comune scarsa conoscenza al riguardo di detti Stati. L’Africa deve esser aiutata, ma limitarsi ad attendere i risultati delle opere faraoniche - interessanti, come detto, soltanto taluni Stati “fortunati” - come se queste fossero la panacea per i mali di cui soffre, significa ancora una volta essere fuori dalla realtà. Né si venda il concetto che “poi ad immediato seguito realizzati gli importanti assi infrastrutturali (ferrovie, autostrade, dighe, ..) sulla costa sarà agevole per gli Stati di oltre le dune collegarsi a detti assi ed avvantaggiarsene”. Chi affermasse ciò sarebbe in perfetta malafede. Questi Stati, purtroppo, devono risolvere i tanti problemi da soli o, se possono, avvalersi di organizzazioni private, umanitarie e non, e delle ONG, “chiamandole/invitandole” con un’attenta e mirata campagna di informazione ad operare sul proprio territorio, ponendo in luce aspetti che qui si accennano, in modo voluto, brevemente e confusamente, perché ciascuno meriterebbe un lungo ed approfondito studio di “fattibilità”, a premessa della convergenza degli sforzi statali e privati/ONG. Un esempio “a contrario” potrebbe chiarire ciò che si intende per un “negativo studio di fattibilità”: invitare una multinazionale ad investire fondi per realizzare piantagioni di ananas, potrebbe rivelarsi un danno. In effetto, la multinazionale, nel giro di qualche mese, potrebbe valutare negativo un investimento in detta area/ settore, comparandolo con quanto ottiene altrove a minor prezzo, ma allo stesso tempo potrebbe dichiararsi disponibile a sfruttare un’altra risorsa di quello Stato che, nonostante joint-venture ed accordi di vario tipo, avrebbero il solo risultato di arricchire la multinazionale (sarebbe da ipocriti pensare il contrario) e di impoverire ulteriormente lo Stato interessato in quanto perderebbe in pochi anni le risorse che ha, senza vedere, in loro sostituzione, qualcosa “in nuce”, foriera e premessa di sviluppo in quello stesso settore “individuato/sfruttato” dalla multinazionale. Ciò potrebbe portare ad asserire che non ci si deve fidare


Attualità delle multinazionali i cui Consigli di Amministrazione sono costretti (come ai tempi della Compagnia delle Indie) a rendere giorno per giorno conto del proprio operato ai rispettivi azionisti. Non si intende affermare ciò. Viceversa è necessario che il Governo dello Stato interessato sappia che sono in campo due interessi contrapposti: quello proprio da tutelare, avvantaggiandosi di ciò che può “offrirgli” la multinazionale, e quello di quest’ultima, teso a far guadagnare, ovunque e comunque, i propri azionisti. E’ da ritenere che detto Stato (i cui Governanti non necessitano di lezioni di economia in quanto molti di loro hanno studiato nei migliori atenei statunitensi, inglesi o francesi) “sa perfettamente” che la multinazionale o chiunque altro è un “mezzo” per favorire lo sviluppo della propria società, concedendo, al limite, lo sfruttamento di una terra incolta “idonea” a produrre mais o lo sfruttamento di un’altra risorsa in “joint-venture” in cambio di una rete di pozzi artesiani nella stessa area od in un’area desertica vicino, o la realizzazione di una o più scuole che prepari/addestri tecnici e, che, per di più, possano frequentare stages in università/industrie occidentali ove apprendano “il meglio” e soprattutto apprendano come insegnare quanto appreso ai loro connazionali.

Il principio guida

A modesto avviso dello scrivente, dovrebbe essere “Io ti do la possibilità di utilizzare mie risorse per un certo tempo e tu ti impegni a ricambiarci preparando il nostro personale affinché questi collabori con te, appena “pronto”, e ti sostituisca un domani nell’utilizzo di dette risorse e devi garantirmi che farai in modo che il nostro personale in breve tempo sia in grado di insegnare ai nostri connazionali quanto appreso”. Detto con altre parole è il famoso “baratto” del nostro contadino che allevava capre per poter comperare una mucca. Ma tutto ciò presuppone che il contadino abbia una capra ed un caprone, sappia che dette bestie possono vivere nell’area ad esse destinate e che, soprattutto, avvenuto lo scambio, la mucca abbia un riparo e ci sia qualcuno in grado di mungerla di fare il formaggio e, quindi, di venderlo ed a chi venderlo. Ogni ulteriore chiarimento sarebbe offensivo per chi legge, aggiungendo, necessariamente, che quanto vale per la “capra e la mucca” (genericamente, agricoltura) vale per il turismo e/o per l’utilizzo delle tante risorse che ciascun Paese ha (il maggior problema è scoprirle, l’ha fatto l’India che oggi produce programmi informatici per chiunque o la Cina che copia e vende prodotti perfettamente uguali a quelli occidentali, incluso fra questi il clone di un particolare modello di “Ferrari”).Sono esempi banali, ma

servono ad illustrare il fatto che dapprima è necessario esplorare le capacità potenziali del “mercato/risorse” e poi esaminare se si è nelle condizioni di avvalersene ed in quali limiti. Con ciò si è introdotto il c.d. “A, B, C” del commercio. Per “realizzare il commercio” bisogna, dapprima, individuare/creare un prodotto da vendere in un determinato mercato. E’ un’utopia pensare che consistenti aiuti per realizzare una fabbrica di trattori avrebbero un impatto decisivo nel decollo economico di uno di questi Stati, per il semplice fatto che un qualsiasi imprenditore locale comprerebbe quello giapponese o tedesco o italiano, forse più costosi, ma da questi ritenuti certamente più affidabili. Sarebbe un bene per la stessa Africa, specie per quegli Stati “oltre le dune” e quanti intendono aiutarla - siano essi Governi, Associazioni o NGO - abbandonino al momento idee di sviluppo, basate sui moderni modelli occidentali e, viceversa, “studino” come l’Occidente li ha conseguiti nei secoli ed applichino, “con intelligenza” i risultati di questo studio. Ciò non significa invitare le genti “avanti ed oltre le dune” ad armarsi di vanga, a dotarsi di una coppia di buoi per l’aratro o per la macina e di un telaio; significa, viceversa, aiutarli a pensare/insegnare come meglio utilizzare le risorse (poche o tante che siano) del luogo in cui vivono, a razionalizzare gli sforzi quotidiani, ad organizzare il proprio territorio, avendo come fine quello di produrre oggi per soddisfare i suoi bisogni primari, quale mezzo per “rafforzarsi” per poi tendere a vendere il surplus prodotto. Siano consentiti due esempi “ovvi”, utili, però, ad illustrare meglio ciò che s’intende esprimere. Il calabrese non ha mai “pensato” di impiantare una forgia per produrre aratri o quant’altro per il semplice fatto che la poca acqua serviva per irrigare i campi dove aveva piantato agrumi ed uliveti, piante che si accontentavano di poco e sopravvivevano anche a lunghi periodi di siccità. Il lombardo, viceversa, disponendo di acqua ha pensato che poteva impiegarla sia per far muovere macchinari (telai, mulini...) sia per irrigare risaie o campi di mais. Ambedue hanno utilizzato al meglio le risorse di cui disponevano, sono stati “con i piedi per terra”, e ciò indipendentemente dal fatto che questa “scelta obbligata” ha favorito, per un insieme di fattori, il lombardo. Per di più occorre riflettere sul fatto che negli Stati oggetto della disamina cinque Euro o cinque dollari al mese pro capite per dieci anni - se è vero quanto asseriscono i mass media e le varie ONG - consentirebbero di debellare definitivamente la maggioranza delle malattie endemiche del Continente africano e creare le premesse (deboli) per la sua ripresa socio-sanitaria.

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Attualità 8

In Italia pochissimi si chinano a raccogliere la moneta di centesimi di Euro, ma la stessa moneta ha un valore di gran lunga diverso altrove, più o meno come si è visto in qualche film di buona memoria in cui turisti gettano dalla nave pochi spiccioli a fronte di ragazzini che si tuffano nell’acqua a raccoglierli (litigando) in quanto ciò consente alla propria famiglia di sopravvivere “ancora un altro giorno”, ieri, nell’attesa di un’altra nave di turisti, ed oggi, di imbarcarsi su una nave di mercanti di schiavi diretta verso gli Stati europei mediterranei. In sintesi con poche migliaia di Euro si possono realizzare in quei Paesi programmi inimmaginabili in Italia. Questi programmi dovrebbero potersi sviluppare su due piani integrati e, parimenti, per non disperdere risorse ed energie, dovrebbero essere poco ambiziosi e, quindi, realizzabili, suscettibili di generare altri programmi parimenti poco ambiziosi e collegabili/collegati, ma che progressivamente, da un lato, leghino le genti africane al loro territorio e dall’altro agevolino il loro progresso sociale.

Formazione e Istruzione

I due piani sono quelli della formazione/istruzione e della messa in pratica di quanto appreso. Sembra “l’uovo di Colombo”, ma così non é. Infatti per formare ed istruire occorre gente che sappia formare ed istruire un certo numero di persone a loro volta destinati a divenire formatori ed istruttori di propri connazionali e per “la messa in pratica” degli insegnamenti è necessaria un’organizzazione e la finalizzazione delle attività ad un mercato, sia esso inizialmente locale e, dopo, nazionale o transfrontaliero. Questo sistema - in un settore completamente diverso, ma più “difficile” - è stato sperimentato dalla NATO nel 1994 allorquando ha lanciato l’iniziativa “Partnership For Peace” (PFP - “Partenariato per la Pace”) verso gli Stati del disciolto Patto di Varsavia ed altri Stati europei “non Membri” della NATO (es. Finlandia, Austria, ...). L’iniziativa si riprometteva, tra i tanti scopi, di addestrare le Forze Armate di detti Stati a cooperare con quelle degli Stati NATO nonostante differenti armamenti, dottrine, procedure, etc. L’illustrazione del “percorso” seguito richiederebbe una specifica trattazione (per altro disponibile su internet), ma, per i fini che qui si intende perseguire, è sufficiente affermare che per “poter cooperare” si è “insegnato” ad un certo, ridotto, numero di Ufficiali (quei pochi che “masticavano” un po’ d’inglese) dell’ex Patto di Varsavia affinché costoro a loro volta divenissero “insegnanti”

di altri Ufficiali e delle loro Unità. A detto fine sono stati organizzati corsi e stages sia presso la NATO ed i suoi Stati Membri sia presso gli Stati interessati. Un primo tangibile risultato positivo, seppure “grossolano”, è provato dal fatto che, circa sei mesi dopo l’avvio del programma, Unità ceke, polacche, ungheresi, ucraine partecipavano alle operazioni condotte dalla NATO nell’ex Yugoslavia.Ritornando al tema Africa, si potrebbe ipotizzare un qualcosa di simile al citato PFP, più limitato, ovviamente, e mirato per il raggiungimento di un obiettivo parimenti “limitato”, però suscettibile di divenire il seme di altre iniziative, anch’esse limitate e, pur tuttavia, in grado di integrarsi con le precedenti, rafforzandole e, quindi, in grado di creare congiuntamente le premesse per ulteriori obiettivi. C’è, tuttavia, ancora da definire in quale campo o settore concentrare gli sforzi dell’istruzione e dell’attuazione di questo “piccolo PFP”, che sarebbe opportuno definire “piccolo programma di cooperazione per lo sviluppo (ppcs)”, ma, proprio in ragione della “limitatezza del programma”, della verosimile limitatezza delle risorse da destinarvi e dell’opportunità/necessità che questo sia concreto e fattibile in ogni sua parte appare preferibile rinunciare ad esporre un caso teorico per un teorico Stato e trattare, su dati di fatto, cioè e quanto meno, “chi dovrebbe occuparsene, chi dovrebbe essere il beneficiario, cosa dovrebbe contenere il programma, come realizzarlo, dove realizzarlo, quanto potrebbe costare ed entro quanto tempo si dovrebbero ottenere i primi risultati concreti”.Per l’individuazione di questi dati di fatto occorre attendere di avere come riferimento uno Stato ben individuato, necessaria premessa per evitare di suggerire un programma basato sulla piscicoltura, laddove invece le caratteristiche chimiche del suolo ed altri fattori suggerirebbero, ad es., la cultura della soia o di altri semi per produrre bioetanolo (di recente utilizzo come sorgente alternativa di energia su auto ed autobus in Brasile, è ricavato da vegetali attraverso un “semplice” processo industriale). Quanto fino ad ora esposto potrà o non potrà essere condiviso, ma lo scopo era ed è quello di creare/provocare un dibattito o, meglio ancora, uno scambio di idee su “cosa si può fare per aiutare quelli oltre le dune”, per ciò stesso “tagliati fuori” da una miope politica economica europea.


S

pesso i cittadini italiani lamentano che l’immigrazione clandestina nel nostro paese è causa di un aumento della criminalità e che le leggi non tutelano come dovrebbero i diritti di coloro che nascono e vivono regolarmente sul nostro territorio. Fatti di cronaca recenti hanno visto gli Italiani schierarsi ora da una parte ora dall’altra della barricata: c’è chi sostiene la necessità di una maggiore severità, e si sente finalmente “compreso” dalla linea dura dei politici che propongono di punire gli irregolari addirittura con la detenzione. C’è chi, al contrario, si riempie la bocca di belle parole che però si scontrano con una realtà con cui bisogna fare i conti, se non vogliamo che la nostra tanto decantata società dell’intercultura diventi un luogo in cui chi cerca una vita più dignitosa trovi un pasto caldo e una coperta e poi solo prospettive di illegalità oltre i cancelli del centro d’accoglienza. Al di là delle posizioni politiche e di coscienza di ciascuno, resta innegabile che un po’ d’ordine deve essere fatto, ma le leggi spesso non tengono conto delle infinite sfumature che la casistica umana propone. È questo il caso di un giovane trentenne, di origini egiziane, incappato nelle maglie del nostro sistema giudiziario, non perché riconosciuto colpevole di un qualche reato, ma perché la sua presenza irregolare sul suolo italiano è stata segnalata alle autorità da uno zelante impiegato comunale quando l’uomo si è rivolto all’ufficio competente per espletare le formalità necessarie per contrarre matrimonio con la sua convivente. Dopo gli accertamenti presso la questura

di A.Negrisolo

cittadina, il Giudice di Pace di Udine, convalida il provvedimento di espulsione e così il giovane è rimpatriato, con il divieto di rientrare in Italia per un periodo non inferiore ai cinque anni. Qui inizia l’attività dei difensori, gli avvocati udinesi Daniele Liani e Maurizio Causero, ai quali la compagna dell’egiziano si rivolge per opporsi all’espulsione. La ragazza, una giovane rumena disoccupata e al settimo mese di gravidanza, vive in un appartamento in affitto e ha potuto mantenersi solo grazie all’aiuto economico del compagno che, con il suo lavoro, benché irregolare, le aveva garantito fino a quel momento il necessario per sopravvivere. I due avvocati, consci della delicatezza del caso, impugnano il provvedimento di espulsione e riescono ad ottenere parere favorevole al rientro in Italia del giovane egiziano. La decisione del giudice, che vanta pochi precedenti nel nostro paese, presenta la particolarità di aver anteposto i diritti di un nascituro, figlio di una cittadina comunitaria e di un extracomunitario, conviventi, equiparandoli a quelli di un bambino nato all’interno di un nucleo familiare “regolare”, così come previsto dalla legge italiana che consente la permanenza nel nostro Paese solo a chi sia unito in matrimonio con un cittadino comunitario e non riconosce pari diritto ad un convivente more uxorio. La revoca dell’espulsione del giovane egiziano, che potrà così ricongiungersi con la compagna e conoscere finalmente la propria figlia, pone in evidenza le controversie connesse all’applicazione della norme che regolamentano la permanenza degli immigrati extracomunitari nel nostro paese e fa riflettere sul fatto che le leggi, necessarie al vivere civile, devono talvolta essere interpretate alla luce dei bisogni superiori di coloro che lo Stato deve primariamente tutelare, ossia le categorie più deboli, come i bambini, ai quali si deve garantire il diritto di crescere all’interno della propria famiglia.

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Attualità

L’interpretazione della legge nella tutela delle categorie deboli

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Attualità

Percorso tra le vie del carcere minorile R

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ecludere una persona, specie se un adolescente, significa interrompere la sua fase di crescita. La reclusione è la via più facile per le istituzioni, perché l’alternativa sarebbe quella di fermarsi a riflettere e analizzare cercando possibilmente di abbattere le cause (economiche, sociali, culturali) che portano la persona minorenne, come chiunque altro, a trasgredire. Oggi come oggi l’accesso ai servizi sociali e ai beni che portano alla soddisfazione dei bisogni giovanili è sempre più privilegio di pochi; per i cosiddetti figli di papà, per il figlio di ecc. L’impossibilità di trascorrere la propria fase di crescita serenamente, di giocare, di studiare e godersi il proprio tempo libero è conseguenza diretta della condizione di emarginazione. Il carcere interviene istituzionalizzando questa precarietà e diventa un trampolino di lancio verso il carcere degli adulti. Gli effetti sono devastanti sotto ogni punto di vista: culturale, fisico e psichico. Dopo aver passato un periodo in carcere la persona minorenne “bollata” come delinquente ritrova la stessa realtà esterna e ancor meno possibilità di scelta. Punita perché esclusa da un processo di normalizzazione e doppiamente punita con la reclusione. Nei primi anni settanta, molto prima delle riforme, i ragazzi che per qualsiasi ragione venivano a contatto con la realtà delle carceri minorili trovavano un ambiente duro e violento, e non cera alcuna possibilità di trasformare la detenzione in percorso di reale recupero alla normalità. Il minore arrestato, era spesso considerato l’anello debole del gruppo criminale, sul quale esercitare una maggiore pressione psicologica (a volte anche fisica!) per fini investigativi. La struttura carceraria minorile, era quella di un vero

di Nicola Ricchitelli

e proprio carcere con sbarre e muri di cinta, con l’unica differenza che le guardie vestivano in “borghese” e le si poteva chiamare per nome. La “prigione scuola” rappresentava un’esperienza tutta particolare, che senz’altro “arricchiva” sotto l’aspetto della devianza, radicando le varie sottoculture che dal carcere trovavano il loro momento più qualificante di vita nella conseguente netta caratterizzazione tra “buoni “ e “cattivi”. I primi solidali e compatti come gruppo, gli altri vittime di ogni tipo di violenza, fisica e psicologica. Si forgiavano i futuri criminali, senza alcuna possibilità che qualcuno potesse evitare una tale prospettiva, se non pagandone prezzi altissimi. Chi infatti provava a farlo, rompeva equilibri particolari, trasformando spesso tale desiderio in una accentuazione violenta dei suoi comportamenti, diventando “gruppo” contro un altro gruppo, e alla fine vittima di quell’impossibilità di uscire fuori da certi contesti devianti. Violenta era poi la risposta degli educatori e dei sorveglianti, quasi sempre disposti ad usare le maniere forti contro i ragazzi, con l’uso indiscriminato delle celle punitive, che non avevano nulla da invidiare a quelle destinate agli adulti, e che venivano impiegate a fini correzionali. La prigione scuola, i carceri minorili in generale, si caratterizzavano per l’esclusiva funzione repressiva e di contenimento del fenomeno della devianza giovanile, allora molto diffusa, non esercitando nessuna funzione rieducativa. E oggi? Come si svolge la giornata di un piccolo recluso? Sveglia alle otto, apertura delle celle, attività della mattina, chiusura delle celle (12,30-16,00), apertura delle celle, attività del pomeriggio, chiusura delle celle (19,30), tutti i giorni. Circa il 40 per cento dei ragazzi sono tossicodipendenti; la quasi totalità, recidivi. Alcuni finiscono dentro anche 10, 12 volte Sono ragazzi che vestono le scarpe da ginnastica della marginalità e hanno in testa il gel dell’esclusione sociale. Che portano la maglia di un paese lontano, spesso dell’est europeo, in qualche caso maglie di nazionali che non esistono più, e in Italia si trovano senza famiglia e senza amici. Ragazze rom 14enni con i figli al seguito, che dormono dentro passeggini recuperati, unica insegnante la vita. Chi ci entra qua una volta ci rientra di sicuro la seconda, e quando cresce è probabile che finisca in un istituto per maggiorenni. Questo perché in linea di massima ma esi-


Interpretariato e traduzioni stono eccezioni chi arriva in un istituto penale per minori è passato attraverso tutta una serie di misure esterne, come l’affidamento ai servizi sociali o ad associazioni di volontariato, oppure la detenzione domiciliare, senza alcun esito. Sono ragazzi strutturati, recidivi oppure si tratta di stranieri, per i quali il ricorso alla custodia cautelare è più frequente. Senza documenti, senza famiglia, senza casa, senza una rete sociale di riferimento. I detenuti per svolgere le attività della mattina o quelle del pomeriggio, o lo sport, si muovono accompagnati. Dormono in due o tre per cella si cerca di evitare sia il sovraffollamento che l’isolamento. Le attività della mattina iniziano un’ora dopo la sveglia. Prima la pulizia della cella e la colazione. Alle nove gli ospiti vengono radunati a svolgere le attività previste. Le scuole: elementari, medie e Ctp centro territoriale permanente, per chi ha passato l’età dell’obbligo scolastico (18 anni) ma non ha la licenza media il laboratorio di sartoria, di disegno, quello dove si lavora il cuoio. C’è anche una biblioteca, i libri non li prende mai nessuno, però c’è qualche ragazzo che si mette a catalogarli. Alcune attività, come la scuola o il teatro, sono miste, altre no: il laboratorio di sartoria lo fanno le ragazze, quello di falegnameria o il giardinaggio (che si fa la mattina) i maschi. Bigliettini, sguardi, ammiccamenti, lettere (interne: missili d’amore a corta gittata) sono a malapena tollerati. Più oltre non si va nella maniera più assoluta. secondo i responsabili, uno sguardo e una lettera vanno bene, però poi basta. Certo, sono tutti adolescenti, tenergli a bada gli ormoni non è semplice. Per l’ultima festa di fine anno scolastico abbiamo organizzato una piccola discoteca, con ragazzi e ragazze. Si facevano certi sguardi da voler tenere le luci spente. Molti ragazzi arrivano con problemi di dipendenza da Rivotril e da Roipnol. Sono benzodiazepine, psicofarmaci che hanno effetti simili a quelli di robuste quantità di alcool. Sicurezza e calma in pillole, alla portata di scippatori o rapinatori alle prime armi. Piccole età, grandi storie e poco spazio sono gli ingredienti di un mix che i primi giorni, soprattutto, è difficile da mandare giù. Autolesionismo e suicidi sono i segni forti di un malessere che spesso viene da più lontano. Ci sono adolescenti che hanno storie di uso e abuso di sostanze, che soffrono di attacchi di panico o ansia. Molte donne rom hanno attacchi di isteria. Un ragazzo psichiatrico dovrebbe stare in una struttura di cura. Però non ce ne sono, e se ci sono non sempre sono adatte a contenerlo. E allora finiscono dentro.

tecniche scientifiche letterarie commerciali giuridiche

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ITALIANO - RUSSO RUSSO - ITALIANO ITALIANO - UCRAINO Valentina Balliet e-mail: valentinaballiet@alice.it tel / fax +39 0432 791179 cell. +39 3480302464


Attualità

Ecoturismo in Guinea Bissau L

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a Regione Abruzzo è una delle pioniere della cooperazione allo sviluppo tra le regioni italiane. Fu, infatti, tra le prime, nel 1989, a fare una legge per un’organica politica nel settore. Da allora ha consolidato una lunga esperienza in programmi di cooperazione internazionale con molti Paesi bisognosi di sostegno per il loro sviluppo: in Africa (Angola, Burundi, Eritrea, Camerun, Madagascar, Nuova Repubblica del Congo, Senegal, Zambia e Paesi del Mahgreb), in Asia (India, Palestina e Giordania), in America latina (Argentina e Brasile) e in Europa nell’area balcanica (Albania, Bosnia ed Erzgovina, Croazia, Serbia, Montenegro, Macedonia, Bulgaria e Romania). Di certo la Regione Abruzzo in cooperazione è all’avanguardia, ha sempre investito con convinzione nel settore, ritenendo che una vera politica di pace e di fratellanza tra popoli si costruisce più con i fatti che con i bei discorsi. Le va dunque riconosciuto il merito, specie in questo periodo, quand’è osservata per le vicende poco decorose sul piano etico di qualche suo governante. La premessa era necessaria per parlare d’un altro interessante programma di cooperazione dell’Abruzzo, questa volta in Guinea Bissau, avviato giusto un anno fa. EcoGuiné - così si chiama il progetto - è iniziato da ottobre 2007 e si completerà a dicembre 2009. Mira a sviluppare in quel Paese africano le grandi potenzialità ambientali del Parco Nazionale delle Foreste di Cantanhez e la Zona di Conservazione di Dulombi, anzitutto con la formazione del personale locale. Una quarantina, le persone che hanno preso parte alla formazione, interessate direttamente nel progetto: guide ecologiche, membri del comitato di gestione della zona di conservazione di Dulombi ed esponenti delle associazioni di villaggio. Ma anche le comunità di almeno 12 villaggi, situati tra il Parco Nazionale di Cantanhez e la Zona di Conservazione di Dulombi, sono state in qualche modo coinvolte nell’intervento.

di Goffredo Palmieri

Con questo progetto l’Abruzzo ha messo ad investimento in Guinea Bissau la sua cospicua esperienza in campo naturalistico ed ambientale. Definita “regione verde d’Europa”, l’Abruzzo ha oltre un terzo dell’intero territorio regionale protetto, dove sono presenti ben tre parchi nazionali (Parco Nazionale d’Abruzzo-Lazio-Molise, Parco Nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga, Parco della Maiella), il Parco Regionale Velino-Sirente, moltissime oasi ed aree salvaguardate per flora e fauna. Questo è dunque EcoGuiné, programma di cooperazione che oltre alla Regione Abruzzo ha come partner il Parco Nazionale del Gran Sasso, l’Università degli Studi dell’Aquila, laureandi con borse di studio della Regione ed altri cooperanti. Del progetto EcoGuiné è coordinatore Claudio Arbore. Romano di nascita, trentacinquenne, dal 1996 Arbore vive e lavora in Abruzzo, dove da anni è impegnato sul fronte della conservazione e della protezione della natura, attraverso l’educazione ambientale nelle scuole e promuovendo iniziative tese a far conoscere le montagne abruzzesi ed il loro ecosistema, grazie anche alla sua esperienza d’alpinista. Presidente dal 2006 dell’Associazione Interpreti Naturalistici (Ain onlus), ha iniziato la sua attività di cooperante cinque anni fa partecipando, nella veste di consulente e ricercatore in geografia umana, a diversi progetti dell’Unione Europea in Africa, quali Ecopas e Agir. Pur continuando a collaborare in iniziative multilaterali, da due anni è impegnato nella promozione e realizzazione del Progetto EcoGuiné, di cui è il responsabile, nel quadro del programma di cooperazione decentrata della Regione Abruzzo. Altre azioni del progetto hanno invece riguardato l’Abruzzo e i cittadini abruzzesi: un gemellaggio tra la scuola di Calascio - splendido borgo arroccato alle falde del Gran Sasso con una superba Rocca, location di molti film famosi - e quella del villaggio di Dulombi, in Guinea

La Scarnice ���������������������������������� ������������������ ��������������������������������������� ������������������������ �������������������


Attualità Bissau; un video girato sul progetto; infine, una mostra fotografica che merita un’annotazione. Tutte azioni volte a sensibilizzare i cittadini abruzzesi sui valori della solidarietà tra i popoli e dello sviluppo sostenibile, affinché si possano temperare gli effetti negativi della globalizzazione. Il progetto EcoGuiné, si diceva, si concluderà a dicembre del prossimo anno. Per quella data saranno completati la formazione e l’equipaggiamento delle guide ecoturistiche, la realizzazione d’un censimento e d’una cartografia delle risorse naturalistiche, grazie al partenariato di Ong ed associazioni bissauguineane. Diversificare ed integrare le attività economiche, promuovere l’organizzazione e l’associazionismo tra le comunità di base, sono i princìpi fondamentali per

una forma di sviluppo sostenibile originale ed appropriata per quei villaggi. La natura, in Guinea Bissau, è davvero generosa per varietà delle specie animali e vegetali, un vero eden faunistico e botanico. Il Parco Nazionale delle Foreste di Cantanhez e la Zona di Conservazione di Dulombi costituiscono un incomparabile patrimonio ambientale che va protetto, a beneficio non solo del Paese ma dell’umanità intera. E’, però un patrimonio che deve pure diventare un’occasione di sviluppo per le popolazioni locali, affinché ne beneficino in ogni modo, governato da personale locale consapevole e qualificato verso un auspicato turismo mondiale che ami e rispetti la natura. Questo, in fondo, lo scopo principale del progetto EcoGuiné, del quale nelle prossime settimane partirà la seconda fase. Se questo accadrà - e i presupposti ci sono tutti - per l’Abruzzo sarà missione compiuta, un altro buon risultato, un ulteriore tassello nelle politiche operose per la pace e per un nuovo umanesimo.

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Economia

Speciale “la storia delle viti” N

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ell’anno 1823 venne istituita dalla Corte di Vienna una imperial - regia commissione, patrocinata dall’Arciduca Francesco Carlo, responsabile del patrimonio ambientale per apprestare una catalogazione dei vitigni del Regno Lombardo Veneto. Il Conte Pietro di Maniaco, avvocato e cavaliere dell’Ordine equestre della Corona di Ferro, classificò 127 vitigni friulani, ma se ne sarebbero tranquillamente potuti valutare duemila, ma la situazione del conteggio delle viti di allora era un po’ confusa. L’Italia possiede, rispetto al resto del mondo, un inestimabile patrimonio di carattere enologico legate alle numerose varietà di vitigni coltivati dalla notte dei tempi. Il vino e le uve rappresentano la manifestazione di un contesto territoriale e culturale per quanto riguarda il gusto e la tecnica di produzione. Anticamente i vari tipi di vitigni venivano coltivati assieme e assieme vendemmiati. Il vino ha costituito nelle epoche passate un elemento essenziale della dieta quotidiana, esso garantiva una maggiore sicurezza rispetto all’acqua, molto spesso inquinata dagli scarichi fognari a cielo aperto delle città di un tempo. Oltre alle virtù salutari e nutritive, sono da sempre noti i suoi poteri antimicrobici e antivirali dovuti alle componenti polifenoliche e coloranti. Il dottor Pick dimostrò, alla fine dell’ottocento, che il vibrione del colore presente nell’acqua poteva venir reso inoffensivo, addizionando la medesima acqua con un quantitativo pari di vino rosso e lasciandola a contatto per breve tempo. In tutta Italia, un tempo, l’uso del vino era diffuso a livello di tutti i ceti sociali. Il popolo consumava un vino discreto di produzione locale, mentre la nobiltà privilegiava i vini passiti di elevato grado alcolico e quindi di più facile conservazione. I veneziani furono i maggiori fornitori d’Europa dei rinomati vini del Levante, prodotti con le aromatiche uve dell’arcipelago greco appassite al sole. Quando l’impero ottomano aveva posto un limite alla sovranità della Serenissima in quei territori, si iniziò a produrre passiti nei domini di terraferma. Un esempio di questa tendenza e il Friuli Venezia Giulia. Qui si ravvisa nello squisito Picolit prodotto e commercializzato dal conte Fabio Asquini di Magagna, ed ad elevata fama internazionale. Il conte utilizzò una scelta imprenditoriale abbastanza inconsueta per gli appartenenti al suo ceto sociale. I proprietari terrieri, normalmente risiedevano più volentieri in città, trascorrendo in campagna solo alcuni mesi dell’anno per la villeggiatura e delegavano la cura dei campi

di Pierpaolo Acerbi

a gastaldi e fittavoli. Uno scarso sviluppo della rete stradale e una situazione feudale molto complessa avevano contribuito nel Settecento a far sprofondare i domini veneti in uno stato di profondo abbandono e crisi. Venezia aveva cercato una soluzione a questo problema sviluppando in ogni provincia una società che avesse il compito di potenziare lo studio e lo sviluppo dell’agricoltura. Grazie a questo, Asquini e altri conti (Zanon e Otellio) fondarono a Udine nel 1762, la Società di Agricoltura Pratica, seconda in Italia dopo l’Accademia dei Georgofili a Firenze. Una delle principali finalità di questa iniziativa, fu quella di incoraggiare gli agricoltori a coltivare vitigni di pregio, anche francesi, adatti a fornire un prodotto altamente competitivo. Ad esempio Lodovico Bertoli nella sua tenuta produceva il “pineau” di Borgogna. L’Accademia dei Georgofili sorse a Firenze nel 1753 per volontà del Gran Duca Pietro Leopoldo, che aveva visto nell’agricoltura una delle risorse principali dello Stato della Toscana. Piuttosto refrattario agli ordini di Vienna, aveva idee per la maggior parte di ispirazione italiana. Conduceva con il fratello, l’Imperatore Giuseppe II°, l’interesse per le scienze naturali ereditato dal padre, Francesco Stefano di Lorena. Questo interesse di Pietro Leopoldo, passò successivamente al figlio Ranieri, Vicerè del Lombardo - Veneto e nel nipote Francesco Carlo, che facevano capo alla commissione responsabi-


Economia le del Patrimonio ambientale. Nel 1823 fu pubblicato per la prima volta il “Tentativo di una Classificazione delle viti” inserito nel quaderno della Biblioteca Italiana, diretta da Giuseppe Acerbi, altro avvocato e cavaliere della Corona di Ferro. Al “Tentativo” era seguita nel 1825 la pubblicazione “Delle Viti Italiane o sia materiali per servire alla classificazione, monografica e sinonimia” stampata a Milano dall’editore Giovanni Silvestri. Questo volume nato per risolvere il problema della diversità delle varie viti, elencava e descriveva le caratteristiche di ben 1522 vitigni diversi che l’autore aveva potute raccogliere e piantare nell’orto della sua tenuta denominata “La Palazzina” di Castelgoffredo in provincia di Mantova. Ben ventisei di questi vitigni provenivano dalla provincia di Udine, forniti dal Conte Cinzio Frangipane. L’Acerbi, fu una personalità culturale di alto rilievo a livello italiano ed europeo, oltre che grandissimo naturalista. Dirigendo la Biblioteca Italiana dal 1816 al 1826, contribuì in maniera rilevante alla diffusione delle conoscenze agronomico - scientifiche e naturalistiche, avvalendosi della collaborazione dei maggiori studiosi del tempo, in particolare di botanici. La Francia che in quel periodo aveva molto influenzato la cultura italiana in campo scientifico, dal punto di vista della catalogazione grafica dei vitigni si trovava nello

stesso stato di confusione in cui giaceva l’Italia. Quando Jean Atonie Chaptal (chimico francese che scoprì la possibilità di aumentare il grado alcolico del vino, con l’aggiunta dello zucchero nel mosto durante la fermentazione) divenne ministro degli Interni in Francia fece allestire una importante mostra in cui vennero raffigurate tutte le più importanti zone di produzione dei vini. La direzione dei lavori fu data al botanico Louis Augustin Bosc, egli redasse 450 catalogazioni viticole. La classificazione viticola aveva un diretto riflesso sulla catastazione e relativa imposizione fiscale, tema di notevole importanza per l’epoca napoleonica. Il miglioramento della rete stradale, realizzato per esigenze militari, aveva facilitato la fornitura sul mercato di una maggiore varietà di vini ai consumatori. Tra il gennaio e il febbraio 1709 venne perduta la maggior parte degli europei, facendo crescere vertiginosamente il prezzo del vino negli anni successivi. Per far rinascere il commercio del vino era necessario piantare viti più resistenti e migliorare le tecniche di produzione mantenimento dei vini. Questi erano grandemente richiesti nella capitale francese, sempre più urbanizzata e alla corte di Versilles. Ne era seguito, da parte dei produttori, un notevole incremento di investimenti economici per piantare nuove viti e per garantire la provenienza del prodotto, questi fattori avevano fatto incrementare il valore dei terreni vitati e di dare inizio così all’epoca in cui si cominciò a ritenere il vino un prodotto degno di promozione a livello cosmopolita. Gli effetti del Rinascimento italiano si erano fatti sentire in Europa fino a tutto il diciassettesimo secolo. Con l’affermazione delle Signorie in Italia, Firenze che si pose a capo del movimento umanistico, fu la prima città italiana a coltivare gli studi ellenistici, promossi e incoraggiati da Cosimo I° de Medici. In coincidenza con l’inizio di un fortunato momento economico - sociale, si può assistere al progressivo abbandono dei castelli fortificati e alla rinascita delle ville suburbane, sulle pendici che costeggiano l’Arno, legate alla memoria dell’antica tradizione romana. Assieme alle ville nacquero i giardini rinascimentali, nei quali si ricostruì un rapporto fra l’uomo e l’ambiente circostante. A Careggi sorse una stupenda villa medicea, nella quale gli accademici della famosa Accademia Filosofica Neoplatonica, si riunivano assieme a Lorenzo il Magnifico. Essi potevano visitare il sontuoso giardino botanico della dimora, ricco di piante e fiori. L’amore per le scienze naturali permise in questa epoca l’allestimento delle collezioni per lo studio di animali e vegetali. Ancora oggi certi giardini sono caratterizzati da spazi dove meli, peri e viti sono coltivati secondo la tradizione degli antichi romani.

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Economia La ville suburbane a Roma, venivano definite anche vigne o orti per la gran varietà di specie d’uva differenti che venivano coltivate. Fra l’Umanesimo e il Rinascimento, furono gettate le basi ideali per la realizzazione degli orti botanici, che sorsero in Italia fra il 1543 e il 1545 rispettivamente a Pisa, Padova e Firenze, come giardini di semplice pertinenza universitaria. L’influsso rinascimentale toscano era giunto in Francia sul finire del quindicesimo secolo con l’invasione d’Italia del re Carlo VIII ° che aveva portato con sé al suo rientro in Francia molti architetti, artigiani e giardinieri. Anche Francesco I ° , dopo la morte del Da Vinci, fece giungere a Parigi ancora un gran numero di maestri italiani che introdussero la loro arte nel territorio. Tra il 1593 e il 1626 sorsero anche a Montpellier e Parigi, gli orti botanici. Per magnificare la propria potenza, il Re Sole aveva ordinato la costruzione della meravigliosa reggia di Versailles, circondata da immensi parchi ricchi di ogni essenza arborea e vegetale. Successivamente l’esempio di Luigi XIV ° fu seguito anche da tutti i regnanti d’Europa. Negli anni successivi al 1785, la vi-

ticoltura di tutta la penisola italiana versava in uno stato di profonda arretratezza. In particolare nelle zone in cui la ricerca non era stata applicata, come in Piemonte e alcune zone padane e toscane. Il pensiero romantico ed il collezionismo botanico inseguivano l’obiettivo di rappresentare le varie specie del mondo. Collezionismo di enciclopedico intento e desiderio di appagare il concetto di pubblica utilità, mossero il mantovano Acerbi a realizzare qualcosa di veramente moderno, rivolgendo tutta la sua attenzione a quella che noi definiremo “biodiversità”. “Lo scopo della presente compilazione” scriveva nel 1825 , “è di unire tutti i materiali che un giorno potranno servire a chi vorrà occuparsi un giorno della classificazione e sinonimia delle viti italiane”. I dotti, ci insegna Cicerone, non solamente quando sono vivi rendono a loro volta dotti coloro che amano gli studi del proprio tempo, ma lo fanno anche post mortem, con l’eredità culturale che sono capaci di trasmettere. Un pensiero antico che ci permette di riflettere sull’importanza del passato e di chi ci permette di fruire delle conoscenze che oggi abbiamo, conoscenze attuali e di pubblica utilità.

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di Fabrizio De Paulis

27%

11%

L

e imprese che tengono conto degli impatti sociali ed ambientali pro37% dotti dalla propria attività, apportano un valore addizionale ai loro servizi o prodotti, che può riscontrare interesse da parte delle pubbliche amministrazioni, oltre che dai consumatori più sensibili a queste tematiche di interesse collettivo. Nello specifico, nel perseguire il proprio ruolo di gestione del territorio, per le pubbliche amministrazioni locali, la responsabilità sociale d’impresa può rappresentare un contributo al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile del territorio. A tale proposito, al fine di incentivare le pratiche di responsabilità sociale nonché di promuovere tali iniziative a livello sistemico, è necessario che le imprese si confrontino senza dover scontare, per quelle che le applicano, eventuali oneri aggiuntivi necessari alla loro attuazione. L’Italia sembra essere all’avanguardia per buone prassi, basti citare ad esempio l’alto numero di aziende certificate SA 8000 (cosiddetta certificazione etica) rispetto alla percentuale di aziende certificate in altri paesi, ma, soprattutto, progetti quali il CSR (corporate social responsibility) promosso dalle istituzioni (Protocollo d’intesa con il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e Unioncamere). Tutti questi concetti ruotano intorno ad una logica, secondo la quale, per valutare le prestazioni globali di un’impresa, occorre fare riferimento non solo agli aspetti economici, ma anche a quelli di sostenibilità ambientale e sociale. Gli esiti di una ricerca condotta osservando un campione di alcune amministrazioni locali, hanno evidenziato alcuni aspetti. Anche se in molti casi, le Amministrazioni intraprendono iniziative di tipo episodico, soprattutto a fini di marketing territoriale, ovvero non inserite in una visione sistemica e di lungo periodo, questo non svaluta le azioni intraprese e le motivazioni volte alla valorizzazione di queste tematiche. Questo può trovare anche spiegazione in considerazione della difficoltà nel riconoscere gli impegni costanti dei soggetti economici in questo senso, se non, ad esempio, attraverso strumenti quali certificazioni (es. EMAS - ambientale - SA8000 - etico/sociale - ), codici etici o rendicontazione sociale, che permettono una verifica “immediata”. Tra gli strumenti adottabili dalla pubblica amministrazione finalizzati alla promozione della responsabilità di impresa, uno tra i più tradizionali prevede forme di incentivi o sgravi fiscali. Questo strumento si concretizza da un lato in una concreta percezione dei vantaggi da parte di chi adotta tali comportamenti (anche se, in questo caso, percepiti dal pubblico finale più dettati dal beneficio dello sgravio fiscale piuttosto che realmente motivati da una “sensibilità” reale dell’impresa), dall’altro all’amministrazione non sono richieste grandi modifiche a livello di comportamenti. Una diversa strategia preve25%

de la valorizzazione delle imprese responsabili attraverso forme di promozione culturale (es. fiere, oppure l’assegnazione di premi), dando così visibilità alle imprese responsabili, anche se eventi di questo tipo rientrano tra le iniziative di tipo episodico citati in precedenza. L’adozione di una visione e di una azione finalizzata strategicamente allo sviluppo del territorio può esser favorita da partnership privato-pubbliche, seguendo diverse possibilità che possono riguardare protocolli d’intesa, accordi di programma, come pure dalla pianificazione del territorio definendo un insieme di obiettivi e priorità comuni. In conclusione, tra gli obiettivi del soggetto pubblico, vi sono il governo e la gestione, a livello di sistema, delle esternalità (ovvero il prodotto dell’agire di un attore economico che ne influenza l’azione di altro soggetto senza essere mediato dal sistema dei prezzi: una esternalità tipica è l’inquinamento) prodotte dalle imprese (e non solo), come pure incentivare la produzione da parte di queste di beni/servizi pubblici o quantomeno che non ledano interessi generali o collettivi, (oppure dare impulso ai soggetti economici ad offrire risorse per l’attuazione di politiche sociali, attraverso fondazioni, associazioni); al contempo, ciò valorizza quindi un ulteriore (e tipicamente post industriale) valore aggiunto offerto dalle imprese.

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Economia

Tra impresa e pubblica amministrazione

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Economia

Il made in Italy sbanca solo se tutelato È

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il grido allo Stato italiano del titolare del miglior ristorante italiano in Olanda. In quest’intervista andiamo a scoprire come, nella modernissima Rotterdam, cucina e cultura italiane piacciono servite senza scandali. Città giovane situata nella provincia dell’Olanda meridionale, particolarmente fiorente dal punto di vista culturale, seconda per popolazione solo ad Amsterdam. Sarà anche grazie al porto più grande d’Europa e il settimo del mondo, fatto sta che Rotterdam risulta una città vivibilissima e multiculturale. Il suo nome deriva da quello di una diga (dam) su un piccolo fiume, il Rotte. Attualmente la città vive quasi una rinascita, con progetti di rinnovamento urbano che presentano un’architettura ambiziosa (‘Manhattan sul Maas’), una vita notturna sempre più scintillante. L’estate risulta piena di eventi: dal “Carnevale estivo” ispirato ai Caraibi, alla “Dance Parade”, dal festival pop Metropolis alle giornate del “Porto del Mondo”. Ma ci sono anche il Festival cinematografico internazionale a gennaio e il Festival internazionale di poesia a giugno. La visita al porto di Rotterdam è ovviamente fondamentale per capire l’anima di questa città. 37km di estensione in cui gru spostano milioni di container, mentre migliaia di navi si muovono tra acque marine e fluviali. Escursioni in battello portano nella zona del delta, dove l’ingegneria idraulica olandese ha realizzato lo Stormvloedkering, una barriera antitempesta. Agli appassionati di architettura contemporanea è sufficiente aggirarsi a piedi per ammirare le case cubiche e la piramidale biblioteca pubblica di Pete Blom, vera rottura con gli schemi razionalisti e sfida alla gravità. Rotterdam, altolocata e ricercata, sembra una città più americana che europea, in quanto la modernità sembra spazzare il suo lungo passato (qui passò la sua infanzia Erasmo da Rotterdam, l’uomo dell’Elogio della follia). Forse pochi sanno che è gemellata con Torino, mentre molti conosceranno il Brancatelli Restaurant, il migliore ristorante italiano d’Olanda e vincitore del Cuoco d’oro Internazionale 2007 dalle mani del Presidente Napolitano. Gestito dal sig. Renato De Virgilis, riesce a portare con successo il made in Italy nell’Olanda intera (ha avuto anche

intervista a cura di Simone Di Biasio molti clienti illustri, da Pavarotti a Bocelli, ma anche Eros Ramazzotti e Tom Jones), anche se non nasconde assolutamente le difficoltà dovute agli echi di mondezza e scandali politico-sportivi. In questa intervista cercheremo di capire meglio in che modo il sig. De Virgilis è arrivato a Rotterdam, ma soprattutto cosa si fa oggi per proteggere il marchio italiano. Anche lì. Sig. De Virgilis, lei possiede tre ristoranti in Olanda: perché nessuno in Italia? Semplicemente perchè voglio esportare la nostra cultura all’estero, far conoscere il marchio italiano, quello originale. Perché in Olanda? Lo ritengo un paese molto organizzato e garantisce sicurezza anche a livello politico. E prima di arrivare a Rotterdam quali sono state le sue esperienze? Ho iniziato come pizzaiolo in vari ristoranti italiani in Germania, fino a diventare chef di grandi catene alberghiere. Ho fatto anche la bellissima esperienza da marinaio a bordo del pregiato transatlantico Queen Elizbeth II come chef de partie. Ora si trova bene nel “paese dei mulini”? Assolutamente sì, nel “paese dei mulini” mi trovo bene, anche se mi manca tanto la mia terra. Ma al contempo sono orgoglioso di svolgere il ruolo di una sorta di ambasciatore italiano all’estero. Dove le piacerebbe aprire un nuovo ristorante e dove invece non andrebbe mai? Beh, io credo di fare abbastanza qui in Olanda e ho fiducia nei miei colleghi ristoratori nel resto del mondo. Sicuramente non andrei mai in un paese dove non c’e una stabilità di stato. Ai vostri clienti offrite esclusivamente piatti italiani? Qual è la specialità che chiedono tutti (compresi i Vip)? Certo, i nostri clienti chiedono esclusivamente piatti italiani preparati con prodotti italiani. La specialità che assaggiano tutti? Capesante alla sambuca, vitello tonnato, carpaccio di polpo al finocchio. Anche i vini sono rigorosamente bianchi, rossi e...verdi? Quali privilegiate? In genere tutti i vini italiani sono molto graditi. Scegliamo soprattutto Amarone, Barolo, Valpolicella, Sassigaia, Tignanello. In Olanda come si trovano i turisti italiani? Devo dire che l’Olanda non è un paese prettamente turistico, però internazionale sì. E Rotterdam in particolare per il porto più grande d’Europa in cui confluisce gente d’ogni parte. Lei ha scritto una lettera firmata a Bartolo Ciccardini, Presidente di Ciao Italia, l’Associazione dei ristoranti italiani all’estero. Per quale motivo? Sì, ho scritto la lettera al Presidente Ciccardini per comunicargli la visione negativa che hanno creato all’estero i politici italiani dell’Italia stessa. Quindi ci hanno reso


Economia ancora più difficile la battaglia che stiamo combattendo noi dell’Associazione Ciao Italia. Che tipo di danni all’immagine ha subito? Insomma com’è vista l’Italia in Olanda? Negli ultimi 2 anni ci “hanno fatti neri”, nel senso che hanno comunicato molto le parti negative del nostro paese tipo la spazzatura, gli scandali politici, gli scandali del pallone e molto altro. Tutto questo ci ha creato un’immagine sicuramente negativa che, secondo me, ha influito sul calo del nostro lavoro del 30%.

Che cosa vorrebbe si facesse per il made in Italy? Semplicemente valorizzare i nostri prodotti mantenendo la nostra cultura. E, ovviamente, è soprattutto lo stato che deve intervenire per proteggere il made in Italy. Ora che le elezioni politiche hanno dato il loro responso, riscriverebbe ancora quella lettera o è fiducioso che qualcosa cambi? Comunque io continuerò a lottare per il mio paese fino a che non vedrò dei risultati, ma sono fiducioso e credo che qualcosa cambierà. Un’ultima domanda: qual è il segreto del suo successo? Sono del parere che per arrivare a qualcosa bisogna avere fiducia, lavorare tanto (naturalmente!) e fare solo quello che riesce davvero bene.

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Economia

Progetto CINDA: apertura allo sviluppo per i distretti appulo lucani I

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l progetto CINDA (Cooperazione interregionale tra i Distretti Agroalimentari di qualità di Puglia e Basilicata) nasce per realizzare un unico polo di sviluppo tra i distretti di Puglia e Basilicata, con l’obiettivo di rispondere alle istanze territoriali e aumentare la competitività nel mercato. Il progetto coinvolge il GAL Sviluppo Vulture Alto Bradano e il GAL Akiris in Basilicata, e cinque GAL pugliesi (GAL Alto Salento, GAL Luoghi del Mito, GAL Terre del Primitivo, GAL Piana del Tavoliere e GAL Dauno Ofantino). A margine del progetto è stato realizzato un convegno conclusivo presso la Sala Economia della Camera del Commercio di Potenza, nella quale oltre ad illustrare le linee guida del progetto e le possibilità di attuazione, sono state premiate anche cinque tesi di laurea inerenti allo sviluppo del territorio del Gal Vulture Alto Bradano (gal promotore e capofila del progetto). I ragazzi premiati sono stati: Rocco Sodo del Comune di San Chirico Nuovo con la tesi ‘Networking tra i distretti di qualità appulo-lucani per la messa a punto e adattamento dei piani distrettuali’; Rosanna Paolino del Comune di Muro Lucano con la tesi ‘L’allevamento dell’Asino, una possibile alternativa’; Antonietta Mazzoccoli del Comune di Genzano di Lucania con la tesi ‘Trasformazioni territoriali, insediamenti e architetture rurali della riforma fondiaria nel mezzogiorno, gli interventi a Genzano di Lucania, Vincenzo Tauriello del Comune di San Fele con la tesi ‘Analisi tipologica e proposte di Gestione dei rimboschimenti nel comune di San fele con l’ausilio del programma informatico Sds’; Francesco Lanotte del comune di Bisceglie con la tesi ‘Un modello di sistema socio economico territoriale per la rappresentazione delle prestazioni di un sistema locale, il caso del Vulture Alto Bradano. La giornata è stata aperta da un intervento del

di Rocco Sodo

Presidente del Gal del Vulture Franco Perillo, che ha illustrato i punti chiave sui quali bisogna lavorare per creare questa ‘nuova’competitività. La bomba della giornata ancora non era stata lanciata...a questo ci ha pensato Francesco Contò, docente del Dipartimento economico per la gestione del territorio agricolo e forestale all’Università degli Studi della Basilicata. L’intervento del docente è stato molto costruttivo in termini di progettualità, in quanto ha illustrato chiaramente e con grande sagacia tutti i particolari riguardanti l’attuazione del programma. Ma nello stesso tempo Francesco Contò ha polemizzato anche con le istituzioni come la Regione che all’invito ricevuto a presenziare al convegno, hanno risposto con un due di picche. Sicuramente il Convegno non ha avuto l’impatto che il Presidente voleva dargli, in quanto era stato organizzato per presentare i punti d’intervento sviluppati proprio agli ‘uomini di potere’, che invece hanno deciso di non presenziare per motivi vari. Il prof. Contò non ha risparmiato attacchi vari nel suo intervento, con parole sarcastiche e sottili che tutti i presenti in sala hanno potuto intendere. D’altronde se mancano le istituzioni come si può realizzare un programma? Chi può finanziare un programma di sviluppo del nostro territorio, se non le istituzioni che lo governano? Le risposte vengono da sole quando ti trovi in una sala in cui i posti ‘ d’onore’ sono vuoti. L’ironia fa da cornice anche nell’intervento del Presidente della Camera di Commercio di Potenza, Pasquale Lamorte, che sottolinea il bisogno di un azione in cui siano coinvolte tutte le istituzioni locali per dar concretezza alle linee guida tracciate nei mesi di lavoro. Per il momento si parla solamente di ‘antipasto’ o di ‘aperitivo’, mentre il ‘piatto forte’ arriverà solamente con la nuova Programmazione 2007-2013. Ma partendo dall’aperitivo, come si farà ad arrivare ad un risultato concreto senza l’intervento delle istituzioni? Sicuri che il progetto CINDA non sia destinato alla stessa fine ‘tragica’ fatta dal comune di Uta in Sardegna, dove il tutto è fallito proprio per la mancanza di finanziamenti da parte delle istituzioni locali? Ci si augura di no...ma le istituzioni devono svegliarsi dal ‘letargo’ e cercare di essere partecipanti attivi in questi convegni, anche per dare un segnale forte a tutte quelle imprese che decidono di chiudere per i problemi strutturali del territorio e a tutti quei giovani che rinunciano ad investire perché non vedono una minima possibilità di sviluppo.


Enogastronomia

Il sapore dell’aglianico

di Giusi Lamorte

I

l castello federiciano ha aperto le porte alla decima edizione di Aglianica Wine Festival dal 5 al 7 settembre. La manifestazione è stata realizzata da Aglianica Associazione Culturale con il contributo dell’Amministrazione Comunale di Melfi, del Dipartimento Agricoltura e del Dipartimento Attività Produttive della Regione Basilicata. La realizzazione dell’evento è stata resa possibile anche grazie alla collaborazione di importanti associazioni di settore: Enoteca Italiana, Go Wine, Ais, Associazione Nazionale Città del Vino, Movimento Turismo del Vino e Slow Food. Gli organizzatori, per salutare con favore il decennale della manifestazione, hanno offerto all’uscita ad ogni coppia di visitatori una bottiglia di Aglianico del Vulture doc con un contributo di soli due euro. Padrone indiscutibile è appunto l’Aglianico del Vulture, che quest’anno ha ospitato per la prima volta il Veneto con ben quaranta etichette, quasi tutte provenienti dalla Valpolicella, zona a nord della provincia di Verona nota per la sua produzione viticola. Come ormai consuetudine anche in questa edizione l’enoteca dei vini ha concesso spazio anche a stand espositivi di prodotti tipici lucani, un ulteriore modo questo per conoscere la nostra regione. Accanto alla degustazione dei vini sono

stati protagonisti anche i laboratori di degustazione di formaggi, salumi e dolci tipici. Complice dell’atmosfera anche Andy Luotto, il quale nella serata conclusiva ha illustrato la preparazione e l’allegra presentazione dei piatti tipici all’interno di uno “spettacolo gastronomico”, al quale hanno preso parte cento visitatori. Il programma della decima edizione di Aglianica è stato ricco di appuntamenti non solo enogastronomici ma anche culturali, musicali, teatrali, molti dei quali animati da Fede e Tinto, conduttori del programma radiofonico di Rai Radio Due “Decanter l’enogastronomia dell’etere”. Il magnifico scenario del castello di Melfi ha ospitato nel corso delle tre giornate anche convegni a tema, mostre, animazioni e spettacoli vari, tra cui ricordiamo l’arte contemporanea di Giuseppe Antonello Leone, il teatro d’immagine della Compagnia dei Folli le note della pizzica salentina interpretata dal gruppo Ariacorte. Non poteva mancare uno spazio dedicato all’editoria con testi che analizzano la Basilicata in tutti i suoi aspetti più caratteristici. Presente anche l’Associazione Ps2mania con gli artisti della sezione Arte, che hanno dato vita ad una collettiva di Pittura e con l’artigiana Piglia Giustina con le sue opere lavorate con maiolica sulla città di Melfi. Oltre ad uno stand dove è stato consegnato materiale cartaceo pubblicitario del Ministero dell’Interno che illustrava le principali fonti di pericolo per un automobilista e iniziative intraprese dalla Caritas diocesana di Melfi. Insomma un insieme di ingredienti, sapientemente amalgamati, che in dieci anni hanno portato l’Aglianico ai vertici dell’enoturismo regionale, presentandosi di anno in anno sempre più come un itinerario suggestivo e “gustoso” alla scoperta delle bellezze e dei sapori della nostra Basilicata. Infatti il numero dei turisti è aumentato notevolmente nel corso delle varie edizioni, coinvolgendo sempre più gruppi delle regioni limitrofe. Arrivederci alla prossima edizione!

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Enogastronomia

Lipari, natura e imprenditorialità A

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ntonio Bernardi oggi è il Presidente dell’omonimo gruppo di alberghi e ristoranti a Lipari, la “capitale” delle isole Eolie del cui comune fanno parte anche Stromboli, Panarea, Vulcano, Filicudi e Alicudi. Lipari è contemporaneamente comune dell’omonima isola e altro nome dell’arcipelago Eolie, il che sottolinea il suo essere perla. È sull’isola di Lipari che si concentrano storia e meraviglie della natura. Abitata sin dal 3000 a.C., quando aveva nome di “Meligunis”, ovvero “dolce”, l’isola è stata, infatti, modellata da ben dodici vulcani e ciò è evidente nella Valle Muria, dalle rocce rosse, e nella costa nord-orientale, coperta da una vasta colata di pomice. Per la storia comunque basta entrare in una delle ben 27 sale del museo Archeologico di Lipari: qui si potrà scoprire l’isola dal Neolitico all’età greco-romana, fino al Medioevo (quando fu abbandonata alle scorrerie dei “barbari”) e all’età Moderna. Particolarmente ricca è anche l’ultima sala, quella dedicata all’archeologia sottomarina, “grazie” ad un mare particolarmente insidioso fin dall’antichità anche per i marinai più esperti. Il centro di Lipari è arroccato al suo castello, punto focale del centro storico in cui spicca anche l’antico Palazzo dei Vescovi adiacente, la Cattedrale. Lipari è oggi patrimonio dell’umanità. E ora che il Bernardi Group ha il suo spazio sull’Arca di Noè, abbiamo deciso di farci rilasciare un’intervista dal suo Presidente per scoprire meglio l’imprenditorialità di famiglia e, naturalmente, Lipari. In fondo il nostro è un giornale di Economia, Turismo, Cultura e Amicizia. E qui c’è tutto. Economia italiana, Turismo di qualità, Cultura gastronomica e non solo, Amicizia sbocciata sul web. Gentile Presidente del Bernardi Group, innanzitutto quando e perché avete deciso di avere un vostro spazio sull’Arca di Noè? Quasi per caso su internet abbiamo analizzato il tipo di rivista e poiché è un giornale che tratta una miriade di argomenti della società moderna abbiamo deciso subito di aderire. Andiamo alla vostra storia: quando nasce il vostro gruppo e dall’idea di chi? La storia del gruppo nasce nel lontano 1910 con il fondatore Filippo Bernardi con una osteria con mescita di vino e cucina. Come mai dalle Marche a Lipari? Il fondatore Filippo Bernardi, nel lontano 1910, dalla natia San Ginesio in provincia di Macerata, si

intervista e cura di Simone Di Biasio

trasferì a Lipari con il suo veliero e qui impiantò una osteria con cucina per i pochi avventori del tempo. Durante il fascismo ha avuto anche “ illustri” ospiti quali i fratelli Rosselli, Edda Ciano e tanti altri. Quali sono gli obiettivi che ancora oggi vi prefiggete? Fare dell’isola un fiore all’occhiello per un turismo di qualità. Tradizione o innovazione? Tradizione di prodotti di qualità. Su quali prodotti puntate in particolare? Solo ed esclusivamente su prodotti locali e, naturalmente, in particolare su pesce del giorno. Qual è il vostro fiore all’occhiello? Il fiore all’occhiello è il Ristorante Filippino dal lontano 1910 e l’Hotel Tritone, 5 stelle con il suo Centro Benessere. Qual è il “piatto forte” del ristorante Filippino? Beh, se parliamo di piatti da gustare, senza dubbio le treccine orchidee delle Eolie. Ovviamente è pasta fresca fatta in casa con capperi, cucunci, pinoli, mandorle, mentuccia, basilico, pomodorino e, dulcis in fundo, caciocavallo Ragusano. Che cos’è che unisce e allo stesso tempo distingue i vostri vari alberghi e ristoranti? La gestione di ogni singola attività diretta personalmente dalla famiglia Bernardi con la presenza fisica e costante, la qualità dei servizi, una cucina genuina, fatta solo di prodotti locali dal pescato giornaliero delle nostre barche. Che cosa offrono le isole Eolie ad un turista? Senza dubbio i paesaggi e la tranquillità. E poi le Eolie offrono storia, cultura, mare, sole, gastronomia e massimo conforto alberghiero. Qual è il vostro turista tipo? Medio alto. Di solito si ferma minimo 3 giorni e massimo 3 settimane, fa escursioni giornaliere sulle altre isole, visita il Museo Archeologico (che dal Neolitico in poi è il secondo museo d’Europa), e poi la sera fa una luculliana cena al Ristorante Filippino tutto a base di pesce. Ma anche lo stesso turista giornaliero va ripagato con una vacanza rilassante e l’italiano in genere ha questa tendenza. Insomma altro che crisi: il turista italiano sceglie in primis l’Italia... Certo l’Italia e le Isole Eolie hanno delle attrattive che non si trovano assolutamente in altri posti.


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L I P A R I I S O L E

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E O L I E


Enogastronomia

L’oro dimenticato

intervista a cura di Simone Di Biasio

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ntervista a Leila Segoni di “Borgo Roncaglia”, villaggio collegato all’azienda Monterosso,

la prima in Italia nella coltivazione e produzione del farro, e all’unica farroteca aperta per gustare unicamente piatti che rischiano l’estinzione.

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Citato da Columella, riportato nella Bibbia. Non è un eroe, né un santo. Ma un (ex) protagonista della cucina mediterranea che, se non tutelato e promosso, rischia di andare in estinzione. Il farro, primo cereale coltivato sin dal 5000 a.C. in Palestina, era diventato presto un cibo prezioso: addirittura presso i Romani costituiva la paga dei legionari, che lo assaporavano sottoforma di puls (una specie di polenta) e di libum (focaccia). Probabilmente già allora avevano compreso le sue qualità energetiche. Ma con l’avvento dell’agricoltura produttiva sul farro cala il sipario. Che però fortunatamente (per noi consumatori) torna a svelarsi con i nuovi orientamenti della politica agricola europea, volta alla ricerca di produzioni alternative, soprattutto nelle aree interne e un rinnovato interesse alimentare. Insomma il farro sembra tornato di moda. Una delle aree tradizionali di produzione sono le Marche, dove il cereale dorato è riconosciuto dalla Regione come prodotto tradizionale. Ed è qui, a San Lorenzo in campo, piccolissimo comune in provincia di Pesaro Urbino, con uno splendido monastero dei benedettini, che si inserisce “Borgo Roncaglia”. Luogo ideale dove trascorrere “una vacanza rigenerante per il corpo e lo spirito”, “Borgo Roncaglia”. Luogo ideale dove trascorrere “una vacanza rigenerante per il corpo e lo spirito”, “Borgo Roncaglia” ospita al suo interno l’unica farroteca italiana aperta dall’Azienda Monterosso, leader nella produzione di questo antico cereale per esperienza plurigenerazionale. Grazie alla sperimentazione sul farro effettuata con il Cermis (Centro Ricerche e sperimentazione per il miglioramento vegetale) di Macerata, è arrivata al “Monterosso Select”, pregiata varietà di “Triticum dicoccum”, farro medio o vero, il “padre” del grano duro. Questa azienda cura direttamente tutte le fasi della produzione, dalla selezione del seme fino alla commercializzazione della pasta di farro e degli altri prodotti (acquistabili). La Monterosso srl ha ricevuto lo scorso febbraio, alla 38° Mostra Internazionale dell’Alimentazione di Rimini, una targa quale fornitore vincitrice dell’8° Campionato Mondiale di pizza alta qualità con farine alternative. Abbiamo chiesto allora a Leila Segoni, che gestisce il tutto (insieme alla madre), di spiegarci questo successo e questa

unicità di Borgo Roncaglia e Monterosso. Ps: Per un’alimentazione sana ed equilibrata, la pasta di farro possiede un contenuto di fibra 10 volte superiore alla comune pasta di semola di grano duro e fornisce un ampio apporto di calcio: ma il contenuto calorico globale non varia. Mangiare per credere... Quando nasce il “progetto” Borgo Roncaglia e dall’idea di chi? Il progetto Borgo Roncaglia nasce nel 2003 dall’idea della proprietaria la signora Lea Luzzi. Lo scopo era quello di ristrutturare nel rispetto della tradizione e dell’ambiente un aglomerato di antiche case coloniche e farne un villaggio turistico, come attività ricettiva rurale. Parliamo dell’Azienda Agricola Monterosso. È vero che detiene l’unica Farroteca in Italia(da specificare: la farroteca è nel vostro villaggio)?? Che tipo di locale è? È vero, la farroteca è la prima e unica in Italia il cui marchio è registrato. Si tratta di un piccolo locale rustico e raffinato, (distante circa 1 km dal villaggio Borgo Roncaglia) in cui è possibile degustare tutti piatti a base di farro: dall’antipasto al dolce, piatti realizzati rigorosamente a mano. Aperto tutti i giorni con un giorno di prenotazione chiusura il lunedì. Farroteca Monterosso Via Costantinopoli, 9 - 61047 San Lorenzo in Campo (PU) Tel. 0721-776511 Cell.335-5846486 La specialità della casa? Ce ne sono diverse: zuppe di farro perlato, farrotto, patè con farro spezzato, pane, dolci e pizze realizzate con farina di farro, tagliatelle orecchiette, polenta e naturalmente pennette, spaghetti, riccioli e conchigliette di produzione dell’Azienda. Nel 2008 riuscite ancora a conservare la macinazione a pietra? Insomma, totale rispetto dell’ambiente... Non solo nel 2008, ma anche negli anni a seguire la Monterosso continuerà a conservare la lavorazione del farro e della farina con il tradizionale metodo della macina a pietra. Ci descriva le proprietà del farro. È ricco di calcio, vitamine, isoflavoni, non ha grassi, è adatto per chi soffre di intolleranze alimentari, ha un’alta percentuale di fibra, è altamente digeribile (infatti anche chi pratica sport a livello agonistico un’ora prima di una


Enogastronomia gara può mangiarlo). Inoltre è un regolatore gastrointestinale e possiede un basso contenuto di glutine. Purtroppo oggi il farro non è molto conosciuto, perchè per la bassissima resa è poco coltivato. Nel 2003 la titolare della già citata Azienda ha vinto il titolo di “Regina del Farro” assegnatole da una giornalista del Venerdì di Repubblica. Di quali altri riconoscimenti vi fregiate? I riconoscimenti che ha ottenuto la Monterosso sono molti: il premio “Portonovo”, quello “Apifarfalle” rilasciato dalla provincia di Pesaro, il premio “Farro delle Marche” rilasciato dalla provincia di Ancona, il premio “Squisito” rilasciato dalla comunità di San Patrignano, premio “Nip” per la miglior pizza realizzata con la farina di farro Monterosso e la “Bandiera Verde” per la qualità della produzione dell’azienda. Nel 2004 avete preso parte alla Convention promossa dalla National Italian American Foundation come una delle venti migliori aziende italiane del settore. In che modo tenete alto nel mondo il made in Italy? Il riconoscimento ottenuto nel 2004 è stato il risultato del lavoro svolto negli anni dall’Azienda nel rispetto della tradizione e nella cura della qualità del prodotto. L’ob-

biettivo principale dell’Azienda è di offrire un prodotto biologico utilizzando alti standard qualitativi sposando la cultura del passato con l’innovazione tecnologica. Gli eventi a cui abbiamo partecipato e continueremo a partecipare sono: fiere e manifestazioni, (abbiamo ottenuto la Bandiera Verde 2008); comunicazione sulla carta stampata, partecipazioni televisive. Ad esempio circa 1 mese fa ci ha convocato Rai uno per partecipare alla trasmissione televisiva “sabato e domenica”, ma in Rai siamo ormai degli habituè! Non possiamo nascondere il momento economico difficile che sta attraversando l’Italia in questo periodo, aggravato dalla crisi di Wall Street. Nel vostro lavoro vi sentite sostenuti dalla politica Italiana e comunitaria? È vero, stiamo attraversando un periodo nero, speriamo di ricevere un sostegno sempre più forte dalla politica italiana e comunitaria. Anche quest’estate l’afflusso turistico non ha rappresentato una stagione d’oro, ma siamo speranzosi in una ripresa dato che anche nel periodo natalizio in particolar modo questo anno gli italiani hanno dimostrato di amare il ns. paese scegliendo come luogo di vacanza l’italia rispetto alle mete esotiche.

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Borgo Roncaglia

Via Costantinopoli, 9 - 61047 San Lorenzo in Campo (PU) Tel. 0721 776511 - Fax 0721 774146 Cell. 335 5846486 e-mail: info@borgoroncaglia.it


Enogastronomia

La grappa

di Camillo Benedetto

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er acquavite si intende il prodotto alcolico derivante dalla distillazione di sostanze vegetali fermentate, in particolare frutta e cereali. Trasparente come l’acqua o da calde tonalità cromatiche, viene profusa dalla distillazione delle vinacce d’uva: graspi, bucce degli acini e semi, separati dal mosto di vendemmia ed avviati agli alambicchi, elargiscono così tra vapori ed allegri fischietti, il loro potente sapore. Si degusta in ambienti conviviali quanto in contesti prestigiosi, per concludere con il suo sapore deciso un eccellente pasto. Sempre più diffuso oggi, il suo consumo lontano dai pasti. Come aperitivo o cocktail. Logicamente, essendoci una forte concentrazione di alcool, dai trentasette ai sessanta gradi, eccedere nel consumo di questo tipo di bevanda può essere pericoloso, portando prima all’euforia e poi ad un conseguente torpore. La sua indole inebriante va a braccetto con la decisa cordialità, disinibisce quel tanto che basta in una leggera incoscienza, avvicinando età, generi e ceti sociali. La grappa viene considerata spirito di vita. La grappa viene prodotta solo in Italia, da uve italiane e in stabilimenti italiani. Venne inventata intorno all’anno mille, da alcuni studenti della Scuola Salernitana che grazie alla concentrazione e distillazione di notevoli quantità di alcool, la usarono per curare svariate patologie umane. Questo studio fu approfondito dai Gesuiti verso il 1400, facendola diventare quella che conosciamo oggi. La classificazione della grappa è molto articolata. Le etichette possono evidenziare la denominazione geografica di origine, i vitigni o il tipo di lambicco usato. Le classificazioni classiche seguono le seguenti condizioni: grappa giovane, aromatica, affinata in legno aromatico, invecchiata di 12 mesi, stravecchia (18 mesi), invecchiata aromatica, aromatizzata. Alcuni la bevono miscelata nel caffè, che prende il nome di “corretto” altri invece la preferiscono degustare dopo i pasti in assoluta tranquillità, fase definita come “digestivo”.

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Il ras dei carciofi

di Camillo Benedetto

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ertosa è un paese con poco più di 600 abitanti a 70 chilometri a sud da Salerno, noto per le sue grotte: straordinarie cavità naturali nate in seguito a fenomeni carsici, risalenti ad oltre trentacinque milioni di anni fa. Abitate fin dall’età della pietra, le grotte si sviluppano per oltre 2.500 metri con caverne e gallerie. Ma Pertosa non è famosa solo per le sue grotte ma anche per una varietà di carciofi che si coltiva nella zona, una delle più insolite di tutta la penisola: il carciofo Bianco di Pertosa o del basso Tanagro, il fiume che attraversa tutta la zona di coltivazione, posta tra i 300 e i 700 metri sul livello del mare. Il nome esprime la sua principale caratteristica che è anche quella più evidente: si tratta di un carciofo di colore chiarissimo tra un verde tenue e un bianco argenteo. Le piante sono grandi, rotonde, senza spine e con una caratteristica unica, un foro alla sommità. Oggi sono appena tre gli ettari nella zona ad essere destinati alla coltivazione del carciofo bianco. Una realtà produttiva marginale ma dalle grandi potenzialità. Infatti il carciofo viene coltivato solo con metodi naturali e può essere un gancio di traino per l’economia della zona. Le caratteristiche del carciofo bianco sono dolcezza, colore, resistenza alle basse temperature e l’assenza di spine che lo rende più facile da manipolare. Proprio per questi motivi, i produttori di questo tipo di carciofo si sono riuniti in un consorzio per cercare assieme una soluzione al problema. Per prima cosa, far riscoprire il prodotto nella cucina locale, magari sotto un confezionamento del prodotto sott’olio, cui questo tipo di carciofo particolarmente adatto.

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a Carnia, zona tra le più intatte dal punto di vista naturalistico dell’intero arco alpino, deve anche all’isolamento e all’estrema povertà delle sue valli la consuetudine di non sprecare mai nulla di ciò che poteva servire per la sussistenza. Il formadi frant è senza dubbio una delle più interessanti di queste: un procedimento adottato per salvare le forme di formaggio di malga “difettose” o che semplicemente non potevano essere avviate alla stagionatura, perché magari gonfiate o con la crosta spaccata. Nulla si poteva perdere o non riutilizzare, in questa civiltà contadina dove tutto era frutto di grandi sacrifici e tantomeno i formaggi ottenuti con il latte delle vacche che pascolavano sugli alpeggi ed esprimevano nei profumi e negli aromi tutta la ricchezza delle centinaia di erbe spontanee presenti nel foraggio. Si riunivano insieme le forme non perfette e si procedeva a sminuzzare in piccoli pezzi o tagliare a fettine quelle più fresche e a grattugiare quelle un po’ più stagionate, quindi si amalgamavano prima, con il latte e poi si mescolavano manualmente con della panna di affioramento, sale e pepe fino ad ottenere un impasto omogeneo, che veniva poi ricomposto nelle fascere del latteria, prodotto appun-

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di Katia Benedetto

to in queste zone nelle vecchie latterie e dopo un giorno o due di riposo, si poneva a stagionare ulteriormente nelle cantine naturali per circa 40 giorni. Il risultato è un prodotto assolutamente particolare, che varia da produttore a produttore e che unisce alle caratteristiche di morbidezza e rotondità date dalla presenza della panna, anche profumi e sapori più marcati e piccanti, frutto dell’uso di formaggi d’alpeggio a differente livello di maturazione. Questa preparazione, storicamente relegata ad uso domestico e non commercializzata, ancora oggi viene realizzata con le stesse modalità e rappresenta una delle espressioni più vere e qualitativamente eccellenti di quell’arte contadina del recupero comune a molte aree alpine italiane. Una serie d’iniziative stanno nascendo in questi ultimi anni per far conoscere ed incentivare il mantenimento di questa produzione tradizionale così particolare, legandola al solo utilizzo di formaggi a latte crudo e alla produzione di alpeggio dell’area carnica, puntando in questo modo a valorizzare il prodotto artigianale e a difenderlo dai tentativi d’imitazione che utilizzano solo formaggi di bassa qualità a base di latte pastorizzato spesso di provenienza non locale.

Enogastronomia

Antichi sapori “il formadi frant”

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Enogastronomia

Sulle tracce del mestiere di famiglia

intervista a cura di Tania Pizzamiglio

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colloquio con Claudio Trinco, imprenditore friulano partito bambino dal proprio paese per rientrarvi adulto. A volte i mestieri si tramandano di padre in figlio, in un continuum. E ad ogni generazione nuova, può accadere di innovare con il proprio imprinting e tocco personale oppure di proseguire l’attività paterna per altre vie, o locali. “Tempora sic fugiunt parinter parinterque et nova secuntur sum sempre” (in modo uguale fuggono i tempi ed in ugual modo ne seguono altri; e sono sempre nuovi; affermava Orazio). Così prosegue il disvelamento delle risorse dell’imprenditoria friulana doc (sottolineo friulana perché forse meriterebbe maggiore visibilità di quanto il nostro territorio offra), spesso forse nascoste all’occhio non solo dei turisti ma degli stessi concittadini o connazionali. Lungo il cammino già iniziato nelle interviste precedenti, ecco un’altra azienda le cui fondamenta sono gettate da un lato sulla storia familiare e dall’altro, quasi in sintonia e in continuum con le origini, sulla storia del luogo stesso dove oggi si erge il locale, nuova conferma del valore culturale e storico che, se armonizzato con sapienza, può riprendere vita attraverso i mestieri, in tempi moderni. Nel rispetto dell’architettura custode di memorie passate del popolo friulano, una ventata di freschezza e originalità per intonacare le pareti di attualità: entriamo allora all’ Osteria Alle Volte, accolti dalla cortesia e sorriso gioviale del titolare Claudio Trinco con il suo staff al banco. Il tempo che termini gli ultimi accordi e convenevoli con clienti in sala e siamo subito seduti ad un tavolo nella coorte interna, curiosi di raccogliere con entusiasmo informazioni su questo angolo antico e moderno, situato in pieno centro storico nella cittadina di Udine. La storia inizia nel 1954 a Cividale del Friuli dove Claudio è nato, poi già nel 1958 la famiglia si trasferì a San Donà di Piave dove ha sempre lavorato gestendo locali pubblici (tabacchi, bar). Quindi, in effetti, fin da piccolo cresce dietro il bancone di locali del settore ristorazione. Nel 1980, rientrata in Udine e prima di approdare all’Osteria Alle Volte la famiglia ha gestito a conduzione familiare altri locali. A titolo esemplificativo, prima di passare all’attuale osteria dal 1980 al 1997 Trinco era il proprietario del locale Il Pappagallo mantenuto per un periodo in contemporanea all’osteria Alle Volte, dal 1993 al 1997. Possiamo affermare che la ristorazione è un mestiere di famiglia. In un certo senso sì, anche se poi, come nel mio caso, abbiamo affiancato al semplice bar anche

l’aspetto ristorante. Questo locale, l’Osteria Alle Volte, l’ho avviato nel 1993 dopo averlo rilevato, a fine 1992, ed aver apportato i dovuti lavori di ristrutturazione e adeguamento in maniera da poter finalmente dare avvio all’attività nel marzo ’93. Prima del mio arrivo, era sede del Bar Sagittario, fine anni 1980, poi ci fu un passaggio di proprietà al precedente gestore di Osteria alle Volte, per poi essere acquisito da parte mia, dopo neppure due anni della nuova gestione. E prima ancora probabilmente ospitò una pasticceria, dato il bancone di lavoro trovato in cantina che ho recuperato per la zona buffet visibile scendendo nel ristorante subito sulla destra. Quindi il nome Alle Volte lo ha ereditato? Sì, dalla gestione precedente. E com’è nata l’idea di cimentarsi in un’impresa settore ristorazione a Udine, nel centro storico cittadino? Quali i riferimenti? Prima di tutto, ho rilevato una gestione che aveva appena aperto ovvero neonata, che però non è stata in grado di continuare. Poi va sottolineato che il proprietario dell’edificio aveva intuito il valore storico del palazzo meritevole di essere recuperato e a sua volta un aspetto che avrebbe costituito un valido valore aggiunto per l’Azienda che avrebbe ospitato. Certo è stato necessario svolgere dei lavori di ristrutturazione. Qualche indicazione sull’evoluzione del locale? Ad esempio, dove ora ho realizzato la sala ristorante, un tempo era cantina o meglio magazzino, deposito. Addirittura, durante le due ultime guerre del 1915 e del 1939, servì anche quale rifugio per i cittadini, mentre erano in corso bombardamenti sulla città. Della cantina si narra un interessante aneddoto: si racconta che durante il giovedì grasso del 1511, approfittando dei travestimenti in maschera, i contadini mascherati e armati di roncole, falci e così via, si riunirono nelle cantine, tra qui anche questa dell’osteria, per organizzarsi e contrastare la Repubblica di Venezia che voleva cedere la Patria del Friuli all’Impero d’Austria. Riuniti, mascherati, nelle cantine, tra una parola e un bicchiere di vino, esplosero tumulti in città confusi nella confusione carnevalesca. Mi richiama alla mente la storia dei carbonari. Curiosa leggenda magari accaduta davvero. Tornando al locale Alle Volte: potrebbe spiegarci l’idea? L’antico palazzo risale probabilmente al 1400 e quella che oggi è la cantina, ovvero l’attuale sala ristorante, in origine fu probabilmente una bottega o laboratorio artigianale, considerando che, come tutti


Enogastronomia i fortini, anche il castello di Udine era nato con una cinta muraria a ridosso della quale esternamente prima luogo di scambio e mercato, poi sito delle prime case o ricoveri che i poveri cominciarono a costruire ed abitare. Questo faceva sì che ogni qual volta si addossavano un certo numero di caseggiati venisse costruito un nuovo cerchio di mura, tanto da contare a Udine alla fine, col trascorrere del tempo e l’evoluzione urbana, fino a 7 cinta di mura. All’inizio, dunque, il piano della strada era più basso pertanto la parte oggi cantina era all’epoca bottega a livello della strada. Per esigenze di scolo dell’acqua fu rialzato il piano formando la collina che dal Castello scende fino a Piazza 1° Maggio, di conseguenza le varie botteghe e case lungo la via mercato vecchio si ritrovarono sotto il nuovo livello stradale. Gli edifici furono sviluppati in altezza giacché sullo stabile sottostante si continuò a costruire sopra nuovi palazzi. Quindi anche questa parte di palazzo sovrastante la cantina è successiva. Sì, la stessa sorte toccò anche alle Volte. Richiama gli angoli appartati di Venezia tra una abitazione e l’altra, vicine e strade strette, poi si vede questo muro che separa dall’altra ala del palazzo. Sì, una specie di coorte interna. Il muro fu costruito anni fa proprio per dividere dall’altro cortile del palazzo. Come tutte le corti dei nobili di un tempo, venivano costruite con giardini interni e un pozzo che ora non si vede perché c’è il muro che divide. Il locale è stato costruito con materiale da riporto (nella cantina sala ristorante si possono vedere i colori diversi dei sassi lasciati a vista, che rendono la sala ancora più preziosa) ovvero mattoni recuperati da altre case e sassi provenienti sia dal Fiume Torre che dal Fiume Tagliamento, questi ultimi di colore tendente all’azzurrino. Il tutto si erge su tre colonne portanti antiche, mantenute, a loro volta una diversa dall’altra, a confermare che è un edificio realizzato con materiale di riporto appunto. Poi le varie volte a vela che costituiscono il soffitto che ancora oggi si possono vedere in parte, e alcuni capitelli del 1400 sono stati lasciati a vista (di fatti sono tutt’ora visibili a coloro che entrano nell’Osteria e nel Ristorante). Poi sono state costruite, nel tempo, ulteriori stanze che sembrano oggi degli appartamenti sovrastanti l’osteria. Confermo. Di fatto per

rafforzare il soffitto, nella ristrutturazione sono state aggiunte delle travi in acciaio che si possono vedere infra-mezzo le travi in legno a vista nel soffitto dell’ala bar-enoteca che attraversano il soffitto per tutta la lunghezza (se entrate, date una occhiata in alto e di fatto le scorgerete). Questi interventi risalgono ai primi anni del 1900. Che tipo di servizi offrite? E il menù? Al piano terra, l’attività principale è l’osteria bar, quindi vino al calice in genere abbinati a stuzzichini; il prosciutto affumicato cotto al vapore servito con il kren è un nostro piatto proprio, ed è un piatto invernale. È nostro tradizionale, in quanto è segno distintivo da quando abbiamo aperto nel 1993. La costanza premia. Certamente. Inoltre serviamo diverse degustazioni di formaggi (che personalmente ho avuto modo di assaggiare!), salumi e, come menù alla carta, principalmente pesce. Accanto a questi, proponiamo altre alternative con il menù del giorno, per permettere alla clientela di scegliere tra portate diverse nonché spesso per soluzioni più economiche. In che maniera si lega alla tipicità e tradizione? Sono tutti menù pensati in armonia con i piatti tipici friulani abbinati all’attenzione ai prodotti tipici di stagione; offriamo insomma le primizie di stagione (ad esempio asparagi; porcini; e così via), rispettando la preparazione dei piatti medesimi secondo la tradizione della cucina friulana, ed ecco a titolo di esempio che prepariamo “il tocjo” di cape lunghe, o di canoce e via dicendo con polenta ecc. Mi permetta allora un chiarimento sulla tipologia dei clienti che vengono nel vostro locale: appartengono a determinate specifiche categorie o avete una clientela varia? In linea di massima è una clientela variegata, quindi cerchiamo di accontentare le esigenze e possibilità economiche di tutti: dai banchieri e impiegati, ai rappresentanti e turisti, dai giovani agli adulti. Del resto oggi si ha poco tempo, si va di fretta, si cerca per quanto possibile soluzioni veloci e già pronte. E’ vero, di fatto vanno tutti di fretta, occorre offrire portate di veloce preparazione per consentire al cliente di consumare un piacevole piatto. Con un occhio sempre

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attento anche alle possibilità economiche. Abbiamo inoltre imparato a riconoscere i gusti e le esigenze. Un tipico cliente friulano predilige la scelta di menù a base di carne. Palati più affini con pietanze mediterranee costiere scelgono prevalentemente il menù a base di pesce. Poi oggi c’è molta più informazione diffusa nel settore gastronomico ed enologico, e i giovani sono più aperti e liberi di scegliere rispetto a un decennio fa. Questo significa che in ambito alimentare sono più attenti a scegliere le primizie o le particolarità, mentre un tempo erano legati maggiormente al piatto classico più familiare. Sulle scelte dei vini quali le sue osservazioni in base alla sua esperienza? Rispetto agli anni ’80-’90 oggi gli adulti ed anche i giovani hanno imparato a consumare il vino abbinato al menù o anche a degustare un buon bicchiere di vino di qualità semplicemente per assaggiare il vino il sé. Se un tempo i giovani si accostavano sostanzialmente al vino verduzzo perché un vino dolce, che magari suggeriva un richiamo immaginario più immediato alle bibite, tanto da abbinarlo anche al pasto di carne, oggi sanno apprezzare le tipologia di vini più indicati in abbinamento al menù scelto ed hanno ampliato gli assaggi e le scelte alle diverse varietà e tipologie di vini. Proponete iniziative particolari come serate a tema o piatti etnici. Sì, certo. Promuoviamo, in collegamento con l’ente che nella Provincia di Udine, zona pianura, promuove le “Tavole del maiale” (che con quest’anno - in anteprima per i lettori - cambierà la denominazione in: “Le tavole della tradizione”), dei momenti un po’ sui generis detti le serate dette ‘le maialate’ (non è una parolaccia ma indica serate con menù a base di carne di maiale appunto) in occasione di specifiche ricorrenze (Sant’Andrea, el purcit su la brea = a sant’andrea il maiale è pronto per essere macellato). Oppure al piano osteria bar, i buffet gratuiti del venerdì dalle 1900 alle 2100, per esempio. Ed ancora: il mercoledì delle Ceneri con il tradizionale piatto friulano dell’arringa, oppure abbiamo proposto la serata spagnola, la serata a menù giapponese, o il menù a base di cus cus, e via sperimentando abbinamenti gastronomici tradizionali e nuovi allo stesso tempo. Altre occasioni che animano serate a tema originali e inebrianti, promuovono l’abbinamento ai nostri piatti creati all’occasione con il vino presentato dal viticoltore invitato ad esporre i propri vini, una sorta di sinergia e collaborazione tra imprenditori di settori diversi. O le serate con preparazione di menù monotematici legati alla primizia di stagione, ad esempio: serata cucina a base di asparagi, serata menù a base di porcini, o lo stesso realizzato con i pesci: serata de il boreto de Grado (o boreto alla gradese), solo canoce, solo crostacei, solo orata, eccetera. Bello, primizie di stagione. Sì per offrire sempre prodotti freschi e di qualità, per ottenere il risultato migliore avvalorati dalla saggezza e arte

tramandati nella tradizione gastronomica friulana splendidamente insaporita e attualizzata con un tocco di moderno. Date ospitalità ad attività altre come mostre, concerti. Periodicamente. Inizialmente, grazie alla conoscenza di un critico d’arte, recensore per il quotidiano locale, ospitavo più spesso mostre di pittura abbinate a serate di inaugurazione della mostra stessa; ora accolgo pittori che espongono per un mese le loro opere nella sala ristorante. Mentre i concerti dal vivo hanno riscontrato meno successo. Ho ospitato musicisti jazz, ma ci siamo resi conto che forse un tale abbinamento non si integrava in armonia con le esigenze dei nostri vari clienti sia per quanto riguarda coloro che entravano all’osteria per il gusto di ascoltare la musica, sia di coloro che venivano Alle Volte a consumare un pasto. Ospiti speciali? Certo, nel nostro ‘album’, a titolo esemplificativo, abbiamo ospitato il presidente della squadra di calcio spagnola del Barcelona con i suo staff nel 2006, una coppia di sposi americana che voleva assolutamente sposarsi in Italia in data 09/09/1999, quando è stato presentato al Teatro Giovanni da Udine il film tratto dal libro Canone inverso, abbiamo avuto ospiti la moglie di Ricky Tognazzi e altri convenuti per l’occasione, e tanti altri ospiti ancora. Oltre alla clientela di routine, ricevete prenotazioni e comitive per matrimoni, anniversari? Tenendo conto che abbiamo circa 50 posti al coperto nella sala ristorante, abbiamo avuto comunque clienti anche per occasioni come matrimoni, anniversari, ricorrenze. Abbiamo ospitato banchetti per ‘Università di Udine in occasione di convegni e iniziative del mondo universitario; tavolate in occasione di eventi particolari e mostre nella nostra Provincia che attirano turismo (Salone della sedia, Casa moderna, Cantine aperte...), imprenditori che prenotano il pranzo alla nostra Osteria per ospitare i clienti provenienti anche dall’estero (americani, giapponesi, o di altri paesi dell’Europa). E promuoviamo, dal canto nostro, periodiche cene conviviali degli amici. Se ci sono, ci indichereste alcune vostre chicche ovvero punti forti? L’attenzione e cura nella preparazione gastronomica per soddisfare il cliente. Accogliere sempre con attenzione e cortesia le persone dando loro attenzione e considerazione, dialogando, consigliando, suggerendo, che è


Enogastronomia quanto in realtà cercano. Questo ci aiuta a conoscere meglio i gusti della clientela e conoscere è per noi sapere, quindi curiamo di abbinare gli accostamenti migliori perché consumare un pasto diventi anche un momento piacevole. Questo ci permette di apportare novità ed evolvere negli anni nella nostra stessa professionalità. Con creatività. Certamente, fondamentale e non deve mancare. Quali i vostri canali per raggiungere la gente, farvi conoscere, data la posizione interna non proprio così immediata e visibile. Nel nostro caso ci siamo accorti che la tradizionale pubblicità cartacea non otteneva i riscontri desiderati a motivo del fatto che la gente oggi legge sostanzialmente solo le notizie che gli interessano, relegando meno attenzione a volantini, pubblicità e depliants divulgativi, posters. I nostri principali canali di divulgazione e visibilità dell’Azienda sono la gastronomia stessa che soddisfando il cliente si diffonde a mezzo passaparola, lo staff professionale e cortese e la qualità sia dei cibi che dei servizi offerti nell’insieme. In che contesto vi trovate ad interagire sul territorio? C’è molta concorrenza? In verità a Udine vi sono pochi ristoranti nel vero senso del termine, mentre sono molto numerosi bar, pub, osterie, pizzerie. Di contro, la Regione investe e promuove ancora davvero poco nel settore turistico. In particolare Udine non riscontra una grande presenza turistica e in questa direzione non emerge pertanto un soddisfacente sviluppo di mercato. Noi riceviamo, di fatto, soprattutto clienti locali. Sarebbe certo opportuno creare più turismo in tutto il territorio friulano.(aihmè, un antico problema ancora non risolto, o forse preso seriamente in considerazione) Nell’approssimarci alla conclusione di questo arricchente colloquio, sono infine a chiederle quale suggerimento darebbe ai giovani aspiranti futuri imprenditori nel settore della gastronomia e ristorazione. Ai giovani direi che in questo settore di impiego sono necessari passione e abnegazione per il lavoro, necessita

certamente sacrificio e dedizione continua che poi dona molta soddisfazione. Chi si cimenta in questo mestiere deve metterci molto di suo con passione e creatività, aggiornarsi e coltivare entusiasmo. Quindi essere anche curiosi e pazienti, creativi, costanti ed attenti. Indubbiamente. Ed è senz’altro importante molta perseveranza negli anni. Il tutto prestando sempre attenzione ai tempi per adeguarsi ai cambiamenti. Anche logistici: si pensi al semplice eppure importante fatto che mentre un tempo via mercato vecchio era aperta al traffico con le relative conseguenze, oggi il centro città è chiuso alle automobili. Alle Volte: nuovamente si riconferma la scelta di avviare un’attività in proprio che allo stesso tempo valorizzi il territorio con la sua storia e cultura attraverso un nome legato al luogo e stavolta inscritto nelle pareti stesse della palazzina e di personale mettendoci passione, talento e professione. Nel mentre gustiamo un caffè a siglare l’incontro, guardo i tavolini sotto il portico in via Mercato vecchio dove alcuni turisti tedeschi consumano i vini dell’Osteria Alle Volte. Mentre nello spazio interno allo scoperto o coorte della palazzina, dove abbiamo tenuto l’intervista, il titolare ha realizzato un soppalco in legno su cui sono distribuiti alcuni tavolini coperti da tende a riparo da sole e pioggia, creando così un angolo anche esterno per chi vuole fermarsi all’aria aperta anche se in centro città. Due strategiche porte di accesso introducono all’Osteria: una su via delle Mercerie avvia direttamente al banco dell’osteria enoteca, dove degustare vini pregiati abbinati a invitanti stuzzicati tartine con prosciutto e... venite a scoprirlo voi, ed ancora salumi, formaggi e prelibatezze varie, e l’altra da via Mercato vecchio introduce alla coorte e quindi all’ingresso per scendere subito a destra nella sala ristorante dove scoprire le specialità della cucina che ho avuto modo di sperimentare in anteprima per voi (una portata s’intende). Ho provveduto anche a voi, tranquilli, lasciandovi un aneddoto in dono, a closa di questa visita: I tempi cambiano ed occorre adeguarsi.

di Claudio Trinco via Mercatovecchio n°4, via Mercerie n°6 33100 Udine. Tel e fax: +39 0432.502800

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Mangiare bene con la focaccia siciliana

di Camillo Benedetto

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elia è una piccola cittadina posta al centro della Sicilia e vicina a Caltanissetta. In questa piccola città viene prodotto un dolce buonissimo a forma di bracciale dal nome impronunciabile, la“cuddrireddra”. La parola risale dal greco e in dialetto siciliano sta per focacciuola, schiacciatina o piccola rotella di pasta a forma d’anello o corona. In tutto il Sud Italia si producono molti tipi di ciambelline fritte, ma solo a Delia si usa questa forma complicata. Si narra che la “corona” sia nata quale omaggio alle castellane che vivevano a Delia durante i Vespri Siciliani. (1282 - 1302). Sono passati sette secoli, ma la cuddrireddra viene ancora prodotta. La ricetta è semplice: s’impasta la farina di grano duro con uova fresche, zucchero, un poco di strutto, vino rosso, cannella e scorrette di arancio. Si lavora la massa fino a quando raggiunge la giusta compattezza e poi si divide in piccoli rotolini. La parte più complicata, che richiede una notevole esperienza ma che tutte le donne di Delia sanno fare benissimo, inizia a questo punto. Si avvolgono i rotolini di pasta intorno ad un bastoncino che poi viene sfilato.

La spirale di pasta viene appoggiata su un attrezzo chiamato “pettine” (in dialetto) costituito da due asticelle di legno unite da una serie di striscioline di canna di bambù levigata. I pettini sono conservati con grande cura perché è molto difficile costruirli. Alcuni possono avere più di 150 anni, in origine erano dei pezzi del banco di tessitura ormai troppo consumati, altri invece sono stati riprodotti dalle abili mani delle donne. Sul “pettine” si appoggia la spirale di pasta che una volta asciugata acquista la caratteristica “rigatura”. A questo punto si uniscono le due estremità formando una corona. L’ultimo passaggio, ma non il meno complicato, è la frittura in abbondante olio extravergine d’oliva. La cuddrireddra originale deve essere croccante, dolce, con i lievi sentori di cannella, scorza d’arancio e vino rosso utilizzati nell’impasto. In origine, era preparata in casa nel periodo di carnevale, oggi la si può trovare tutto l’anno e anche le pasticcerie della zona hanno iniziato a proporla. La cuddrireddra è ideale per la fine di ogni pasto e può essere abbinata con qualsiasi tipo di vino dolce.

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Turismo

Dove la storia vive ancora A

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ll’estremità settentrionale del golfo di Napoli sorge la terza isola più popolosa d’Italia, dopo Sicilia e Sardegna, a carattere vulcanico. È Ischia, che mostra tutta la sua storia già da una sorta di disputa nominis. I Greci la chiamavano infatti “Pithekoussai”, termine che, secondo alcuni linguisti, significherebbe “isola delle scimmie”, in riferimento alla leggenda della presenza a Ischia dei “Cercopi” e della loro trasformazione in scimmie. Ma secondo studi più recenti, “le scimmie” sarebbero la popolazione “Osca” locale, molto primitiva e situata ai limiti del mondo allora conosciuto, che i Greci non consideravano parte del genere umano. I “Romani” chiamavano l’isola “Aenaria” (da aenus, bronzo), in riferimento alle attività metallurgiche, mentre Virgilio “Inanime”, da alcuni riferimenti omerici: su quest’isola fu rinvenuta, nel 1953, la famosa Coppa di Nestore. L’attuale nome appare comunque per la prima volta nella lettera inviata dal “Papa Leone III” a “Carlo Magno” nell’ 813 (iscla, da insula), ma l’isola conserva le sue origini antichissime in primis nel Castello Aragonese, costruito dal tiranno Gerone di Siracusa, nel 474 a.C., da cui inizialmente prendeva il nome. L’isolotto su cui si trova il castello deriva da una eruzione sinattica avvenuta oltre 300.000 anni fa e dista circa 200 mt. da Ischia Ponte, collegato anticamente da un ponte di legno, trasformato nel 1440 in cemento da Alfonso I d’Aragona. Ai piedi del Castello c’era un tempo un antica casamatta, adibita a quartiere della guarnigione addetta alle manovre del ponte elevatoio. Ischia è divisa amministrativamente in 6 comuni, di cui uno omonimo, ma nel 2001 è stata fondata l’Associazione per il Comune Unico, che tenta di riunirne tutti e 6. Insomma, da sempre sinonimo di bellezza e benessere, Ischia sembra non esser stata nemmeno sfiorata dal problema rifiuti che ha afflitto la Campania e a testimoniarlo ci sono anche le parole del sig. Di Meglio, titolare di una delle più grandi e rinomate catene alberghiere di Ischia, la Dimhotels. Da lui abbiamo cercato di farci svelare i segreti di un’imprenditorialità che dura dal 1957. E, ovviamente, i segreti di quest’isola fascinosa che ha ispirato centinaia di registi cinematografici e che riesce ancora ad attrarre turisti d’ogni parte Anche voi siete approdati sull’Arca di Noè: come e perché avete scelto il nostro giornale online per pubblicizzare la vostra imprenditorialità? Siamo soliti sperimentare il potenziale di sempre nuovi media e il taglio editoriale dell’Arca di Noé ci ha particolarmente incuriosito. La famiglia Di Meglio è partita semplicemente dal commercio di frutta e verdura sull’isola. Cosa l’ha portata poi a diventare proprietaria di uno dei più importanti gruppi alberghieri ischitani? La consapevolezza di una continua evoluzione dell’economia ischitana; la stessa che all’inizio degli anni ‘50,

intervista a cura di Simone Di Biasio

grazie alle bellezze della nostra terra ed all’esempio lungimirante di uomini come Angelo Rizzoli, ha improvvisamente trasformato noi Ischitani da contadini, pescatori e marittimi a piccoli, medi e grandi imprenditori del turismo: un processo tanto repentino quanto proficuo. Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono i vostri 7 alberghi? Innanzitutto il rapporto qualità-prezzo, che in tanti definiscono imbattibile. A ciò aggiungiamo senz’altro la vastità delle offerte legate alle terme e al benessere, i cui effetti legati all’utilizzo delle acque termali sono ormai famosi in tutto il mondo, e non ultimo l’attento controllo che la nostra famiglia esegue quotidianamente sulla gestione, dirigendo in prima persona le strutture alberghiere di proprietà. Il vostro motto è: “Corri ad Ischia: siamo sommersi dalla bellezza”. Tutti i principali elementi che compongono la vacanza perfetta ad Ischia sono fortemente presenti. Ambiente, cultura, terme ed enogastronomia si fondono alla grande con la rinomata cortesia ed ospitalità della nostra gente. È bene chiarire poi che nonostante certo terrorismo mediatico, Ischia non è mai stata toccata da vicino dalle scene ben note viste in tv e sui giornali a proposito dell’emergenza rifiuti. Insomma la bufera che si è abbattuta sulla Campania per via dei rifiuti non vi ha penalizzati La nostra scelta molto tempestiva di lanciare il bollino contro l’emergenza rifiuti e, appunto, la campagna “Siamo sommersi dalla bellezza” ha garantito un vantaggio sia a noi che all’Isola intera. E’ evidente che c’è stato un momento di preoccupazione, coinciso anche con la Pasqua bassa di quest’anno, ma per quanto ci riguarda non abbiamo perso grandi quote di mercato. Vengono a trovarvi più italiani o stranieri? Come gruppo abbiamo concentrato le nostre strategie di comunicazione sul mercato italiano, che oggi rappresenta il nostro target di riferimento. Ciò non esclude che a breve potremmo indirizzarci con forza anche verso il mercato straniero, in particolare quello tedesco, che fino a pochi anni fa rappresentava oltre l’80% dell’incoming straniero ad Ischia. Che cosa caratterizza la cucina ischitana? Sicuramente la possibilità di utilizzare ancora aromi ed ingredienti naturali, fortemente radicati nella nostra forte tradizione gastronomica. Il nostro mare ci offre la possibilità di preparare sempre ottime portate a base di pesce fresco, ma in molti non sanno che il piatto forte dell’Isola è... il coniglio all’ischitana. Ischia è tradizionalmente un posto adatto maggiormente alle coppie sposate o adesso anche i giovani la stanno riscoprendo? Una giusta promozione può convincere che una località tipicamente termale non è affatto preclusa ai giovani. Ad


Turismo Ischia c’è vita ben oltre le terme e gli alberghi e questo i nostri frequentatori abituali lo sanno bene. Tra di essi, ci sono ancora moltissimi giovani, specie da giugno a settembre. Vi piacciono le nuove e aggressive campagne di promozione incentrate su Napoli e la Campania? In tutta onestà sinora abbiamo visto solo la campagna su Napoli e chiaramente da essa Ischia e le altre località di grido della Campania non possono trarre alcun vantaggio. Ci aspettavamo sicuramente maggior tempestività e specificità da parte della Regione, che comunque si è trovata in un momento difficile per tanti aspetti sia politici che amministrativi. Ora, però, non ci sono più scuse che tengano: bisogna passare a fatti concreti. Le vostre aspettative per l’estate ormai prossima? La nostra campagna di comunicazione già da tempo ci ha fornito ampie garanzie sullo score del nostro gruppo sino alla fine del 2008: si tratta di un messaggio ormai collaudato, rinnovato ogni qualvolta necessario, ma con la validità delle offerte che deve comunque farla da padrona. Certamente a noi piace guardare al mercato nella sua complessità e ci rammarichiamo nel sentire la preoccupazione di tanti colleghi, a cui però spesso non fa se-

guito alcuna azione a rimedio. Quali sono gli appuntamenti di punta previsti da giugno in poi? Arriverà, come preannunciato, anche Paris Hilton? Ogni anno, sia grazie al buon nome di Ischia, sia in occasione di eventi di prestigio organizzati sull’Isola, i vip dalle nostre parti non mancano mai. E Paris Hilton, che avrebbe accettato l’invito rivoltole durante il Cosmoprof di Bologna a partecipare all’Ischia Global Film Fest, sarebbe una graditissima ospite che di certo attirerebbe tantissimi giovani verso il fascino di Ischia. Un’ultima domanda: avete mai pensato di esportare la vostra imprenditorialità nel resto d’Italia, o all’estero, magari proprio per far conoscere cucina e cultura ischitane? Abbiamo sempre sostenuto che Ischia, oltre ad essere il nostro core business, è anche la nostra terra natia, il segreto del nostro successo. Per questo abbiamo sempre concentrato i nostri investimenti da queste parti, raggiungendo il traguardo di otto alberghi di proprietà. In ogni caso, mai dire mai!

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Turismo

L’Isola d’Oro G

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di Camillo Benedetto

rado nacque in relazione a una delle più antiche città di origine romana, Aquileia. Si trattava infatti della parte estrema del sistema portuale dell’insediamento, da dove tutte le navi provenienti dall’Adriatico che volevano raggiungere la città dovevano obbligatoriamente passare. Divenne rifugio degli aquileiesi durante le incursioni barbariche del V secolo a.C., più precisamente, quando Attila, re degli Unni, fece incendiare la città romana. Dopo il periodo barbarico Grado attrasse a se l’orbita greco - bizantina, diventando sede dell’importante Patriarcato di Grado. Fino all’anno Mille, Grado era una località costiera; la laguna ricca di vita che la fa divenire un’isola si è creata successivamente, coprendo o cancellando un territorio che una volta era densamente popolato. Da qui inizia il declino di Grado, che diventa un isolato borgo di poche migliaia di pescatori, in favore invece di una nascente Venezia ricca di splendore e prestigio. Nel 1815 Grado passò a far parte dell’Impero Asburgico che ne favorì lo sviluppo, in particolare quello turistico. Alcune innovazioni, se tali si possono chiamare, interessarono Grado prima di molte altre località turistiche. Ad esempio nel 1854 Grado offriva già ai suoi clienti della sua spiaggia i “camerini”, dei veri e propri antenati degli attuali spogliatoi. Nel 1873 esibiva il primo “Ospizio marino austriaco”; fu il decreto firmato da Francesco Giuseppe nel 1892 a sancire ufficialmente la nascita della “Stazione di cura a bagni di Grado”. Nello stesso anno fu inaugurato anche lo stabilimento balneare sospeso sul mare, un’elegante struttura con 400 cabine ed al centro un raffinato ristorante. Nel 1910 per facilitare l’arrivo dei turisti, la Società Ferroviaria Friulana fece arrivare il treno nella vicina Belvedere, da dove poi

si poteva proseguire facilmente verso Grado grazie ai frequenti vaporetti di linea. Questi furono gli anni in cui Grado diede uno dei primi esempi di turismo di massa. Oggi Grado si è sviluppato un turismo moderno che è stato capace di fondere assieme il comfort, il blu del mare e il verde della natura. La Laguna di Grado copre circa 12 mila ettari, prosegue ad occidente con quella di Marano, ed è considerata da molti la più bella del bacino Mediterraneo. Un insieme di canali e di piccole isole, ricoperte da canne e cespugli. Un luogo senza tempo, regno dell’acqua, del vento e del silenzio. Un ecosistema unico al mondo, dedicato all’equilibrio della natura, tuttora perfettamente conservato. Per proteggerlo sono state create due grandi riserve naturali, habitat ideale per decine di specie di uccelli acquatici che vi nidificano o che vi fanno tappa nel periodo delle migrazioni, come gli aironi, le folaghe, i germani reali, le alzavole, le marzaiole, le anatre e i gabbiani. È noto che nelle isole la gente matura tradizioni tutte sue. Ebbene questo avviene anche a Grado in particolare per la cucina. Lungo le vie del centro storico, trattorie e ristoranti con i tavoli apparecchiati sotto i pergoli di vite americana, nei giardini interni, propongono il meglio della cucina gradese, una lunga tradizione di sapori genuini e di ricette tramandate da generazione in generazione, in cui il pesce la fa naturalmente da padrone. Il piatto gradese per eccellenza è il “brodetto”, in gradese “il boreto”, saporita zuppa di pesce, che a seconda delle preferenze del cuoco e della disponibilità di pesce fresco, può essere preparato con una sola qualità di pesce oppure più qualità, e abbinato a polenta bianca Il boreto risale certamente a prima della scoperta dell’America dato che la sua preparazione avviene, a differenza dei brodetti che si preparano nella maggior parte degli altri paesi d’Italia, senza il pomodoro. La sua origine è da far risalire ai pescatori che un tempo abitavano stabilmente nella Laguna di Grado, nei “casoni”, vivendo principalmente di pesca.

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Turismo Il pesce migliore veniva prelevato quotidianamente dal “batelante” che faceva il giro delle piccole isolette della laguna e venduto al mercato di Grado. Il pesce di scarto veniva consumato dal “casoner”, colui che abitava nel casone e dalla sua famiglia. Il boreto era originariamente un piatto povero cucinato nel “paveso”, una casseruola di ferro, che non veniva mai lavata. Si metteva un po’ d’olio di semi, l’aglio a spicchi interi ed infine il pesce bagnato con aceto bianco e abbondante pepe nero. Questa pietanza veniva consumata con la polenta bianca, di più facile reperibilità e di poco costo. Per quanto riguarda l’abbinamento con il vino, mentre in passato veniva preferito il bianco, oggi prevale un orientamento per un vino rosso giovane. Numerose sono le ricette a base di pesce. Ma in questo che ancora oggi rimane un paese di pescatori, tutti i piatti di pesce sono ottimi, a cominciare dalle comunissime

sardine per arrivare ai pesci più ricercati e ad ogni genere di molluschi che, dal mare e dalla laguna arrivano quotidianamente sempre freschi in tavola e che i ristoranti gradesi cucinano con sapienza, riuscendo a trovare il giusto equilibrio fra tradizione e novità. Dal 1237, ogni anno, la prima domenica di luglio una lunga fila di barche imbandierate a festa si stacca da Grado e si addentra nella laguna fino all’isolotto di Barbana, dove in un santuario è custodita una preziosa e miracolosa statua della Madonna che era stata spinta fin là dalle onde. Così, da oltre 700 anni i gradesi ringraziano la Vergine per averli salvati da una terribile epidemia: è il “Perdon di Barbana”, una delle più antiche e sentite tradizioni locali. Barbana è una delle più grandi fra il centinaio di isole che costellano la laguna di Grado, estrema propaggine orientale di quel sistema lagunare che anticamente abbracciava tutto l’arco dell’Adriatico e che ora è stato in parte sommerso. Insomma Grado è tutto un luogo da scoprire non solo per il turismo ma anche per le sue tradizioni e per la sua cultura.

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Turismo

Napoli capitale culturale del sud L

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a città del Vesuvio va subito rivalutata e ripresentata pulita, dall’immondizia che giornalmente ne deturpava la sua bellezza, a tutto il mondo, per ritornare ad essere una delle più belle metropoli del nostro pianeta. E’ importante ricordare che, alla fine del diciannovesimo secolo ed all’inizio del ventesimo, Napoli è stata la capitale culturale del Sud e non solo. Circa vent’anni dopo l’Unità d’Italia, a Napoli si sviluppò un’intensa attività culturale che non ebbe altri riscontri nel tempo. La storia che segnò un periodo importante della cultura napoletana, si svolse intorno ai tavoli all’aperto e nell’interno, del Gran Caffè divenuto nel 1890, Gran Caffè Gambrinus, figura mitica simbolo del bevitore di birra, e dal 1892 nell’interno della nuova galleria Umberto I di Napoli. Nel 1890 il nuovo proprietario Mariano Vacca, chiamò l’architetto Antonio Curri, docente nella Real Università di Napoli per dare un nuovo volto al Gran Caffè. I lavori, opera di scultori e pittori conosciuti nel panorama artistico partenopeo, durarono sei mesi. Alla fine il Gran Caffè si trasformò in una vera e propria Galleria d’arte, tra l’ammirazione dei cittadini e dei turisti che, sempre più numerosi, arrivavano dalla Germania e dall’Inghilterra per vivere indimenticabili giorni nella città del sorriso e del sole. Ogni giorno, alla fine del secolo XIX, seduti all’aperto, o nei saloni del Gran Caffè, rinominato Gran Caffè Gambrinus, figura mitica simbolo del bevitore di birra, e dal 1892 nell’interno della nuova galleria Umberto I di Napoli, c’era, sempre, un folto gruppo d’artisti che, nel tempo, hanno trovato ispirazioni giuste ed hanno lasciato traccia del loro sapere. Moltissime poesie, musicate, in breve tempo, da grandi compositori, (‘A Vucchella” da Gabriele D’Annunzio), sono diventate delle arie indimenticabili, cantate, ancor oggi, in tutto il mondo ed entrate a far parte, al pari delle romanze, di diritto, nella storia della musica classica italiana. Anche la nobiltà partenopea, era solita ritrovarsi, puntualmente, al Caffè, per ascoltare orchestrine viennesi e mandolini legati alla tradizione musicale napoletana. Questo gran movimento creativo e costruttivo, formato da poeti, scrittori, pittori, filosofi, giornalisti, saggisti, studiosi, trovò una città pronta ad accoglierlo. Napoli era anche un terreno fertile poiché rappresentava un centro in pieno rinnovamento, dopo l’epidemia del colera che colpì la città nel 1884. Interi quartieri sovraffollati furono riedificati. I cittadini erano desiderosi di uscire da un dilemma, pro o contro i Borboni, che il nuovo regnante piemontese non era riuscito a dissipare, non essendo mai intervenuto alla vita attiva di un popolo che si aspettava libertà e crescita sociale e non nuovo abbandono. L’Unità d’Ita-

di Michele Santoro

lia era ancora tutto sulla carta e fu appunto grazie al fervore di moltissimi intellettuali e studiosi che s’incontravano al Gran Caffè ed alla Galleria Umberto I che questo rinnovamento trovò un veicolo giusto per trasmettere sentimenti, passioni, amori ed a far dimenticare le ingiustizie e la non crescita. La Canzone è stata uno dei veicoli in cui si rifugiavano sia poeti e compositori, creando, sia il popolo, comprando la “fiurella” venduta dagli editori. Il motivo diventava conosciuto da tutti, grazie ai posteggiatori che lo cantavano subito e lo portavano nei più grandi ristoranti, nei borghi ed, invitati, in giro per l’Europa. I posteggiatori di Napoli, musici e cantori, sono gli eredi dei menestrelli e dei trovatori e meritano uno studio più approfondito. Le canzoni, nate dopo “’na tazza e cafè” e una sfogliatella, avevano un palcoscenico naturale per essere proposte: la festa di Piedigrotta, che si svolgeva, ogni anno nel mese di Settembre. Molte volte, i nuovi poeti, illuminati dalle Muse Euterpe ed Erato, s’ispiravano, anche a fatti di cronaca per scrivere bellissime liriche, che portavano, poi, ai compositori amici.In poco tempo, nascevano canzoni che, ancora oggi, sono cantate, al pari delle romanze e delle arie d’opere, da tutti i cantanti lirici. Un esempio chiaro è dato dalla canzone “Funiculì funiculà”, non di gran pregio ma, scritta a Castellammare di Stabia e presentata, in una sera di Piedigrotta del 1880 dal giornalista Peppino Turco per far vincere, ai napoletani, la ritrosia e “Salire ‘ncoppa” con quella pericolosa “carrozza ‘e ferramenta”, la funicolare, che portava da Castellammare alla sommità del Vesuvio. Lo stesso vale per la più cantata canzone, dopo “O sole mio”, “Torna a Surriento e dedicata dai fratelli Giambattista ed Ernesto De Curtis a Giuseppe Zanardelli, il primo Presidente del Consiglio italiano che visitò la Basilicata, quarant’anni dopo l’Unità d’Italia, nel mese di settembre del 1902 e che affrontò per primo “La questione meridionale”. Le canzoni, in breve tempo, com’era accaduto nei secoli precedenti, diventavano proprietà del popolo che le faceva sue e le cantava nei mercati rionali ed in ogni occasione. All’inizio ci si ricordava dei poeti e compositori, poi il tempo lavava tutto e delle canzoni rimanevano solo le belle note ed i versi. Gli autori? Finivano per essere dimenticati, conosciuti solo dagli appassionati del fenomeno culturale da loro studiato. La canzone, in questo periodo è stato il veicolo più creativo di una città che sentiva il bisogno di rinascere e di avere quella crescita che prima l’ignavia borbonica e poi quella piemontese aveva negato. In questo periodo sono nati i più grandi poeti, compositori ed artisti che hanno segnato nel tempo la storia della città.


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ossano Calabro è un comune in provincia di Cosenza, un piccolo paese della Calabria, che affonda le sue origini intorno all’XI secolo a.c. ed è diviso in tre zone, come affermano gli abitanti. Rossano paese, la parte antica, con la possibilità di ammirare monumenti, chiese bizantine, vicoli, palazzi nobiliari; Rossano stazione è la parte più moderna, dove troviamo le scuole, i negozi di qualsiasi tipo, i bar, i piccoli pub di divertimento per i ragazzi, i parchi e un cinema; e per finire Rossano lido S. Angelo, la zona più frequentata nei mesi estivi. Durante l’estate il fascino del paese risalta agli occhi di tutti, e anche ai turisti. Il lido è pieno di stabilimenti balneari che di sera si trasformano in discoteche e sono affollati dai ragazzi. Spettacolare è la Torre Stellata, meglio conosciuta come Torre S. Angelo, che riprende il nome del lido, che rientra nella parte storica ed è aperta tutto l’anno, ma è principalmente d’estate che è più visitata, grazie anche alle mostre d’arte che ospita. Ma anche il paese attrae gente, ovviamente più adulta. La piazza principale, Piazza Steri, ospita concerti o eventi, soprattutto a cavallo di ferragosto, quando le strade divengono aree pedonali perché la zona è chiusa ai mezzi a causa delle bancarelle di dolci, orecchini, attrezzi e vasi antichi che occupano la via G. Rizzo, e che diventano il luogo più frequentato. Ma Rossano è riconosciuto per i beni architettonici che ne hanno fatto la storia. Nel Centro Storico di Rossano è possibile visitare La Cattedrale di Maria Santissima Achiropita Eretta nell’XI secolo, è il principale monumento architettonico della città, con pianta a tre navate e tre absidi. La torre campanaria e la fonte battesimale risalgono al XIV secolo mentre gli altri decori datano tra il XVII e il XVIII secolo. La chiesa è famosa per l’antica immagine della Madonna Achiropita. All’interno della sacrestia nel 1879 fu ritrovato il famoso “Codex Purpureus Rossanensis”, evangeliario greco del V-VI secolo di origine mediorien-

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di Flavia Capoano

tale o alessandrina, portato a Rossano probabilmente da qualche monaco in fuga dall’oriente durante l’invasione degli arabi (sec. IX-X) e composto di 188 fogli di pergamena contenenti i Vangeli di Matteo e Marco e una lettera di Eusebio a Carpiano. Il manoscritto è la testimonianza più rappresentativa e preziosa di Rossano “la Bizantina”, riporta testi vergati in oro e argento ed è impreziosito da quindici miniature che illustrano i momenti più rilevanti della vita e della predicazione di Gesù. San Marco (Oratorio) Originariamente dedicato a Sant’Anastasia, risale al sec. X e fu voluto da San Nilo di Rossano. Esso era dedicato all’ascesi comunitaria dei monaci (preghiera, lettura dei testi sacri, meditazione, contemplazione, canto corale) che vivevano nelle sottostanti grotte. Il piccolo edificio sacro, che si trova sulla cima al di sopra di un piccolo culmine di roccia, semplice nel suo impianto, guarda con le sue absidi all’oriente bizantino - greco e di questo ripresenta i motivi architettonici tipici: la pianta quadrangolare a croce greca, l’altare al centro, la copertura costituita da cinque cupole e sorretto da sei pilastri in muratura, le tre absidi con bifore, un’acquasantiera, gli affreschi parietali. E’ il capolavoro dell’architettura bizantina sacra in Calabria insieme alla cattolica di Stilo. Queste sono quelle principali e le più conosciute, ma per fare il nome di altre importanti si può ricordare Chiesa e Monastero di S. Maria Nuova Odigitria, S. Bernardino (1428 - 1462), S. Nilo (1620).

Turismo

Gita a Rossano Calabro

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Turismo

La gita a Maratea L

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’Associazione Culturale e Sociale Presenza Lucana, per festeggiare i suoi 18 anni dalla fondazione, avvenuta a Febbraio del 1990, presenterà una serie di percorsi descrittivi, facenti parte della cartella “Alla scoperta delle nostre origini” ed inseriti nel progetto “Turismo di paese”. Gita ad un Borgo lucano: Maratea. Partendo da Taranto ci si deve immettere sulla statale Jonica 106 e percorrerla sino a dopo Policoro; da dove sulla destra nasce una strada “La Sinnica” che si snoda lungo il fiume Sinni in uno scenario molto vario e bello, da Bosco Pantano al casello autostradale di Lauria Nord. A circa 40 Km, da Taranto, è raccomandabile una sosta per osservare da vicino e fotografare le celebri “colonne doriche di Metaponto” (Tavole Palatine) che si stagliano con tutta la loro bellezza appena attraversato il ponte del fiume Bradano. Imboccata la statale “sinnica”, dopo pochi chilometri s’incontra, sulla sinistra Valsinni, con arroccato il celebre Castello dove si consumò la tragica storia della poetessa Isabella Morra. Questo paese, divenuto il “Terzo Parco Letterario” della Basilicata, gli altri sono Aliano e Grassano, guarda dal basso un paesino Colobraro, appoggiato su una collina. Non si fa in tempo a sognare ed a rileggere i versi della bell’Isabella, che già si arriva al grande Lago artificiale del Monte Cotugno che rifornisce d’acqua buona parte della Puglia. Girando intorno all’invaso, si osserva il barbagliare del sole nell’acqua cheta del lago, che ora, per le abbondanti piogge si mostra in tutta la sua grandezza. Si continua e si passa vicino Senise il paese di Nicola Sole e del peperoncino, poi spunta per un attimo Francavilla sul Sinni e dopo una curva si erge possente e bell’Episcopia con il suo Castello. Passando vicino a Latronico, dov’è in funzione, da pochi anni, un gran centro termale si arriva alla fine della strada, ma non del fiume che s’inerpica ancora, per un breve tratto, sino al Monte Sirino da dove nasce. Durante il viaggio d’andata, lungo la Statale Sinnica, a

di Michele Santoro

buona percorribilità, si possono notare i contrasti paesaggistici tipici della regione: i paesetti in cima alle colline che sembrano ergersi sino a toccare il cielo, le linee disegnate dai calanchi, dal colore monocromatico, i laghi artificiali, i paesaggi ameni delle valli nel cui seno si muove la condotta che porta l’acqua al territorio pugliese. I pittori, i fotografi, i poeti, gli artisti e gli amanti delle bellezze naturali possono recarsi in Basilicata sicuri di trovare quel nettare necessario ad alimentare la loro creatività. Usciti sull’autostrada Reggio Calabria Salerno si prosegue, in direzione Salerno, sino all’uscita di Lagonegro Sud da dove s’imbocca una nuova strada, molto bella e percorribile: il fondovalle del Noce che s’incunea in un bosco dai colori verde di varie tonalità. Questa strada, ad ottima percorribilità, offre panorami d’intenso splendore degradando, di circa mille metri, sino a Castrocucco, ultimo agglomerato urbano che divide la Basilicata dalla Calabria. Lungo quest’arteria, sul lato sinistro, un paese, Rivello, uno dei più bei borghi d’Italia, occhieggia con il sole mostrando tutta la sua splendente bellezza. Non si può fare a meno d’accostare l’auto, in una zona di parcheggio, e fotografare questo raro esempio di paesaggio mediterraneo divenuto vero monumento nazionale, grazie a Giorgio Bassani, autore del “Il Giardino dei Finzi-Contini” e fondatore di “Italia Nostra”. Il paese è costruito su tre colli e si staglia maestoso ed antico nei colori dei tetti, delle case e delle facciate che s’inseguono ed intrecciano in modo disuguale. Vale la pena anche uscire dalla strada “Fondovalle del Noce” e fare un’escursione per le vie di questo borgo antico, segnalato da tutte le guide. Proseguendo sulla costa tirrenica, verso nord, si giunge a Maratea, una vera perla del Tirreno che dall’alto del Monte S.Biagio offre una vista meravigliosa sul golfo di Policastro. Mare, monti e verde, tanto verde, questa è la prima impressione di Maratea. Un mare splendido, insenature molto belle, scogli e rocce sporgenti, con dei colori particolari: glicine che a tratti diventa azzurrognolo e poi verdastro. Il colore verde, però, non è solo nel mare. C’è un verde ricco di sfumature, quello proprio della macchia mediterranea, arricchita dal giallo prorompente delle ginestre in fiore; esiste, ancora, un verde più forte e deciso su una vegetazione a fusto più alto, più caratteristico dei posti di montagna. La costa somiglia un poco a quell’amalfitana, ma il paese Maratea è diverso, non è il tipico luogo di mare con le case a terrazze ed il bianco degli intonaci che acceca e sembra sorridere al sole. La cittadina somiglia più ad un centro montano. Il centro storico, il borgo, Maratea inferiore, sorge arroccato su un fianco


Turismo del monte San Biagio e con i negozietti, il candore, gli angoli stupendi, le numerose chiese crea un fascino particolare nel turista, anche per l’aspetto Medioevale. Tra le innumerevoli Chiese, che insistono nel centro storico, la più antica è quella di San Vito, con affreschi del ‘400 e del ‘600. Nella Chiesa dell’Annunziata, è conservata una bella tavola cinquecentesca di Simone da Firenze. raffigurante l’Annunciazione. Dopo il pranzo in un ameno ristorante, visita al Santuario di San Biagio, protettore del paese, fondato tra il VI e VII sec. da monaci basiliani. Poi è d’obbligo la gradevole passeggiata verso la base del Cristo Redentore per godere, ancora una volta, dal belvedere, un ampio panorama verso il mare e i monti. Il monte è bellissimo, maestoso e regala una vista della costa che non può essere dimenticata facilmente. Il Cristo Redentore nella semplicità di linee e nella posa di richiamo a salire su, verso il cielo, con il suo biancore ed i 22 metri d’altezza e 19 mt. d’apertura delle braccia, opera del fiorentino Bruno Innocenti è attraente; è quasi un dovere salire la scalinata, al com-

pleto, ed arrampicarsi sull’altura, sino ai suoi piedi, quasi a toccarlo, per godere l’incantevole scenario dei monti della Basilicata, della Calabria e dei bagliori del Mar Tirreno. La vista della costa, del “Pianeta Maratea”, formato dal Borgo, da Maratea Porto, Maratea Santa Venere, la Marina, Castrocucco, Cersuta, Acquafredda, Massa e Brefaro è una scenografia veramente spettacolare: una vera perla dal valore inestimabile. La mescolanza di colori e la diversità paesaggistica, che si ammirano dall’alto, sono talmente intense che difficilmente potranno essere cancellate dal tempo. Poi, al ritorno, inerpicandosi per circa 15 km sul dorsale appenninico si giunge a Trecchina, un paese che come tanti altri della zona non ha mancato di offrire piacevoli scoperte. La piazza del paesino è unica, per grandezza, nei paesi della Basilicata. Al centro si affaccia la chiesa, grande ed ad una sola navata, di San Michele Arcangelo, nel cui interno sono conservate 5 statue del santo, di diverse fatture ed autori e realizzate in tempi diversi. D’interesse per la diversità sono alcune edificazioni, in stile liberty, costruite da emigranti tornati in patria. Da uno spiazzo si può osservare, con meraviglia, appoggiato su un costone della collina, il piccolo e lindo centro storico, molto bello e di sicuro interesse paesaggistico. Maratea, Rivello Trecchina, al pari di tanti altri paesi della Basilicata, mete delle prossime schede di Presenza Lucana, saranno un punto di riferimento per quanti vorranno conoscere, più a fondo, la Basilicata regione incastonata tra la Puglia e La Calabria e che offre molti spunti, per gite diverse, in tutti i mesi dell’anno. A distanza di tempo, i ricordi, le sensazioni godute durante le passeggiate, diventano parole da riferire ad altri amici che trovano nelle schede di Presenza Lucana un punto certo di riferimento per la conoscenza paesaggistica e culturale della Basilicata.

Contrada Castrocucco - 85046 Maratea (Pz)

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Turismo

Una giornata a San Severo Q

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uesto itinerario culturale, dal barocco leccese ai muretti della Valle d’Itria, dai Trulli alle Masserie fortificate, dagli imponenti castelli di Federico II° alle maestose decorate Cattedrali, riprende il viaggio iniziato in precedenza nell’articolo ispirato alla terra degli apuli, nel tentativo di offrire qualche altra cesta ricolma di bellezze italiche. Un viaggio che percorre una Regione attraversata da tumultuose storie di dominazioni, guerre e conquiste di un territorio al centro del mediterraneo, condite di suggestive leggende che sembrano sconfinare nel fiabesco e nel mistero dell’irreale ... e se fosse più vero che mito? Ritornando per le vie della città eretta nell’antica Daunia ... Venite e vedete per scoprire la città dell’arte ... oh impavidi paladini! Si narra in una leggenda dell’epoca rinascimentale che fu un eroe greco, Diomede, a fondare una città pugliese nominata Castrum Drionis (Casteldrione) ovvero San Severo. E pur avendo Diomede edificato due templi dedicati uno a Calcante ed uno a Podalirio, Casteldrione rimase pagana fino al 536 finché vi giunse un certo vescovo di Siponto noto per prodigiose apparizioni dell’arcangelo Michele nel Sacro Speco del Gargano: san Lorenzo Maiorano, che impose alla città il nome del governatore Severo che aveva convertito al cristianesimo. Se non che, le origini si perdono in tempi ben più antichi testimoniati dagli insediamenti neolitici rinvenuti nel territorio. L’età medievale probabilmente fu caratterizzata da insediamenti non strutturati in forma ancora stabile. Un impianto più urbano si andrà organizzando in epoca longobarda e bizantina, in ragione ansitare per raggiungere i centri degli scambi e traffici del mercato. E la posizione privilegiata per i commerci, facilitò il rapido sviluppo dell’insediamento urbano che ben presto divenne importante sede dei mercanti veneti, fiorentini, saraceni ed ebrei. La città inizialmente fu amministrata dagli abati benedettini del monastero di San Pietro di Terra Maggiore dove merita evidenziare che l’abate Adenulfo fece redigere la Charta Libertatis nell’anno 1116. Poi nel 1230, ribellatasi all’imperatore Federico II, vennero abbattute le mura e fu ceduta ai Templari, 1233. In seguito, dichiarata città regia, fu sede di vari monarchi, tra i quali vengono ricordati Giovanna d’Angiò e Ferrante I d’Aragona, mentre nel XVI secolo ospitò il Governatore della provincia di Capitanata e Molise, regione di cui era capoluogo, e del tribunale della Regia Udienza. Nel 1528 San Severo fu testimone di evento a dir poco velato di magico: presa infatti d’assalto dall’esercito spagnolo, nel cuore della notte, deciso ad espugnarla e metterla a saccheggio, l’abate Severino, santo patrono, apparve, in abiti guerreschi, a cavallo sulle mura della città, con una bandiera rossa nella mano sinistra e una

di Tiziana Pizzamiglio

spada nella destra, con al seguito terribili schiere celesti, e mise in fuga offensore atterrito, salvando la città dalla minaccia di rovina. I cittadini professarono al potente protettore, proclamato Defensor Patriae, la propria eterna gratitudine e venne scelto come stemma rappresentativo di San Severo la figura stessa del santo nelle sembianze apparse ai soldati spagnoli. In occasione della festa del santo stabilita all’8 gennaio, fu fatto voto di donare a san Severino ogni anno cento libbre di cera. La città venne quindi raggiunta nel 1534 o 1536 dall’imperatore Carlo V, che vi istituì il Consiglio dei Quaranta, simbolo delle potenti famiglie al dominio. La città coniò moneta propria, il tornese su cui erano impressi un castello, una croce e le parole Santus Sever de Capitanata.Altri eventi si annoverano in questa città fatata: si tramanda la vicenda del miracolo della Pietà del 1557 legato ai pellegrini che erano soliti dimorare in uno xenodochio cittadino che si tro Ma il declino della città non si fermò, anche se fu promossa nel 1580 sede vescovile da Gregorio XIII. Un duro colpo fu inferto dal terremoto del 30 luglio 1627 che distrusse quasi completamente la città. Seguì una lenta ricostruzione che permise nel 1700 di recuperare la posizione nevralgica al centro dei commerci e per interessi agricoli. San Severo risorse in spirito barocco, furono edificate costruzioni sfarzose, palazzi nobiliari e borghesi, gli imponenti monasteri dei celestini, dei francescani e delle benedettine e varie chiese sia parrocchiali che delle confraternite, venne arricchita con insigni opere d’arte, tra cui alcuni marmi del grande scultore Giuseppe Sanmartino e dipinti di scuola napoletana. La curia affiancò a san Severino il nuovo protettore san Severo vescovo. Questo periodo di fioritura barocca fu violentemente interrotta nel 1799 con il saccheggio dei francesi e la sanguinosa repressione da parte dell’esercito repubblicano della rivolta reazionaria contro i giacobini trucidati dalla folla che aveva frainteso l’ideale di uguaglianza dei giovani concittadini rivoluzionari. Questo triste episodio rappresentò, in qualche maniera, l’inizio simbolico di un nuovo corso politico e civile con conseguente trasformazione dell’economia e della società della città pugliese. Altre tappe seguono nello svilupparsi della storia di questa cittadina, come il 1811 anno in cui divenne sede di Sottintendenza e poi Sottoprefettura; soppresso il monastero celestino nel 1813 vi furono trasferiti ivi gli uffici di governo, mentre nel 1819 venne inaugurato il più antico teatro pugliese: il Teatro Comunale Real Borbone.La città divenne, dopo il decennio i controllo francese, una roccaforte importante della carboneria, sede del sottintendente carbonaro Gaetano Rodinò. Vennero successivamente edificati altri palazzi come nel


Turismo 1854 la grande Villa Comunale, nel 1858 la Biblioteca Ferdinandea, preceduta nel 1857 dall’erezione della Madonna del Soccorso a patrona aeque principalis, con san Severino e san Severo. Il 1864 è all’insegna della formazione con l’avvio del Real Ginnasio e delle Scuole Tecniche implementati nel 1866 l ‘Asilo Infantile. Dal 1866 al 1875 emerge come deputato del collegio cittadino, lo storico della letteratura Francesco De Sanctis, che pubblicava in quegli anni a Napoli la Storia della letteratura italiana.La fondazione di due bande nominate la Bianca, costituita nel 1879, e la Rossa, nel 1883 sono segno creativo della passione per la musica che anima questa città. Il Novecento porta una ventata di modernità in San Severo che si dota di un Ospedale Civile (1915), mentre qualche anno più tardi, nel 1923, viene inaugurato con la partecipazione dell’erede al trono d’Italia Umberto di Savoia l’edificio scolastico Principe di Piemonte. Nel 1937 riprende in veste nuova la sua stagione artistica il nuovo Teatro Comunale, tra i più maestoranco Cassano, Rosanna Fratello, Luca Sardella e Matteo Sassano (cantante lirico vissuto dal 1667 al 1737). E gli appassionati del mondo sportivo conoscono certamente nomi come il pugile Luigi Castiglione o il cestista Walter Magnifico, i calciatori Michele Pazienza e Alessandro Potenza. E in tema di sport, tutt’oggi San Severo è palestra di diverse discipline sportive tra le quali risaltano la pallacanestro, calcio e pallavolo. Nel 1987 vi fece visita Papa Joannes Paulus II. Una nota: nel 1996 l’allora Presidente della Repubblica on. Oscar Luigi Scalfaro confermò, con apposito decreto, a San Severo il titolo di città acquisito storicamente nel 1580 Degna di menzione è la sede dell’Università degli Studi di Foggia a San Severo, dove sono attive diverse discipline dall’Infermieristica all’Economia aziendale, dalla Viticoltura, enologia e Scienze e tecnologie della vinificazione. Se è vero che la città di San Severo è ai primi posti a livello mondiale nella produzione e commercializzazione di vini con tanto di denominazione di origine controllata (d.o.c. come il San Severo bianco, il San Severo bianco spumante e il San Severo rosso o rosato!), è vero anche che vanta produzione di grano, uva e olive con produzione relativa di olio di olive peranzane. Un tipico prodotto conosciuto è indubbiamente il pane! Cittadini e turisti, visitatori e pellegrini possono certo allietarsi con la ricca stagione teatrale e concertistica che si esibisce nel corso dell’anno. Cercate un angolo tutto culturale? Chiesto, dato in men che non si dica. Potete visitare il Museo Civico nel settecentesco mo-

nastero francescano e nello stesso palazzo trovate anche la Pinacoteca e la Biblioteca Comunale. Nel Palazzo del Seminario vi è il Museo diocesano. La Biblioteca Provinciale dei Frati Minori Cappuccini ha sede nel convento di Santa Maria di Costantinopoli e per studiosi e studenti universitari è accessibile la Biblioteca economico-giuridica Felice Chirò. Sempre in città trovate l’Archivio Storico Diocesano a Palazzo Trotta, vicino la Cattedrale. Se la fiamma della passione dell’arte brucia nel vostro animo ecco la Galleria d’Arte Moderna a Palazzo San Lorenzo. E dopo tanta storia, arte e cultura, concediamoci un po’ di colorato e variegato svago unendo sacro e profano, tra feste religiose e tradizioni popolari! Ogni occasione propone la sua alternativa, alcuni esempi: la festa patronale detta Festa del Soccorso nella terza domenica di maggio tra processione e cortei, scanditi da fuochi pirotecnici. Mentre il Venerdì Santo è caratterizzato da riti tardobarocchi della Settimana Santa, processioni; suggestivi i tre sacri cortei che si diramano dalle rispettive chiese e convergono tutti nell’antica piazza del Castello. In luglio la città è animata dalla festa della Madonna del Carmine, mentre in agosto prende vita quella di san Rocco o ad ottobre quella della Madonna del Rosario, la festa dell’8 dicembre della Concetta ovvero l’Immacolata, mentre a gennaio si festeggia sant’Antonio abate. E anche a San Severo un pittoresco carnevale anima le vie con originali usanze locali e la maschera tipica della città pacchianella. Settembre inebriata un tempo dalla festa dell’uva, propone da alcuni anni la Festa di San Martino dove tra concerti, mostre e sfilate folcloristiche, il palato è stuzzicato da degustazioni di vini e gastronomia localeacolari e le bellezze artistiche Pietre che parlano! Sugli agresti versi tratti dalla Ecloga I ne Le Bucoliche di Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.), si chiude questo breve excursus in San Severo.

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Cultura

Alla scoperta di Cividale del Friuli C

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onsiderando il territorio friulano - delimitato dal Veneto ad Ovest, dalla isontina Venezia-Giulia ad Est, dalle Alpi Carni che a Nord e dal mare Adriatico a Sud - viene spontaneo collegarci mentalmente a Udine, sua capitale, epicentro geografico, economico e culturale della zona anzi detta. Appuntando tuttavia l’attenzione sulle vicende storiche della provincia considerata, balza in evidenza un insediamento ben più antico, Cividale del Friuli, cittadina dagli odierni 15.000 abitanti, posta a sedici chilometri da Udine (verso Nord-Est), allo sbocco della valle del Natisone. Citiamo subito questo fiume, invero assai pittoresco, soprattutto in quanto, scorrendo incastrato fra due impervie sponde, ebbe a costituire la prima difesa naturale del centro predetto. Alcuni storici sostengono che Cividale sarebbe stata fondata dai Celti. Peraltro, le più significative tracce archeologiche e documentarie sono, senza dubbio, quelle lasciate dai Romani, risalenti al I secolo a.C.. Pare che lo stesso Giulio Cesare fosse intervenuto in loco, vuoi per consolidare la conquista e le strutture politicomilitari, che per dare concreta attuazione a varie opere pubbliche. Tant’è che la denominazione della località “Forum Julii”

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di Giuseppe Perissinotto

viene comunemente ritenuta segno di palese riconoscimento e sottomissione al dittatore romano. Devastata nel V secolo dagli Unni, la città veniva occupata, tra il 568 e il 774, dai Longobardi che ne fecero la sede del loro primo ducato italiano. Per inciso, esiste tuttora la delimitazione dell’antica “Gastaldaga”, la zona urbana più rappresentativa, destinata al Gastaldo, il funzionario regio svolgente funzioni amministrative e fiduciarie nell’ambito del ducato. In virtù della stabilità socio-politica garantita dai due secoli di dominazione longobarda, Forum Julii ha modo di sviluppare le proprie attività economiche, religiose e artistiche. Nel 774, la vittoria di Carlo Magno sul monarca longobardo Desiderio induce allo scioglimento di buona parte dei ducati disseminati nella penisola. Vi fanno eccezione esclusivamente quelli di Spoleto e di Benevento, per lungo tempo resistenti e prosperi. L’importanza nel frattempo acquisita da Forum Julii consente a detto centro di attirarvi la sede del Patriarcato di Aquileia (735), esercitante poteri religiosi e temporali. Il Patriarcato rimane quivi ubicato sino al 1238, allorché viene trasferito a Udine. Giova ricordare, inoltre, che nel 1420, sull’intero Friuli interviene il controllo della Repubblica di Venezia. Sin dal IX secolo, tuttavia, considerata la collocazione geografica di Forum Julii ai confini con l’Austria, la località in questione assume la nuova denominazione di “CIVITAS AUSTRIAE”, dalla quale deriverà quella attuale di Cividale.Attivo centro commerciale e agricolo (noto per la produzione di vini pregiati), Cividale esercita un rilevante richiamo culturale e turistico soprattutto per le sue prerogative storico-artistiche. Le possenti volumetrie del duomo e del campanile sovrastano l’intero contesto urbano. Infatti, quest’ultimo risulta caratterizzato da una serie di vie strette (di chiara impronta medievale), da palazzi architettonicamente prestigiosi, da chiese e monumenti di varie epoche. Esistono un importante museo archeologico e pubbliche istituzioni preposte alla tutela e conservazione dei beni culturali. Il più significativo richiamo di natura storico-artistica può comunque individuarsi nel famoso “Tempietto longobardo”, originaria cappella palatina risalente all’VIII secolo, impreziosita da affreschi e da raffinate decorazioni in stucco, queste ultime di presumibile derivazione medio orientale. Da alcuni anni, durante la stagione estiva, si svolge a Cividale il “Mittelfest”, una delle più importanti rassegne internazionali di prosa, musica, danza, marionette, cinema, ecc. dei paesi del centro Europa. Non può dimenticarsi, infine, che la cittadina è altresì rinomata per la particolare vitalità che la contraddistingue. Tale prerogativa può senz’altro attribuirsi all’inconfondibile retaggio d’un passato che obbligava i vari ceti sociali ad integrarsi. L’intera collettività era infatti costretta a convivere entro la ristretta cinta muraria, condizione che favoriva il dialogo, le più concordi sinergie, nonché... il comune apprezzamento dell’enogastronomia locale.


Cultura

I natali di Romolo e Remo

di Matteo Esposito

I

l comune di Nemi, nonostante sia il più piccolo fra i castelli romani è probabilmente il più pittoresco e uno dei più ricchi a livello culturale e cultuale. Situato nei pressi del famoso lago di Diana e dominato dall’antico Palazzo Ruspoli, è rinomato per i suoi vicoli sui quali si affacciano antiche botteghe artigiane. In ambito culinario a Nemi si possono gustare varie specialità a base di funghi e selvaggina. I boschi di lecci e castagni, circostanti il territorio di Nemi, sono stati in epoca romana, come anche anni addietro, sede di divinità. Ciò è intuibile dai vari templi che arricchiscono i territorio. Il lago di Nemi, situato all’interno di un vulcano che ha ormai cessato da tempo la sua attività, è stato per anni il custode delle due celeberrime navi di Caligola. Tuttavia la vera ricchezza di Nemi deriva dal suo patrimonio storico-culturale. È qui infatti che Roma ha le sue origini. Romolo e Remo erano infatti i figli della vestale Rea Silvia, e gli unici templi in onore di Vesta, prima della nascita di Roma, potevano esclusivamente trovarsi nel Nemus Arcinum. Se per cui si vuole dar credito alla leggenda, Romolo ebbe i natali a Nemi, se invece si vuole ragionare in una chiave decisamente più scientifica, Roma affonda comunque le sue radici a Nemi. Il territorio nemese, è interamente situato nel Parco Regionale Suburbano dei Castelli Romani. Il clima, essendo Nemi situato a più di 500 metri di altitudine, è fresco è ventilato anche d’estate. Nei boschi circostanti l’area vi è un’abbondante fioritura di violette e ciclamini, e grazie a questa grande fornitura, gli abilissimi fiorai nemesi riescono a creare sempre nuove combinazioni e, proprio per questo motivo, essi sono famosi in tutto il territorio. Famosissime nei dintorni sono ovviamente le fragole. Sono molti i luoghi del territori da visitare, come ad esempio il castello Ruspoli (risalente al x secolo) e siti archeologici, tra i quali: il tempio di Diana Nemorensis, l’Emissario, la Villa di Cesare e il Museo delle Navi. Il comune di Nemi, è stato visitato da molti artisti, come Andersen, Goethe e Gounod, il musicista, che si ispirò al panorama notturno del lago per comporre la sua Ave Maria, segno che, seppure molto piccolo, Nemi attira gente da tutto il mondo.

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Ambiente

Eco-design: nuova avventura per l’arte contemporanea L

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’eco-design non è più un fenomeno di nicchia ma una realtà affermata e consolidata: il rispetto per l’ambiente si conferma negli ultimi anni un valore imprescindibile per i giovani designer e per tante aziende italiane. La problematica ambientale, quotidianamente oggetto di interesse e dibattito a livello politico ed istituzionale, è sempre più sentita dalle imprese e dai consumatori; le nuove normative internazionali e l’aumento del costo di petrolio e materie prime hanno favorito una generale sensibilizzazione verso temi quali l’eco-compatibilità, il recupero e riciclo dei materiali, il risparmio energetico. Il design italiano per esempio nella produzione di tappeti zerbini, da sempre apprezzato a livello internazionale, punta oggi proprio sulla sostenibilità dei sui prodotti e del loro ciclo produttivo quale valore aggiunto in grado di restituire competitività sul mercato globale e di rispondere a una domanda sempre più consapevole. Obiettivo del nuovo eco-design è la riduzione dell’impatto ambientale del prodotto in tutte le fasi della sua vita: nella fase di progettazione si terrà dunque conto dei consumi energetici, dei materiali, necessariamente usati o riciclati, dell’imballaggio per il trasporto, fino al riciclo dell’oggetto stesso. La Settimana del Design di Milano è una delle vetrine più illustri per i giovani artisti e proprio lì è nato nel 2005 il progetto Remade in Italy finalizzato alla promozione e al supporto delle imprese impegnate nella produzione di prodotti eco-compatibili, in collaborazione con i consorzi nazionali del riciclo e sotto il coordinamento tecnico dell’architetto Marco Capellini. Il progetto, dopo essersi affermato in tutta Italia, è stato trapiantato anche in Argentina, Brasile, Australia e Portogallo ed il suo successo internazionale è tale da far pensare ad un Remade on the World. Indizio del nuovo connubio tra design e ambiente è l’evoluzione artistica di uno dei più grandi e famosi designer, Phillipe Starck, che, dopo aver rinnegato quasi tutte le creazioni che l’hanno reso un simbolo del design di massa contemporaneo, ha intrapreso l’unica via a suo dire attualmente percorribile: quella dell’ecologia e dell’eco-sostenibilità. Ma è l’arredamento il settore più influenzato dalle nuove tendenze. Giovani artisti di tutto il mondo propongono pezzi unici e suggestivi, come le lampade in plastica riciclata di Heat Nash, designer sudafricano, i lampadari del britannico Stuart Haygarth, in plastica e detriti raccolti sulla spiaggia o le lampade “Packaging lights” di Anke Weiss, costruite con le confezioni di succhi di frutta e latte.. La scelta dei giovani designer si rivolge oggi sempre più frequentemente a materiali eco-compatibili, usati o riciclati: legno, acciaio, carta, vetro, e cuoio riciclati danno vita a complementi arredo bagno innovativi e di qualità. Esempi recenti sono

Redazione Arca

le librerie da parete disegnate da Marco Capellini, in tubi di cartone e alluminio riciclati, la poltrona Polly dell’azienda Tecnopack, interamente in cartone ondulato, i tavolini, le sedie e le porte in acciaio riciclato, mentre è ancora solo un prototipo il primo frigorifero di cartone della Indesit. E’ tale l’interesse in questo campo da aver indotto nel 2002 alla creazione di MATREC (MATerial RECycling), una banca dati dei nuovi materiali riciclati con un portale on-line per aggiornare gli operatori del sistema. Ma l’eco-design punta oggi anche su materiali naturali, quali tessuti, cera, bambù, midollino, juta. E’ questo il caso del progetto SUDesign, nato dalla collaborazione dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino, l’Università IUAV di Venezia e artigiani di tutto il mondo, che promuove un connubio tra design moderno e tendenze tradizionali, coniugando eco-sostenibilità e commercio equo e solidale. L’eco-design si trasforma così in qualcosa di ancor più avvincente, il design for sustainability, che persegue coscienziosamente l’idea di un prodotto sostenibile non solo a livello ambientale ma anche economico e sociale, nato da un lavoro equamente retribuito, in condizioni di assoluta sicurezza e legalità anche per quanto riguarda i tappeti ufficio. Sembra dunque nascere proprio da qui la possibilità di dimostrare come sia possibile conciliare un atteggiamento aziendale etico e il rilancio della competitività sul mercato internazionale. L’arte italiana accetta così una sfida ambiziosa ed esemplare: rendere finalmente la virtuosità di azienda e prodotto un elemento imprescindibile, il valore aggiunto in grado di riportare l’industria nazionale a livelli di assoluta eccellenza. BERGHINZ S.r.l. Gestioni Patrimoniali - Amministrazioni immobiliari e locazioni - Stime P.tta Antonini, 6 (Palazzo de Brandis) - 33100 Udine Tel. 0432204425 Fax. 0432-289495 e-mail: berghinzsrl@legalmail. it Iscritto alla libera Associazione Amministratori Immobiliari GESTICOND aderente alla Confedilizi

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ODRA Mediterranea s.r.l. (Centro Operativo per la Difesa e il Recupero dell’Ambiente), da oltre quindici anni si occupa di recupero ambientale, investendo risorse private per acquisire e sviluppare know-how e tecnologie avanzate nel settore ambientale in genere e del restauro di ambienti degradati in particolare, anche grazie a rapporti di collaborazione scientifica e professionale con Istituti di Ricerca, Università e Centri scientifici pubblici e privati, nazionali ed internazionali. Nell’attuale contesto di emergenza ambientale, che coinvolge ormai tutto il pianeta, CODRA Mediterranea, riconosciuta Centro Nazionale per lo Studio e la Conservazione della Biodiversità forestale in data 25/01/2006 ai sensi dell’art. 10 del D.Lgs. 18/05/2001 n°227 dal Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare di concerto con il Ministro delle Politiche Agricole e Forestali, si pone come struttura di riferimento a livello euro-mediterraneo per le attività volte alla conservazione dell’ambiente e alla salvaguardia della biodiversità. Il Centro rappresenta, oggi, un articolato Parco Ambientale, esteso su una superficie di oltre 2.500.000 metri quadri nei Comuni di Pignola e Abriola (provincia di Potenza) e parte del suo territorio ricade all’interno del Parco Nazionale della Val D’Agri. Gli innumerevoli servizi e attività svolte dal Centro sono articolate, così da poter coprire ogni esigenza di intervento nel settore ambientale, perseguendo sempre il fine di ripristinare, ricostruire e riallacciare rapporti tra tutte le componenti biotiche e abiotiche di un habitat, interrotti a causa dei più svariati eventi quali fuoco, smottamenti e frane, rispettando e ricostruendo le tipologie intrinseche di quell’habitat. Infatti, il Centro effettua progettazione e realizzazione di interventi di recupero ambientale, lotta alla desertificazione, conservazione in situ ed ex situ della biodiversità, prevenzione degli incendi boschivi, fitodepurazione ed attività didattiche di educazione ambientale. Gran parte delle tipologie di intervento sfruttano tecniche di ingegneria naturalistica per ricucire, restaurare e recuperare aree sottoposte a degrado ambientale, che vanno dalla difesa spondale, stabilizzazione dei versanti, lotta alla desertificazione, sistemazioni di corsi d’acqua alle sistemazioni idraulico forestali in genere. Interventi esemplari sono stati realizzati, ultimamente, sui versanti del territorio di Sarno (SA), a seguito dell’evento catastrofico verificatosi nel maggio del 1998. Altri interventi di grande portata sono in fase di realizzazione nelle Riserve Naturali di Torre Guaceto (Provincia di Brindisi,

di Gerardo Pitta Puglia) e nell’area protetta Bosco di Pantano (Policoro, Provincia di Matera, Basilicata). Tali interventi prevedono la ricostituzione di aree dunali andate distrutte con tecniche di ingegneria naturalistica. Nel caso specifico della conservazione della biodiversità, Il Centro Nazionale per lo Studio e la Conservazione della Biodiversita’ CODRA, attraverso livelli operativi differenziati che riguardano indagini specifiche puntuali ed azioni progettuali operative, svolge azioni finalizzate alla conservazione di germoplasma endemico mediante la struttura tecnico-operativa della Banca del Germoplasma, punto di riferimento dell’intero Bacino del Mediterraneo. L’intensa attività di ricerca, svolta all’interno di quest’ultima, è finalizzata alla messa a punto di norme tecniche e protocolli sperimentali specie specifici per la conservazione e riproduzione del germoplasma di specie endemiche e/o a rischio di estinzione. La fruizione dell’intero parco Ambientale CODRA è possibile grazie ai 30 km circa di piste forestali e sentieri inseriti all’interno del complesso boschivo del Centro che permettono di raggiungere campi sperimentali, aree pilota e interventi dimostrativi di ingegneria naturalistica. Il Centro effettua all’interno del comprensorio aziendale attività divulgative mirate all’educazione ambientale, destinate soprattutto a scuole di vario ordine e grado, ad Università e Centri di Ricerca, delegazioni di paesi esteri, sfruttando le strutture presenti in azienda e il personale interno. Effettua inoltre formazione di studenti universitari, laureandi e laureati, mediante tirocini pratico-applicativi, stage ed esercitazioni. L’attività di CODRA è rivolta a chiunque intende affrontare le problematiche ambientali, sia che si tratti di amministrazioni pubbliche, ma anche di singoli privati; in pratica CODRA Mediterranea s.r.l. è a servizio dell’ambiente. Le varie tipologie di servizi vengono espletate tramite diverse forme di analisi e valutazione delle problematiche da affrontare, nonché con la successiva progettazione ed eventualmente realizzazione di interventi idonei al risanamento e alla ricostruzione delle situazioni compromesse dal punto di vista ambientale.

Centro Nazionale per lo Studio e la Conservazione della Biodiversità Forestale

CENTRO OPERATIVO PER LA DIFESA E IL RECUPERO DELL’AMBIENTE C.da Sciffa - 85010 Pignola (Pz) - Italy tel. +39 0971 486132 +39 0971 486231 fax +39 0971 486160 Interner: www.codra.it - E-mail: info@codra.it

Ambiente

Difesa e recupero ambiente

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Il Malignani e il volo

Senato, università e web

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di Camillo Benedetto

arola d’ordine Innovazione per l’Istituto Tecnico Industriale “Arturo Malignani” di Udine. Questa scuola è tra le prime al mondo per l’alto livello professionale e innovativo dei suoi alunni.Essi vengono coinvolti in tutto e per tutto, dalla progettazione di un piano di lavoro fino alla sua realizzazione. I ragazzi vengono coinvolti in molte attività; realizzazione di pannelli foto voltaici, macchine industriali di ultima generazione comandate dai computer e in particolare l’area dedicata al volo.Al Malignani è risaputa la quasi centenaria tradizione aeronautica con percorsi professionali di Pilota e Manutenzione di velivoli: l’istituto dispone di uno spazio adeguato per l’atterraggio e il decollo di piccoli velivoli che consentono di dare ai giovani una promozione di attività formative che portano i giovani a toccare con mano la materia di studio e diventare talmente esperti che poi una volta usciti dalla scuola si ha la possibilità di trovare un lavoro.A fine Settembre, l’aeroporto di Campoformido è diventato civile ed è stata data l’autorizzazione al Malignani di usare uno degli ultimi e uno dei più tecnologici modelli di ultraleggeri nel mondo, lo Storch.Da ottobre avrà inizio l’attività di familiarizzazione al volo dei giovani allievi delle classi seconde dell’istituto, che potranno così provare il fascino del volo insieme ad un pilota esperto. L’attività sarà svolta nei fine settimana e sarà organizzata su base volontaria.All’attività di volo vera e propria si affiancheranno anche i briefings e i seminari tecnici, i voli virtuali grazie ai simulatori, numerose proiezioni di filmati aeronautici e scientifici che permettono ai ragazzi e ai loro genitori di trascorrere qualche ora in serenità e tranquillità ma allo stesso tempo respirare l’adrenalina del volo. Questa iniziativa da avvio anche a un altro percorso formativo avanzato Post - Diploma che indirizza nello specifico le sempre crescenti richieste di personale per l’industria aereonautica europea.

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di Camillo Benedetto

l Senato della Repubblica ha affidato al Centro Polifunzionale di Gorizia dell’Università di Udine, una ricerca per valutare come ampliare la sezione in lingua del web del ramo del Parlamento. L’ateneo friulano dovrà fare una ricognizione degli analoghi servizi offerti dai principali parlamenti del mondo.Si tratta di un incarico molto importante e unico nel suo genere ed aumenta anche l’importanza del Centro Polifunzionale di Gorizia che sarà sempre presente in ricerche legate al mondo della comunicazione istituzionale, d’impresa e sociale.La sede goriziana dell’Università di Udine si appresta inoltre ad inaugurare la Web Radio d’Ateneo, testimonianza che la comunicazione su internet rappresenta il futuro nel rapporto tra le istituzioni e i cittadini. Il Senato ha un sito di grande qualità più volte premiato a livello nazionale, ed essere in stretto contatto con esso è certamente un significato di grande importanza nell’ambito della comunicazione.Ma significa anche, che il lavoro di ricerca portato avanti in questi ultimi anni di continuo sviluppo, attraverso lo studio e il monitoraggio dei siti internet istituzionali ha un valore riconosciuto dalle stesse istituzioni, in modo particolare da quelle più rappresentative del Senato.Un vero e proprio successo per l’Università di Udine che si appresta a svolgere questo lavoro, che avrà una forte proiezione internazionale e una dimensione innovativa, rispetto a tutti gli studi già condotti a livello nazionale.

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intervista a cura di Simone Di Biasio

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er lei la tradizionale Mela d’Oro dalla Fondazione “Bellisario” nella sezione creatività, premio alle “donne che progettano il futuro”. È originaria di una ridente cittadina in provincia di Latina, Lenola, ma oggi è in tutto il mon-

do. «Mi piace pensare di aver portato una “ventata di aria fresca” nel settore orafo con le mie collezioni»: parole di Simona Rosato, manager di successo nel settore orafo italiano con l’omonima azienda di gioielli che puoi vedere al collo di Barbara D’Urso, Filippa Lagerbach, ma anche ai polsi di Joaquin Cortès e Demi Moore, indossati da Simona Ventura durante tutte le sue trasmissioni (L’Isola dei Famosi, Quelli che......., X Factor), e la nostra nuova testimonial per l’anno 2009, ELIZABETH HURLEY. “Rosato Gioielli”, 1^ azienda orafa di Arezzo, 2^ città italiana per esportazione in questo settore che ha fruttato nel 2005 6 miliardi di euro, secondo le stime ICE/ISTAT. Quasi il 20% dell’export di oreficeria italiana

finisce negli Usa, il 10% negli Emirati Arabi. Nonostante la crescitadegli anni 2005/06 documentata dall’ASI, l’export è ancora inferiore di circa 1/4 rispetto ai massimi del 2000 e le prospettive del mercato internazionale non paiono particolarmente promettenti. Secondo le rilevazioni del World Gold Council, infatti, i consumi di oreficeria nel mondo hanno segnato nel primo semestre del 2006 un netto calo in quantità. Non sarà tutt’oro quel che luccica, ma il made in Italy abbaglia il Globo: primi in Europa e terzi nel mondo nella trasformazione dell’oro. Al primo posto nel mercato mondiale della gioielleria, al quarto, per attivo, nella bilancia commerciale italiana. Non manca il monito di Fedeorafi: attenzione al falso made in Italy soprattutto nel mercato cinese e più attenzione nelle politiche di promozione del brand italiano all’estero.In tutto questo Simona Rosato non ha perso i contatti con la sua terra natìa, dalla quale ha ereditato l’imprenditorialità e la creatività di un territorio che ispira. Mari e monti sono stati gli scenari anche delle sue ultime vacanze in terra pontina.Da Lenola nel Mondo. Cosa c’è delle Sue origini nelle collezioni Rosato? Direi soprattutto l’amore per i colori. Sono cresciuta in un contesto in cui la natura è la grande protagonista: il mare, i monti, i castagneti, gli uliveti. Tutto questo ha affinato la mia sensibilità per le cromie. Ecco perché in tutte le mie collezioni il colore è un elemento così caratterizzante. Quando inizia la Sua avventura di imprenditrice e con quale spirito? Ho sempre amato le sfide. E la mia sfida professionale è cominciata presto. Ho cominciato a lavorare a 18 anni come assistente commerciale estero di un’azienda orafa toscana. Dopo qualche tempo sono diventata responsabile vendite per il mercato asiatico e a 21 anni ho creato la mia prima azienda. In cosa si contraddistingue il marchio Rosato nel contesto più ampio delle aziende orafe italiane? Rosato ha ribaltato l’assioma che vedeva nel gioiello in oro qualcosa di serio e prezioso, da custodire e indossare solo in alcune occasioni. I miei gioielli sono colorati, divertenti, “facili da portare”, ogni giorno. Sono creazioni che mettono il buonumore. Tutto lo staff che lavora con me ha percepito e fatta sua questa innovazione divenuta ormai una sorta di leit-motiv del nostro brand.Qualcuno ha definito le sue creazioni “giocattoli-gioiello destinati a sdrammatizzare ogni stile”. Definizione calzante. In più le nostre creazioni sono il risultato di un giusto mix di esperienza artigianale e innovazione tecnica e ideativa. Solo grazie ad una continua ricerca di novità e ad un’attenzione maniacale ai dettagli possono nascere prodotti in grado di adattarsi ad ogni stile, essere leggeri e colorati come

Moda

Simona Rosato i gioielli made in Italy di Demi Moore

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giocattoli ed avere al contempo un’anima di metallo prezioso forgiata alla perfezione. I suoi gioielli sono indossati da molte star italiane e non solo: cosa significa questo per Voi? Una grande visibilità. Il nostro brand è molto giovane eppure già molto conosciuto. Demi Moore ci è stata di grandissimo aiuto. Una star internazionale, un personaggio famoso che ha saputo cogliere alla perfezione il mood dei nostri gioielli, li ha indossati e fatti suoi diventando la perfetta icona per Rosato.Nel maggio scorso anche Madrid ha il suo corner “Rosato Gioielli”. Dunque il made in Italy continua ad affascinare ed a fare scuola... L’apertura a Le Corte Inglés di Madrid è stata dettata dal fatto che Rosato là è un po’ già di casa. In Spagna abbiamo un ufficio stampa che si occupa di comunicazione e pr, i nostri prodotti sono conosciuti, fotografati, scelti da stylist. Ma la nostra avventura ci ha già portato in giro per il mondo in Russia, negli Emirati Arabi, in India. Il made in Italy ha ancora un

grande appeal anche se sarebbe sciocco e miope negare i problemi strutturali e non solo che affliggono la nostra economia e che rendono molto difficile mantenere la qualità e l’eccellenza tipiche. L’oreficeria da una grossa mano all’economia italiana... Il periodo che stiamo vivendo non è certo particolarmente facile per il settore orafo. Il prezzo dell’oro è in costante crescita, la competizione sempre più accesa, l’innovazione in termini sia di comunicazione che di produzione, assolutamente necessaria. Il settore orafo, o almeno una parte di esso, è in profonda mutazione ed è questa la vera sfida per il futuro. Ad oggi, qual è la più grande ambizione della sua azienda? Vincere la sfida di cui parlavo prima: essere in grado di innovarsi continuamente, fare del gioiello un elemento fashion, un accessorio irrinunciabile nello styling di ogni donna, ogni giorno. E poi scoprire nuovi mercati, portare la tradizione e la bellezza del made in Italy lontano, lontano...

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Salute

La diagnosi della pervietà del forame ovale

intervista a cura di Davide Castrianni

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bbiamo incontrato il dottor Rosario Forestieri e la moglie, dottoressa Teresa Condina, nel loro studio situato a Cornuda in provincia di Treviso (tel 0423839774) per saperne di più sul PFO (Pervietà del Forame Ovale) e per conoscere la loro tecnica diagnostica. Entrambi sono medici di medicina generale (medici di famiglia), laureati presso l’Università di Padova. Dottor Forestieri, a quanto pare lei pur facendo il Medico di Medicina Generale, continua ad occuparsi di altri settori della medicina. È vero. Io ho sempre avuto un occhio di riguardo per altre due specialità che sono la Medicina subacquea ed iperbarica e la Cardiologia. Anche nel mio lavoro quotidiano come medico di famiglia ho sempre lavorato secondo il metodo clinico che ho imparato presso la Clinica Medica di Padova: Anamnesi, esame obiettivo, rigida tenuta della cartella clinica, e solo dopo, se necessario, successivo ricorso ad esami strumentali. Sono stato uno dei primi medici ad informatizzare il mio archivio clinico e le mie cartelle cliniche (e questo i miei pazienti lo riconoscono) sono assolutamente complete e potrebbero essere usate come un manuale per i giovani medici tanto sono compilate ed aggiornate con pignoleria da parte mia. Inoltre a casa mia ho creato un “Salotto Scientifico” dove 2-3 volte al mese, da molti anni, organizzo incontri con Colleghi referenti delle varie specialità. L’uditorio è composto da una quindicina di medici della mia zona, interessati come me e mia moglie, a tenersi sempre aggiornati. Bene passiamo adesso all’argomento che oggi ci interessa: Dottoressa Condina, che cos’è il forame ovale pervio? Il Forame Ovale Pervio, altrimenti abbreviato con l’acronimo PFO (o FOP), è un’anomalia cardiaca (parafisiologica secondo alcuni) in cui l’atrio destro comunica con il sinistro a livello della fossa ovale. Statisticamente interessa, nei vari gradi di gravità, all’incirca il 25-30% della popolazione adulta essendo stato trovato in autopsia nel 6% dei casi di adulti con diametro fra 0,6 e 1 cm e nel 25-35% dei casi con diametro fra 0,2-0,5 cm. Questo difetto possiede il solo significato di poter rappresentare una via potenziale per un embolismo paradosso, in altre parole un passaggio di elementi corpuscolati o gassosi (emboli) dal territorio venoso, dove hanno origine, a quello arterioso, con i danni ischemici che ne conseguono a seconda della sede dove l’embolo si dirige.Nella vita fetale il forame ovale è aperto, per permettere al sangue proveniente dalla vena ombelicale di passare nel circolo arterioso senza attraversare per il circolo polmonare dato che i polmoni non sono ancora funzionanti. Alla nascita, la circolazione placentare viene interrotta,

i polmoni dopo il primo vagito iniziano la loro attività respiratoria e il piccolo circolo (cioè quello polmonare) diventa pienamente funzionante. Normalmente, entro il primo anno di vita, il PFO si chiude. In alcuni casi come abbiamo visto, resta pervio. Nelle normali condizioni di vita, il PFO non comporta nessun problema. Se invece la pressione nell’atrio destro supera quella dell’atrio sinistro, ci può essere un passaggio (shunt) di sangue attraverso il PFO all’atrio destro all’atrio sinistro. Se in questo sangue sono presenti bolle o emboli, può verificarsi una embolia. Dottor Forestieri, per quali soggetti per i quali la diagnosi di PFO è importante? In primo luogo i pazienti giovani (di età inferiore ai 60 anni), colpiti da uno o più episodi di ischemia cerebrale transitoria o da ictus, la cui causa non sia stata determinata (“criptogenetica”) e si sospetti una embolia cerebrale. Poi i subacquei colpiti da forme gravi di malattia da decompressione dopo immersioni eseguite nel rispetto delle tabelle (necessarie le bolle di gas inerte). Questo è un settore che io seguo con molta attenzione essendo socio della SIMSI (Società Italiana di Medicina Subacquea ed Iperbarica), ed io stesso subacqueo. I cefalalgici (emicrania con aura): la prevalenza di PFO è del 48% nei pazienti con emicrania ed aura, contro il 23% nei pazienti con altri tipi di cefalea. Infine gli affetti da Sindrome platipnea-ortodeoxia. Dottoressa Condina, ci spiega perché il PFO può essere responsabile di un Ictus criptogenetico ? Perché la presenza di questa comunicazione fra atrio destro e atrio sinistro, potrebbe far passare dei trombi (coaguli di sangue) nel circolo arterioso, e se questi prendono la strada delle carotidi e quindi del cervello, arrivando in vasi sempre più piccoli possono determinarne l’ostruzione con la successiva necrosi del territorio da essi irrorato (Ictus cerebrale) L’incidenza della presenza PFO nei pazienti con Ictus criptogenetico nelle varie casistiche degli anni ‘90 risulta essere circa il doppio (45%) rispetto alla prevalenza nella popolazione normale. La contemporanea presenza di PFO di grandi dimensioni associato ad un’altra malformazione che è l’Aneurisma del setto interatriale (ASA), individua un sottogruppo di pazienti ad alto rischio. Un altro fattore che aumenta il rischio è il contemporaneo uso della pillola anticoncezionale, che, in donne predisposte, può provocare turbe della coagulazione sanguigna e quindi favorire la presenza di trombi i quali staccandosi e approfittando della presenza del PFO possono provocare le embolie di cui si è detto prima. E al Dottor Forestieri chiediamo di approfondire i rapporti fra PFO ed Emicrania con aura. L’incidenza di comunicazioni interatriali, in primo luogo di PFO, è più elevata nei pazienti con emicrania specialmente se associata ad aura. Quasi metà dei pazienti af-


Salute fetti da emicrania con aura presenta lo stesso difetto cardiaco: la pervietà del forame ovale. In uno studio recente di Anzola et al. la prevalenza di PFO era del 48% nei pazienti con emicrania ed aura, contro il 23% nei pazienti con emicrania comune. Come detto dalla Dottoressa Condina, anche l’uso della pillola anticoncezionale diventa un fattore di rischio aggiunto in presenza di PFO ed emicrania. Dottoressa Condina, che cosa ci dice invece della malattia detta Platipnea-Orthodeoxia. Platipnea-orthodeoxia è una sindrome rara caratterizzata da dispnea tachipnea e desaturazione arteriosa con l’assunzione della posizione eretta. Tale sindrome si ritrova comunemente in pazienti anziani con storia di malattia polmonare importante come pneumonectomia, emboli polmonari ricorrenti o malattia polmonare cronica. Il meccanismo fisiopatologico è tuttora sconosciuto. Il disordine è causato dall’accentuazione di uno shunt destro-sinistro attraverso una comunicazione interatriale, solitamente un PFO, in ortostatismo. L’eliminazione di tale shunt attraverso la chiusura percutanea del difetto interatriale sembra essere una valida terapia in quanto si ha un miglioramento sia della saturazione arteriosa sia della sintomatologia respiratoria. La medicina Subacquea è una specialità della quale il Dottor Forestieri si occupa in modo particolare; è a lui che chiediamo perché il PFO è tanto importante per i sub. Quando ci s’immerge si respira aria compressa, e i vari componenti dell’aria (soprattutto ossigeno e azoto) si sciolgono nel sangue e nei tessuti. In risalita vengono rispettate le “tabelle di decompressione” per evitare che l’azoto restituito dai tessuti si espanda formando delle bolle. Le bolle gassose originate dopo ogni immersione subacquea si formano nei tessuti, all’interno delle vene e non nel sangue arterioso. Generalmente le bolle sono piccole e non provocano sintomi perché passano secondo il gradiente di concentrazione dal territorio venoso ai capillari polmonari, poi negli alveoli e da qui esalate nell’aria espirata. Un PFO consentirebbe a queste bolle altrimenti asintomatiche di entrare, in particolari circostanze, nel circolo arterioso, dato che in questo caso la separazione tra i due atri non è ermetica. Anche gli emboli gassosi, così come gli emboli di sangue coagulato, possono danneggiare il territorio irrorato dal vaso interessato provocando la Malattia da Decompressione

(MDD). L’inversione del gradiente pressorio fra i due atri si verifica anche durante una manovra di compensazione forzata come la Manovra di Valsalva (soffiando nel naso a bocca chiusa), dal momento che aumenta la pressione nella parte destra del cuore e può provocare o incrementare uno shunt dx > sx in caso di PFO o di altro difetto settale. I dati non ancora definitivi di vari studi evidenziano una significativa, maggiore incidenza del PFO nelle patologie da decompressione di tipo cerebrale. Gli shunts destro-sinistri sono particolarmente associati a sintomi neurologici della MDD, che insorgono nei 30 minuti successivi alla risalita in sub che hanno effettuato immersioni in curva di sicurezza, mentre tali sintomi di solito si presentano in subacquei privi di shunts destro-sinistro, che hanno effettuato immersioni fuori curva con grande produzione di bolle. Le obiezioni principali all’ipotesi della responsabilità del PFO sono le seguenti: • Circa 1/4 della popolazione e, con la stessa proporzione, il popolo dei subacquei presentano un PFO che può portare a shunt destro-sinistro • I subacquei vanno incontro a MDD con una frequenza considerevolmente inferiore, infatti, molti sub, con dimostrato shunt destro-sinistro, non hanno storia di MDD Dottoressa Condina. Abbiamo capito adesso cos’è il PFO e le conseguenze (per fortuna rare rispetto all’incidenza nella popolazione) che esso può provocare. Ci spieghi adesso come si diagnostica. Il PFO non può essere diagnosticato con l’esame clinico, la radiografia del torace o l’Elettrocardiogramma. Per la sua diagnosi sono necessari esami più specifici e/o in-

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vasivi. L’esame più dirimente è il Cateterismo cardiaco con Ecografia intracardiaca che vista l’invasività non può essere però considerato un esame routinario, in genere si fa nei pazienti già candidati all’intervento di chiusura transcatetere del PFO. Attualmente gli esami ritenuti più idonei sono l’Ecocardiografia Transtoracica (TTE) e Transesofagea (TEE), il Doppler Transcranico (TCD) e il Doppler carotideo. Ce ne può illustrare brevemente le caratteristiche? La TEE è considerata il “gold standard” per l’individuazione di PFO. Rispetto al normale E c o c a r d i o g r a m m a (TTE), nel quale la sonda viene poggiata esternamente sulla parete toracica, la sua sensibilità è maggiore. Viene eseguita dopo somministrazione di un mezzo di contrasto eco-percepibile, rappresentato da microbolle di aria in soluzione salina agitata. La sonda ecografia viene inserita nell’esofago. E’ necessario che il paziente esegua manovre, che permettano di superare il gradiente pressorio normale a livello del setto interatriale (Valsalva). Si tratta di un esame che consente la visualizzazione diretta del PFO, ma anch’esso ha una sua invasività in quanto non tutti tollerano la sonda introdotta nell’esofago. La tecnica del doppler transcranico è invece basata sull’individuazione di un segnale indotto dalle microbolle, iniettate nella vena antecubitale del braccio, a livello dell’ arteria cerebrale media: queste, in presenza di un PFO e dopo opportune manovre possono passare in circolo arterioso e quindi essere rilevate col Doppler. Quindi è un esame diagnostico indiretto, ossia trovando la presenza di bolle in un territorio dove queste non devono essere presenti, dimostra la presenza di uno shunt. Il mezzo di contrasto viene iniettato a riposo e dopo manovra di Valsalva. Recentemente, il

DAN Europe Research ha sviluppato e sperimentato una tecnica ideale, a basso costo, utile per screening su molti soggetti: il doppler carotideo. Viene rilevato un segnale acustico doppler nell’arteria carotide al collo dopo l’iniezione mediante una siringa di una soluzione salina standard “agitata” con una piccola quantità di aria. In presenza di PFO, l’eventuale passaggio di bolle sarà rilevato a livello dell’arteria carotide comune tramite sonda Doppler. La procedura intera richiede circa 20 minuti, ed è assolutamente senza rischi. Il limite dell’esame sta nel fatto che il segnale è solo sonoro e non riproducibile, quindi dipendente solo dall’arbitrio dell’operatore. Manca soprattutto la traccia cartacea e quindi un documento dell’esame. Dottor Forestieri, ci parli adesso dell’esame che ha “inventato” e che lo ha reso noto nell’ambiente medico. Si tratta di un perfezionamento ed elaborazione del Doppler carotideo, proposto dal DAN Europe ed usato anche dalla NASA. La sonda Doppler viene collegata al computer tramite cavi (opportunamente schermati per attenuare il rumore di fondo del prodotto dal flusso sanguigno) con possibilità di registrazione sia del segnale della traccia doppler che del segnale acustico. Successivamente il segnale viene elaborato, tramite opportuno software, con amplificazione del suono prodotto dalle bolle, analisi spettrale, e traccia sia acustica che grafica riproducibile. L’esame può essere così riascoltato, elaborato in moviola, amplificato. Al paziente può essere consegnato il referto cartaceo, un file MP3 o altro file acustico. L’esame viene eseguito con una iniezione di base, una dopo inspirio profondo, e infine dopo Manovra di Valsalva, ripetuta sia nella carotide destra sia in quella sinistra. Per eseguire l’esame è necessaria la presenza di due medici, uno che inietta la soluzione e manovra il computer, l’altro che registra contemporaneamente il segnale Doppler al collo. Per la sua semplicità, la metodica consente di studiare grandi gruppi di pazienti, sia emicranici, sia soggetti che hanno avuto episodi ischemici cerebrali o hanno familiarità per tali eventi. Un campo di notevole interesse è quello della medicina

Per i lettori dell’Arca di Noè Il Dott. Forestieri e la Dott.ssa Condina risponderanno alle vostre domande telefonando al n. 0423-839774 Orario Ambulatorio Mattino


Salute subacquea: Solo il Doppler carotideo può essere usato come screening su gruppi di sub, in quanto gli altri esami, molto più costosi, vengono fatti nelle strutture ospedaliere da medici non “colti” in medicina subacquea, con tempi di attesa enormemente lunghi, ed inoltre non si prenderebbero carico di una popolazione “sana” per fare screening, con tutto il lavoro che hanno giornalmente con i “malati”. Inoltre non tutti gli operatori interpretano il problema con l’ottica della subacquea. Quindi, come si svolge l’esame attraverso la modalità del doppler carotideo? A paziente supino si procede all’incannulamento della vena antecubitale (con ago-cannula da 18), all’inserimento di un deviatore a tre vie (una via per l’accesso venoso, le altre due connesse a due siringhe per miscelare la soluzione e creare le microbolle). Quindi un operatore localizza con sonda la carotide comune e ha inizio la registrazione al PC. L’altro operatore inietta 9,5 cc di Emagel + 5 cc di aria, opportunamente agitati. Dopo 5 secondi al paziente viene fatta eseguire una Manovra di Valsalva per 5 secondi. Infine si procede al riascolto e alla va-

lutazione estemporanea dell’esame, tenendo presente un’eventuale ripetizione dell’esame nell’altra carotide e la successiva rielaborazione e valutazione definitiva dell’esame anche alla moviola con l’apposito software. Dottoressa Condina, il PFO si può “riparare”? Nei casi in cui è indicata la chiusura del PFO, attualmente, all’intervento a cuore aperto, ormai riservato a rarissimi casi, è preferita la chiusura transcatetere. La tecnica, effettuata da pochi centri di cui uno dei migliori d’Italia si trova a Cittadella (PD) ed è diretto dal Dottor Mario Zanchetta, consiste nell’introduzione di un catetere dalla vena femorale, questo arriva al cuore attraverso la vena cava inferiore, attraversa il forame ovale e posiziona un ombrellino prima dalla parte dell’atrio sinistro e poi un altro dalla parte dell’atrio destro. Ai primi ombrellini (detti “device”), con struttura metallica si stanno affiancando adesso nuovi device in materiale riassorbibile. Il paziente viene quindi dimesso in giornata o il giorno successivo all’intervento; per 6 mesi assumerà un antiaggregante piastrinico. Infine verrà controllata ecograficamente la corretta posizione dell’impianto.

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Salute

Il caso clinico di una diagnosi difficile N

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ell’aprile 2007 Il signor F.A., di anni 62, si rivolse al suo medico perché accusava vertigini, nausea e vomito, cefalea con fastidio alla luce. I disturbi duravano ore, in concomitanza ad accessi di tosse. I sintomi non erano specifici per una sola malattia, per cui il suo medico prescrisse dei farmaci sintomatici, anche per prendere tempo e poter osser vare il paziente. Al ripetersi dei sintomi iniziò l’iter diagnostico. In un caso del genere la prassi prevedeva un’indagine a 360 gradi, spesso procedendo più che altro per esclusione. Per prima cosa il suo medico curante chiese una consulenza otorinolaringoiatria nell’ipotesi di un coinvolgimento dell’apparato vestibolare: si tratta dell’apparato deputato al mantenimento dell’equilibrio e della postura e ha sede nell’orecchio. Un suo malfunzionamento avrebbe spiegato infatti le sindromi vertiginose, con nausea e vomito, simili al mal d’auto, ma lo specialista non riscontrò nulla di significativo, per lui si trattava di una cefalea essenziale. Dopo pochi giorni però il signor F.A. si recò al Pronto Soccorso per una nuova crisi di vertigini con vomito e cefalea frontale. Fu eseguita una visita cardiologica urgente e lo specialista non riscontrò alcun segno di malattia di cuore, cosicché, anche alla luce della precedente diagnosi dell’otorinolaringoiatra, fu rimandato al medico curante con la diagnosi di cefalea essenziale. Ma l’esito non convinse il suo medico. Richiese una TAC cerebrale, che documentò una lesione ischemica cerebrale. A quel punto finalmente riuscì anche ad avere la visita neurologica che, pur richiesta da tempo non era ancora stata eseguita. Lo specialista riscontrò tutto nella norma alla visita, e normale era anche l’elettroencefalogramma, ma richiese un ulteriore approfondimento con una risonanza magnetica cerebrale che confermò la presenza di aree ischemiche cerebrali. Il medico curante si ricordò allora di avere ascoltato una relazione del dottor Rosario Forestieri nella quale si presentava la Per vietà del Forame Ovale, come possibile causa di ischemia cerebrale, o addirittura di ictus cerebrale. Contattò subito il collega e questi sottopose il paziente a Doppler Carotideo, secondo la tecnica ideata da lui e dalla moglie, dott.sa Condina. L’esame dimostrò inequivocabilmente la presenza di un passaggio di bolle dall’atrio destro all’atrio sinistro, e quindi la diagnosi di per vietà del forame ovale. A

di Davide Castrianni

questo punto bisognava decidere se sottoporre il paziente a chiusura del difetto, per cui, dopo alcuni esami cardiologici mirati stavolta a quantificarne l’entità, fu avviato in un Centro di Emodinamica Inter ventistica. I successivi esami a cui il signor F. A. fu sottoposto (Doppler Transcranico, Ecografia Intracardiaca) non fecero altro che confermare la diagnosi, e fu deciso quindi di correggere il difetto. A dispetto di quanto avveniva anni fa, la chiusura del forame ovale per vio non viene più eseguita chirurgicamente, ma tramite cateteri introdotti dalla vena femorale che arrivano al cuore. Qui viene impiantato un doppio ombrellino detto device, da una parte e dall’altra del setto interatriale, che “tappa” il forame ovale per vio ed il paziente viene dimesso in seconda giornata di degenza. Il signor F.A. fu operato e per 6 mesi dovette assumere un antiaggregante piastrinico. I successivi controlli ecocardiografici confermarono il perfetto posizionamento del device. Le crisi di vertigini, nausea e vomito, cefalea scompar vero. La figlia trentenne del signor F.A. fu quindi invitata a sottoporsi al Doppler Carotideo secondo Forestieri- Condina, e anche lei risultò positiva al test. Non fu una sorpresa perché in letteratura sono dimostrati questi casi “familiari” specialmente per le figlie femmine. Un caso clinico che si è concluso bene grazie ad un test perfezionato da due medici di medicina generale: i coniugi Rosario Forestieri e Teresa Condina, di cui il nostro giornale si è già occupato qualche tempo fa. La dimostrazione che in un’epoca in cui le diagnosi sono ormai supertecnologiche, non va perso l’acume clinico né la tenacia nel percorrere tutte le vie per ottenere una diagnosi rispondente.

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Da bambino volevo guarire i ciliegi/ quando rossi di frutti li credevo feriti/ la salute per me li aveva lasciati. Un sogno, fu un sogno ma non durò poco/ per questo giurai che avrei fatto il dottore/ e non per un Dio ma nemmeno per gioco/ perché i ciliegi tornassero in fiore .

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arole di Fabrizio De André, ma che potrebbero essere la colonna sonora della vita del reumatologo Ignazio Benedetto Olivieri, il cui sogno era quello di guarire i cittadini della Basilicata. Lo ha realizzato, e non solo, è riuscito a far diventare il ‘suo’ centro di reumatologia uno dei più importanti a livello nazionale. Olivieri nasce a Matera e vi rimane fino all’età di diciannove anni, quando si trasferisce a Pisa per studiare medicina. La città toscana lo ospita fino al ’93 e successivamente si sposta a Bologna. Un giorno, decide di ‘attivarsi’ per realizzare il suo desiderio: colmare il divario sanitario tra il nord e il sud, creando un centro di reumatologia di rilevanza nazionale nella sua terra d’origine. Così lascia l’Emilia Romagna per il lucano Trivigno, paese natale della moglie e sua compagna di lavoro, la dottoressa Angela Padula. E quando ci credi, i sogni si avverano. Sono già otto anni che i coniugi Olivieri hanno realizzato un Dipartimento Regionale di Reumatologia, localizzato in entrambe le maggiori città lucane. Il centro del San Carlo di Potenza ha un’equipe di sei medici, quello dell’ospedale della Madonna delle Grazie di Matera ne ha due. I dati del solo 2006 sono molto indicativi: 16.923 le visite ambulatoriali e 332 i ricoveri. E’ proprio l’attività di ricovero l’indicatore di qualità del centro. Infatti, se il 53% sono lucani, ben il 47% dei pazienti ricoverati vengono da fuori regione. Considerando che la Basilicata ha il più forte tasso di emigrazione per ricoveri, il reparto reumatologico lucano ha invertito la rotta, non solo trattenendo

di Carmensita Bellettieri

Salute

Quando la realtà supera la fantasia

i propri malati ma ospitando anche quelli di tutta Italia. Affinché un sogno si realizzi, però, non basta solo la volontà, c’è bisogno della passione. «Il lavoro per me è un mezzo per entrare in comunicazione con gli altri, ci dice Olivieri - quello del medico ha un elemento in più: la fiducia. Il rapporto medico-paziente nasce quando qualcuno ha perso la cosa più preziosa della vita, la salute. Il malato è indifeso e ti si affida con un atto estremo, quindi tu devi curarlo pensando di essere al suo posto. L’obbligo del medico è di curare il paziente come curerebbe se stesso». Oltre a questo nobile postulato, proprio della deontologia professionale, esiste anche un valore etico che è indispensabile nella filosofia del medico trivignese: «Io ho la medicina pubblica in testa. Non riesco a concepire una medicina che non sia di tutti». E, dicendo queste parole, spezza una lancia a favore del servizio sanitario italiano, uno dei migliori al mondo: «La salute del cittadino italiano è un diritto e non una questione di reddito come negli Usa». La passione e la dedizione per il lavoro ha portato l’equipe del dottor Olivieri ad essere considerata tra le migliori a livello internazionale. Infatti, l’assidua ricerca clinica portata avanti dal reumatologo e dai suoi collaboratori ha dato loro la fama di ‘esperti in spondiloartriti’ (malattie infiammatorie della colonna vertebrale) e le loro ricerche vengono pubblicate periodicamente dalle più importanti riviste reumatologiche di tutto il globo. La più autorevole, ‘Arthritis & Rheumatism’, pubblicata negli Stati Uniti, ha dedicato loro perfino la copertina. Si potrebbe concludere questa storia di un sognatore affermando che a volte la realtà supera la fantasia: il dottore che voleva creare un centro di reumatologia di rilevanza nazionale in Basilicata è andato oltre, e ne ha creato uno di rilevanza mondiale.

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Salute

La nuova longevità S

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i è svolto per la serie dei “Venerdì Culturali” presso la sede di Presenza Lucana di Taranto, un incontro incontro dal titolo “La nuova longevità: problema o risorsa?”.Relatori della serata il dott. cardiologo Angelo Albano (diplomato in formazione Etico-Sanitaria) e il dott. Giuseppe Baldassarre (Dirigente di I livello, U.O.C. di Geriatria, Ospedale “F. Miulli” Acquaviva delle Fonti) . Una serie interessante di ricerche hanno dimostrato che l’età senile ha certamente i suoi problemi, ma l’immagine distorta di essa rischia di rimanere il problema principale e più difficilmente sormontabile. Troppo spesso l’unico paradigma di riferimento sembra essere quello della giovinezza, mentre all’anzianità e alla vecchiaia si guarda come all’età inutile, all’età del declino inarrestabile, all’età ripugnante, che impone il confronto con dimensioni dell’esistenza, come il cambiamento dell’immagine corporea, il declino sessuale, la sofferenza. E’ importante essere educati ai vari cambiamenti che il passare del tempo crea sul fisico umano, per accettare ogni fase della vita, compresa quella, più difficile, dell’età adulta. L’altro rischio è quello di pensare agli anziani solo come a destinatari di aiuto e di assistenza e mai come a protagonisti e a soggetti creativi. Gli anziani, come tutti, hanno bisogno di luoghi e situazioni in cui continuare ad esprimere la loro ricchezza. La famiglia, il quartiere, le aggregazioni sociali, le associazioni culturali, le comunità parrocchiali, il volontariato, l’istruzione, la ricerca, l’arte, l’artigianato, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali, la

di Michele Santoro

partecipazione sociale e politica sono solo alcuni punti aggreganti per continuare a vivere nella pienezza delle proprie forze intellettive. E’ in qualche modo paradossale che la conquista di una vita più lunga comporti spesso il non sapere che farsene degli anni tanto faticosamente guadagnati. Per questo, la seconda metà della vita, è un’età tutta da inventare, è una sfida da raccogliere per investire in un processo di crescita e di maturazione. E’ bello riportare una definizione tratta dai “Sentimenti” del Santo Padre Giovanni Paolo II : “ Gli anziani sono custodi della collettività e perciò interpreti privilegiati di quegli insiemi di ideali e valori comuni che reggono e guidano la convivenza sociale. Escluderli è come rifiutare il passato, in cui affondano le radici del presente in nome di una modernità senza memoria”. A chiusura della serata, alla domanda “è possibile una visione positiva dell’anzianità?”, il dott. Baldassarre ha affermato: “La risposta è certamente SI, anche se è necessario superare una lunga, pesante e radicata serie di pregiudizi antisenili (ageism), di condizionamenti culturali e di trappole mentali”. “Sarebbe un errore pensare agli anziani come ad una categoria separata; la riflessione sull’anzianità deve essere, in realtà, un ripensamento sul nostro modo di guardare alla persona, ad ogni persona, in modo da costruire una società nella quale ci sia posto, significato e valore per tutte le età, in una logica di dialogo, di sostegno e di reciprocità intergenerazionali”. Ottimo tema sociale, svolto con professionalità e passione dai due relatori.

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intervista a cura di Davide Castrianni

Musica

La tradizione della musica italiana

più. Tutti i nostri ragazzi sono professionisti e soprattutto professionali, che danno grandi soddisfazioni sia a livello musicale che a livello umano Oltre ai cd esiste molto altro materiale sulla vostra orchestra? Tutto il nostro materiale è disponibile su internet. Non so se per il mercato è la scelta migliore ma abbiamo voluto portarla avanti permettendo a chiunque di scaricare gratuitamente dal nostro sito, video, partiture e basi musicali. Spesso capita che altre formazioni di liscio ci contattino chiedendoci materiale o consulenza e noi cerchiamo di accontentarli al meglio. Quindi l’idea è di dare la massima diffusione possibile alla vostra musica. Certo, non solo via web. Abbiamo da poco aperto una casa editrice musicale e stiamo proponendo altri gruppi, avviando collaborazioni importanti, costituendo una sorta di supergruppo per la diffusione della musica romagnola, nonostante un pensiero comune sia chequesto tipo di musica non va più. È tutto il contrario, dal momento che stiamo avendo dei riscontri notevoli. Dove vi ha portati il vostro tour estivo? Quest’estate in cinque mesi abbiamo fatto 120 concerti da Roma alla Valle d’Aosta fino in Svizzera per poi passare a Veneto e Friuli Venezia Giulia. Grandissime soddisfazioni! Mentre per i prossimi mesi che cosa state elaborando? Di solito nel periodo invernale facciamo una turnee in Svizzera e Germania. Ma per lo più ci fermiamo un po’ ci occupiamo della nostra organizzazione, prepariamo materiale e musica, e programmiamo la stagione estiva.

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’ Orchestra Baiardi con ottant’anni di attività musicale e collaborazioni con i grandi artisti della musica italiana, vanta di un grande repertorio di grandissimo livello. Abbiamo incontrato il leader della formazione, Augusto “Gusto” Nanni, pilastro dell’orchestra Baiardi assieme al fratello Giorgio, art director del gruppo. L’orchestra Baiardi è una delle più antiche della Romagna: raccontaci come è nata. Nasce in un periodo in cui emergono i grandi nomi del liscio emiliano romagnolo, come Casadei e lo stesso Carlo Baiardi che nel 1928 fonda una propria orchestra di liscio. Da allora è stato una continua produzione che ha superato i cento dischi pubblicati, che comprendono musica italiana e non solo, visto che spesso ci muoviamo all’estero con grandi soddisfazioni. E tu come sei entrato a farne parte? Io e mio fratello, che è stato uno degli ultimi allievi del maestro Carlo Baiardi, venivamo da esperienze all’estero con grandi nomi come Mino Reitano e i Dik Dik. Nel 1996 siamo rientrati in Italia e insieme abbiamo deciso di unirci per portare avanti la tradizione della musica romagnola con un occhio alle nuove esigenze del pubblico che prevedevano anche altri tipi di musica: ora il nostro lavoro rispecchia una produzione a 360°. Una scelta coraggiosa... Si, all’inizio ci ho pensato molto, perchè confrontarsi con una tradizione come quella dell’orchestra Baiardi è molto impegnativo. Alla fine ovviamente ha prevalso l’amore per la musica e l’onore nel far parte di una formazione storica. Dopo tanti anni di attività com’è composta oggi la vostra orchestra? Il gruppo è composto da otto persone che stanno sul palco, poi il nostro intero apparato è più ampio: chi si occupa di marketing, chi di organizzazione, chi di arrangiamenti e via di questo passo. Questa è la formazione base, ma su richiesta siamo in grado di andare a suonare in molti di

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Teatro

L’accademia della follia va in Argentina

di Valentina Sussi

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er la compagnia dei ‘matt-attori’ una nuova sfida per sopravvivere E’ il 1992 quando a Rimini, con un convegno tenutosi nel ridotto del Teatro Comunale Ermete Novelli, Claudio Misculin, artista, attore e regista, insieme a Angela Pianca e Cinzia Quintiliani, fonda L’Accademia della Follia che si occupa, appunto, di teatro e follia. Il progetto teatrale e culturale mira alla ricerca, con attori a rischio in una esperienza singolare e universale, offrendo lo spazio delle parole e dei gesti alla sofferenza individuale. Tutto nasce all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste, nel periodo in cui le sue mura venivano abbattute da Franco Basaglia, dove Misculin realizza il suo grande sogno. Nel 1976 forma il primo gruppo, poi apre il primo ‘teatro di matti’ e, insieme ad altri, partecipa alla costruzione di quella ‘idea’ che diventerà la legge 180. Ciò nonostante, l’esperienza triestina non viene centrata solo sulla psichiatria ma abbraccia ambiti culturali e politici. E’ un operare ai confini: geografici, culturali, etnici, di generazione, di centralità e marginalità, di rischio personale, di gruppo, di età, di status. “E’ la culla, il brodo biologico in cui siamo nati, il terreno dove hanno attecchito le nostre radici e siamo cresciuti”. L’Accademia Della Follia ha preparato la tourné Italiana con la quale ha portato in quattro città, con grande successo, lo spettacolo “Divercity”. Col medesimo spettacolo ha partecipato al Festival Internazionale nella città tedesca di Munster. Da allora si è occupata della gestione della nuova sede: gli è stato affidato il reparto “H”, “H” per tanto gli attori si sono improvvisati idraulici, cuochi, pulitori, muratori, pittori, al fine di rendere il luogo abi-

tabile e ospitale. Per dirla tutta, il reparto “H” non è un monopolio dell’Accademia, il gruppo teatrale è uno dei componenti della gestione di quella che vuol essere una Comunarda, in cui trovano spazio più realtà e più esigenze. Il centro di tale Comunarda è una vecchia conoscenza dell’OPP e della città, il suo nome è Gianfranco Stefani. I matt-attori in Argentina Hanno partecipato al 9° Festival Y Congeso Latino Americano de Artistas Internados Y Externados de Hospitales Psiquiatricos “Una Puerta a la Libertad”, Embalse Y Cordoba, che si è svolto dal 25 al 30 settembre 2006, manifestazione mondiale di Arte & Follia: vi hanno partecipato 29 gruppi provenienti da ogni parte del globo. Per interessare il gruppo triestino alla partecipazione al Festival, il direttore sudamericano ha fatto un viaggio fino a Trieste dove ha incontrato Claudio Misculin (direttore/fondatore dell’Accademia), Franco Rotelli (Direttore Generale della Sanità Triestina) e Angelina Pianca (Direttrice del 3° Distretto/Microaree). In Argentina l’Accademia presentò lo spettacolo “Dottor Semmelweiss”. Ma quali sono stati i motivi che vi hanno spinto ad affrontare un’avventura così impegnativa?. Innanzitutto la sfida personale. In Europa l’Accademia si è spostata più volte, in parecchi paesi, ma un viaggio di 14 ore di volo, più 8 via terra, non era ancora capitato. Sfida ai rigidi schemi dell’organizzazione sanitaria, ricordiamo che la maggioranza delle persone del gruppo sono utenti dei centri, o della Clinica Psichiatrica, o del SERT; richiamiamo alla memoria anche che nel gruppo non c’è uno straccio di psichiatra o psicologo, e neanche un infermiere; questo significa che i nostri matt-attori si autogestiscono in toto, dalle dosi delle pillole, alla regolazione del metabolismo. Secondariamente è anche stata una sfida culturale. In Italia e in Europa l’Accademia gode di un grande successo, però


Teatro seppur nelle varie differenze, la cultura psichiatrica europea ha un suo segno comune. Oltre oceano no, e per aver maggiori possibilità d’incontro, di comunicazione, di successo, i triestini hanno scelto di narrare della storia di un ungherese in lingua spagnola, che è la lingua parlata in Argentina. Lo sforzo di tradurre tutta la prosa in spagnolo è stato grande e lo si deve all’antropologo Gabriel Francisco Schuliaquer, un argentino “purosangue” che ha accompagnato il gruppo giocando un ruolo anche nello spettacolo. Altrettanto grande è stato l’impegno di imparare tutto a memoria, ma ciò risponde all’esigenza, di continuare a lavorare-elaborare in continuazione, per rispondere positivamente e costruttivamente alla nostra diversa natura, anche se ciò non è richiesto dal mercato o da altre convenienze: non c’entra niente col teatro-terapia, assomiglia, piuttosto, alla descrizione di matto che fa Giuliano Spazzari, segretario dell’Associazione Culturale dell’Accademia della Follia di Milano: “Matto è colui che corre, ma non sa dove”. Infine le notizie che giungono dall’America Latina circa il movimento psichiatrico sono contraddittorie quanto intriganti. In particolare in Argentina e Brasile si guarda con massimo interesse all’esperienza

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triestina passata e presente, seppur con ottiche diverse. Lo spettacolo “Dottor Semmelwiess” presentato in Argentina, è stato prodotto dall’ENAIP di Trieste, ha debuttato in città circa tre anni fa, ospitato dal teatro Sloveno, ed ha effettuato una tournè italiana seguita anche dalle telecamere di Rai 3 che hanno prodotto due puntate di un’ora ciascuna, trasmesse in seconda serata. Lo spettacolo originale veniva giocato da 24 attori più 4 tecnici. In particolare i matt-attori a Trieste erano 28. Per motivi di risparmio economico in Argentina sono andati 10 matt-attori più 2 tecnici. Quindi Trieste ha già visto questo lavoro, seppur in forma molto diversa da quella Argentina. Chi e’ andato in argentina I matt-attori: Claudio Misculin, Giuseppe Denti, Donatella Di Gilio, Gabriele Palmano, Darko Kuzma, Giuseppe Feminiano, Clio Gaudenti, Max Campagnani, Valentina Sussi. I tecnici: Maddalena Misculin, Giuseppe Lo Bue, Gabriel Francisco Schuliaquer.

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Sport

Mondo ultrà

di Fabrizio Di Vito e Rocco Sodo

Noi siamo ultrà. Non siamo gente come gli altri. Non amiamo mescolarci con le masse, non vogliamo uniformarci”, dicono, presentandosi quelli di Vivereultras.”Siamo pronti a subire torti, oppressioni e sguardi malevoli. Non tradiremo mai ciò in cui crediamo, e continueremo a seguire la nostra linea per sempre .

E’ questo il succo dell’intervista rilasciata a Matteo Durante, inviato di Panorama, alla domanda su chi sono realmente gli ultras. Questo pezzo di giornale risalente al novembre del 2007, ci viene presentato da alcuni dei tifosi romanisti come risposta alla nostra prima domanda: “Chi sono realmente gli ultras?” E’ curioso come questo gruppo di ragazzi che gentilmente ci hanno concesso questa intervista nell’anti-stadio dell’Olimpico, prima della semifinale di Coppa Italia tra Roma e Catania(terminata per la cronaca 1-0, decisa da un gran gol di Totti), portassero nella tasca questo trafiletto di giornale. Non saprei se è stata solo una casualità, ma a guardare dalla tempestività con cui questi ragazzi (Giorgio detto ‘Zazà’, Michele detto ‘Er borsone’ e Cristhian detto ‘La nafta’) hanno tirato fuori quel pezzo di giornale malandato, mi è sembrato tutt’altro. La nostra intervista con Zazà, Er borsone e La nafta è proseguita con altre domande, che ci han fatto entrare in contatto con questo mondo che per loro è considerato sacro e, che ci hanno aiutato meglio a capire chi sono e cosa fanno realmente queste persone. Si è a conoscenza che gli ultras abbiano un codice: ci puoi dire una regola che non vorresti mai infrangere? Sicuramente il tifo per la mia squadra. Non ci rinuncerei mai. La Roma è la mia seconda pelle e lo rimarrà per sempre. L’amore per la città. E’ quello che mi fa essere un vero tifoso. Pensate che sia utile vietare o eliminare completamente le trasferte dei tifosi? Tutte queste misure restrittive verso i tifosi non fanno altro che allontanarci dallo stadio e alimentare situazioni di frizione tra noi e le forze dell’ordine. Vietare le trasferte organizzate è una cosa insensata dal momento che oggi quasi tutti gli scontri avvengono fuori dallo stadio. E poi se due tifoserie hanno deciso di scontrarsi lo fanno con o senza biglietto della partita.

Siete a conoscenza della famosa pratica della ‘puncicata’? In cosa consiste? La ‘puncicata’ è molto diffusa in occasione delle partite più importanti e spesso viene fatta da alcuni scalmanati( noi mai) che con il taglierino o un piccolo coltello colpiscono di striscio il tifoso avversario di solito alle gambe o ai glutei. Come è nata l’iniziativa del gemellaggio nell’ultimo derby? La morte non ha colore e onorare Gabriele era un dovere di tutti. Quando abbiamo saputo che il capitano(Totti) e Rocchi avrebbero deposto una corona di fiori sotto la nord e che Giorgio Sandri, il padre di Gabriele, avrebbe seguito il primo tempo in curva sud, abbiamo sentito l’obbligo di stringerci tutti attorno al dolore di una famiglia che aveva perso una persona cara e che non riusciva a darsi pace. Il 19 Marzo abbiamo finalmente dato un esempio di maturità alle tifoserie romane. All’uscita dallo stadio tutto era tranquillo, nonostante la sconfitta della Magica(Roma) nei minuti di recupero, che di fatto ci ha quasi estromesso dalla lotta per lo scudetto. Quella sera forse per la prima volta il calcio è passato in secondo piano, ma è stato giusto così perché in fondo Gabriele era uno di noi, al di là dei colori che indossava. Perché spesso ci sono incidenti con le forze dell’ordine? Perché sono le stesse forze dell’ordine che fanno di tutto per far salire la tensione. La polizia ha dei pregiudizi nei nostri confronti e pensa che ognuno di noi vada allo stadio solo per creare disordini. Dovrebbero capire che noi siamo solo tifosi che teniamo ai colori e alla maglia. Forse delle volte esageriamo, ma non devono trattarci come delinquenti. Come abbiamo visto, i numerosi interventi da parte dello Stato per arginare la violenza nel mondo del calcio sembrano essere insufficienti, forse perché le norme possono funzionare sui gruppi, ma tenere a bada isolati imbecilli è un compito che nessun governo può svolgere con successo. Il primo passo potrebbe essere quello di intervenire sulla cultura sportiva del nostro paese, ormai in crisi da decenni: basti guardare cosa avviene in Inghilterra, dove dopo i numerosi incidenti dei passati decenni che hanno generato il cosiddetto fenomeno “hooligans”, oggi le severe misure restrittive poste dal governo rendono il calcio uno spettacolo unico, con il pubblico che può seguire i propri beniamini a pochi metri di distanza, senza che nessuna barriera architettonica vada ad arginare la passione dei tifosi. Di certo in Italia non vedremo mai impianti di questo genere, ma seguendo questo modello potremmo arrivare un giorno a rivedere intere famiglie allo stadio e ritrasformare il calcio in una festa di sport.

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Sport

Triestina: storia d’Italia in un’alabarda R

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icorre quest’anno il novantesimo anniversario della fine della Prima Guerra Mondiale, conclusasi il 4 novembre 1918 con il successo italiano nella battaglia di Vittorio Veneto, e per celebrare l’evento abbiamo scelto un modo insolito ma per nulla inappropriato: parlare della storia della Triestina, la squadra di calcio fondata proprio nel 1918 le cui vicende sportive si sono spesso intrecciate con la cosiddetta “grande storia” nazionale. Il piccolo club giuliano nacque dalla fusione di due società, il Ponziana e il Foot-Ball Club Trieste, che condividevano come campo di gioco la Piazza d’Armi di una caserma austroungarica di Piazza Dalmazia (l’attuale Piazza Guglielmo Oberdan). Per evitare gli inconvenienti che derivavano dalla frequenza di questi incontri, l’autorità militare acconsentì all’utilizzo della Piazza d’Armi come campo di gioco solo a patto che le due società si fondessero. Nel 1924 conquistò la promozione in Seconda Divisione (l’attuale Serie B) in seguito a una drammatica finale con la Pro Gorizia, e nel 1928 approdò finalmente nella Divisione Nazionale (così si chiamava la Serie A prima di diventare a girone unico nel 1929) per motivi di rappresentanza delle province orientali dopo la Grande Guerra. Presenza fissa nella massima Serie, nel dopoguerra le vicende societarie si intrecciarono nuovamente con delle decisioni politiche, considerando che nella stagione ‘46-’46 la formazione rosso-alabardata fu costretta a disputare le prime partite del Campionato allo stadio “Moretti” di Udine dalle autorità anglo-americane che governavano a

di Roberto Bertoni

Trieste. La scelta fu dovuta al fatto che un’altra squadra cittadina, l’Amatori Ponziana (che disputava il Campionato jugoslavo), era stata costretta dagli anglo-americani a giocare lontano da Trieste per evitare incidenti, e così sembrò doveroso imporre lo stesso divieto anche alla Triestina per prevenire accuse e polemiche. La stagione fu disastrosa, la squadra venne denominata la “bella vagabonda” e si classificò all’ultimo posto ma il 29 luglio 1947 la FIGC la ripescò in Serie A per risarcirla delle difficoltà patite, allargando il Campionato successivo a ventuno formazioni. Nonostante non sia mai stata una formazione di primo piano, nelle file della Triestina hanno militato personaggi come Gino Colaussi (autore di una doppietta nella finale mondiale del 1938 vinta 4 a 2 dagli Azzurri sull’Ungheria) e Nereo Rocco, “Il Paròn”, uno dei migliori allenatori e dei protagonisti più straordinari del calcio italiano. Tra crisi e innumerevoli avventure societarie, talvolta non esaltanti, la squadra giuliana è ancora lì, con la sua alabarda sul petto, i suoi simboli, il suo fascino a metà tra storia e mito, il suo stadio intitolato al grande Nereo Rocco e la certezza di incarnare nella propria semplicità molti dei princìpi (umiltà, grinta, carattere, determinazione, volontà di farcela a tutti i costi) su cui si fonda l’Italia risorta dopo la Liberazione nonché i genuini valori dello sport friulano che Umberto Saba descrisse così nella poesia “Squadra Paesana”: “Anch’io tra i molti vi saluto, rosso-alabardati, / sputati dalla terra natia, / da tutto un popolo amati”.


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Sul prossimo numero...

Speciale:// Economia // Salute // CittĂ Stellata


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