wimbledoc #1

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Wimble .doc #I


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settembre > novembre 2009

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wimble.doc è un torneo di racconti online, ideato e organizzato da alessandro milanese, enrico piscitelli e alessandro romeo. la prima edizione è stata vinta da Colla nel novembre 2009. puoi trovare l’intero torneo sul sito www.wimbledoc.com in questo pdf trovi tutti i racconti delle squadre che si sono fermate ai quarti. per quelle che hanno continuato abbiamo scelto noi organizzatori, secondo il nostro gusto. puoi dissentire.

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hanno partecipato: collacolla.com ernestvirgola.blogspot.com finzionimagazine.it follelfo.wordpress.com rivistainutile.it lamerotanti.com milanoromatrani.wordpress.com iltraghettomangiamerda.com

La giuria della finale: Max Collini Giorgio Vasta Gianluca Morozzi

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Sento qualcuno avvicinarsi. Le foglie secche scricchiolano dietro i cespugli che nascondono il sentiero e che nascondono me al sentiero dove qualcuno, forse, sta passando.

restless flora di Laura De Matteis

Avevo quasi dimenticato di essere morta. Per fortuna sono morta supina, così ho potuto continuare a guardare i rami sopra di me e il volo degli uccelli. Man mano che le foglie si sono diradate ho potuto vedere, talvolta, anche la luna. Sono trascorsi molti giorni – buio-luce-buio – e non ho mai avuto freddo né fame: non ho avuto bisogno di chiedere aiuto. Neppure quando una cornacchia si è posata sulla mia faccia e ha cominciato a mangiucchiarmi l’occhio destro, cavando nutrienti umori da quella piccola sfera bianca e verde di cui un tempo ero tanto orgogliosa, ho sentito la necessità di andarmene da qui: mi restava il sinistro per osservare i rami, gli uccelli e il cadere delle foglie. Ma ora che qualcuno, forse, si avvicina lungo il sentiero che so essere lì ma che non vedo, ora ricordo di essere morta e di non avere voce per gridare – Trovami! Rami spezzati, foglie secche – è autunno inoltrato. Da quanto tempo sono qui? Indosso un maglioncino di lana a righe grigie e viola e nere: mi stava bene ed era quasi nuovo. Ora è sporco di ciò che di me trasuda dal mio corpo. Probabilmente puzzo. Mi vergogno un po’ a farmi vedere così, ma non posso restare qui in eterno. Non ero sola quando sono morta, c’era qualcuno con me. Ho sentito il calore del mio sangue spandersi dal fianco lacerato; a fiotti densi ha inondato il maglioncino nuovo, poi si è sparso al 9


suolo e l’ha bevuto, avida, la terra. La lama che mi ha trafitto il fegato non è più qui, vorrei sapere dove l’ha portata e chi. Passi. Sempre più vicini e incerti. Qualcuno sembra frugare nei cespugli – la lama è lì? Se la trova, poi cercherà anche me: il sangue parla, il sangue è pieno del mio nome. Lo sento avvicinarsi e fremo come può fremere un cadavere: immobile a scagliare lampi di impazienza dalla mente – qui, vieni qui. C’è odore di muschio umido e di qualcosa che mi sfugge; sopra di me, il cielo si scurisce attraverso i rami quasi spogli. – Mi stai cercando? Ti aspetto. Ti aspettavo, chiunque tu sia, quando ancora non sapevo di volerti incontrare. La mia memoria è un vuoto appiccicoso da cui penzolano ricordi sbrindellati; carta moschicida che attende che le larve traslucide che zampillano panciute dal mio fianco mettano le ali. In ogni mosca afferrerò un ricordo? Mi basterebbe ricordare una persona e un atto: baratterei la memoria della mia infanzia per il volto e il pensiero di chi mi ha trafitto il fegato con un coltello lungo, lama grossa, e l’ha girato come una chiave affilata nella serratura morbida del mio corpo. Quattro mandate. Cinque. Già alla prima quella mia nuova, oscena bocca spalancata vomitava sangue che andava a sparpagliarsi inutile lontano dalle mie vene. Scricchiolio di sottobosco autunnale. Trattengo il respiro o, meglio, irrigidisco l’anima come se stessi trattenendo il respiro. Lui è a un passo da me che brulico di vita non mia. Fruscii che si allontanano. Il bosco sospira e tace. Mi viene da piangere e non posso. Vorrei piangere anche solo per questo. 10


All’esame di fine corso di ingegneria militare ho di Mattia Filippini disegnato una fortificazione, ci ho impiegato due ore, ho calcolato alla perfezione tutte le inclinazioni dei muri, dei contrafforti, la disposizione delle feritoie e degli accessi dell’aria. Ho consegnato, sono uscito dall’aula, non ho fatto neanche cinque passi che mi sembrava di aver dimenticato qualcosa, avevo come questa impressione di fastidio latente dietro la testa. Ho fatto un po’ di strada per chiarirmi le idee, sono passato vicino a un portone aperto dove dentro c’era un bel giardino con una palma, le porte della fortificazione, porca miseria, non le ho disegnate.

Dostoevskij

A me non piace disegnare, preferisco di gran lunga scrivere. Mi metto nella mia stanza in affitto, che più che una stanza è un armadio, non si possono neanche allungare le gambe o le braccia che subito si toccano i muri, non posso nemmeno stare dritto in piedi, altrimenti picchio la testa contro il soffitto, c’è solo una piccola finestra rettangolare che non si può aprire. Mi ci trovo proprio male. Così si scrive da dio. Poi la settimana dopo sono andato a ritirare l’esito dell’esame, dentro la busta c’era il mio disegno, su un margine, al posto del voto, c’era scritto Chi è l’imbecille che ha fatto questo disegno? firmato Zar Nicola I. La mattina di solito, dopo che apro gli occhi, rimango un altro quarto d’ora nel letto a guardare il soffitto basso della mia stanza, con degli insetti che ci camminano sopra, sembra che poltrisco invece no, mi esercito. In questa apparente inefficienza metto in moto i miei collegamenti neurali, penso a come spendere meno energie possibili per prepararmi, a come ottimizzare lo spostamento di oggetti e corpi in modo da non 11


dovermi girare di qua e di là cento volte, con grande spreco di energie, magari sbattendo i mignoli dei piedi contro gli spigoli. Sono diventato espertissimo, non poltrisco, mi esercito ho dei collegamenti neurali muscolosissimi. Altre volte invece, quando penso a tutte le cose che devo ancora scrivere, al fatto che mi devo portare avanti con lo stare male, mi metto nella condizione che non voglio più alzarmi, mi vengon dei pensieri di morte talmente belli che non riesco più a muovere neanche un muscolo. Allora, in questi casi, faccio partire sul giradischi delle messe da requiem o delle lagne incredibili, poi lascio un appunto sul comodino, sul biglietto ci scrivo Non sono morto, non seppellitemi prima di cinque giorni. Poi ho appeso al muro il disegno della fortificazione senza porte con l’autografo dello Zar Nicola I, così chi entra dalla porta è la prima cosa che vede della stanza e magari non nota la tappezzeria scollata. Comunque io, donne, pochissime. L’ultima volta che la Dmìtr’evna è venuta a trovarmi, dopo dieci minuti ha preso ed è uscita dalla porta, urlando Niente strascichi finiamola qua subitissimo. Allora ho capito immediatamente che avevo sbagliato tutto, che era tutta una questione di topografia. Avremmo dovuto fare una bella litigata in un altro momento, quando stavo io vicino all’ingresso. Così avrei potuto farla io, la scena di chi esce dalla stanza. Non ho avuto neanche questa soddisfazione, consideravo. Meglio così.

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Pulizie di Primavera di Ilaria Giannini

Il sole sta tramontando dietro la casa color aragosta. Seduta sul cofano della macchina nel vialetto, osservo il bouganville che fi o r i s c e s o p r a i l portico. Dalla veranda un uomo tarchiato affanna verso le scale con grossi pacchi in mano, imballati con cura. Gli va dietro una signora vestita bene, con i capelli corti, cotonati. Culla tra le braccia uno scatolone: le porcellane tintinnano dolcemente. Questo è un buon punto per osservare. Mi passano davanti senza degnarmi di uno sguardo, qualcuno accenna un saluto con la testa, si volta subito. Hanno una fretta terribile, una fame atavica da placare. Li capisco, in fondo si sta parlando della mia famiglia. La nonna è morta ieri mattina e i parenti sono arrivati a frotte, pronti a svaligiare la casa. Hanno tirato giù le tende ricamate a mano, avvolto i serviti d’argento nei giornali, scosso i tappeti del soggiorno dal balcone. Non ho avuto il cuore di dir loro che sono tarocchi: quelli persiani la nonna li aveva venduti negli anni Settanta per pagare gli studi dello zio Gianni e per evitare la vergogna ne aveva commissionato una copia identica. Adesso questi tappeti deturperanno nuove case, accoglieranno la polvere e il sudore di altre famiglie, altri corpi. La nonna era una vecchia tirchia ma a modo suo tenera, con quei calzettoni di lana che non toglieva neppure d’agosto. La sua massima manifestazione d’affetto consisteva nell’offrirmi i dolcetti all’anice che si faceva portare da Lucca: terribili agglomerati d’uvetta e pasta frolla che dopo due giorni sapevano di marmo. 13


Dietro le persiane – sempre chiuse perché il sole non sciupasse i mobili – ogni cosa aveva il suo posto da tre generazioni: il divano di pelle marrone ancora avvolto nel cellophane, i teli candidi sul comò, la biancheria fine piegata nei cassetti. La nonna ordinava una stanza alla settimana: partiva dalle camere da letto e scendeva giù fino al tinello. “Ho il mio sistema” ripeteva a chiunque osasse intromettersi tra lei e la gestione domestica. Così mi ero convinta anche io che quello era il modo giusto, l’unico possibile, per ordinare la casa, i ricordi, l’anima. Mia cugina trascina per le scale una poltrona di alcantara : ha il viso deturpato dallo sforzo, le vene delle braccia gonfie sotto la maglietta. La poggia a terra, si accascia stremata, scopre i denti in un sorriso. “Milè spero che non te ne avrai a male, ho preso le collane nell’astuccio verde, la nonna me le aveva promesse…” attacca. Mi concentro sulle gambe che penzolano dal radiatore. “Hai fatto bene, io non le avrei mai messe.” “Ma metterle neppure io, figurati, erano fuori moda già vent’anni fa… è che insomma, è sempre oro, roba di valore, capisci. Oh ma a te cosa importa, tu avrai la casa, no? Sei a posto!” conclude lei e prova a ridere ma gli si strozza qualcosa in gola. Di colpo mi alzo in piedi, mi affaccio nel ripostiglio, afferro la scopa di saggina. Esco nell’ultimo riverbero di sole e mi piazzo di lato al cancello, con la ramazza in mano. “Tutti fuori, devo mettere a posto” sussurro tra me e me, tra me e la nonna, tra me e il bouganville. Il vento mi scompiglia i capelli, risuona nei bicchieri di cristallo, abbandonati in un angolo. È tempo di far pulizia.

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“nessuno mi chiama "Puffo Pignolo", ma: "Buffo Pinolo", per via della forma a pinolo con culo grosso e corpo allungato e testa a punta!!! E comunque, io i pupazzetti protagonisti del video sui fondamentali li ho conosciuti, alla faccia tua!� francescocolla >> 17 settembre 2009 >> ore 16.06 15


Grigio di Antonio Koch

Oggi ci hanno portato fuori. Dentro c’è sempre luce, fuori ogni tanto è buio. Stamattina, quando siamo andati fuori, era buio. Ho sbagliato, correggo. Era grigio. Noi siamo dentro per proteggerci dal buio. Ho sbagliato, correggo. Per proteggerci dal grigio. Fuori è spesso grigio, ci dicono. Forse sempre. Non abbiamo modo di verificarlo. Dentro invece c’è sempre il sole. Ci sono lunghi corridoi, ci incrociamo nei corridoi e ci chiediamo l’ora, lo facciamo spesso. Ognuno dice l’ora che preferisce, questo ci diverte molto. Lo facciamo spesso. Stamattina fuori era grigio e c’era odore, noi stiamo dentro per proteggerci dall’odore. Il grigio, non si capisce se venga dalla strada, dal cemento, o dal cielo. O dal mare, se c’è ancora il mare. Non abbiamo modo di verificarlo. La strada, stamattina, c’erano molti veicoli fermi e a un certo punto un blocco con dei poliziotti. Ci siamo fermati, alcuni di noi si sporgevano per vedere i poliziotti. Quelli più giovani, che non avevano mai visto un poliziotto. I poliziotti li hanno portati dentro ma magari loro dormivano e non li hanno visti, i poliziotti, né sentiti. Dormivano in quel modo che non ti svegli, neanche se ti prendono i poliziotti. E poi ti svegli che sei dentro e allora non ha più importanza. E c’era un grande silenzio, sulla strada, con tutta questa fila di poliziotti. Poi uno dei poliziotti ha gridato qualcosa e anche qualcuno di noi ha gridato. Per fortuna che c’erano i sorveglianti, ci sono sempre almeno due sorveglianti quando ci portano fuori. I sorveglianti possono parlare con i poliziotti e spiegargli le cose, calmarli se necessario. Poi alcuni poliziotti hanno riso, altri sembravano spaventati. 16


Eravamo molto vicini, riuscivo a vederli tutti in faccia, i volti pallidi dietro la visiera dei caschi. Grigi, i volti. Che non si capisce se venga dalla strada o dal cielo o dal mare, se esiste ancora. I poliziotti forse lo sanno ma non credo. Stavo per chiederglielo, a uno di loro, se sapeva se esisteva ancora il mare. E, se sì, se era grigio. E se veniva da lì, tutto quel grigio. Ma poi l’autobus ha iniziato a fare manovra per tornare indietro e così non ho più detto niente.

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Compiti per le vacanze di Alessandro Lise

Te m a n . 8 : “ L a migliore R che io abbia mai scritto”. SVOLGIMENTO: Cara Maestra,

non è più il tempo. Potrei prescindere dalla contingenza, dal contesto politico, dalla storia, dalla geografia e perfino dalla matematica (i giochi di bilancio, i sondaggi ipnotici, i disavanzi distorti, i montepremi all’enalotto, …) e raccontarti qual è stata la prima R che io abbia mai scritto. Eccola: Ramarro… O forse Riccio? oppure Rana? certo si trattava di qualche animale che potesse accattivare la fantasia di un seienne, tutto proteso nell’attesa della T per sfogare fantasie di Triceratopi e Tirannosauri. Ciò che ricordo è che era una R corsiva. Assomigliava a un insetto sconfitto: la testa china sul carapace gonfio e un’unica zampa che dal collo si arricciava, lunga, verso l’esterno. Niente a che vedere con la R in stampatello di Recita, dipinta sui cartelli che dovevano guidare in palestra i nostri genitori. Era una R geometrica e contundente e il segno del pennello lasciava qualche minuscolo spiraglio bianco lì dove le setole erano più rade. Quella è stata senza dubbio la R più grande che io abbia mai scritto, ma la migliore? Non è più il tempo, ti dicevo. Non è più il tempo per questi temi, né per la cronaca della gita in fattoria, né per i pensierini su mio fratello. Non è più il tempo di disegnare una linea di cielo e una d’erba e in mezzo il sole, un albero, qualche fiore giallo: i nostri segni, le nostre lettere dovranno d’ora in poi appuntirsi, incidere il mondo, non semplicemente descriverlo. Le nostre R saranno 18


le migliori quando non saranno astratte. Se avranno corpo, ancoreranno, senza disperdersi, i nostri discorsi. Ma non fraintendermi, non parlo di Rivoluzione! Ti sembra questo il momento di ribaltare tutto? Il mondo gira già abbastanza su se stesso, senza cambiare. No, niente Rivoluzione. E anche tu, Maestra, ridimensiona la tua fiducia nella Resistenza: non è più sufficiente opporsi, scaldarsi come una lampadina nel tentativo di illuminare una strada che non si vede. Qui, noi, adesso, dobbiamo entrare in Relazione, tutti. Ricominciare a parlare senza recriminazioni. Ricostruire. Riconoscerci reciprocamente come esseri umani. Rispettarci. Ecco l’unico modo per cambiare veramente le cose, per non rimanere isolati, per crescere assieme senza inutili lacerazioni. Ciao, Alessandro Pise, 9 anni

Valutazione: L’elaborato non sembra di mano dello studente. Si ipotizza l’intervento dell’altro genitore. Il problema, tuttavia, non è la sproporzionata proprietà linguistica, e neppure l’incongruenza col tema proposto. È piuttosto il limite ideologico: una relazione può anche rompersi quando uno degli elementi coinvolti scopre che l’altro persegue – con tenacia - diversi tipi di relazione, simili, ma non compatibili con la prima. La resistenza è il valore in grado di proteggere tutti coloro che non vogliono subire regole non condivise e imposte unilateralmente. Resistenza non contro chi, suo malgrado, si trova in mezzo senza volerlo, ma verso chi, anche con ricatti affettivi, tenta di ricucire un rapporto senza affrontare le conseguenze delle sue azioni. Diseducativo. Insufficiente. Paola Petardi Pise 19


Senza Rai sono guai di Michele Marcon

- Senta signorina, capisco che il suo lavoro le faccia cagare. Che prende il minimo salariale per stare otto ore al giorno incollata ad un telefono del cazzo, ma è inutile che si metta a strillare con me! - Sì… - Sì… - No no no! - Mi stia bene a sentire: sarò libero di fare quel che mi pare, no? No?! Ma che cazz… senta signorina, non mi faccia perdere la pazienza. -… - Ma lei è proprio una gran tro… - No scusi, non volevo offenderla, ma mi ascolti per dio! È inutile che mi scriviate per posta, è inutile che mi mandiate mail, è inutile che mi chiamiate al telefono… io il canone Rai non lo pago! Quante volte glielo devo ripetere? -… - Ma che gliene frega a lei? - Forse non ha capito… NON PAGO! - Ah è così? Lei mi minaccia? - Ma non mi faccia ridere? - Ah… e così mi mandereste a casa l’intera orchestra della Rai? - E poi vediamo… - Ma vediamo cosa?! - Senta signorina, io la saluto, mi ha proprio rotto i coglio 20


Riaggancio. Ma è possibile una cosa del genere? È fuori da ogni logica. Torno a sedere sulla poltrona di fronte al mio nuovissimo televisore LCD 52’’ di ultimissima generazione. E premo play. MYSKY è proprio una figata. Posso stoppare un programma quando voglio e poi tornare a vederlo in santa pace. Posso programmare la registrazione e posso… Suona il campanello. Chi diavolo sarà a quest’ora? Alzo la cornetta del citofono e la violenza dell’onda d’urto mi sbatte a terra. Uno strombazzo inaudito. Mai sentito un roba del genere. Poi dalla cornetta che molleggia appesa al filo arriva una voce metallica. - Signore, siamo l’orchestra della Rai. Siamo qui per farle cambiare idea. E parte una solfa rumorosissima che sicuramente sveglierà l’intero vicinato. Provo a intimarli di smetterla attraverso il citofono, ma non mi sentono tanto sono presi a fare casino. Riaggancio con rabbia, ma continuo a sentirli. La musica entra dalle finestre, dalle pareti stesse. Mi tappo le orecchie ma non cambia niente. E poi la situazione peggiora. - Senza Ra… - Senza Rai… - Senza Raiiiiii. - Sono gua… - Sono guai… - Sono guaiiiiii. Ci mancava solo il coro. Devo intervenire. Apro la finestra e un’altra ondata sonora rischia di farmi capitolare. Sono proprio sotto il mio appartamento. Mi guardo intorno e alla fine il mio sguardo cade sul telecomando della TV. Lo afferro, tolgo il rivestimento in gomma Meliconi, e lo 21


scaglio fuori con tutta la mia forza. Colpisco un violinista in piena fronte e lui stramazza al suolo. Una pozza di sangue si allarga sotto il suo corpo. L’ho ucciso. Non ho alternative. Prendo una cassa Bose e lancio. Ammazzo una viola. Lancio l’altra cassa e becco un trombone. Recupero tutti gli elettrodomestici del soggiorno e li getto dalla finestra come un forsennato. Una carneficina. Con la TV stendo contemporaneamente oboe e clarinetto. La mia TV nuova, mi piange il cuore. Nel giro di pochi minuti l’orchestra è decimata e il mio soggiorno svuotato. Rimane solo il decoder SKY. Una lacrima mi riga il volto. Perdonami MYSKY… Afferro il decoder e lo scaglio con tutta la disperazione che ho in corpo. Colpisco in pieno il direttore d’orchestra e il concerto finisce. Rimane in piedi solo un tipetto striminzito che trema come una foglia stringendo un triangolo in mano. Ma quello non può dare fastidio a nessuno.

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Comune Ronco S. Ascona, ordinanza municipale concernente la posa di impianti pubblicitari, di insegne e di scritte destinate al pubblico

Il Municipio di Ronco s. Ascona, richiamati gli art. 192 LOC e art. 153 del Regolamento di Andrea Masotti comunale, la Legge cantonale sugli impianti pubblicitari del 28.02.2000 (LImp), il R e g o l a m e n t o d’esecuzione della Legge sugli impianti pubblicitari del 26.06.2001 (RLImp), le Norme di attuazione del Piano regolatore comunale (NAPR) ORDINA I. Disposizioni generali Art. 1 Oggetto La presente Ordinanza regola la procedura di competenza del Municipio riguardo alla posa di impianti pubblicitari, di insegne e di scritte destinate alla pubblica visione. Per quanto non esplicitamente previsto nella presente ordinanza, fanno stato le specifiche norme di cui alla Legge cantonale sugli impianti pubblicitari e al Regolamento d’esecuzione. Art. 2 Definizioni 1. La definizione di impianto pubblicitario, di insegna o scritta 23


destinata al pubblico è disciplinata dalla Legge sugli impianti pubblicitari e dal Regolamento d’esecuzione. 2. Alle insegne direzionali visibili da strade aperte al traffico pubblico sono applicabili (forma, dimensione, colore) le disposizioni dell’Ordinanza federale sulla segnaletica stradale. II. Autorizzazioni […] Art. 6 Divieti 1. E’ vietata la posa di impianti che per dimensione o immissione possono arrecare pregiudizio all’estetica del paesaggio, degli edifici e alla sicurezza stradale. 2. E’ inoltre vietata: L’installazione di impianti che diffondono suoni, fasci di luce verso l’esterno o che proiettano immagini in movimento, salvo nell’ambito di eventi limitati nel tempo e solo se non in contrasto con i principi8 di cui all’art. 2 ss LImp; La posa di impianti che proiettano, rispettivamente diffondono messaggi variabili o in movimento (display, ecc.), eccettuato il caso in cui ne sia provata la preponderante pubblica utilità; L’applicazione di insegne ai pali di sostegno delle condutture, alle cabine delle aziende comunali, ai segnali stradali, ai parapetti, ai ponti, agli alberi e ai container; 3. Restano riservati i divieti di cui alla Legge cantonale, così come quelli relativi alla pubblicità di bevande alcoliche, tabacchi e medicinali; Art. 7 Obblighi 1. Il beneficiario dell’autorizzazione è tenuto a mantenere l’impianto in ordine, pulito e funzionante. 2. Il beneficiario e, in via sussidiaria, il proprietario dell’immobile, è inoltre responsabile della sua rimozione in caso di: Cessazione, cessione o modifica dell’attività; Quando dopo richiamo scritto non abbia provveduto a ristabilire stato indecoroso dell’impianto oppure quando il suo contenuto sia contrasto o non più conforme con la legislazione vigente. VI. Disposizioni finali Art. 17 Sanzioni 1. Le infrazioni alla presente Ordinanza, riservate quelle di 24


competenza cantonale, sono punite dal Municipio con: La multa; La rimozione degli impianti esposti in violazione materiale delle legge cantonali e comunali, rispettivamente nel caso sia scaduto infruttuoso termine fissato per la presentazione della domanda di sanatoria. In entrambi i casi le spese di rimozione sono a carico dell’espositore. 2. Alla procedura di contravvenzione sono applicabili gli art. 145 ss. LOC. Art. 18 Entrata in vigore La presente Ordinanza entra in vigore alla scadenza del periodo di esposizione all’albo. Ronco s. Ascona, 12 febbraio 2003 PER IL MUNICIPIO Il Sindaco Il Segretario avv. P. BettÊ B. Stecher

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Bella ‘a vita ‘n due, li mortacci sua. Dice: tutto l’universo obbedisce all’amore. Ma de di Mauro Mazzetti che? A me me pare che l’amore obbedisca all’intero universo de’e voje sue. Mo’ se vole fa’ er bagno nel latte de capra. E vabbè, je risponno. Poi me giro verso uno che nimmanco conosco e je dico: vamme a pijà tutto er latte de capra che trovi, tanto mica le devi mugne. Sì, me fa, ma ndo le trovo tutte ste capre per riempì na piscina. E che ne so, je faccio, cori ar mercato, fatte portà a Preneste, ma te pare che n’imperatore se deve preoccupa’ de’e capre, mica me chiamo Claudio pe’ scherzo. O quanno j’era preso che se tigneva le zinne coll’oro, perché, diceva, sta merce è prezziosa e ce lo devono sapé tutti quanti. Sai che te dico? Si co’ le femmine nun se capisce ‘n cazzo, co’ lei te pare pure che è corpa tua. E ‘nzomma, te stavo a di’, questa è n’assatanata, ma già da rigazzina prometteva bbene. Penza che me la so’ sposata a quindici anni, che io ce n’avevo, mo’ nun me ricordo bbene, ma ‘na cinquantina, suppergiù. Ma’a portano tutta ‘mprofumata a letto, co’ ‘na vestajetta de canapone, ‘n po’ pesante pa’a verità, che tipo era d’estate e a Roma d’estate se crepa, comunque sto lì a letto un po’ zozzo, che nemmeno me so’ sciacquato (e chi me ce poteva obbliga’) e m’aspetto che ariva una tutta timida, ‘mpaurita, che’e guance rosse, che nun se regge su’e gambe et coetera et coetera; e ‘nvece, ari li mortacci sua, c’ha n’aria da sfacciata, me guarda ne’e palle dell’occhi. Allora je dico: ao, ma chi tte credi da èsse? Abbassa lo sguardo, sta zzoccola! Ma gnente. Anzi se fa ‘na bella risata pe’ sdrammatizza’ er momento, da’a serie: a bello, tra ‘n po’ imperatori ce diventamo ‘nzieme. E finalmente t’abbassa lo sguardo su quelle parti che ‘nnfatti le chiamano le parti basse, e a me me pare come n’ispezione, nun so se me spiego, tanto

Porco stile nell’antica Roma

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che me viene da penza’: era mejo se me davo prima ‘na sciacquata a’e palle, e quer penziero me fa ‘n po’ vergogna’ de me stesso, come si lei, ‘n fonno ‘n fonno, fosse mejo de me. Pe’ falla bbreve, monta sur letto, s’accuccia e me fa: a zozzone, mo’ to’o faccio vede’ io com’è ‘n cazzo pulito, e lecca lecca me lo fa diventa’ così lucido che ce vedo riflessa ‘a fiamma da’a cannela. E mo’ basta perché nun serve artro pe fa’ capi’ quanto po’ èsse zzoccola. Er peggio venne dar giorno dopo ‘n poi. Era ‘nsazziabbile, je dovevo fa porta’ tutti i regazzetti in età d’erezione, voleva èsse la prima a fasseli. E va bbene. Poi quelli ‘n po’ più grandicelli, j’annava bbene pure de èsse la seconda. E va bbene. E su e su fino a li vecchi. E che cazzo! Na vorta t’ha voluto sfida’ na celebre mignotta. Secondo te chi a vinto? Venticinque se n’è fatti, tutti de seguito, ari ari li mortacci sua. Oh, me so’ sfogato. E nun me venì più a di’ che voresti èsse come me e cieco da ‘n’occhio, perché, parola mia, te cieco pure l’artro.

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“Sfide riservate a gruppi, costretti in sodalizio di scrittura, che escludono la possibilitĂ di confrontarsi con un solo, geniale, individuo, sono degne di chiamarsi "sfida" quanto lo sarebbe il lanciarsi coloriti insulti dalle finestre del web o da quelle che decorano, tra le file di panni stesi al sole, i vicoli della periferia di Napoli. Peccato che un guanto di cotta metallica non attraversi la rete informatizzata per massaggiare, senza delicatezza, le vostre circo-scritte aspirazioni. ;)â€?

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massimo vaj >> 23 ottobre 2009 >> ore 9.39

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Io non sono Orlando Bloom e lì fuori non è il Kentucky di Andrea Meregalli

If dreams are like movies then memories are films about ghosts (Adam Duritz)

Era il mese di luglio, probabilmente faceva caldo, non ricordo. Di solito a luglio, insomma, fa caldo. Succede che io, quella mattina, di luglio, mi sveglio. Cioè, voglio dire, a luglio, uno studente, un teen, la mattina al massimo si gratta. Sbadiglia e si prepara per un succo alla pera e due biscotti e, se va bene, un croissant. E io, ovvio, non faccio, o meglio non facevo, eccezione. Parliamo del mese di luglio, si è capito? Amore, vedi, lui è mio nonno, ho detto io. Ah, caspita, che caro, ha detto lei. Sì, quel naso lì poi, ho detto io. Un po’ ci assomiglia a tuo fratello, ha detto lei. Ora, non saprei, non ricordo di che mese si trattasse. Non del mese di luglio, perché faceva freddo. Lei portava un certo piumone nero e lungo e peloso. Io una sciarpa verde. I fiori erano quasi tutti secchi, gialli e stonati, tristi. I marmi brinati. Forse i primi mesi dell’anno. Forse i giorni della merla. Un freddo cane. Io non ce lo vedo il nonno ad ascoltare musica. Proprio no. Non ce lo vedo neppure, il nonno, a copulare, eppure la nonna ha partorito, credo, una decina di volte. Sicché. Probabilmente, negli anni ‘20 o ’30, un paio di danze guancia a guancia, 30


suonate, immagino, da un giradischi, i nonni se le saranno pure concesse. Che roba. Io, beh io, ci do dentro con la musica. Scarico come uno pazzo. Legalmente si intende. E poi, beh poi, trasferisco playlist e file e tracks dentro il mio lettore mp3, un Sony, 70€ di plastica nera e tecnologia insensata. Talmente insensata che mio figlio, quando e se ne avrò uno, nemmeno si ricorderà di un aggeggio come il giradischi. Giradischi?, mi dirà, e che roba è? Eppure, sai, se ci pensi, dirò io, lo potresti considerare il bisnonno del tuo ologramma musicale con cui partecipi a concerti in streaming come se fossi in rialzata. Ah, beh, dirà lui. Imbacuccati, dentro i nostri cappotti, mano nella mano, a testa bassa, si camminava. Che razza di freddo, ho detto io. Sai, ha detto lei, è tutto così triste. Il freddo?, ho detto io. Il fatto che siamo qui, ha detto lei, e che qualcuno si dimenticherà di noi, prima o poi. Non sarà così, ho detto io. Invece sì, ha detto lei, sarà proprio così. Il nonno è morto una mattina di luglio. Avevo appena messo lo zucchero nel cappuccino e un biscotto nero e giallognolo mi era scivolato dalle dita, sbriciolandosi per terra, sfacciato e irregolare.

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Raffineria

Il rumore del sincronizzatore della seconda marcia riempie questo spiazzo male illuminato in fianco alla raffineria. Una decina di lampioni monchi, arrugginiti e leggermente piegati in avanti, incastrati in alti marciapiedi. Elena è qui, seduta alla mia sinistra, ride. Ha appena imballato, d o p o a v e r p ro v a t o a distruggere nuovamente il cambio della mia utilitaria quasi immacolata. Vestita poco, una canotta bianca con piccoli coccodrilli verdi e con la cintura che imbracandola evidenzia il reggiseno imbottito. Sembra più una donna navigata, che mia figlia. Questo è lo scotto da pagare, quando vedi una persona due volte al mese, per un paio d’ore. Ogni volta la guardo, cercando le differenze dalla visita precedente, come nei giochi della settimana enigmistica. L’auto si muove, strattona, cerca di morire, si spegne. “Cazzo porco”. Trattengo le risate, mentre lei scrollando la testa non si capacita di come la mia auto non voglia saperne di andare da sola. “Ma non posso comprare quelle macchine automatiche, senza marce e senza tutte ste stronzate?”. La fisso, non sta scherzando. “Quando avrai dei soldi, ti comprerai l’auto che vuoi, o te la fai comprare dal simpatico amico di tua madre”. Mossa scorretta tirare in ballo Luca. “Io da quel coglione non mi faccio comprare niente, hai capito?”.

di Alessandro Milanese

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Annuisco e riparto con la mia cantilena, fatta di: lascia la frizione dolcemente e accelera piano, poi frizione giù, acceleratore su, marcia etc etc. Riparte. Le appoggio le mani sul volante, ma non riesce ugualmente a tenere una linea retta, scartando a destra e manca. Ci fermiamo in una marcia ignota, sicuramente più vicina alla quinta che alla prima. Sbuffa, passandosi la mano sul ciuffo alla moda che copre uno dei due occhi azzurri ereditati dalla madre. Incrocia le braccia, si arrende. “Sono senza speranze, lo dice anche Kevin”. Nel 1990, in un estate più torrida di altre, non conoscevo nessuno di nome Kevin. La Visa, usata di quinta mano, aveva notte e giorno la cassetta di Violator dei Depeche Mode incastrata nello stereo. Incastrata perché, quando si surriscaldava, il tasto di espulsione non funzionava e non c’era verso di cambiare nastro. Quella che sarebbe diventata mia moglie (per poco) e la madre di Elena (per sempre) era bellissima nei suoi vestitini leggeri a fiori. Andavamo in collina alla ricerca del fresco, e mentre mi ostinavo di risultare romantico, inventandomi le costellazioni, lei prendeva l’iniziativa e finivamo per fare l’amore appoggiati a quel pezzo di lamiera bianco con quattro ruote. Così, in fianco ai ripetitori di Pecetto, è stata concepita questa guidatrice maldestra. “Dài Elena, ripartiamo, con calma, non devi imparare tutto stasera”. E’ ancora imbronciata e nonostante le parolacce, i vestiti, i reggiseni, i fidanzati meridionali con nomi idioti, vorrei abbracciarla. La Yaris, come rassegnata, borbotta e si rimette in moto. Procediamo prima lenti poi più decisi, zigzagando. “Cazzo Pa’, ma sai che di solito con Kevin veniamo ad imboscarci proprio qui”. …la Visa, i Depeche Mode, i fiori, le stelle, sua madre, la mattina del 8 maggio 1991… 33


Poi solo il rumore del pneumatico che esplode contro il piccolo cordolo di cemento, il cerchio che si spezza, la testina dello sterzo che cede, la ruota che si trascina sotto la scocca. E le sue mani davanti agli occhi per non vedere.

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Ho conosciuto Anna l’anno scorso di questi tempi, quando si è t r a s f e r i t a nell’appartamento di Marco Montanaro accanto. All’epoca usciva con Derek, un ragazzo di colore che abitava al primo piano. Hanno smesso di vedersi perché lui ha cambiato città. Stefano, il coinquilino di Anna, la chiamava la marocchina, perché lei è meridionale e usciva con Derek. Stefano studia ingegneria ed è razzista, di quel razzismo blando e di maniera che va un po’ di moda. Anna aveva altri due coinquilini, Diana e Francesco, studenti anche loro. Poco dopo aver preso a frequentare casa mia mi ha spiegato che il fatto che io non fossi uno studente le dava tranquillità. Adorava il fatto che io avessi altri tipi di problemi. Studiava Beni Musicali e sognava. Non so cosa, ma sognava, sogni tiepidi. Mi veniva da chiederle cosa volesse fare da grande, ma era di quelle ragazze che non te le puoi proprio immaginare, da grandi. Quando abbiamo cominciato a fare l’amore ho capito che per lei ero un rifugio. Mi andava bene così. Era come se provenisse da una grande paura, Anna, e il suo concedersi senza troppa anima implorava rispetto. Credo ci fosse un altro uomo dietro questa sua parte invisibile, un uomo prima di Derek, a cui lei doveva molto e che al tempo stesso l’aveva consumata. Anna custodiva un gran segreto che non volevo scoprire. I segreti mi piacciono quando rimangono tali. Intanto, mentre lei mi spiegava di un

Un’altra cosa che sta morendo

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periodo in cui era rimasta chiusa, da sola, in casa, tentavo di capire se dietro il suo essere sfuggente Anna non custodisse un semplice, enorme vuoto. A volte è questo. Persone che sembrano inafferrabili, e per questo esercitano un certo fascino, e invece niente, non c’è proprio niente da scoprire. Mi raccontava delle serate passata da sola ad ascoltare le incisioni dell’Orchestra della Rai. Non le piacevano, c’era solo che un suo zio ci aveva suonato, per anni, a Napoli, finché le varie Orchestre sparse per l’Italia non erano state fuse ed era rimasta solo quella di Torino. “Un’altra cosa che sta morendo” pare dicesse suo zio. A lei piaceva solo immaginare che ci fosse suo zio, in quei dischi. Non raccontava di quella solitudine per chiedere protezione, o peggio, amore, no, voleva solo condividere una parte di sé. Era molto sincera, e bella, e per questo io non ho mai cercato di scavare troppo a fondo. L’amore la rendeva libera fino a un certo punto; smetteva di essere Anna, mi amava con onestà, ma c’era sempre qualcosa che sfuggiva, solo particolari, e io sapevo che era dovuto a quell’uomo. A lungo ho creduto che una relazione tra un uomo e una donna non dovrebbe essere nient’altro che questo. Ad Anna faceva comodo la finta sicurezza della mia età. Quest’anno Stefano mi ha presentato Antonio e Claudia. Vivranno nella stanza di Anna. Anna non tornerà più. Non so se è rimasta a Napoli, ma so già di cosa si tratterà, per me. Non so spiegarlo, ma nel ricordo saprò ancora trovare il piacere e il profumo di certe sere.

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Lo si dice per ridere, alle bambine magre, minute di stazza… A quelle con le gambe sottili come libellule lo si dice: “stai attenta al vento, ché potrebbe farti cadere!”.

A poche miglia da qui di Giulia Ottaviano

Io non ho mai conosciuto una bambina, una, a cui facesse ridere questo tipo di battuta sciocca che l’adulto spesso propina compiaciuto ai propri figli. Io però ho conosciuto un vento così forte che anche se le mie gambe non erano libellule ma erano piedi di comodino (in legno) mi faceva cadere. E mi faceva cadere con la faccia sulla terra che anche se non la potevo vedere sentivo in bocca il sapore del rosso e del piscio giallo degli animali. Quindi, “cadere per il vento forte” è un’espressione che ho cominciato a utilizzare solo dopo quel viaggio. E “lungo” è l’unico aggettivo che ho usato per descriverlo per tanto tempo, soprattutto perché la sua esasperante lunghezza è ciò che ricordo meglio. Camminare a lungo e un mucchio di scarpe. Mi ricordo le scarpe lungo la strada, le scarpe dietro un cespuglio, mi ricordo che chiedevo “mamma, perché ci sono delle scarpe?” senza ricevere mai una risposta, scoprendola da sola giorni dopo, dopo lunghe camminate nell’acqua percepire le mie scarpe marce, abbandonarle dietro un cespo quasi irriconoscibili, più simili a scatole di cartone per scarpe che a scarpe. Poi camminare scalza, correre anche, correre senza più fiato, dimenticando di avercelo eppure soffrire di più per i miei 37


piedi piatti e luridi, per le mie gambe comodino che poi non sono mai più cresciute da allora, per mia madre che mi tira da sotto le braccia, anche lei senza più scarpe anche lei buttata giù dal vento, anche lei accucciata come per fare pipì dietro una duna mentre la migra, tra megafono e fucili, ci dà una calorosa accoglienza negli Stati Uniti. Per un po’ correre come conigli al buio e poi a cinquanta metri sulla destra vedere il cartello “Welcome to California” e a sinistra, illuminata a giorno, scoprire la mia frontiera: un campo da tennis. Un opportuno buco nella recinzione di fronte e alle spalle mia madre e per l’ultima volta, le nostre scarpe… Anni dopo eccomi, a camminare avanti e indietro per il bagnasciuga di questa spiaggia losangelina tanto ampia da sembrarmi desolata anche quando è piena di gente. Cammino e studio la mia ombra che è bassa e tozza intorno a mezzogiorno e slanciata nel tardo pomeriggio, ma in qualche modo sempre infantile. Come se i tratti somatici di bambina in rosa (io, vanitosissima, davanti a uno specchio verderame) si fossero impressi a tal punto nella mia memoria da riproporsi, sindone, su alcune delle mie ombre. Soprattutto sulle più tracagnotte. Sono quelle le più simili alla realtà, alle mie gambe come piedi di comodino, sono quelle più somiglianti ai nostri corpi di messicani, alle nostre figure di mamma e figlia che, a volte, rivedo esageratamente imbellettate su tacchi e scarpe bianche di vernice, pronte per andare su certe “piste da ballo”, molto rustiche, a poche miglia da qui.

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Jingle bells, Jingle bells, Jingle all the way… -Maremma maiala!gridi, la voce assorbita dal bianco ovattante della neve. di Matteo Pascoletti È la vigilia di Natale, hai una lista di regali da comprare e la produzione di bile è a livelli critici. La gggente attorno a te sciama tra gli ingranaggi in tilt del clima festivo. Poche ore di tormenta hanno bloccato il traffico in tutta la città. Gli adulti imprecano, mentre i bambini sono felici: possono giocare a palle di neve e costruire pupazzi, almeno finché gli adulti non li richiameranno all’ordine incatenandoli alla propria frustrazione. È nervosa persino la signora Fanny Bright. Tu smaremmi, smadonni, a dirla tutta t’incazzi. Avevi organizzato la giornata a puntino per comprare tutti i regali prima di cena. Dio ha però scelto la neve per veicolare un messaggio che spesso hai bisogno di dimenticare, specie sotto le feste di Natale, specie per questo Natale. Il messaggio non è dovevi mettere le catene nel portabagagli. Il messaggio è più sul genere non hai controllo su tutto. Il messaggio è non pensare che, siccome hai avuto la sfortuna da romanzo dickensiano di perdere tuo babbo il giorno di Natale, per giunta a causa di un tumore, la vita sia in debito con te; se anche fosse, non è un debito che puoi esigere quando ti fa comodo. Avevi in mente, nella testa e sotto la pelle, di festeggiare un Natale felicemente normale, dopo gli ultimi, riassumibili in due frasi:

E’ nervosa persino la signora Fanny Bright

25/12/2006 -Ci spiace, la chemio non è servita. 39


25/12/2007 -MAMMA! IL BABBO NON RESPIRA! La realtà dice che da almeno un’ora hai rinunciato a girare con l’auto. Hai dimenticato le catene per quella forma di scaramanzia inconscia secondo cui, per esempio, se è nuvolo e non vogliamo che piova allora ci diciamo “tanto non pioverà” e lasciamo l’ombrello a casa. Ma all’altezza del punto 3 della lista, dopo aver rischiato un patetico testacoda figlio della testardaggine e della strada ghiacciata, hai finalmente posteggiato l’auto per cercare un piano B. -Taxi?- dici al cellulare, sotto l’ombrello, il freddo che si mangia le parole e invade gli orifizi. -…Ma è sicuro di non potercela fare?… Sì, ma per me è molto importante riuscire ad arrivare al centro commerciale, è un Natale un po’ particolare…No, certo, capisco, capisco perfettamente…pronto? (Il messaggio è anche perché dimentichi sempre di caricare la batteria del cellulare?) E dire che da piccolo adoravi la neve. Tutti da piccoli adorano la neve! Chi non è cresciuto con il mito del bianco Natale? Quando arrivava quel periodo speravi sempre che nevicasse, arrivavi quasi a pregare perché nevicasse. Ti sarebbe andato bene anche se avesse nevicato il 27: in fondo eri un bambino umile, bastava poco per renderti felice. Sui ricordi irrompe il presente: senti le risate dei bambini che giocano in un momento di quiete, nel bianco da cartolina subissato dalle luci delle insegne e dai motivetti natalizi. Vedi il gruppo di bambini, vivi le loro risate come dita che si trastullano in una ferita che non pensavi fosse ancora infetta. -BABBO NATALE NON ESISTE! I REGALI VE LI PORTANO I GENITORI!- urli verso di loro. Jingle bells, Jingle bells, Jingle all the way… Sticazzi la signora Fanny Bright.

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“ok. bene. come un vero torneo. scusate ;)� francescoernest

>> 21 settembre 2009 >> ore 13.34

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Il gioco della bottiglia di Sara Pavan

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Oggi, 00:44 Questa notte non ho sonno. Ho provato a sdraiarmi sul di Stefano Peloso letto, luci spente. Non sono riuscito a chiudere gli occhi e sono rimasto almeno un’ora a fissare le stelline fosforescenti sul soffitto. Non ci facevo più caso da anni; forse perché dormo disteso sul fianco. Credo sia stata la mia costellazione da camera a togliermi il sonno. Emana una radiazione ipnotica che m’intristisce. Ho fame. Bevo della Pepsi, la fame passa.

Questa notte non ho sonno

01:12 Curiosando tra le altre pagine del diario ho trovato questa foto. Non ricordo da dove o da quando arrivi, mi sembra così anonima: non ci sono persone, non ci sono strutture. Potrebbe essere una spiaggia qualsiasi. L’ho scattata io? Perché la tengo qui? Forse sto perdendo lucidità per la stanchezza, ma non riesco a togliermi dalla testa l’idea che c’entri qualcosa con le stelline. Ho di nuovo fame e la Pepsi è finita. Provo con l’acqua, ma non è la stessa cosa. 02:16 Ho tentato ancora di dormire. Forse potrei spostarmi sul divano, però non sono sicuro di voler sfuggire alle stelline. Oltre a loro e alla foto adesso ho una nuova ossessione: un film su un fotografo in cui dei mimi giocano a tennis. Come si chiama? 02:31 Ho cercato “mimi che giocano a tennis” su internet. Titolo trovato, sto scaricando il film. Nell’attesa mi do all’autoerotismo supportato da audiovisivi amatoriali d’oltreoceano, sfruttando il multitasking del mio computer. 49


03:24 Dopo tre cicli masturbatorî, ho finalmente il mio film. L’audio è in spagnolo, ma poteva andarmi peggio. 04:13 Ho guardato scene del film saltando qua e là e forse ho trovato un collegamento. Sto scansionando la foto per provare a ingrandirla. 04:18 Ho tenuto una definizione troppo bassa, non c’è abbastanza informazione per trovare quello che mi serve. Sto di nuovo digitalizzando l’immagine. Alla risoluzione massima il tempo stimato per l’operazione è di quasi mezz’ora. Ancora porno, questa volta giapponese. 05:01 Penso di aver trovato qualcosa, ma non mi basta ancora la definizione. Si intuisce appena il riflesso di una persona in un pezzo di vetro di bottiglia abbandonato sulla spiaggia. Altra rapida ricerca su internet e scopro l’esistenza di un programma che ricostruisce immagini usando frattali: ho appena finito di scaricarlo e l’ho lanciato sulla foto, ma la barra di avanzamento sembra ferma. Per il momento sono stanco di masturbarmi, guarderò di nuovo i mimi che giocano a tennis. 06:58 Il programma d’interpolazione frattale ha qualcosa d’inquietante, di Vudù: è riuscito a far comparire, nella foto, un volto che prima non esisteva. Un volto che mi è familiare. Un tempo passavamo notti intere, distesi su questo letto, a guardare insieme il soffitto fosforescente. Le prime luci dell’alba filtrano nella stanza. Tra poco sarà giorno. Prima di andare a dormire sul divano, mi riprometto di staccare le stelline e infilo la foto nel tritadocumenti.

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Il bando recitava: i 4 finalisti avranno alloggio e femmina prepagata. [Fig.1]* Ero tra i 4 e stavo nel mio spazio m i n i m a l a p e n s a re a l perché mi fosse capitata la casa marrone. Gli altri avevano case di colore di Gianluca Pezzella decente, cazzo, mentre il dentroefuori della mia era di un nauseante color escremento. [Fig.2] La cosa non mi lasciava indifferente e benché gli organizzatori l’avessero d e fi n i t e c o l o r a z i o n i stimolanti, il mio punto di vista sulla faccenda non cambiava. Mi alzai e raggiunsi il cesso, stimolato dal colore ignobile della cacca. [Fig.3] Seduto sopra la tazza bianca vedevo il mare inquadrato nella cornice marrone della finestra. [Fig.4] Lo osservai. Poi iniziarono a formicolarmi le gambe e partorii l’idea dell’opera che avrei realizzato. Decisi che l’avrei liberata in mare. Il piccolo lago del water fece blop.

Onan - il costruttore (al contest for architecture & art di Trondheim Norvegia)

La tipa prepagata entrò con l’aria di chi sa fare la sua cosa. Appoggiò la borsa sul bracciolo del mio divano Krnsund, mi fissò dritto negli occhi e mi aprì la patta dei pantaloni per il numero di bottoni necessario. [Fig.5] Disse: soNo emi e sono qui per fottere. Fotto il prossimo, intendo; come te, del resto. I prossimi, per me, sono i clienti nelle case qui a fianco. Fottiamo rapidi Onan! Like the sun, over the rainbow. Mentre ci scaldavamo, pensai che avesse ragione: ci piaceva fottere.

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Avevo poco tempo. Dovevo finire l’opera di notte e non visto. Di giorno scopavo hmf-ah hmf-ah. [Fig.6] La sera creavo clangh clangh. [Fig.7] Gli altri 3, di giorno lavoravano clangh clangh [Fig. 6] e la sera dormivano ronf ronf; [Fig.7] a sentire l’escort ricaricabile, le cose stavano proprio cosi.

Nelle case rossa verde e gialla, vennero creati rispettivamente - AeroParko per aerei arcobaleno sospinti da vento generato da pale eoliche - SkatoLame tritacarne per regolarizzare clandestini indesiderati in un flusso in&out attraverso porte-ghigliottina - CannaThere serra a forma d’aereo antincendio in cui coltivare drug&food.

La finale arrivò. Al Bybroen zone, il locale verde dal tetto spiovente, 4 teche in vetro contenevano 3 plastici; [Fig.8] in quella vuota, c’era la mia opera trasparente. L’avevo chiamata AutoDio e stava per vedere la luce. [Fig. 9] Invitai tutti ad affacciarsi alle finestre, [Fig.10] premei il pulsante del telecomando [Fig.11] e mentre ognuno guardava il mare e sorseggiava Martini iniziai a pilotare. Tutti urlarono – Ehii, Cazzo! La sala si muove. Questo affare si muove! Dove stiamo andando, eh? Ehii! – [Fig.12] e il coro delle loro voci si levò unanime e rimase sospeso tra pavimento e soffitto come una preoccupazione ingombrante sopra la testa. Poi vennero altre voci, piccole, fuori coro, minime; vocine stridule e paurose che dicevano ahh e oddio e mamma mia [Fig.13] e che sparivano, sotto la gravità di quell’espressione globale, come scintille di luce assorbite da un buco nero. Stavamo lasciando il molo con 52


una traiettoria incorreggibile e scivolosa che non avevo considerato. Mi ero fatto prendere la mano; il campo magnetico maglev su cui la mia arca doveva levitare, era troppo potente. Ricordo gente affacciata alle finestre, mulinelli nel mare, fasci di luce nera che infilzavano nubi caricando i contorni di grigio tungsteno, onde altissime e qualcuno che cadeva fuori gridando aah.aarcadiddioo Onaaan! [Fig.14] Ricordo tutti assistere all’identica cosa con il viso stupefatto di chi tiene in mano un cocktail con ombrellino e oliva snocciolata e ne ha appena ingoiato l’osso – il grande miracolo europeo di cervelli in fuga sopra una nave folle guidata da un dio minuscolo che si stava compiendo. E ricordo che l’ultima cosa che vedemmo, fu la stessa per tutti. [Fig.15]

* questo racconto è illustrato. Le illustrazione le trovi in fondo a questa pagina.

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L’incoscienza non è una malattia di Giuseppe Rizza Saranno lì a fare quattro conti rapidi. La casa al mare con il forno a legna, l’appartamento al centro, l’auto di lusso per caso sai di che anno è, e quella tela che gli regalò quel suo amico della scuola di Scicli, ora non è che voglio passare per materiale, ma, tuo nonno ormai è ultranovantenne no? Questo staranno pensando. C’è da scommetterci. Sull’autostrada, dentro un abitacolo non troppo spazioso ma ancora per poco, mia nipote e suo marito, quello che per fare soldi l’importante è avere un buon commercialista, stanno pensando che era finalmente ora che io morissi. Niente di male, per carità, brava persona, ma finalmente doveva girare questa ruota, dopo anni d’attesa è arrivato il nostro momento, l’ansia prolungata, è questione di mesi, non supererà l’anno, suo nonno è credente? Finalmente saremo noi, noi capisci, a goderci i soldi, l’eredità, la rendita. Chissà quante ore mi hanno dato. Vostro nonno rischia di non superare la giornata. Il respiro pesante. Affaticato. I valori del sangue. Dovrebbero avvertire in qualche modo anche il degente. Senta, sappiamo che è in stato di semicoscienza ormai da tempo, però volevamo farle sapere che abbiamo come l’impressione che lei in giornata smetterà di vivere. L’unico neo è 54


che non sappiamo dirle se sarà indolore o meno. Così uno magari si prepara. Nell’attesa. Seleziona cosa ricordare, quali ricordi farsi venire in mente quando sta per sentirsi più leggero e con le palpebre come zavorre. Tanto per non risultare impreparato. Il primo bacio. Il corridoio di una scuola elementare. Il suo sorriso anche con i denti non ancora a posto. La voragine delle sue pupille. Il sapore di quelle labbra. Liquirizia. E quell’altro che non vi sentite più da minimo quarant’anni ma lo ricordi sempre come il migliore amico. La banalità del gesto di tuo figlio: buttare la vita dal balcone l’ultimo dell’anno. Le valigie sul letto. Torno da mia madre. Mi porto nostro figlio. Le poesie che avevi scritto negli anni finite dentro il falò sulla spiaggia. L’auto che si ferma a tarda sera sull’acciottolato direzione monte Amiata, un trenta dicembre, gradi imprecisati ma pochi. Il tuo sogno erotico per eccellenza: la prof. di matematica al liceo. Quante volte hai detto ti amo. Quante. La memoria di un novantenne è debole. E quella volta che Sabrina in pineta ti disse tutto d’un fiato se mi dai diecimila lire ti faccio vedere le mutandine. I pomeriggi al cinema piangendo da solo ad ogni pretesto. Quando hai pisciato sul pianerottolo perché la vescica a una certa età non è più controllabile. Quando hai dato l’aranciata al pesce rosso di tua nonna. Quando hai messo un ago nella tazza ricolma di caffè della vicina. La prima volta che sei entrato in una donna. Tutte le parole che non hai mai pronunciato. Li sento, al di là dei vetri. Sono arrivati. Nell’attesa ho pensato al mio ultimo pensiero, quello che mi accompagnerà. Come starebbero bene le mie mani dentro la scollatura di quest’infermiera.

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fo to 56


silvia giambra.

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dario prunas.

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michele turazzi.

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salvatore piombino.

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silvia giambra.

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silvia giambra.

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michele turazzi.

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Dal gelataio di Carlo Pigozzi

-Buon giorno. -Ciao. -Lei è il signor Alfredo? -No. -Mi dispiace ma non c’è un modo gentile per dirlo: le restano tre mesi di vita. -Ma io volevo solo un gelato al pistacchio. -Gli esami parlano chiaro: tre mesi e lei muore. Non abbiamo più pistacchio. -Non capisco. -Il pistacchio non piace più a nessuno. E’ obsoleto. -Mi gira la testa. Che ore sono? -Le otto meno dieci gradi. -Ma quello è un termostato non un orologio. -E quella è una porta non un ombrello. -Chiedo scusa, sono sfacciato. -Buon dì. -E tu chi sei? -Alfredo. -Che gusto? -Pistacchio. -Ecco a lei. -E io? -Mi dispiace ma siamo chiusi. -Come?

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La filanda

Pippo un minuto e siamo di nuovo in di Salvatore Piombino onda. La voce del regista gracchia attraverso l’auricolare mentre osservo i truccatori armeggiare fra le sedute per appiattire lineamenti e plastificare zigomi con enormi spugnette intrise di fondotinta. Cerco di riordinare i cartelloni con i testi del prossimo blocco quando la voce di Mario Bianchi torna a inclazare. • E tre, due, uno, in onda. I fari e le luci colorate dietro il corpo di ballo si accendono di colpo illuminando le enormi lenti a goccia di Pippo Baudo. Durante gli applausi di apertura fissa il cartellone passandosi una mano sulla bocca, poi comincia a leggere. • Caro Mike l’idea che tu non ci sia più non riesce a convincermi… • zoom sul volto di Antonella Elia con la tre. • …ho così tanta voglia di conversare ancora una volta con te e come me vorrebbero farlo tutti gli italiani. Ecco perché siamo qui oggi… • Carrellata da Sabina Ciuffini a Paola Barale. Stop. • …lascio quindi la parola a Giucas che tenterà proprio qui a «Domenica in» un esperimento su se stesso per cercare di… come lo chiami tu Giucas? • Canalizzazione Pippo, è un esperimento che ho studiato al capezzale di Lee Carroll, sai il famoso medium, che insomma… • Si Giucas, bisogna che il nostro regista Mario Bianchi abbassi le luci, ecco così, e che tu ti stenda su questo diciamo lettino, chaise longue… ecco. Mi volto verso Wilma Goich, si sta schiarendo la voce con le palpebre abbassate mentre Giucas si stende, strategicamente inquadrato con un primo piano emotivo sulle sue palpebre 65


umide. Pippo si volta verso di me, fissa per qualche secondo il cartellone che ho appena montato prima di tornare a parlare con voce stranamente impastata. • Mike, Mike ci sei? • Pippo abbiamo una telefonata. Giucas è ancora immobile con le mani giunte al petto, non faccio in tempo a chiedermi se stia andando tutto per il verso giusto che la voce di Mario Bianchi esula dagli auricolari per tuonare roca in tutto lo studio: • Pippo abbiamo una telefonata… del Premier. Pippo si volta verso gli autori stringendo le labbra fino a farle diventare quasi trasparenti, poi si china nuovamente verso Giucas. • Pippo sto per mettere in onda la telefonata. La voce di Bianchi, di nuovo negli auricolari, suona ora asciutta e metallica mentre sul LED appare un’immagine che ritrae un giovanissimo Silvio Berlusconi stretto al braccio di Mike Bongiorno. Wilma Goich si è alzata in piedi e in penombra sullo sfondo sta urlando qualcosa a microfono spento, una serie di parole ripetute come un mantra: la filanda, la belinda, la bernardaa, la filanda, la belinda, la bernardaa, la filanda, la belinda, la bernardaaaa… Pippo è ormai in ginocchio e tiene la mano di Giucas portandola piano alla bocca per sfiorarla con le labbra. • Mike su, sfottiamoci un pò, Mike dai… • Cribbio, ma insomma questa è casa mia! Ma è modo? E allora…! A questo punto mi siedo per terra a gambe incrociate osservando meglio la scena: la Goich ha iniziato a correre per lo studio continuando a urlare il suo mantra e Baudo, ormai stretto alle spalle di Giucas, sta piangendo della grossa. È il bello della diretta e che nessuno si sogni neanche lontanamente di chiamare i consigli per gli acquisti.

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Tra le molteplici vie per r e n d e re p a r t e c i p e d e l proprio disagio chiunque gli stia gravitando intorno di Matilde Quarti quella che Gregorio Arioldi preferisce è indubbiamente la vibrazione della gamba. Polpaccio destro appoggiato su ginocchio sinistro, fa partire la vibrazione con un movimento semi rotatorio della caviglia per poi lasciare che propaghi fino alla coscia ed investa l’intera persona. Seduto sul muretto di fronte al supermercato aspetta che arrivi il momento giusto per passare all’azione, trasmettendo il suo nervosismo vibratorio ad un ragazzo dal colorito arancionemikebongiorno che lo osserva con diffidenza. L’orologio segna le diciotto e quarantacinque, ancora pochi minuti e l’intero popolo impiegatizio, libero dal lavoro, si riverserà tra le porte scorrevoli. Solo allora la confusione sarà tale da permettergli di agire indisturbato. Gregorio si sistema la sciarpa stretta intorno al viso, afferra la bomboletta di colla spray nascosta nel tascone della felpa e, non appena i corridoi si trasformano in un incubo di carrelli e bambini dispersi, si getta nel flusso delirante della spesa serale. Arrivato davanti al ripiano dei cereali afferra i fiocchi di riso ricoperti di cioccolato, spruzza la colla sul retro della scatola e ci attacca la sua ultima fatica: “Bomba di neutroni su Saturno”. Seguono “Il collasso della galassia di Scranz” sugli anelli al miele e “Non ti scordar di me, mia bella venusiana” sui cereali dietetici. Gregorio Arioldi, trentadue anni e undici mesi, il terrore di morire entro i trentatré come Gesù Cristo, è un autore di fantascienza. Dopo aver scritto pagine su pagine di efferate congiure intergalattiche e averle sistematicamente chiuse in un cassetto, ha deciso, con la quasi certezza dell’imminente fine della propria esistenza, di

Le navi ribelli di urano

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coprire le tabelle caloriche delle colazioni dei suoi concittadini con la propria arte. Ha quasi finito la colonna degli anelli al miele quando si sente chiedere, da una voce delicata ed incerta che non ha niente a che vedere con quella di un addetto alla sicurezza, se per caso è proprio lui Gregorio Arioldi. Gregorio si volta interdetto, tenendo ancora a mezz’aria la colla spray, trovandosi davanti una ragazza dagli occhi grandi che tende verso di lui una scatola degli zerovirgolaunpercentodigrassi in attesa di un autografo. Perché, gli spiega, lo legge fin dalla “Struggente epopea degli aspiratori di raggi gamma”. Gregorio Arioldi è emozionato come il giorno della sua prima missione e, non potendo far vibrare la gamba, che gli è necessaria per mantenere una postura eretta, lascia la palpebra sinistra cadere preda di un tremolio convulso. Chiede alla ragazza dagli occhi grandi se può offrirle un caffè, ma poi, senza attendere una risposta, la trascina con sé di scaffale in scaffale, riempiendole le braccia di pacchi di miscela, cosicché possa berne non uno, ma tutti quelli che vuole. E ancora le compra delle fettuccine e poi del pesto con cui condirle, e un massaggiamuscoli per quando è stanca, e dei supereroi di cioccolato se dovesse sentirsi triste. E alla fine la lascia lì, con due sacchetti di regali, mentre corre via, con la palpebra sinistra che ancora non vuole capacitarsi del suo riconosciuto talento, dimentico di non aver autografato “Lune bordeaux nel freddo siderale” sul retro dei cereali zerovirgolaunpercentodigrassi.

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Quelli piccoli sull’orizzonte sono cervi. Particolarità dei cervidi è di essere dotati di palchi, strutture ossee a rinnovo annuale, analoghe e non omologhe alle corna propriamente dette”.

(perché non posso guardare) di Simone Rossi

Le corna dei cervi si chiamano palchi. Come a teatro. Ma pensa te. “In araldica il cervo è simbolo di nobiltà antica e generosa oltre che di longevità. È considerato anche simbolo di amore per la musica, prudenza, pentimento, preghiera etc”. Musica, prudenza, pentimento. Eccetera. Mia madre e le sue sorelle vanno nei boschi di notte con i pentoloni bollenti e le ali di pipistrello e le tette di fuori, e lo Zio Vino è contento. Io ho 16 anni, sono figlio e nipote di streghe e la cosa mi va benissimo. Questa storia si svolge nell’antica Grecia, e i cervi adesso arrivano. Il giovane Penteo è un cerchiobottista bigotto democristo con il gran culo di essere nato nella famiglia giusta, e da stamattina è il re di questa città: Tebe. Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re dentro i libri: sono stati loro a strascicarli, quei blocchi di pietra? Ma soprattutto: il giovane Penteo sarà anche giovane, ma non si sa divertire. Renderà illegali le feste dello Zio Vino, l’ha detto stamattina in assemblea. Un re non ha promesse elettorali da mantenere: un re va su perché gli tocca, e quando è su può fare quello che gli pare, he’s the king, e il giovane king 69


Penteo si è stancato di sentire le lamentele delle vecchie al mercato di Tebe: “Tranquille, signore mie: le metto a posto io quelle tre sgallettate”. Tre sgallettate lo dici alle tue sorelle, pensa mia madre: noi siamo le figlie di Cadmo e Armonia, c’è chi ha scritto un Mattone sulle nozze dei nostri genitori. Andiamo, ragazze. Le ragazze vanno, e va anche Penteo: si nasconde dietro a un cespuglio e le guarda nude: inizia la festa foresta. A teatro c’è il palco, e sopra gli attori e davanti gli spettatori. Alle feste foreste dello Zio Vino non ci sono attori, non ci sono spettatori, non c’è rappresentazione, non c’è spettacolo: gli unici palchi delle feste foreste sono le corna dei cervi. Penteo, sfortunato mortale che ti imbuchi alle feste foreste perché vuoi solo guardare: non puoi, non puoi proprio, non puoi proprio capire. Ti vedono, mia madre e le mie zie, ti vedono guardare. Smettono di ballare. Ti volano addosso violente e insensate, come una lapidazione. Muori, Penteo. Muori perché non puoi guardare. Io mi chiamo Atteone, mia madre è una strega assassina e mio padre mi ha mandato a lezione di caccia da un centauro: tiro con l’arco meglio di Artemide. Artemide che è bellissima e nuda, e il suo simbolo, pensa te, è il cervo. Artemide con le tette di fuori insieme alle sue compagne, nel torrente, come mia madre e le sue zie, e io ormai ho trent’anni e ammazzo cinghiali per vivere e un giorno sei lì, Artemide, nuda, nuda come sono nude le tue compagne, e io vi spio, e mi commuovo, vi spio e mi commuovo, vi spio e voi mi vedete, mi vedete guardare, e tu mi sputi in faccia l’acqua del torrente e io scappo, scappo in mezzo al bosco insieme ai miei cinquanta cani da caccia, scappo e la lingua mi si asciuga, arrivo a uno stagno, mi guardo nello stagno, sembro Narciso.

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E invece sono un cervo, un cervo con i palchi. Il pentimento e la preghiera non servono quando Artemide ti trasforma in un cervo, non me n’ero accorto, ma i miei cinquanta cani da caccia sÏ: non correvano insieme a me, mi correvano dietro, e ora che siamo fermi allo stagno mi volano addosso violenti e insensati, come una lapidazione. Muoio. Muoio perchÊ non posso guardare.

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indipendenza

Quello che mi serve, ogni di francesco sparacino domenica mattina, quando mi sveglio dopo l’incubo, è una mamma. Una mamma a forma di pallone, rotonda, morbida, rassicurante. Una mamma che sussurri svegliati svegliati svegliati e poi io mi sveglio e faccio colazione e mi incazzo perché avevo chiesto se per favore, per favore, mi stirava le camicie a righe, che senza camicie a righe, al giorno d’oggi, non si va da nessuna parte. Invece la domenica mattina a svegliarmi è l’orologio Chicchirichì che alle sette, ogni giorno, fa proprio così: Chicchirichì, e la colazione non è pronta e le camicie non sono stirate da sempre. E io sono nervoso. Per mesi, dopo la morte di mia madre, non ho sognato nulla. Le notti passavano innocue, poi arrivava mio padre, apriva la tenda e diceva svegliati svegliati svegliati e mi alzavo, preparavo la colazione per lui e per me e andavo al lavoro. Poi ho deciso che era arrivato il momento di diventare indipendente. Ho detto: “Ciao papà, io vado via” e sono andato via, verso l’indipendenza: dall’altro lato della strada. Ho trovato un bilocale a 250 euro al mese, è comodo, pulito, col tetto alto e il balcone. Capita che mi affacci al balcone e trovi mio padre affacciato anche lui, al balcone di fronte, a fumare e guardare nel vuoto. “Ciao papà, tutto bene?”, gli chiedo. E lui risponde che sì, tutto bene, domani smette di fumare. Gli credo ogni volta, e ogni volta non smette, ma va bene così. Sul soffitto, sopra il letto, c’è una macchia. Umidità accumulata da anni, prima che arrivassi. Sono andato da quelli di sopra a chiedere spiegazioni, “È così da anni, prima che arrivassi”, mi hanno informato e non li ho più disturbati. La macchia però continua a esistere, si espande o si restringe a seconda dei 72


giorni, e negli ultimi tempi ha raggiunto una forma riconoscibile. Una forma di donna, coi capelli alle spalle e il corpo perfetto. Tre mesi fa, un sabato sera, ho invitato a casa un’amica, abbiamo mangiato una pizza, fatto due chiacchiere, visto “Maria Antonietta”, con Kirsten Dunst. Non abbiamo scopato. Più tardi, da solo, mi sono steso sul letto, ho guardato la macchia e poi ho chiuso gli occhi. Ho sognato di essere nel XVIII secolo, in Francia, solo che poi la Francia diventava l’Italia e l’Italia diventava casa mia e c’ero solo io e c’era la macchia e la macchia era Kirsten Dunst, si staccava dal tetto, si toglieva i vestiti, mi avvolgeva sul letto. “Vuoi scopare?”, chiedeva. “Sì”. E iniziava a spogliarmi, calzini, pigiama, mutande, ma invece di fermarsi continuava a spogliarmi, peli, capelli, unghie, pelle, muscoli, polmoni, ossa e rideva rideva rideva e di me non restava più nulla, soltanto i due occhi. Ogni domenica notte, da tre mesi, faccio lo stesso incubo. Kirsten Dunst. Poi, alle sette, la sveglia Chicchirichì, e sono nervoso, mi lavo, mi vesto, scendo in strada, citofono a mio padre, c’è freddo, camminiamo vicini, ora sono più calmo, facciamo colazione al bar, compriamo un mazzo di rose e margherite. Davanti alla tomba di mamma stiamo in silenzio, lui fuma, io sistemo i fiori. Poi mi chiede: “Tutto bene al lavoro?”. “Tutto bene, papà”. “Domani smetto di fumare”. E io gli credo, ogni volta gli credo. Poi andiamo via.

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“symone rossy” paco >> 9 ottobre 2009 >> ore 23.44

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Sono quel che era

Il Grillo siede spesso di fronte al bancone ma non sempre lo stesso. Lo di Gianluca Senis conoscono praticamente tutti, sicuramente più di quanto lui conosca tutti gli altri. Il Grillo siede sempre solo e beve come una spugna, ha una discreta età anagrafica e un’aria solenne e pensosa, uno sguardo impenetrabile e fisso nel vuoto. Parrebbe uno di quegli affascinanti misantropi se solo la sorte non lo avesse lasciato inerme, anima dannata, turpemente de-spiritualizzata. Il Grillo non ha vita. Anni fa una rarissima malattia degenerativa causata da forte abuso gli ha fottuto il cervello. O meglio: il cervello in sé è tuttora tecnicamente sano fatto salvo per delle minuscole protuberanze poste alla base dell’encefalo. L’alcol gli ha bruciato i corpi mammillari. Decenni di cure hanno solamente confermato che il Grillo non ha più memoria. Memoria d’ogni tipo, poiché fatica a ricordare tanto vicende del passato quanto quel che ha appena terminato di dire. Ridotto ad un misero fascio di mutamenti senza continuità, vive l’inconsapevole dramma del disperarsi in ogni momento per una vita che non riconosce, per un’esistenza non sua. Salvo poi dimenticarsi del dramma, e riviverlo nuovamente nell’istante successivo. Come colui che sordo è eternamente chiamato a suonare i primi accordi di una melodia che non comprende, mentre osserva le proprie mani atrofizzarsi dimentica dopo poche note di aver mai cominciato. Il Grillo vive l’angoscia di un oblio imperfetto, l’agonia di non poter dire se realmente prova qualcosa. Nella sua mente sono stranamente stampati piccoli eventi o fotogrammi senza continuità logica. Riconosce Ginto, suo vecchio amico sin dall’infanzia, ed ogni volta che lo incontra lo accusa di trascurare la cura di sé, di essere imbruttito precocemente. Il Grillo non riesce a tenere lo sguardo fisso in uno specchio, non riesce a riconoscersi 75


contiguamente nel tempo. Non ho mai pensato a cosa gli possa passare per la testa; in realtà ci penso anche troppo spesso, il che mi fa uscire di senno. Ogni volta mi assale lo stupido terrore di poter diventare come lui. Cerco di convincermi che non soffra, cosa probabilmente vera. Chissà che pensa lui della vita. Vorrei chiederglielo, avrei bisogno di farlo. Purtroppo so che non potrebbe ricordarsi abbastanza le sue parole per potermi offrire un disegno completo del suo sentire. Mi vede arrivare, mi squadra soddisfatto: “Chi sei, bastardo?” Non gli rispondo. Sembra cambiare approccio. “Cerchi qualcuno?” Al terzo tentativo indovina le mie intenzioni: “Chiunque tu sia, stai cercando me?” Gli devo una risposta: ”Che bicchiere è quello?” “Il primo, credo …” risponde prontamente. Sarà almeno il decimo, penso tra me e me. Anche oggi sarà difficile. Purtroppo non si ricorda, non mi conosce. Mi sta bene anche così; non posso certo imputargli di essere stato un padre poco presente.

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Provaci ancora Vincenzo

-Buon giorno. -Ciao. -Lei è il signor Alfredo? di Samantha Thoeni -Si. -Romeo? -No. -Allora, Alfonso? -Si. -Giovanni? -Nei giorni pari. -Ed in quelli dispari? -Sorseggio zabaione. -Come posso aiutarla? -Volevo un gelato al pistacchio. -Gli esami parlano chiaro: tre mesi e lei muore, non abbiamo più amarena. -Meglio, a me il pistacchio nemmeno piace, ne vorrei uno alla volta. -Dico: si prende gioco di me? -No, prendo caffè e brioche, grazie. -Bene, il caffè è già in macchina. -E se fossi un ambientalista? -Ecco il suo caffè; per la brioche, si serva da solo. -Come posso ringraziarla? -Quattro Ave Marie e sette Mea Culpa. -Crede nella Madonna? -No, nei sette Sacramenti però si: Kambei, Kyuzo, Kikuchiyo, Gorobei, Heihachi, Shichiroji e Katsushiro! -Lei parla giapponese? -Non le sembra? Me lo dica lei! -Non le sembra? -Lei parla giapponese? -Solo su richiesta. Entra un prete.

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Mi verrebbe, se non fossi saggio, di provare serenità al pensiero di lasciarvi un mondo allo sfascio, ma non posso sostituire il termine "sfascio" con quello piÚ adatto al vostro modo di essere che è "fascio".

massimo vaj >> 27 ottobre 2009 >> ore 13.07

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Puttane

Il detective alzò lo sguardo a quel cielo così nero; una di Davide Tramontin sottile striscia di abisso tra i palazzi di quello stretto vicolo maleodorante di immondizia ed urina. Presto la pioggia avrebbe lavato via il sangue, e quella storia, la chiamata alle due di notte in quel merdaio, le domande ai vicini s a re b b e ro d i v e n t a t i u n mistero anche per lui; quei momenti si sarebbero confusi a mille altri; anni di lavoro si sarebbero riassunti in un unico ricordo stereotipato, così vago che si sarebbe chiesto se avesse sul serio un fondamento autentico. Si alzò il bavero dell’impermeabile per combattere il freddo, infilò la sinistra in tasca e ne trasse fuori quella che sapeva essere l’ultima sigaretta rimastagli. Meglio così, tanto la parte dell’intrepido detective non è che gli stesse a pennello: ok, il bavero alzato e il fumo pensieroso, con il vapore che esce dai tombini ed il vento che fa danzare nella notte fogli di giornale come in Dick Tracy, ma ormai per lui c’era troppa pancia, c’era la barba di due giorni, e c’era troppo poco tempo per la pensione. Il fotografo se ne era già andato e gli altri erano tornati in centrale, il corpo in viaggio su un’ambulanza a sirene spente verso una cella d’obitorio. Lui aveva detto ai colleghi che sarebbe tornato a casa piedi e si sarebbe fermato a mangiare qualcosa lungo la strada, ma era fermo in quel vicolo ormai da mezz’ora senza pensare a nulla di particolare. Come al solito era una puttana, solo una puttana, sempre una puttana. E a chi importava dopottutto? Era ordinaria amministrazione in quella città di tossici e ruffiani. Una puttana 79


con la gola tagliata e la borsetta svuotatata, probabilmente da un drogato in cerca dei soldi per una dose. Non era poi che facesse una cosa così terribile per tirare a campare, lui qualche volta c’era anche stato con delle puttane. E allora? Non era certo quel tipo di detective che si innamora della segretaria, in realtà anche lei un’avventurosa eroina tirata su a romanzi gialli, che, catapultata nel mondo reale si rivela una coprotagonista senza paura. Era passato troppo tempo da quando aveva avuto una moglie. Ma l’aveva poi avuta? Se era così non si ricordava il suo viso, perso nel fondo ambrato di un bicchiere di bourbon. Che differenza avrebbe fatto? Sarebbero passati i giorni; il caso sarebbe stato archiviato, l’appartamento di quella puttana occupato da un’altra puttana, il bicchiere vuotato un’altra volta. Pensò che era ora di andare, di tornare a casa sua così simile all’appartamento di quella puttana, se si escludevano le tende di perline e le candele profumate, che nell’intenzione avrebbero dovuto rendere quel luogo denso di sensualità e calore, ma che in realtà non facevano che mettere in risalto l’intonaco scrostato dalle pareti e gli aloni di sporcizia sul pavimento. Decise di fare un giro lungo passando per il parco; non aveva nessuna voglia di dormire e decise che la vista di qualche albero avrebbe potuto fargli bene. Non che quel luogo gli desse delle vibrazioni particolarmente positive, ma se non altro sapeva di avervi passato momenti felici, prima da bambino, poi da giovane con qualche ragazza. Ciò gli dava uno strano senso di sicurezza, era però una sensazione ambigua, come quella che si ha dopo un sogno d’amore che lascia tremanti e colmi di desiderio, le cui immagini sono ormai scomparse di nuovo nella notte. Così erano i suoi ricordi che non ricordava, ma che sapeva, presupponeva, dovessero esserci, in fondo alla sua mente non solo come memoria di ricordi, ma come momenti autentici di una vita che aveva avuto un inizio, una storia e se dio avesse voluto una fine. 80


Pensava così il detective e non si era nemmeno accorto che non c’era più asfalto sotto le suole delle sue scarpe, ma che al suo posto un sentiero di ghiaino chiaro si snodava tra alberi e cespugli come un serpente fluorescente nel buio. Il giorno seguente avrebbe dovuto pagare una bolletta, gli tornò in mente; sperò che gli fosse già stato accreditato lo stipendio sul conto. Avrebbe avuto voglia di un’altra sigaretta, ma questo pensiero fu subito bloccato da una visione improvvisa. Tra i rami degli alberi vedeva la luna, per la prima volta durante quella notte ci faceva caso. Era una luna calante, un sottilissimo spicchio che gli ricordava un sorriso. Rimase fermo a fissare la luna senza accorgersi di altri occhi che lo spiavano dal cespuglio dietro di lui. Occhi che si avvicinarono, in silenzio. Non si accorse della lama che con un movimento rapido gli scivolò nelle molli carni del collo, né della mano che senza esitazioni estrasse il suo portafoglio dalla tasca dell’impermeabile. Alla fine rimaneva solo lui a guardare la luna con un sorriso lungo e rosso. La luna sorrideva a lui.

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Il vecchio si abbottona il cappotto e spalanca in aria l’ombrello, producendo un di Michele Turazzi suono aspro, ma vellutato. L’ombrello è enorme e nero; le dieci aste metalliche penetrano la stoffa e ne fuoriescono trasformate in piccoli uncini. É notte e nevica. Il vecchio osserva l’asfalto imbiancarsi cercando di inseguire un pensiero qualunque; dopodiché inizia a camminare per la strada deserta.

Il vecchio e l’ombrello

Il vecchio tutte le notti passeggia per le vie del quartiere fino a quando non vede i lampioni spegnersi. Percorre sempre le stesse strade, sempre nel medesimo ordine. Il vecchio, però, non scende in strada senza uno scopo, non è certo un flâneur; lo fa per leggere a voce alta i nomi delle vie incisi sulle placche di marmo. Antonio Amedeo, Beato Angelico, Dalmazio Birago. Come un pellegrino trecentesco in viaggio verso Roma che si concede una sosta all’ora per glorificare l’altissimo, così il vecchio sosta davanti ad ogni marmo del quartiere e declama i nomi che legge. Non si accontenta solo di questo: cerca di evocare le esistenze perdute degli uomini nascosti nei nomi. Ricorda Antonio Smareglia da Pola, che compose anche dopo aver perso la vista; Marciano di Bisanzio, catturato e rilasciato da re Genserico. Il generale Masotto, medaglia d’oro al valor militare, morto in un’inutile guerra africana dopo aver condotto al massacro la divisione al proprio servizio. Il vecchio immerge le scarpe nel ghiaccio acquitrinoso, oltrepassa una palazzina rosa e svolta a sinistra, costeggiando un acero bianco. Il nome inciso sulla piastra recita: via Druso. Il vecchio si ferma e scuote le spalle. Lo fa sempre quando il suo cammino ferma a Druso, l’unico nome a cui non riesce ad 82


assegnare un volto. Sa che Druso è un nome romano, ma sa altrettanto bene che sono esistiti molteplici Druso nella storia repubblicana, siano stati tribuni o questori. E ancora di più nel corso dell’impero; si tramandano le gesta di Nero Claudius Drusus, che trovò la morte di ritorno dal Reno, e di suo figlio, Druso minore. Gli storici ricordano, inoltre, ben due Drusus Iulius Caesar, il primo figlio di Tiberio, il secondo, invece, coinvolto in una congiura contro di lui. Il vecchio, per quanto si sforzi, non riesce a riconoscere nella scritta via Druso un’identità individuale. Percepisce il proprio fallimento come una faglia nell’ordine del cosmo. Il vecchio è immobile davanti a quel nome così tante volte sussurrato. Si sente spossato e percepisce il proprio corpo rattrappirsi. Sente freddo. Segue il proprio percorso abituale per qualche metro, poi decide improvvisamente di cambiare strada. Cammina senza alzare lo sguardo fino a quando non giunge ad una piazzetta in costruzione. È stata appena piastrellata, ma è ancora spoglia di alberi, panchine e parcheggi. I palazzi sono sfitti ed uno di questi porta affisso alla ringhiera una piastra bianca. Il vecchio si rende subito conto che nessun grafema sfregia il candore del marmo, capisce che nessun nome è stato assegnato alla piazza. Chiude l’ombrello e lo conficca nel manto nevoso, si toglie il cappotto e lo appende al manico. Si siede a terra di fronte alla piastra, facendo affondare nel ghiaccio le gambe ed il culo, si schiarisce la voce e inizia a narrare le imprese di tutti i Druso di cui ha ricordo; il tribuno, il questore, il germanico, il minore, il figlio di Tiberio ed il congiurato. Dopodiché il vecchio chiude gli occhi e abbozza un sorriso congelato di neve.

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il font Baja California, è un font tipo etnico, una roba che appena lo guardi così, semispruzzato su un di Fabrizio Venerandi fondo rosso giallo e blu di una parete sbrecciata e dipinta ti senti già in california e invece è solo un font che costa circa diciannove e novantacinque dollari, però c’è anche una versione demo, molto retro-style dice l’autore, e i commenti sono nice! thank you for sharing!!! oppure your works always great!! e io mi sono scaricato il font Baja California e ho deciso che io in california non ci andrò mai, ho installato il font, ho aperto un programma di testo e ho scritto “io in california non ci andrò mai” e poi ho selezionato tutto e ho scelto il font Baja California e ho messo size a 78 punti, enorme, io in california non ci andrò mai, e sono rimasto a guardare questa scritta enorme, sbagliata, perché l’autore del font demo Baja California non ha pensato che fuori dalla california c’è gente che usa gli accenti e quindi la scritta è tutta etnica, sfumata, sognante tranne la o accentata di “andrò” che rimane in un font scelto dal computer a cazzo e ti fa capire che è tutto finto, che il font baja California è finto visto qua a genova da me che oggi ho un buco nel cuore. oggi ho un buco nel cuore, sto parlando di un buco del cuore a forma di o accentata, e ho capito che io in california non ci andrò mai, perché questo foro nel cuore mi permette di vedere cosa c’è dietro di me, intendo dietro alla schiena e dietro di me c’è tutto quello che ho fatto fino ad oggi, c’è tutto l’amore che ho avuto per questa ragazza, per questi ragazzini, per me, per i miei genitori, per mio fratello, per i miei cani che sono tutti morti, e tutto questo che pensavo che fosse mio, in realtà non è niente, non esiste nel momento in cui lo perdi, non ci vuole tanto. avevo preso la ragazza, avevo comprato un libro a mia madre, mi pare

Baja California

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di caterine spack, avevo fatto entrare i ragazzini in macchina, avevo abbracciato mio fratello baciandolo per farlo stare un po’ zitto e mi ero tolto dai coglioni, dietro l’auto mi seguivano i cani, i loro corpi morti. dietro all’auto c’era il solito cartello JUST MARRIED ed era scritto con Baja California, non ci sono accenti, just married, just regular characters. ad un certo punto la ragazza ha preso la rivoltella e mi ha sparato, una grossa o accentata e mi ha forato il cuore, non è uscita una goccia di sangue. la prima cosa che ho pensato è stato, beh sono libero, la seconda cosa che ho pensato è stata beh ho perso tutto. la ragazza, i ragazzi, l”automobile, mia madre vestita da infermiera, mio padre con la mia stessa barba, mio fratello che fuma al telefono e mi guarda da fuori della finestra, i cani che non hanno capito l’entità del danno, il font Baja California che si compone in cielo e fa una scritta enorme, lettera dopo lettera, non si ferma e ad un certo punto ho paura che possa oscurare il sole, ma poi vedo che sono lettere luminose, è un racconto lungo tremila caratteri e parla della california, dell’amore e della morte.

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De Matteis: Restless Flora (p. 9) Filippini: Dostoevskij (p. 11) Giannini: Pulizie di primavera (p. 13) Koch: Grigio (p. 16) Lise: Compiti per le vacanze (p. 18) Marcon: Senza Rai sono guai (p. 20) Masotti: Comune Ronco Sant’Ascona (p. 23) Mazzetti: Porco stile nell’antica Roma (p. 26) Meregalli: Io non sono O. Bloom e lì fuori non è il Kentucky (p. 30) Milanese: Raffineria (p. 32) Montanaro: Un’altra cosa che sta morendo (p. 35) Ottaviano: A poche miglia da qui (p. 37) Pascoletti: E’ nervosa persino la signora Fanny Bright (p. 39) Pavan: Il gioco della bottiglia (p. 42) Peloso: Questa Notte non ho sonno (p. 49) Pezzella: Onan - il costruttore (p. 51) Rizza: L’incoscienza non è una malattia (p. 54) Pigozzi: Dal gelataio (p. 64) Piombino: La filanda (p. 65) Quarti: Le navi ribelli di Urano (p. 67) Rossi: (perché non posso guardare) (p. 69) Sparacino: Indipendenza (p. 72) Senis: Sono quel che era (p. 75) Thoeni: Provaci ancora Vincenzo (p. 77) Tramontin: Puttane (p. 79) Turazzi: Il vecchio e l’ombrello (p. 82) Venerandi: Baja California (p. 84)

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Ringraziamenti in ordine sparso: Alice Costantini, la signora del crocefisso, Matteo Scandolin, tutti quelli che hanno parlato di Wimble.doc in rete.

Carezze e pugni a: raccontisottorete@gmail.com 89


noi vogliamo respirare amore.

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