F – Periodico di Altre Narratività #0

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Periodico di Altre Narratività numero zero

a cura di Flanerí Redazione: Dario De Cristofaro Luigi Ippoliti Francesco Vannutelli Giulia Zavagna Progetto grafico: Bianca Dall’Olio Illustrazioni: Alessandra De Cristofaro

Hanno scritto su questo numero: E. Casseri, M.R. Di Bari, R.B. Fälscher, E. Macioci, F. Miliucci, F. Nicosia, G. Sauro contatti

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Sommario

Letture speculari e riflessi incondizionati di R. B. Fälscher

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Cortina di Enrico Macioci

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Il posto di Filippo Nicosia

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La geometria della notte di Elisa Casseri

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La fuga di Polonio di Maria Rita Di Bari

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L’orrore, l’orrore! di Giacomo Sauro

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Pizzaconnection di Fabrizio Miliucci

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Letture speculari e riflessi incondizionati di Roberto Bioy Fälscher

Q

uante volte vi sarà successo, anche se non siete lettori onnivori, di riconoscere tra le pagine di un libro dei rimandi ad altri libri e storie, magari insospettabili, tanto che vorreste chiamare l’autore al telefono per averne immediato riscontro? Quasi foste impegnati a giocare a Memory con lui, o meglio ancora, come se prendeste parte a un quiz televisivo, per il quale sono indispensabili memoria e capacità di associazione. E che soddisfazione poi quando, proseguendo nella lettura, trovate conferma a tutti i vostri ragionamenti, sentendovi un po’ filologi e un po’ detective? A tal proposito mi è capitato, poco tempo fa, di scovare un libretto, per la precisione un pamphlet sulla lettura, di un giovane scrittore cimbro, americano d’adozione, tal Leachim Nobach, che parlava appunto del piacere di scoprire modelli e riferimenti precisi all’interno di alcune opere di narratori contemporanei. Una vera e propria cartografia archeologica della narrativa, insomma. Ora, questo volumetto, intitolato How to Walk Along the Borderlands, purtroppo in Italia non è ancora stato pubblicato ed è pressoché introvabile anche in Ameri5


ca, quindi dovrete fidarvi di un mio rapido resoconto. Insomma, per farla breve, l’autore individua una lista di romanzi al cui interno è riuscito a isolare, con occhio attento e scaltro, tutta una serie di nessi e rimandi ad altrettanti scrittori del passato. Nobach, che nonostante la giovane età può vantare una discreta conoscenza letteraria, spazia dalla narrativa statunitense contemporanea ai giovani autori latinoamericani, non disdegnando di affacciarsi anche in Europa – Italia, Andorra e Lussemburgo escluse. Scopriamo così, per esempio, che Corpi inumani (Hobo edizioni, 2006) del soprendente romanziere peruviano Jorge Mario Matalobos presenta numerosi rimandi a Juan Carlos Onetti e al suo Raccattacadaveri (Feltrinelli, 1969); che Le formiche (Quoz, 2009) del giovane e promettente Aron Hector Schmitz si ispira, in più parti, a L’insostenibile leggerezza dell’essere (Adelphi, 1985) di Milan Kundera; o ancora che Quattro dita di una mano (Alt, 2001) romanzo incompiuto del croato Milo Spitzer, morto suicida nel dicembre del 1991, nasce dalla lettura di El viaje, romanzo del grande messicano Sergio Pitol ancora inedito in Italia. Così, quando ho ricevuto dagli amici di Flanerí i sei racconti che compongono questo nuovo e rinnovato periodico – da Flanerí Mag a F, è bello osservare come il mondo, ruotando, continui a evolversi –, mi sono divertito, leggendoli, a trovare di volta in volta echi e riferimenti sulla scia del libretto di Nobach. E allora come non notare le somiglianze tra il protagonista di «Cortina» di Enrico Macioci e l’Arturo Bandini di Chiedi alla polvere? E l’atmosfera che si respira nel racconto di Filippo Nicosia, «Il posto», non ricorda forse quella di «Un posto pulito, illuminato bene», di Ernest Hemingway? Che dire poi dell’individuo paranoide del racconto «L’orrore, l’orrore!», di Giacomo Sauro, e della sua affinità con Johnny Wieder, personaggio attorno a cui ruota la storia raccontata 6


da Horacio Ocampo in Fuliggine, pietra miliare della narrativa distopica latinoamericana? Ma questo gioco di specchi, di strade che si intersecano e si biforcano per poi allontanarsi lungo i sentieri impervi della montagna incantata è un diletto solitario che non può essere imbrigliato in una cultura enciclopedica ma che necessita dell’individualità di ogni singolo lettore, ed è per questo che lascio dunque a voi il piacere di scovare richiami e analogie in «La geometria della notte» di Elisa Casseri, «Pizzaconnection» di Fabrizio Miliucci e «La fuga di Polonio» di Maria Rita Di Bari. Buona lettura dunque, e buon diletto.

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Cortina

di Enrico Macioci


Enrico Macioci nel Nato a L’Aquila to 1975. Ha pubblica ti on cc ra il volume di di Terremoto (Terre e il Mezzo) nel 2010, ione uz ol ss romanzo La di nel ) na familiare (India oi su e e 2012. Sue lirich citi racconti sono us acee rt ca presso riviste ticoli e online. Suoi ar Nazione sono apparsi su , Il Indiana, Vibrisse ivio primo amore, Arch Bolaùo, Atelier.


Cortina

L’

estate che andai a Cortina ero già uno scrittore, anche se lo sapevo solo io. L’estate che andai a Cortina non sapevo molto altro, forse per questo ci andai. L’estate che andai a Cortina avevo ventisette anni e nessuno tranne i familiari e gli amici conosceva il mio nome e cognome. Lavorai presso l’Hotel Europa pur non vantando alcuna esperienza in ambito alberghiero. Non ricordo per quale motivo l’ingegner Codazzi, il padrone dell’hotel, mi assunse. Fu una specie di miracolo. O forse fu il destino. O la sorte. Forse la sorte non è che un miracolo del destino, o viceversa. L’Hotel Europa era uno degli alberghi più belli e prestigiosi di Cortina, e penso lo sia tuttora. È tantissimo tempo che non vado più a Cortina, temo che andarci mi farebbe male. Temo che andarci mi spaccherebbe il cuore in due, e poi dal cuore spaccato verrebbero fuori i ricordi e mi ucciderebbero. Lavoravo alla reception, spedivo e ritiravo la posta, rispondevo al telefono, fissavo le prenotazioni, accompagnavo i clienti a visitare le stanze, ritiravo i giornali e li portavo nelle camere, coordinavo il ristorante e le cucine, stampavo i menù. Pranzavo alle undici e mezza del mattino e cenavo alle sei e mezza del pomeriggio. Il mio incarico durò due mesi, luglio e agosto, e andò sempre meglio giorno dopo giorno. Il primo settembre ripartii, anche se l’ingegner Codazzi mi aveva proposto di rimanere e anche se sarei voluto restare. Ma non potevo restare. Quando ci si tuffa in un’avventura, l’avventura non può prolungarsi troppo e men che meno tramutarsi in quotidianità. Se accade c’è il rischio che l’avventura muoia, e allora perché mai uno se la sarebbe sobbarcata? Al tempo di Cortina avevo ripreso a scrivere da pochi mesi, forse cinque o sei, dopo una pausa d’oltre un decennio che interruppe un’infanzia letterariamente prodigiosa. Si poteva pensare a me come 11


Enrico Macioci a un piccolo Mozart della scrittura, oppure si poteva pensare a me come a un piccolo Raffaello della scrittura, oppure si poteva pensare a me come a un piccolo Gauss della scrittura, ma io pensavo a me stesso come a un grosso, grossissimo problema. Non capii perché fosse toccato a me (miracolo, destino, sorte), ma capii di dovermi fermare se non volevo precipitare in qualche luogo profondo e irto di spine. Quando decisi di riprendere a scrivere, Cortina chiamò. Ignoro perché fu proprio Cortina e non qualunque altro posto a chiamare, né persi un briciolo delle mie forze a domandarmelo, cosa che non farò nemmeno adesso. In quei due mesi conobbi molti ragazzi simpatici e qualche ragazza carina. La più carina si chiamava Marisa e la incontrai il secondo giorno che ero là. Mi piacque subito e io le piacqui subito. Lei era fidanzata e io no, ragion per cui ci baciammo soltanto la sera precedente alla mia partenza. Nel mezzo io scrissi il mio primo romanzo. Il romanzo s’intitolava L’alba ed ebbe un insperato successo di critica e pubblico. Non che venga considerato il novello Guerra e pace, né ha venduto milioni di copie, ma riuscì a farmi diventare agli occhi degli altri lo scrittore che ai miei occhi ero già, rendendo insopportabilmente popolari il mio nome e il mio cognome. Il romanzo narrava (ne parlo al passato perché non lo rileggo da decenni) la storia d’un giovane scrittore errabondo che durante un’esperienza lavorativa sulle Dolomiti s’innamorava, ricambiato, d’una cameriera di piano. Il sentimento fra i due era però ostacolato dal ragazzo di lei, un tipo violento che scoperta la tresca picchiava lo scrittore di santa ragione sin quasi a ucciderlo, ragion per cui l’amore fra lo scrittore e la cameriera naufragava in un malinconico concerto di sangue, lacrime e addii. Si trattava in fin dei conti di un’ opera ingenua ma gradevole, la cui efficacia risiedeva nello smaccato autobiografismo (in realtà il 12


Cortina fidanzato di Marisa non mi picchiò mai e io non ebbi mai la ventura d’incontrarlo, ma ne sentii parlare spesso come d’un individuo forzuto e geloso), che scrissi furiosamente a penna nella pausa pranzo su un quaderno a quadretti, chino sul tavolo del minuscolo appartamento dove alloggiavo. Terminai il romanzo tre giorni prima della scadenza del mio incarico presso l’Hotel Europa. Tutti sapevano che stavo scrivendo una storia su Marisa e su di me, Marisa inclusa, ma lei non volle né accettare il quaderno a quadretti (feci delle fotocopie, le avrei regalato l’originale vergato di mio pugno) né ascoltare qualche passo. Provai a convincerla in ogni maniera. Sedevamo nella mia auto sul retro dell’Hotel, all’ombra fitta di certi pini alti e odorosi che sembravano toccare la roccia delle Tofane, e io insistevo. Marisa non accettò. Fu dolcemente irremovibile. In compenso la sera dopo, sempre nella mia auto e sempre sotto i pini alti e odorosi, ci baciammo a lungo. Non ci fu altro fra noi. Lei non si tolse nemmeno la divisa da cameriera e mi permise a malapena d’infilarle una mano nella camicetta. Ricordo che quando scese dalla macchina un ricciolo le era sfuggito dalla cuffia, e che stava cominciando a piovere da un cielo nuvolo e grigio, mentre un freddo prematuro, invernale, scendeva dai canaloni e dalle abetaie. L’alba fu pubblicato da Einaudi Stile Libero un anno e mezzo dopo. Due anni dopo ne trassero un film che s’avvalse di attori piuttosto famosi, e al botteghino andò forte. Ciò mi rese indipendente economicamente e appetibile sessualmente. I miei amici di Cortina lessero il libro che spedii loro in regalo, una copia ciascuno. Lo lessero tutti e tutti me ne diedero un riscontro tranne Marisa. Io ne dedussi che il suo fidanzato fosse furibondo oppure che lei preferisse glissare, e gli altri non m’informarono al riguardo. L’argomento fu ammantato da un silenzio di pietra. Una sera verso le undici squillò il telefono 13


Enrico Macioci di casa. Era fine giugno o forse luglio, e me ne stavo in compagnia d’una granita alla menta a riflettere sul senso della vita oppure sulla maniera più semplice per rimorchiare la compagna (poco attraente ma invero affascinante) d’un famoso poeta, conosciuta a una cena culturale. Risposi al telefono ma dall’altra parte dell’apparecchio non parlò nessuno. Dissi: «Pronto!», più forte ma non parlò nessuno, e qualcuno sospirò. Dissi: «Pronto!», una terza volta e riattaccarono. Non so perché, ma pensai si trattasse di Marisa. Il secondo romanzo che pubblicai, intitolato La pianura fantasma, fu assai più lungo e impegnativo de L’alba (trattava d’un mondo post-apocalittico alla stregua dei libri di Cormac McCarthy o di Stephen King), mi richiese quattro anni di fatica improba e nevrotici tormenti, ma vendette poco e non fu accolto con favore dalla critica. Io ne rimasi assai deluso e per tutta risposta odiai L’alba con sincero ardore. Durante il mio giro di presentazioni de La pianura fantasma spesso i critici e i lettori ponevano domande su L’alba, e la faccenda mi mandava in bestia; un paio di volte risposi male. Durante una di tali presentazioni, nel corso del festival letterario di Pordenone, notai una ragazza bionda, alta, carina, con un vestito blu e stivali rossi, ritta in fondo alla sala, che mi guardava attenta. Al termine della presentazione la ragazza s’avvicinò per chiedermi una copia autografata del libro, e poi mi domandò a bassa voce se quella sera m’andasse d’uscire con lei. Risposi di sì a voce altrettanto bassa. Ridacchiammo entrambi e io mi sentii un idiota. La ragazza si chiamava Dora. Veniva giù una pioggia fitta e dolce, una sinfonia d’aghi argentati. Cenammo in un ristorante romantico al centro di Pordenone e poi lei venne a dormire nella mia stanza d’albergo, senza neppure tergiversare un po’. La pioggia sul tetto batteva piano ma costante. Facemmo l’amore quattro 14


Cortina volte e ci addormentammo abbracciati. Quando ci svegliammo Dora sembrava più fredda e distaccata della sera prima, la versione adulta della bionda ninfa notturna. Si alzò e s’avvolse attorno al corpo un asciugamano bianco provocandomi una fitta di desiderio, si fece la doccia e tornò da me in una nube di vapore. S’accoccolò al mio fianco e carezzandomi la nuca mi disse di dover scappare al lavoro. Io le chiesi che lavoro faceva e lei mi disse che lavorava in banca, era cassiera e s’annoiava a morte, e per non morire aveva deciso di sedurre e scoparsi uno scrittore famoso. Io replicai di non essere famoso, e lei rise e disse che non ero nemmeno uno sconosciuto come lei e come il novantanove per cento delle persone, scrittori oppure no. Io le dissi che diventare famosi non era solo bello ma aveva i suoi lati negativi e lei m’interruppe posandomi l’indice sulle labbra e pregandomi di non ripeterle la solita stronzata di quant’è dura la vita del vip. Io le dissi di non essere un vip e lei mi disse che La pianura fantasma non le era piaciuto per nulla ed era venuta a letto con me esclusivamente per via de L’alba. «L’alba sì è una bella storia», disse Dora annuendo convinta dentro l’asciugamano e smuovendo i capelli umidi e fragranti di shampoo. «L’alba è la storia che mi sarebbe piaciuto vivere e che non vivrò mai. L’alba è la storia che a ogni donna piacerebbe vivere, e beata la tua camerierina seppure esiste, e se esiste non lo voglio punto sapere». Dora disse così e poi, quasi offesa, lasciò cadere sulla moquette l’asciugamano, si rivestì in fretta e se ne andò. Quel giorno e i giorni successivi ripensai spesso a Marisa e mi domandai dove stava, come se la cavava, se era sposata col fidanzato geloso oppure se si fossero lasciati, magari a causa del mio libro. Fui tentato di contattare qualcuno degli amici di Cortina per ottenere informazioni al riguardo, ma alla fine rinunciai. 15


Enrico Macioci Il mio terzo libro fu una massiccia raccolta di racconti intitolata Stelle in fuga. Mi costò tre anni di massacrante applicazione. L’accoglienza da parte della critica fu tiepida e da parte del pubblico pessima. Dov’è finito, si domandò un critico insigne sulle pagine culturali d’un noto quotidiano, il narratore squisito, accattivante e semplicemente ma splendidamente lirico de L’alba? Forse rischiamo d’averlo perso per sempre. Forse L’alba è stato uno di quei rari esordi che sono già un canto del cigno. Io afferrai il giornale e lo strappai in mille pezzi, guadagnandomi lo sguardo di rimprovero d’una vecchietta che sedeva sulla panca accanto alla mia gettando ai piccioni enormi pezzi di mollica. La sera stessa mi sbronzai. Il giorno successivo andai a Roma per presentare Stelle in fuga nell’ambito d’un festival letterario. Alloggiai presso l’Hotel Europa. L’omonimia con l’albergo di Cortina non mancò d’inquietarmi. La presentazione durò dalle sei alle otto del pomeriggio. Alle dieci, dopo un cocktail noiosissimo, ero esanime sul letto. Alle dieci e dieci il telefono squillò, ridestandomi da un torpore denso come un fondo di bottiglia. Risposi e il tizio della reception disse che mi passava una signora. Io snebbiai subito, strinsi più forte la cornetta e chiesi chi fosse, e lui mi disse trattarsi d’una certa Laura. Non collegai il nome ad alcun volto ma ordinai comunque di passarmela. Il tizio mi passò la chiamata ma dall’altra parte nessuno parlava. Dissi: «Pronto, chi è?», ma nessuno rispose e qualcuno sospirò. Dissi ancora: «Pronto, chi è?», e riattaccarono. Steso sul letto mi misi a pensare, con le mani incrociate dietro la testa e lo sguardo fisso al lampadario. L’unica Laura che mi sovveniva era una delle cameriere di piano con cui feci amicizia a Cortina, una donna bruna e simpatica originaria della provincia di Bari, ma quale motivo poteva spingerla dopo tanto tempo a chiamarmi? E come aveva fatto a rintracciarmi fino a Roma? Poi d’un tratto fui certo che 16


Cortina dietro il nome di Laura si nascondesse Marisa, che Marisa avesse voluto lanciarmi un messaggio cifrato. Ma perché? E qual era il senso del messaggio? M’addormentai in preda a questa convinzione bizzarra e carezzevole, una specie d’amaro conforto non sapevo in chi, in cosa. Quando l’indomani mi svegliai non la pensavo più così, anzi mi sembrava assurdo aver potuto concepire simili idee e addirittura dubitai che la telefonata si fosse mai verificata – al cocktail subito dopo la presentazione di Stelle in fuga avevo bevuto parecchio. Composi il numero della reception e domandai al tizio se rammentasse la telefonata che la sera prima lui stesso m’aveva passato verso le dieci. «Una certa Laura», dissi. «Ricorda?» Ma il tizio era un altro tizio che faceva il turno giornaliero e non ne sapeva un tubo della telefonata. Mi disse che se lo desideravo poteva informarsi presso il collega del turno di notte e poi farmi sapere, ma replicai in malo modo di lasciar perdere e riagganciai. Il mio quarto e ultimo libro s’intitolò Cannoni in festa, un romanzo storico di ottocento pagine in cui si svolge pure una vicenda amorosa. Per scriverlo impiegai sette anni abbondanti, e persi parecchi capelli e svariate compagne che non ressero la mia dedizione totale all’opera. La vicenda amorosa si dipana sullo sfondo della guerra del Golfo, fra un americano e una palestinese. Alla fine lui muore falciato da una scarica di mitragliatrice e lei finisce in un bordello, dove s’ammala d’epatite e diventa un mostro di bruttezza. Il romanzo fu un flop totale che sancì il mio definitivo tramonto come romanziere (e debbo confessare che è stato giusto così). Fu stroncato dalla critica e ignorato dai lettori, per i quali io continuavo a essere pur sempre il brillante giovanotto che li aveva fatti sognare tanto tempo prima grazie a L’alba. L’insuccesso mi precipitò in condizioni economiche difficili. 17


Enrico Macioci Per la prima volta dall’uscita de L’alba ripresi a lavorare. M’impiegai presso una casa editrice come correttore di bozze, poi cominciai a tenere corsi di scrittura creativa in giro per l’Italia. Uno dei corsi lo tenni a Firenze, presso un vetusto circolo ricreativo. Fra gli altri partecipò una giovane piuttosto avvenente. Il corso durò quattro lezioni suddivise in due fine settimana. Al termine del secondo fine settimana la ragazza m’invitò a prendere un aperitivo. Accettai. Dopo l’aperitivo fui io a invitarla a cena. Accettò. Mi piaceva. Il suo talento letterario era penoso. Dopo cena camminammo un po’ per il centro. Era una sera autunnale morbida e piena di cantucci e quasi senza accorgercene ci prendemmo per mano, proprio sotto il Palazzo della Signoria screziato da piccoli fari arancio. Lei indossava un soprabito color pastello e guanti blu. Lasciai la sua mano e le cinsi la vita col braccio. La sua vita si rivelò confortevole. Camminando e parlando di poeti e scrittori arrivammo fino a Ponte Vecchio. L’Arno era uno sciacquio di tenebra entro cui galleggiavano i lampioni e qualche straccio lunare. Andammo nella mia camera d’albergo e facemmo sesso per tre ore di fila. Mentre la ragazza mi schiacciava il volto fra i seni domandò se fosse una brava scrittrice, e io risposi leccandole i capezzoli che era una scrittrice fantastica. Lei disse che io avevo scritto solamente un buon romanzo e cioè L’alba, e il resto della mia produzione faceva schifo, era spazzatura. Disse che ero una merda. Lo disse felice. Sul momento la cosa mi eccitò e leccai le sue gambe giù giù fino ai polpacci. Lei si rizzò sul letto, sollevò il piede destro e me lo piantò in faccia, e io leccai e sentii sapore di pelle e sudore e cuoio mentre lei continuava a ripetermi dall’alto che ero un romanziere di second’ordine, anzi d’infimo ordine, che avevo avuto fortuna all’esordio e poi m’ero perso come un miserabile da quattro soldi. Mentre diceva così mi ficcava il piede in bocca e godeva, e anch’io 18


Cortina godevo, e mentre godevo pensavo che durante il corso la ragazza s’era comportata nei miei confronti con estrema educazione e impeccabile rispetto. Poi venni. Il giorno dopo era lunedì e la ragazza, che si chiamava Gloria, aveva lezione all’università. Io decisi di prolungare il mio soggiorno a Firenze per trascorrere un’altra notte con lei. Ogni tanto mi rigiravo la lingua fra i denti, e mi pareva di sentire sapore di pelle sudata e cuoio. A metà mattina, risalendo in camera dopo una lauta colazione, scorsi nella penombra del corridoio una cameriera che mi sembrò Marisa. La cameriera stava sparendo dietro l’angolo dall’altra parte del corridoio e le somigliava. Soprattutto il modo di camminare era il medesimo, e prima di reagire ebbi tempo di rendermi conto sbigottito che l’andatura di Marisa era forse la caratteristica di lei che ricordavo meglio. Il cuore mi balzò in gola e provai a gridare: «Un attimo! Aspetti!», ma la voce uscì strozzata e poi era assurdo darle del lei se lei era Marisa. Corsi verso l’angolo dietro cui la cameriera era sparita e per la prima volta m’accorsi di quanto fosse patetico il mio stato fisico. Raggiunsi l’angolo e svoltai, e davanti a me vidi un altro lungo corridoio, vuoto come una spiaggia a dicembre. Pensai che la cameriera doveva essere entrata in qualche stanza e controllai le porte una per una, ma erano tutte chiuse. Non s’udivano rumori tranne alcuni mugugni, probabilmente gli ospiti che domandavano chi fosse a girare la maniglia della porta. L’ascensore era fermo al terzo piano, quello subito sopra il mio. Raggiunsi le scale e salii al terzo piano col cuore sfarfallante e l’affanno. Vidi la porta semiaperta d’una camera e col fiato sospeso spalancai la porta precipitandomi dentro. Una cameriera girò su sé stessa urlando per lo spavento e lasciando cadere la scopa per terra, e io mi scusai. Si trattava d’una signora anziana, più grassa che robusta, con crespi e candidi capelli avvolti in una crocchia monumentale. 19


Enrico Macioci Le spiegai d’aver sbagliato stanza e tornai giù. Trascorsi le ore successive a fissare il telefono della camera nella speranza che squillasse, ma il telefono non squillò. Alle cinque disdissi la prenotazione per il resto del pomeriggio e per la notte, e senza darmi pena d’avvisare Gloria me ne andai via da Firenze. In fondo, se davvero lo volessi, potrei rintracciare Marisa in un baleno. I nostri comuni amici di Cortina sono rimasti in contatto con lei e sanno dov’ella viva e con chi. Ogni tanto sento ancora qualcuno di loro (qualcun altro non lo sento più, qualcun altro è morto), ma non ho mai chiesto una volta di Marisa e loro non ne hanno mai parlato. Il loro mutismo mi sembra eloquente. Senz’altro Marisa non si trova più a Cortina da gran tempo ormai. Senz’altro avrà la sua vita più di quanto io non abbia la mia, che non c’è. Forse la cosa che più mi piacerebbe sapere è se quel dannato libro (parlo de L’alba) Marisa l’abbia letto oppure no, e cosa abbia pensato leggendolo. Insomma, l’hanno letto tutti, possibile che proprio lei non l’abbia letto? Io continuo a ritenerlo un libro abbastanza scadente e sopravvalutato, una discreta opera prima e basta; e ritengo che i libri scritti dopo siano di gran lunga migliori (a parte forse Cannoni in festa). Ma questo è un pensiero cui sono obbligato per non impazzire o suicidarmi, per non ammettere cose che finirebbero con lo schiacciarmi. Forse prima di morire tornerò a Cortina, all’Hotel Europa; potrei persino andare a rivedere il piccolo appartamento dove scrissi L’alba, tutti i giorni durante la pausa lavorativa, nel luglio e agosto di tanti anni fa, correndo con la penna sui fogli del quaderno a quadretti fino a che il polso mi doleva; forse davvero mi deciderò a chiedere alla signora che l’affittava (se è ancora viva) di farmi entrare e allora respirerò a fondo e chiuderò gli occhi e mi concentrerò, tentando di catturare il passato che somiglia a tenere farfalle vorticanti; starò 20


Cortina ritto al centro del piccolo soggiorno accucciato sotto l’onda dei boschi, e ripenserò a quando la mattina si riversavano dalla finestra lo smeraldo dei prati e i fumi trasparenti delle malghe e la luce rarefatta dei cedri, e poi a quando nelle prime ore del pomeriggio, con accanto la caffettiera e la tazzina e il pacchetto di sigarette e il posacenere, scrissi freneticamente, incoscientemente, magicamente L’alba. Non ho mai più scritto con quella fluida felicità, con quell’innocenza fresca come pioggia d’aprile. Mai più.

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Il posto

di Filippo Nicosia


Filippo Nicosia Nato a Messina nel 1983, vive a Roma dove lavora nella piccola e media editoria come editor e ufficio stampa. Ăˆ ideatore e curatore di I lettori selvaggi. Ha pubblicato un solo racconto e ne ha iniziati tanti, da questo si deduce che ha qualche difficoltĂ nel finire le cose che ha cominciato.


Il posto

I

l Calvo entrava tutte le sere alle sette e venti. E rimaneva al bar, salvo che non crollasse sul tavolino e dovessimo di peso riaccompagnarlo a casa, fino alle undici, undici e mezza. Andava via senza salutare e spesso ti accorgevi che non c’era perché sul tavolo rimaneva il suo bicchiere vuoto. Era un signore corpulento, dall’incarnato scuro, su cui faceva contrasto una cisposa barba bianca. Entrava al bar con passo lento, senza bisogno di chiedere permesso: era come se le cose o le persone si scansassero da sole al suo passaggio. L’avevo soprannominato il Calvo, non perché non avesse capelli, che effettivamente non aveva, ma perché beveva Calvados; era l’unico cliente a farlo, tanto che ordinavo le bottiglie solo per lui. Reggeva che era una bellezza: io versavo, anche se con parsimonia, per evitare che collassasse, che si sentisse male, e gli scontavo uno o due bicchieri (due raramente, non è facile far quadrare i conti in un bar come il mio). Era entrato la prima volta un giorno di primavera di qualche anno prima, e aveva ordinato il suo benedetto Calvados. Io non avevo idea di cosa fosse il Calvados e me ne ero rimasto impalato a guardare quell’uomo (che poi era il Calvo, anche se allora non sapevo ancora che l’avrei chiamato così) negli occhi liquidi e piccoli come due puntini, poi mi ero voltato verso la credenza con la specchiera dove stavano allineate le bottiglie. Avevo cercato dietro a tutti gli altri liquori, quelli comuni, e ne avevo trovato una bottiglia nuova, ancora sigillata: con ogni probabilità un lascito della vecchia gestione. Da quel giorno, il Calvo non aveva disertato una sola volta e, ogni sera, l’unica parola che pronunciava era il nome della sua bevanda, Calvados. Avevo letto sull’etichetta che il Calvados è un liquore alla mela, lo avevo assaggiato, così, per curiosità, ma poi avevo continuato a bere whisky scozzese. 25


Filippo Nicosia Ad ogni modo il Calvo era un buon cliente, forse il migliore che mi fosse capitato da quando avevo rilevato il bar, un piccolo buco al Pigneto, quartiere popolare nel complesso squallido, preso di mira da attori, artisti, musicisti, e sceneggiatori; anch’io ero uno di questi. Volevo fare il regista, ma di fondo la cosa più artistica che avevo fatto era stata chiamare il bar “Il posto” come il film di Ermanno Olmi, film che ho scoperto non conosce nessuno, e che chi ha visto ha odiato profondamente. Ma poco importa. C’è da dire che Olmi con Il posto indicava un lavoro e non un luogo fisico. Gli avevo pure scritto, a Olmi, dell’inaugurazione, una lettera e l’avevo imbucata con un bel francobollo. Non mi aveva risposto: è un uomo taciturno e riflessivo che non risponde a nessuno, o almeno così mi aveva detto un amico che ci aveva lavorato per un film. Ad ogni modo non me l’ero presa più di tanto. L’inaugurazione era andata bene lo stesso, la gente aveva bevuto finché era gratis, poi aveva mestamente lasciato il bar. L’unica a rimanere era stata una donna sulla quarantina, magra, dai capelli rossi cortissimi; aveva ordinato un bicchiere di vino e si era messa a berlo al bancone. Beveva lentamente e senza parlare, e mi guardava mentre rimettevo tutto a posto per la chiusura. Aveva persino aspettato che tirassi giù la serranda prima di andare via. Non l’ho più vista al Pigneto, e non è più tornata al bar. In compenso sono tornati gli altri, e altri se ne sono aggiunti: giovani barbuti o capelloni, sfaccendati, anarchici, trans, mamme, pensionati, immigrati: insomma il bar era un bar di quartiere, domestico e triste come tutti i bar di quartiere. Ci si ascoltava Radio 3, se non c’era l’opera che tutti detestavano, o Radio Popolare, si leggeva il Manifesto o la Repubblica (ma con scetticismo). Si poteva discutere di tutto meno che di calcio, e forse anche di quello. 26


Il posto Il Calvo, dicevo, non faceva nessuna di queste cose, eppure era il cliente più assiduo. Alle sette e mezza entrava, non c’erano santi. Non ricordo bene che giorno fosse, ma era un giorno d’estate, afoso e con il bar pieno di avventori: il Calvo si era accostato al bancone con il bicchiere vuoto e mi aveva detto: «Mio figlio». Poi era rimasto a fissarmi con gli occhi tremolanti come gelatine; la mano ferma in aria che reggeva il bicchiere vuoto. Il bar era particolarmente affollato (probabilmente era un sabato), io l’avevo guardato perplesso e poi gli avevo versato altro Calvados, proprio come se avesse detto «Calvados» e non «mio figlio». Appena il tempo di voltarmi e servire un altro cliente che il Calvo mi stava già dando le spalle e lentamente si avviava al tavolo che per tutti (non solo per me) era il tavolo del Calvo. Non avevo capito bene che cosa volesse dirmi, senz’altro quel «mio figlio» non significava nulla, quindi non ci avevo pensato su più di tanto e mi ero rimesso dietro al bancone. Lì per lì, non avevo dato il giusto peso alla cosa: è strano che anche se non avevamo mai parlato di niente, del tempo o delle tasse, sembrava che non avessimo più nulla da dirci talmente bene ci conoscevamo, talmente lui sapeva tutto di me e io tutto di lui. Io avevo dimenticato quelle due parole e continuato a servirgli Calvados, e il Calvo a bere. Ognuno portava avanti il mondo in questo modo. Poi, improvvisamente, era scomparso. Né io né altri clienti del bar eravamo andati a cercarlo, a suonare al suo indirizzo, né avevamo guardato i necrologi; nulla di tutto questo. La bottiglia di Calvados era finita dietro le altre sullo scaffale. _____ 27


Filippo Nicosia Qualche tempo dopo, al bar arrivò una lettera, cosa strana perché a parte le bollette nessuno aveva mai scritto. Sperai fosse la risposta tardiva di Olmi che mi diceva che comunque non sarebbe venuto all’inaugurazione. La lettera, invece, veniva da Napoli. Era scritta a penna con grafia decisa e molto calcata su di un foglio ingiallito. Il mittente firmava solo con le iniziali. Sono entrato per la prima volta nel suo bar il giorno dopo che mio figlio è morto. Dicono che si è ammazzato, ma io so che non è così. Dicono che era coinvolto in uno scandalo di intercettazioni, ma io so che non è vero. E non che mi interessi che lei lo sappia, so che non le interessa, come non le interessa sapere di chi sono le responsabilità, chi sono i colpevoli e le vittime. Ma mio figlio è stato un buon poliziotto. Un onesto poliziotto. Poi ci si sono messi di mezzo i soldi, e i servizi segreti, e le intercettazioni telefoniche. Ad ogni modo, che mio figlio sia volato da un cavalcavia di via Cilea a Napoli schiantandosi sulla tangenziale, dopo aver lasciato i quattro sportelli aperti e messo le quattro frecce; che mio figlio si sia lanciato per poi schiantarsi sull’asfalto, lasciando a casa una moglie sconsolata e due bambini, questo per me è inaccettabile. So che è stato spinto da una mano invisibile, so che un potere fortissimo economico e politico lo ha condannato. Lui non ha retto. I tribunali non mi danno giustizia. E allora che mi resta? Devo pensare di sbagliarmi? Devo rassegnarmi? Non le scrivo perché mi risponda, stia tranquillo. So bene che questi discorsi non la riguardano. Forse si sta chiedendo perché allora le scrivo. È semplice. Perché lei metterà via la lettera e farà un caffè al prossimo avventore, e poi ancora uno e poi verso sera servirà birre e vino. Scommetto che nessuno più beve Calvados. Lei è un buon barista, fa con zelo il suo lavoro. 28


Il posto Le scrivo come avrei potuto scrivere a chiunque, lei non è né meglio né peggio di chiunque. Un cliente affezionato. I. C. Qualche tempo dopo, quando venni a sapere che il Calvo era morto, che si era sparato un colpo alla testa sulla tazza del cesso, non feci fatica a crederlo, e neppure mi stupì. La sua mano ferma, così come reggeva il bicchiere, avrebbe potuto compiere qualsiasi gesto con solennità e senza sbavature. Nessuno più beve Calvados, aveva ragione il Calvo nella lettera. Ogni tanto, nelle giornate di pioggia in cui il bar è vuoto, mi vado a sedere al suo tavolo. Provo a vedere quello che vedeva lui. Io non vedo che il bar, “Il posto”, che ormai è diventato un’istituzione al Pigneto. Conservo la lettera del Calvo sotto la cassa, aspetto con fiducia quella di Olmi.

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La geometria della notte di Elisa Casseri


Elisa Casseri Nata nel 1984 a Latina, vive a Roma, dove si è laureata in Ingegneria Meccanica. Il suo racconto «La divisione per zero è indefinita» è stato selezionato dal Festivaletteratura di Mantova per Scritture Giovani Cantiere 2012. Ha collaborato alla scrittura dell’autobiografia di Paolo Belli (Aliberti Editore, 2012).


La geometria della notte «Fra i mostri (un tempo chiamati Titani) corre la diceria che il mondo consumato dagli uomini sia inabitabile per chi, come loro, da sempre conosce se stesso e si attiene alla propria conoscenza. E che l’uomo non sia nient’altro che questo eterno disconoscersi e procedere nel labirinto di leggi umane composto a questo scopo». Le specie del sonno, Ginevra Bompiani

G

uardarla dormire non lo aiutava a dormire, ma la lasciava stare nel suo letto perché lei non aveva operato nessun tentativo di salvataggio. Forse è lo stress. Forse bevi troppo caffè. Dovresti provare con l’agopuntura. Non è che ti droghi? Credo che tu abbia una scarsa igiene del sonno. Se è una cosa continua potrebbe dipendere dall’apnea. Te la faccio una camomilla? Riaccese il computer dopo aver collegato le cuffie, in modo che il rumore d’inizio sessione non la svegliasse, e mise su un pezzo per non sentirla dormire: i suoi respiri profondi e regolari non lo avrebbero di certo convinto a stendersi accanto a lei. Se durante il giorno avesse dormito, forse lavorare di notte non gli sarebbe sembrato così eroico, ma le borse appese sotto ai suoi occhi non riuscivano a trascinare giù le sue palpebre nemmeno alla luce del sole, nonostante il peso di tutto quell’accumulo di stanchezza. Aveva messo un annuncio all’università e, ritagliando tre lati ai rettangoli con il suo numero di telefono, aveva creato un pettine preciso di possibilità che lo impegnavano anche tutta la notte con la riproduzione vettoriale di grafiche fatte a mano, grazie alle quali si sentiva un modellatore della realtà, un creatore di spazi. 33


Elisa Casseri «Adesso dormi. Pure Dio, dopo sei giorni si è riposato», gli aveva detto un committente qualche ora prima, quando si era visto recapitare il lavoro concluso con una settimana d’anticipo. «Dio è sempre stato un perdigiorno», gli aveva risposto lui. La prima notte che lei aveva dormito a casa sua, lui l’aveva trovata davanti all’armadio, con l’anta aperta, a frizionarsi l’occhio sinistro. «Stavo cercando una coperta», gli aveva detto. «Avevo freddo e tu non c’eri». Non aveva fatto commenti sullo scheletro che aveva visto nell’armadio, così come non aveva detto niente sul fatto che lui si era alzato dal letto per lasciarla da sola, e aveva accompagnato l’anta a chiusura con garbo. «In fin dei conti, quando è cronica, l’insonnia è una malattia», aveva sibilato lui, prendendole un plaid dal cassetto. «Ho davvero freddo», si era sentito rispondere. Di solito, le ragazze non rimanevano per la notte: le riaccompagnava a casa prima che potessero assestarsi sul letto e iniziare a recriminare la sua presenza statica affianco a loro. È un trauma residuale, vero? Hai mai provato a leggere per stancare gli occhi? Forse passi troppo tempo davanti al computer. Magari un giorno andrai in letargo. Hai scambiato il giorno con la notte, come i bambini. Dovresti contare le pecore. Te lo faccio un decotto di radice di valeriana? L’aveva trovata davanti alla sua porta, quando era tornato a casa dal suo appuntamento con il tizio che lo credeva un dio: era seduta a terra, aveva portato dei panini. «A casa tua dormo così bene» gli aveva detto. _____ 34


La geometria della notte Se avesse triangolato topograficamente la stanza, forse avrebbe potuto individuare quella buca morfinica in cui lei giaceva e l’avrebbe potuta imitare, recitandosi simile a tutti quanti gli altri; quindi prese a fissarle le narici dopo aver finito la sezione longitudinale di un tornio per l’esame di disegno meccanico di chissà chi. Si tolse le cuffie e salì sulla sedia per avere la visuale giusta della posizione in cui lei dormiva e scattò una foto del suo letto con il telefonino, senza togliere lo stupido suono da dagherrotipo del flash. «Non sono molto fotogenica», gli disse lei, perdendo per sempre quelle coordinate perfette. «Spero di non averti spaventato». «Oh, io non mi spavento». Rimase a guardarlo, mentre lui scendeva dalla sedia per spiegarle che l’insonnia è un parassita della famiglia dei tenidi, un verme solitario che si deposita dentro al corpo di una sola specie umana, nutrendosi del buio di alcune parole confinate là dentro. «Anche io non riesco a dormire nel mio letto. Forse dovresti andarci tu, a casa mia». Nel quaderno con la copertina arancione c’erano tutti i ritratti più o meno sbagliati che le persone avevano fatto di lui durante gli anni, del suo aspetto stanco ed emaciato, degli occhi gonfi, della sua strana cognizione del tempo, della sua solitudine: aveva raccolto in quell’album tutti i consigli e le giustificazioni che gli erano stati dati. E se prendessi un sonnifero? Forse è un fatto astrologico. Hai mai pensato a un orsetto di peluche? Dovresti ubriacarti. Cambia letto, no? Ti ci vuole l’ipnosi regressiva. Te lo preparo un infuso di passiflora? Era sicuro che il commento di quella ragazza sarebbe andato ben presto a intelaiarsi con gli altri: era fisiologico; quindi aprì quell’anta 35


Elisa Casseri rialzata dell’armadio che spesso era stata motivo di fuga per le ragazze che avevano riempito il quaderno, e si mise ad aspettare. Sei patologico, praticamente un mostro. Questa cosa non è normale. Rispondi al profilo di un serial killer. Sei un uomo inquietante. Forse non dovremmo più sentirci. Dove sono le mie scarpe? Fatti vedere da uno bravo. Le persone sottovalutavano l’architettura del suo castello di carte: pensavano che quella costruzione fosse la materia delle sue anomalie, una piramide a falde continue di sagome rettangolari che doveva per forza nascondere qualcosa. Ma un castello di carte chiuso dentro un armadio per lui non era una stranezza, né una cosa fallimentare: era la geometria perfetta del suo equilibrio, labile ma stupefacente. Quando l’insonnia non gli dava scampo e il letto era teatro di una danza inquieta, dava un pugno sulla parete, forte e unico a risuonare nella notte, solo perché su quella parete c’era l’armadio e lui sapeva che un colpo di quel tipo avrebbe di certo causato un disastro. Sistematicamente trovava un crollo e ne gioiva. A volte era un crollo parziale, altre volte molto grave e lui passava la notte a rimettere in sesto i piani, a erigere nuove torri, a perfezionare i lati obliqui delle sue convinzioni di carta. La notte per me è un cerchio: una circonferenza di pareti invisibili che non mi concede angoli in cui poter scappare; il buio è fitto come una rete che mi incastra in questo poligono dai lati infiniti. Non posso dormire e qualche volta non voglio. Mi sento diverso e in trappola, come una mosca in un bicchiere di vetro. Ci sono parole che nessuno sa e dalle quali non si può fuggire. _____ 36


La geometria della notte Lei si tirò su di scatto, riemerse dritta dal suo angolo acuto per dire qualcosa su se stessa, su di lui e sulla sezione circolare che quella notte gli aveva disegnato intorno. Sapeva che lui la stava aspettando sul ponte levatoio fatto con il sette di denari, con quel suo quaderno arancione pieno di buoni motivi per non fidarsi di nessuno, quindi prese il suo ciondolo tra le mani prima di rispondere. Domino. Mi piace giocare a domino. È questo che faccio quando non riesco a dormire: sistemo le tessere, una per una, poi butto giù l’ultima e assisto al miracolo. Non ti devi giustificare con me, non mi devi spiegare niente: noi siamo della stessa specie. Le circonferenze sono le figure più difficili da disegnare, ma quando le tessere cadono in curva sono una meraviglia. Il mattino li fece sentire come davanti a uno specchio: guardarsi era una reazione a catena per la loro specie umana, ma quella luce mostrava una sciagura più che un miracolo. Un pugno su una parete, una spinta lieve su una tessera e niente era più importante per loro di quello che avevano costruito. Due doppioni di una stessa solitudine non fanno una coppia nei giochi da tavola: l’isolamento è una deformazione perpetua. «Io devo andare e tu sembri stanco». «Ho sonno, in effetti». «Non credo che tornerò». «Va bene». «La vuoi una gomma? Io mastico, quando non voglio dormire». Quando lei uscì, lui chiuse nel quaderno l’ultima cosa che lei gli aveva detto e cercò di riappropriarsi dell’aria, dello spazio, del piano 37


Elisa Casseri rigonfio del suo cuscino: fece una proiezione ortogonale della stanza, con lei fotografata dentro, e si sentĂŹ indifeso, inadatto, fuori contesto. L’amore è per i perdigiorno, si disse.

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La fuga di Polonio di Maria Rita Di Bari


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n il Roma vinto con a a e Nata 2009 h Strad olo 0 it l ne o 15 dal t crive s r o s o conc accont rio; e per a r l e n a un io Bi atr autric e t p p Do ritica t ed è urgie t di c lica.i dramma Bain. b b e Le Repu divers agnia p m di a co dell


La fuga di Polonio

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emi cazzo sono al Todis l’ho perso ero venuta con Giacomo per comprare gli elastici del costume gli ho detto rimani qui davanti non ti muovere per carità ho dimenticato i succhi tienimi il posto in fila torno subito nemmeno un minuto ci metto non ti muovere se la cassiera non si intoppa coi codici a barre e fatalità toccasse a te a noi a me lascia il posto al signore dietro oppure meglio digli mamma torna subito coi succhi intanto passo gli elastici e il latte che mamma arriva sono tornata dopo mezzo secondo non c’era più l’ho fatto chiamare al microfono megafono megaltoparlante ho infilato il naso fin dentro i bagni del personale poi fuori il piazzale dentro le auto per strada accanto agli zingarelli Memi mi senti? Giacomo, non lo trovo l’ho perso Memi? Pronto Memi». «Non ti sento. Ti sento troppo, troppo forte, non gridare, non capisco un’acca. Giacomo che? Ah, Giacomo, sì. Non ti sento, sono dentro a un tunnel. Carla? Carla il tunnel è lungo, non ti sento, ma sì alle cinque sarò a scuola per la recita se è questo che mi chiedi. Non ti sento, ci vediamo alle cinque, ti richiamo quando passo il tunnel». «Signora rimanga calma, ha chiamato sua sorella per farsi venire a prendere?» «Arriva adesso arriva dice che arriva ha detto che arriva subito». «Se lo cercate voi che lo conoscete vedrà che sarà semplice, noi non sapremmo come riconoscerlo signora, per carità, fin tanto che arriva sua sorella continueremo a cercare, ma non ha nemmeno una foto, dice che è biondo, ma biondo come? Biondo platino, cenere, paglia, oppure lei è una di quelle che crede d’avere il figlio biondo quando in realtà è nato biondarello ma poi è diventato tendente al castano scuro?» «Biondo c’è nato e c’è rimasto biondo». 41


Maria Rita Di Bari «Dicevo così signora, ne vedo tante, c’è chi li massacra di impacchi alla camomilla». «Giacomo è biondo sto bene è biondo continuo a cercarlo». «Non sarebbe meglio aspettare sua sorella signora?» «Sta arrivando mia sorella sta arrivando m’ha detto mezzo secondo e ci sono anzi se arriva le dica di chiamarmi io devo continuare a cercare Giacomo». «Signora come faccio a riconoscere sua sorella?» «È bionda». «Carla, sono in anticipo, ho trovato un posto qui davanti, tu?» «La cassiera, l’ha trovato? L’avete trovato?» «Sono a scuola, quale cassiera, sono qui che faccio la sauna, t’aspetto, prendiamo un caffè?» «Giacomo è biondo le ho detto di continuare a cercarlo te l’ho detto te l’ho detto l’ho perso». «Ma dove perso? Quale cassiera, dove sei Carla, sii gentile devo cambiare telefono». «Ho perso Giacomo al Todis via delle Betulle». «Finalmente signora, c’è la polizia, lei è bionda, dev’essere la sorella della signora che cerca Giacomo. Caspita, siete biondi sul serio». «L’avete trovato? Dov’è mia sorella? Come la polizia? Da quanto tempo non si trova e perché non mi avete avvertita?! Dov’è mia sorella. No, la polizia prima di tutto. Vado. Allora, dov’è Giacomo?» «Una foto del bambino ce l’abbiamo? Controllate a casa, magari conosce la strada ed è più calmo di tutti a quest’ora». «No. Voglio dire certo, è un bambino calmo ma la strada non so, siamo fuori mano qui, gli piacciono gli autobus ma ancora non ha il permesso di salirci, magari è finito al capolinea del 44, dov’è mia sorella?» «Allora questa foto? Ce l’abbiamo?» 42


La fuga di Polonio «Il padre. Nel portafoglio ne ha tante ma non va chiamato, è in Russia per lavoro, non va avvisato per carità quello è strano per carità». «Giacomo. Anni?» «Otto. E mezzo. E un po’. È piccolo, via». «Carla la cassiera m’ha prestato il suo telefono, dove sei? C’è la polizia, chiedono una foto, ce le ha Paolo in Russia, gliel’ho detto di non chiamarlo per carità. Sto provando a casa, la strada la sa, ci vediamo a casa che prendo la foto». «A casa non c’è te l’avevo detto gli piacciono gli autobus sarà al capolinea del 44 li chiamo». «Chi?» «Quelli del capolinea». «No. Che ore sono?» «Le cinque». «Andiamo a scuola, c’è la recita». «Ecchiseneimporta della recita c’è la recita ma non c’è Giacomo che poi a dirtela proprio tutta questa cosa di far recitare l’Amleto a un bambino di otto anni e mezzo non credo proprio sia una buona trovata». «Hanno tutti otto anni e mezzo e Giacomo aveva scelto di fare Polonio». «Un vecchio che viene scambiato per un topo pensa non sarebbe stato meglio avesse fatto l’albero o San Giuseppe oppure meglio il pastore?» «Andiamo a scuola, ti dico, non è per la recita che voglio andare, è per lui, magari è andato a scuola, magari». Giacomo sì, aveva otto anni. E mezzo. E un po’. Era piccolo, via. Da via delle Betulle la strada di casa non la conosceva. Non si sarebbe 43


Maria Rita Di Bari voluto perdere, non avrebbe voluto disobbedire ai moniti di sua madre per ritrovarsi a camminare nel mezzo di un asfalto caldo come tutti gli asfalti d’estate. Forse aveva paura, ma era troppo piccolo per sentirsi impedito dall’affrontarla, per cui non smise di mettere un piede dietro l’altro continuando a tagliare il vapore del catrame sotto le suole. La bisbetica disperazione linguistica della madre, se solo Giacomo avesse potuto udirla, gli sarebbe parsa una cantilena da ignorare continuando a battere sui talloni piatti il ritmo della punteggiatura mancante alla nevrastenia materna. Puntava, direzionava gli occhi verso un confine che non ammetteva quinte e tutto gli appariva come smacchiato, calvo di quella pellicola protettiva che risparmia il colpo di un maldestro atterraggio alle cose nuove. Senza rimpianto, l’aveva rimossa, in autonomia, credendo che a questo servissero i passi esonerati dal rituale di una mano afferrata e dell’altra rassegnata alla presa: a pulire gli occhi e a sciacquare le vetrine del reale. Da una parte, la cattolica apprensione che genera mostruosità sfinteriche, paralisi del respiro cerebrale, sterilità dell’intuito; dall’altra, Giacomo. Otto anni. E mezzo. E un po’. Piccolo, via. Giacomo tutto un fascio di intenzioni non interrotte. Tutt’uno col tempo, che non c’era, dal momento che nessuno gli remava contro. «Ho sete». Fece tirando la gonna di una matrona carica di plasticose buste celesti evidentemente rimpinzate di viveri. «A chi lo dici. È da stamattina che mando giù a secco. Se mi aiuti con queste, ti porto al bar e ci beviamo qualcosa con le bolle». Il barista mostrava un colorito affine all’arredamento madido del locale, ma fece comunque perno sui gomiti spingendosi in avanti per chiedere cosa desiderasse la strana coppia. 44


La fuga di Polonio «Coca-cola. Due. Per me light però». «Non mi piacciono le bolle. Ce l’avete il succo di pomodoro?» «Ti ci metto sale e pepe o lo prendi liscio?» Giacomo pensò di sapere che liscio suonasse meglio nella lingua dei grandi e optò per il mancato condimento. Poi si ripulì i baffetti alla Dalí, ringraziò il donnone, ignorò la finta educazione sull’uscio dell’esercizio, e si rimise in marcia. La tentazione di fungere per la prima volta da passeggero del 44 fu enorme. Irrefrenabile. Aveva imparato che i pulmini si aspettano di fronte ai pali gialli. E che mentre li si invoca è necessario eseguire un rituale che implichi il gonfiare le guance d’aria per poi sbuffarla con potente decisione, l’asciugarsi la fronte con l’interno dell’avambraccio e il portarsi il polso vicino agli occhi per guardarlo giusto un istante e poi un istante ancora. Così si piantò con la schiena eretta conficcata nel rotondo palo giallo, eseguì gli ordini dettati dall’osservazione e finalmente allo stridere dei freni e allo sbattere delle porte automatiche, occupò con passo fiero il primo gradino di quel mezzo a sei ruote. Ma Giacomo si stufò presto, la corsa si interrompeva ogni cinquecento metri e del capolinea non si sentiva neppure l’odore; era troppo piccolo, Giacomo, per lasciarsi consumare dalla pazienza senza pigiare il bottone rosso che serve a prenotare la propria dipartita dal viaggio. Seguì la fiumana intralciando le zampette a pelo corto di un bassotto color mogano. Si fermò poi alle falde di una colorata edicola per domandare che ore fossero e quando il giornalaio, piegandosi sulle ginocchia, gli sorrise pronunciando: «Le cinque», a Giacomo sembrò di impazzire. _____ 45


Maria Rita Di Bari «Memi ho chiesto alle maestre ai bidelli agli operatori scolastici come si chiamano ho setacciato i bagni il teatro le botole le aule la mensa Giacomo a quest’ora fa merenda in cortile raccoglie sempre le lucertole mi dice ha pure preso a vivisezionarle gli stacca la coda per vedere quanto resistono senza un pezzo non lo so questo figlio mio come non si schifa degli esperimenti da Frankenstein non c’è non si trova si sono pure accese le luci l’hanno sostituto senza battere ciglio Cristo sono genitori come me voglio vedere se al posto loro sarei riuscita a rimanere seduta sul vellutino andato delle poltrone non c’è non conosce la strada non c’è». «Te l’avevo detto, un buco nell’acqua, te l’avevo detto. Ma come ti viene in mente di venire a vedere se s’è presentato alla recita, è piccolo, via. Comincia anche il buio. Non adesso, è chiaro, siamo a giugno, ma comincerà pure a imbrunire tra un po’ voglio vedere dove andiamo, nemmeno una foto Carla». Giacomo prese a correre, a perdifiato, ignorando la calca sui marciapiedi, i semafori arancioni, le strombazzate agli ingorghi, recuperò il passo della sua età, quello dell’irrequietudine. Le cinque significavano la scadenza per un’esibizione in pompa magna che non si sarebbe voluto perdere per nulla al mondo. Non conosceva, oltre al miraggio dei super poteri cari agli eroi, alcun modo per sdoganare lo spazio e teletrasportarsi fino al teatro della scuola, la sola bussola che fosse in grado di interpretare rimaneva il passo, sempre più cinetico verso una direzione diritta. Qualcuno gli domandò, con l’eco già lontana, se avesse bisogno d’aiuto, ma gli eustachi lo ignorarono, qualchedun altro sospettò che fosse un ladruncolo svelto in vena di svignarsela dopo aver riempito la bisaccia, ma anche in quel caso, Giacomo si impose di non rallentare. Piombò, dopo un pellegrinaggio affannoso, 46


La fuga di Polonio obbligato alla resa, di fronte a un cerchio umano che non lasciava spazio al respiro di una pulce, né possibilità di guardare quel che vi dimorasse al centro. Battendo i piedi in una marcia sul posto, lentamente, sbrogliandosi e liberando la visuale dalle vesti più o meno ingombranti della fiumana, scoprì un angolo che gli rivelò la sagoma di un uomo riverso al suolo. «Papà!» «Memi la mattina verso le cinque vado sempre a fare pipì mi sveglio con la luce dei fotoni la serranda non l’abbasso mai tutta la luce maledetta s’incastra sotto le palpebre mi sveglia mi dice che è ora di andare al bagno sono andata al bagno poi in camera di Giacomo volevo aprire un po’ la finestra si suda molto la notte a giugno quest’anno l’estate è arrivata puntuale e spietata dal primo sole. Giacomo sembra insensibile al sudore ma suda io lo vedo suda molto non beve ho paura che si disidrati la notte lascio sempre un bicchiere d’acqua lo ritrovo sempre pieno suda molto perde liquidi lo sento. Comunque non è questo sono andata di là non c’era non era nel suo letto il letto era fatto rifatto le lenzuola tirate nemmeno l’impronta di Giacomo. Questa cosa di Alfredo d’averlo visto morto per strada secondo me lo psicologo non sta facendo un buon lavoro lo cambio chiamo Patrizia m’ha detto che per i problemi d’attenzione di Matteo la sua neuropsichiatra infantile è stata brava domani domani la chiamo mi faccio lasciare il numero no direttamente l’indirizzo è meglio ci vado prima io da sola la prima impressione è quella che conta quella giusta lo so da sempre ancora me lo scordo ma è così è sempre stato così Giacomo anche noi sapevamo che Alfredo stesse in Russia la firma ti ricordi io come fosse ieri e poi proprio lui che 47


Maria Rita Di Bari lo trova lì per strada no forse non è andata così sono confusa mi confondo ancora ma adesso il problema è che non trovo Giacomo sembra dissolto nell’aria nemmeno una traccia che so una pedata un pantaloncino fuori posto una striscia di dentifricio nel lavandino un asciugamano per terra niente Giacomo svegliarsi così sembra un incubo Giacomo dove vado a cercarlo Memi? Pronto Memi mi senti? Memi svegliati non trovo Giacomo». «Sì. Sì, ci sono. Sono qui. Carla, siediti, ascoltami, non sono troppo sveglia vista l’ora ma ascoltami e siediti. Vengo alle otto. Bastano due ore d’anticipo per i voli intercontinentali. Ti ricordi? Alle otto. Avevo la sveglia tra un’ora. La valigia l’ho chiusa ieri sera, i gatti li sistema Silvio, ho preparato tutto, devo solo prendere la macchina per venirti a prelevare. Te lo ricordi? Giacomo ha trentadue anni Carla, te lo ricordi questo? Non vive a casa da quando ne ha venti. Chiama Patrizia e chiedile un consiglio per te, è il tuo terapeuta che perde colpi, è evidente. Giacomo non ha visto morire suo padre, Alfredo era in Russia, è lì che è successo Carla. Adesso fatti un caffè, chiudi la valigia, infilaci i succhi di pomodoro che piacciono a Giacomo e fatti bella per stasera che il debutto con l’Amleto a Mosca va visto con la pelle tirata. Giacomo sarà fiero di vederti in prima fila, a un palmo dalla sua voce».

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L’orrore, l’orrore! di Giacomo Sauro


Giacomo Sauro Nato nel 1986 a Roma dove, eccetto un a parentesi di un anno a Gasteiz, ha se mpre vissuto, si inte ressa di traduzione (c he studia) e della lingua in genera le. Dall’esperienza all’estero e dall a passione per Eusk al Herria è nata la serie di articoli «Prospettiva basc a», pubblicati su Fl anerí a partire dall’o ttobre del 2012.


L’orrore, l’orrore!

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vevo sempre visto più in là degli altri. Non in senso fisico, poiché una miopia precoce mi ha obbligato a portare gli occhiali fin da piccolo, con il consueto corredo di battute, scherzi e soprannomi di cui sono vittime i bambini “diversi”. Ma rientrava tutto nei classici meccanismi da scuola elementare, non voglio certo dire che abbia avuto un’infanzia difficile. Avevo sempre visto più in là degli altri perché ho sempre avuto più intuito e perspicacia degli altri. Di tutto il mondo magari no, ma della maggior parte delle persone che mi è capitato di incontrare o frequentare probabilmente sì. Quando qualcuno parlando esita in cerca di una parola che ha dimenticato, o che non aveva proprio previsto di dire, io già so cosa verrà dopo la pausa. Mi basta captare un frammento di conversazione per capire immediatamente di cosa si sta parlando e quali sono le posizioni dei partecipanti. Riesco a notare in un momento quando due persone, magari a una festa, oppure allo stadio o a un concerto, insomma in tutte quelle situazioni in cui chi vuole comunicare qualcosa a qualcun altro con discrezione non ha bisogno di inventarsi niente, perché la cosa più normale è non sentire o non rendersi conto di quello che dicono e fanno le persone che non si trovano a stretto contatto, riesco a notare quando due persone, dicevo, approfittano di questi contesti per scambiarsi frasi senza che il contenuto della comunicazione sia reso pubblico. Aggiungete anche che sono solito trarre preziose indicazioni dall’uso dell’udito e dell’olfatto. Non pensiate che io appoggi l’orecchio alle casseforti aspettando il clic rivelatore della combinazione esatta o che segua delle piste per strada come i cani, è solo che mi sono abituato a mettere in relazione alcune percezioni sensoriali con i successivi cambiamenti pratici. Detto così sembra mi stia vantando di superpoteri, ma in realtà ho semplicemente sistematizzato il processo biologico più 51


Giacomo Sauro elementare di tutti. In definitiva, qualcuno che ha visto molto Studio Aperto potrebbe dire che ho il cosiddetto sesto senso. Non è capacità di prevedere le cose, in quello sono proprio negato. Mai un pronostico azzeccato, mai una scommessa alla Snai vinta, mai un finale di libro o di film indovinato. Giusto per capirci, io nel 2008 ero sicuro: «Ma ti pare che uno che si chiama Obama viene eletto presidente degli Stati Uniti?». Intuito sì, premonizioni no. Avevo sempre visto più in là perché ho sempre pensato di aver raggiunto un’empatia accettabile con l’ambiente esterno, che ripagava la mia non belligeranza dandomi piccoli segnali per penetrare, un poco più degli altri, la realtà. Ma ora mentre scrivo non mi sento affatto in pace con l’universo. Avevo sempre visto più in là degli altri, ma da una ventina di giorni mi sono convinto che sarebbe stato meglio vivere con il paraocchi, per vedere solo ciò che sta davanti, e addio alle sfumature. L’episodio della metro temo sia un punto di non ritorno. Stavo tornando dall’ufficio quando, quattro o cinque stazioni prima di quella di casa mia, sale sul treno un ragazzo. Avrà avuto non più di diciannove anni ed era vestito da rapper: scarpe da skate, pantaloni larghi, felpa col cappuccio e megacuffie alle orecchie. Bene, questo ragazzo sale sul treno e si scambia un cenno d’intesa con un altro ragazzo, un po’ più adulto di lui, seduto accanto a me; uno con le Clarks, la borsa a tracolla e delle cartelline sotto il braccio che aveva tutta l’aria dell’assistente universitario. Definire il cenno impercettibile sarebbe già renderlo troppo concreto. Non so bene se si sia trattato di uno sguardo fugace o di un lievissimo abbassamento della testa. Nessuna parola, nessun suono accompagnarono il gesto. Fatto sta che l’ho notato, e nel notarlo mi sono stupito io stesso della velocità di osservazione e percezione di cui mi ero reso protagonista. 52


L’orrore, l’orrore! La cosa assurda, se non fosse già abbastanza strana questa maniera di riconoscersi, è che i due non si sono scambiati nemmeno una parola durante il viaggio, né si sono avvicinati l’uno all’altro. Il rapper è sceso alla fermata prima della mia senza prodursi in nessun altro gesto nei confronti dell’assistente. La gente intorno a me era troppo impegnata a leggere o ad ascoltare musica per vedere questa scena, ma io l’ho vista. Sono sceso dalla metro e sono tornato a casa gravido di interrogativi. Chi erano quei due? Che rapporto hanno? L’assenza di amicizia o rancore in quel comportamento mi aveva spiazzato. Perché non avevano accennato neanche un sorriso, come si fa tra conoscenti? E perché non si poteva avvertire nemmeno odio tra di loro? Il loro atteggiamento mi era quasi sembrato quello di chi sa che in qualche modo avrebbe rivisto l’altro, anche se le modalità non riesco a figurarmele. Come, dove e perché si erano conosciuti? Credo che lo stare sotto terra abbia conferito all’evento la cornice giusta perché potessi avere l’epifania. Nel corso di queste tre settimane non ho potuto evitare di fare dei collegamenti che prima mi sarebbero sembrati folli. Piccoli episodi, inizialmente solo curiosi, ora formano un quadro chiarissimo, se così si può dire. Intendo: il quadro non è affatto chiaro, è chiara ora la sua esistenza. In queste tre settimane mi sono tornate alla mente quelle volte in cui ho visto qualcuno uscire da un negozio con della roba senza che la placca antifurto facesse scattare l’allarme; qualcuno passare col rosso davanti a una macchina della polizia senza che questa lo fermasse; qualcuno salire sull’autobus senza che vi fosse alcuna fermata, ma perché il conducente aveva semplicemente accostato e aveva aperto la porta davanti per farlo salire; qualcuno osservare con meticolosa attenzione dei graffiti indecifrabili; qualcuno entrare al cinema senza che avesse esibito il biglietto; o ancora qualcuno accanto a me in macchina al 53


Giacomo Sauro semaforo tirare fuori un apparecchietto grazie al quale era scattato il verde. Non sono un paranoico, osservo bene tutto, e vi potrei giurare che quella roba non era pagata; che la polizia aveva deliberatamente fatto finta di niente; che quel tizio non si era sbracciato implorando l’autobus di fermarsi; che i graffiti non erano opera di qualche writer incapace; che quell’altro tizio non era amico del gestore del cinema; che non si era trattato di una semplice coincidenza. Vi potrei citare anche altri casi in cui il normale corso delle cose aveva preso una piccola deviazione a vantaggio ora di un pensionato, ora di un venditore di rose cingalese, ora di un uomo in giacca e cravatta, ora di uno studente di liceo. Tutto silenziosamente, senza proteste, urla o frizioni, senza che il resto del mondo avesse un motivo per volgere lo sguardo a queste minuzie. Minuzie che adesso a me non appaiono per niente tali. Nel quadro che mi si è formato davanti vedo l’eterogeneità delle persone coinvolte, però non vedo neanche una donna. Sono tutti uomini e sono tutti soli, mai accompagnati da qualcuno. In queste tre settimane ho speso più di cinquecento euro in libri sull’esoterismo, sulle società segrete e sulle organizzazioni clandestine, e anche in altri sui poteri forti in genere. Ho continuato ad andare al lavoro, ma fuori dagli orari d’ufficio non ho fatto altro che leggere. Ho dormito e mangiato il minimo indispensabile. Niente televisione, niente amici, niente calcetto il giovedì sera. Dovevo rimanere a casa per leggere. L’episodio della metro ha aperto uno spiraglio su un universo talmente vasto che la sete di esplorazione mi ha spinto a leggere con una velocità che non avrei mai pensato di poter raggiungere senza perdere lucidità. Ho letto principalmente i libri appena comprati, perché l’immediata ricerca su internet aveva schiuso un flusso di spazzatura così sterminato e disordinato che mi aveva lasciato stordito. Dovevo darmi un metodo 54


L’orrore, l’orrore! e delle basi, e per fare ciò potevo partire solo dai libri di carta. Ho letto e ho appuntato; ho letto e sintetizzato; letto e schematizzato; letto e collegato. Per adesso ho comprato due scatoloni grandi, di quelli da trasloco: uno per i libri, l’altro per i taccuini che via via ho riempito, scrupolosamente etichettati per data e argomento. Non sono un mitomane, credetemi. Il fatto è che ora semplicemente lo so. Tutti quegli uomini fanno parte di una schiera occulta, abilissima nell’esistere inosservata. Se non fossi profondamente ateo penserei che solo un’intelligenza divina potrebbe essere alla base di una struttura così perfetta. Ora, chi si celi dietro quest’organizzazione ancora non l’ho scoperto. Fino a questo momento ho escluso oltre ogni ragionevole dubbio, nell’ordine: gli alieni, gli Illuminati, i massoni, le Nuove Brigate Rosse, il Bohemian Club, il governo americano, la mafia, la camorra, la ’ndrangheta, la Sacra Corona Unita, gli hacker di Anonymous, la Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, il Mossad, il Gruppo Bilderberg, i rettiliani, la Federazione Anarchica Informale, l’Opus Dei e la Walt Disney Company. La ricerca però è solo all’inizio. Non sono mai stato un malato di studio. Nessuno mi ha regalato la laurea in Economia, però non ho mai nutrito un amore esagerato per i manuali. I libri, allora come oggi, sono per me solo un mezzo per raggiungere qualcosa. Se prima era la laurea, ora è la verità. Probabilmente già la prossima settimana avrò letto più libri nell’ultimo mese di quanti ne abbia letti in tutto il resto della mia vita. Mi sono accorto che quelli sull’occulto non sono sufficienti, bisogna allargare il campo. Devo cercare una traccia di questa setta in tutta la storia della letteratura mondiale. Non ho ancora pensato a come procedere, se per nazione, per correnti o per ordine alfabetico degli autori, e so benissimo che razza di proposito pazzesco è, ma non mi spaventa. 55


Giacomo Sauro Non mi aspetto di trovare nomi e cognomi, ma qualcuna tra le più grandi sensibilità di sempre deve essersi resa conto di questa sfasatura nella realtà. Qualcuno avrà notato qualcosa, avrà avvertito un sospetto, avrà visto quello che ho visto io. E se è andata così, perché sono sicuro che è andata così, lo avrà inserito in un poema, in un romanzo, in un saggio, in un articolo, in un racconto, in una poesia, in un pamphlet. Per forza. Sono convinto che da qualche parte, su qualche pagina, racchiuso magari in poche righe, ci sia un personaggio secondario ambiguo, una stanza chiusa a chiave dalle coordinate precise, una rapida riflessione rivelatrice. Non può non esserci. Devo acuire quel famoso sesto senso e continuare a leggere e appuntare, leggere e sintetizzare, schematizzare, collegare. Dovrò comprare altri scatoloni, ma i risultati di questo sforzo saranno sui taccuini, nero su bianco, il più chiaro possibile. Chi sta leggendo queste pagine li ha trovati, i miei taccuini. E sa pure a cosa servono, perché ha trovato anche quest’altro taccuino, l’unico senza etichetta.

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Pizzaconnection di Fabrizio Miliucci


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Nato a Latin 1985, si è l a nel in Ita aureat li o una te anistica c on s I crit i dal titol i c i di sé. o pubbli c Ha a t o u poetic a inti na silloge tolata poesie Nuove ( P e 2010). rr Si è o oneLab, cc Flaner í dell upato per a di nar rativa rubrica «Cri genera tion». sis


Pizzaconnection

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uelli come me c’hanno tutti qualcosa da nascondere, per questo lavorano da Pizzaconnection. Una cosa che magari nemmeno sanno bene cos’è, però la sentono eccome se a pelle preferiscono un lavoro così, che fai quello che devi fare, ti pigli i soldi della giornata e vai via, senza che spieghi chi sei, cacci i documenti e firmi un sacco di fogli. Io devo lavorare, ok, ma a te che te ne frega chi sono e chi non sono? Che sei, una guardia? Questi sono fatti miei e basta. A quelli come me chi sei è meglio se non glielo chiedi proprio. Ecco il fatto qual è. Io poi lo so troppo bene perché mi tocca stare nascosto, e allora da Pizzaconnection oramai ci sto da parecchio. Ma all’inizio non volevo abbassarmi a fare il fattorino. Portare la pizza a casa della gente mi pareva umile. Ma poi piano piano, siccome non trovavo altro, allora mi sono convinto. Sennò qua stavo fresco. Ma non ti credere che si guadagna. Anzi. La paga è la cosa più brutta, quindici, venti banane. Un po’ di benza alla macchina, al massimo le sigarette. Che ci vuoi fare? Certe volte però a fare questo lavoraccio ti senti uno stronzo. Quando sono tutti a casa e tu stai lì con quella cazzo di sacca in mano a fare su e giù lungo la strada e non trovi il palazzo e non sai dove devi citofonare e i cani ti abbaiano dietro e i ragazzini figli di troia ti pigliano pure per il culo. Certe volte uno si pente proprio di lavorare da Pizzaconnection e dice: «Appena torno mando tutti a cagare cazzo me ne frega a me?» Però poi trovi il tipo e magari ti abbuschi una mancia, monti in macchina, parti e torni a mazzetta, con le ruote che fumano su ogni rotonda e saltano sopra i dossi, capito come? E allora ti metti un po’ l’anima in pace e ti sfoghi. Ti diverti a fare qualche curva a cannone e va sempre a finire che resti. 59


Fabrizio Miliucci Ma i primi tempi le macchine nemmeno ci stavano, ci stavano i motorini. Vecchi scarabei tutti sfondati col bauletto attaccato dietro che tu aprivi e infilavi i cartoni uno per uno nelle staffette d’alluminio. E dopo partivi. Gelo, grandine, neve, diluvio universale tu dovevi partire lo stesso. «Si fredda la pizza», diceva il Boss, «cercate di darvi una mossa». Allora giravi per tutta la città con le gomme lisce e i freni spanati, ma tu che ti credi? Che davvero non s’è addobbato mai nessuno con quei cazzo di scarabei? O che pure dopo, con le macchine, è andato sempre tutto tranquillo? Ma beato a te. Fobia l’ha tirata piccola la capocciata quando s’è stampato su un albero a Vialepetrarca (già era scemo prima, figurati adesso) oppure Mirketto, o quell’altro che c’ha rimesso una gamba e cammina ancora tutto mongoloide. A tutti c’è capitato il botto. Prima o dopo il botto capita per forza. L’unica è sperare di non farsi tanto male quando succede. Perché comunque va sempre a finire in culo a te. E quando sei sceso dalla macchina incidentata e chiami in pizzeria col telefonino, loro prima di chiederti se stai bene dicono: «Ma hai fatto la consegna? La macchina come sta?», e poi dopo, ma solo dopo, «e tu?» E insomma i primi tempi sempre col motorino. Col giubbottone allacciato fino alla gola che quando tornavi sgocciavi acqua in mezzo ai clienti che si ingozzavano e il Boss mentre impastava alzava un po’ lo sguardo e faceva lo gnorri: «Che, piove?», chiedeva. Ma dopo che hanno preso le macchine le cose sono migliorate un pochetto. È stato proprio quando quello là ci ha rimesso la zampetta che il Boss deve essersi detto: qua mi levano tutto, e allora ci ha attrezzato con qualche Uno bianca, e sul tettino gli ha pure fatto montare le insegne abusive che si illuminano e c’hanno la scritta Pizzaconnection e il numero di telefono per fare le ordinazioni. 60


Pizzaconnection Una vergogna che non ti dico andare in giro con quella roba accroccata sopra la macchina. E infatti a me m’era pure passata la fantasia e stavo anche per dirglielo, alla moglie del Boss: «Io con quella roba sulla macchina non ci vado in giro». Ma poi Skema m’ha spiegato che basta staccare la spina appena giri l’angolo. Certo, l’insegna sta sempre là, ma al buio mentre sfrecci lungo la strada se rimane spenta non la nota nessuno. E comunque almeno il freddo e la pioggia erano risolti. La sera che sul piazzale sono comparse le macchine noi fattorini, dopo anni di acqua che ti correva lungo la schiena, scatarravamo tutti felici. Fatto sta che anche da Pizzaconnection abbiamo iniziato a intripparci nel traffico vero. All’inizio stavamo sempre a tirare con Zecco e Manina. Invece quando vedevamo un posto di blocco ci facevamo i segni coi fari e col clacson. E questo ce lo aveva detto proprio il Boss di farlo. Qua c’è l’ordine di non farsi beccare sennò sono cazzi. Per chi lo pizzicano ma soprattutto per lui, il Boss. I finanzieri gli imboccano in pizzeria e cominciano ad attaccare storielle finché lui non li porta nel retrobottega. Quando poi escono, quelli c’hanno il sorrisetto e pare che è tutto a posto, ma a quello la faccia scura gli resta un mese, e non si può dire né a né o che scapoccia come una iena: «È colpa tua è!», gli fa a quello che s’è fatto pigliare, «ma io non ti pago!» Poi si sputa sui palmi delle mani e rinizia a impastare. Quindi occhi aperti e in caso darsi, capito come? Una sera però m’hanno beccato anche a me porco zio. Quella volta non ci stavo a pensare e invece i balordi s’erano messi a fare le poste davanti al Palabowling. Paletta e via. Bevuto. Non ti dico le madonne dentro la Uno. C’avevo pure un mezzo ciccotto in bocca che per farlo sparire mi sono bruciato anche un dito e giù a ringhiare altre madonne. Comunque paletta e via. Pronti. «Buonasera marescià 61


Fabrizio Miliucci come andiamo?», ma intanto tra me e me facevo, se mi identificano stavolta sono fottuto. Quello c’aveva una faccia incazzata e scartabellava coi documenti della macchina, io tossicchiavo per farmi vedere tranquillo. Poi ho provato il tutto per tutto, prima che i documenti me li chiedeva anche a me: «Certo che vi lasciano sotto ’sto freddo senza manco niente da mangiare», era proprio ora di cena, alla guardia gli sono brillati gli occhi per un nanosecondo, «che la favorite una pizzetta marescià? Lei coi colleghi suoi?» Ora, quello poteva dirmi di no, che era in servizio, chiedermi i documenti miei, fare un controllo e portarmi dritto in centrale. Oppure poteva dire di sì e l’avevo sfangata. E invece non diceva niente. Mi guardava e basta. Fisso. «Qua dietro c’ho un sacco di roba, pure crocchette, pure i supplì!» Ma quello niente, e allora scendi tu di tua iniziativa, apri il cofano dietro e comincia a tirare fuori la roba con la strizza che a ogni mossa quello diceva: «Ma che vai faciendo guagliò? Rientra int’a machina, muòviti». E invece niente, quello non ha fatto una piega e pareva pure scocciato. Dopo un po’ anche i colleghi suoi m’hanno iniziato a guardare straniti ma io andavo avanti borbottando cazzate sul freddo. Gli ho apparecchiato il cofano della gazzella, pizze peronipiccole patatefritte, e li ho messi a mangiare, un saluto educato e me ne sono venuto via senza mancia. Sono tornato in pizzeria, ho spiegato tutto al Boss e mi sono buttato in un angolo a sbraciarmi gli ultimi tiri della torcia mentre smaltivo, e a quelli che arrivavano gli dicevo dove stavano i balordi e di fare il giro largo. Quello non s’è incazzato più di tanto per le pizze perse, e anzi: «Bravo», mi ha detto, «hai fatto bene così». Ma a me me ne fregava assai di lui e di Pizzaconnection, io c’avevo avuto paura che il mazzo me lo facevano a me perché in giro è pieno di infami che si credono che sono ’sta ceppa di cazzo. 62


Pizzaconnection Comunque sia, quella volta mi sono davvero cagato in mano, te lo giuro, volevo finirla là, vaffanculo te e le pizze a domicilio: «Io me ne vado via, emigro proprio, non hai capito», e infatti con Jerry Lee ce lo dicevamo sempre di andarcene in Olanda a sfondarci di bombe (perché comunque, quello che ti serve, fumo bamba maria, qua basta che fai un fischio, capito?) e ogni sera facevamo il piano di come si poteva fare pel viaggio, poi però lui ha trovato da fare il fruttarolo ai mercati generali e io sono rimasto un’altra volta qua. Da Pizzaconnection. Però la moglie del Boss dopo quella volta del Palabowling s’è inventata una cosa per stare più tranquilla. Ci dà uno scontrino fiscale a inizio serata e quello devi cacciare fuori se i finanzieri ti danno rogne. Sì perché mi sono scordato di dirti che il conto da Pizzaconnection te lo fanno su un foglio normale così la cassa rimane a riposo. Quindi uno scontrino a sera e via per la città, possibilmente evitando le guardie. Ma a dirtela tutta di questo fatto dello scontrino non è che a me me ne era mai fregato qualcosa, e neanche ai clienti, ma lei quando gli ho raccontato di come m’ero dovuto tirare via dalla trappola ha pensato subito agli scontrini, perché quando qua imbocca la finanza è sempre per quello. Se permetti però poi non glielo sono andato più a dire che per me il problema era un altro, che c’ho da stare attento ai fatti miei, che io dentro non ci posso tornare, sennò poi quella era capace di attaccare a fare domande, e con me le domande le devi accannare, non hai capito, te l’ho detto anche prima. Però adesso che ci ripenso uno che m’ha attaccato pippe per ’sto benedetto scontrino fiscale una volta l’ho pure trovato. Era un vecchio delle Incise, voleva a tutti i costi farsi prendere a zampate. Quella volta arrivo bello spedito, inchiodo la macchina a Piazzadante, imbocco il portone e citofono, salgo, ricitofono e mi apre ’sta faccia da cazzo. Quella sera ero allegro proprio, non mi ricordo nemmeno perché, ma 63


Fabrizio Miliucci ero allegro e felice e salendo avevo fatto le scale a due a due. Insomma quando quello mi apre io saluto per bene perché l’educazione a scuola me l’hanno imparata anche a me e pure il rispetto dei capelli bianchi, poi gli passo la roba: «Diciotto e cinquanta», e gli allungo il foglietto del conto, tranquillo e contento. Quello però ha cacciato gli occhiali dal taschino della vestaglia: «Per due margherite mi sembra un po’ troppo!», ha guardato il foglietto e ha sbroccato, «E questo che cos’è?! Questo scontrino non è valido! Lo sa che con questo ruba i soldi anche a me?», così, dal nulla. Era impazzito. Io non gli avevo mica rubato un cazzo a quel vecchio scemo, te lo giuro, io non me l’aspettavo proprio e ci sono rimasto pure di merda, ma come? Io vengo tutto contento e tu mi sbotti i peggio insulti? «Sì vabbé me li dai ’sti soldi?», gli faccio a quel punto già un po’ incazzato, ma quello invece di capire s’è messo a strillare più forte: «Io non le debbo dare proprio niente! Anzi adesso chiamo la polizia e stiamo a vedere! Io vi denuncio! A lei e al suo principale!» Ed è stato lì che non c’ho visto più, quando quel deficiente ha iniziato a dire denuncio di qua denuncio di là. Ehù! Ma io ti scasso di botte! A chi cazzo vuoi denunciare tu? Tu ti fai i cazzi tuoi e muto perché se mi pigliano i cinque minuti ti lego e ti do fuoco con tutta la casa vecchio bastardo, ti faccio a pezzi e ti ficco nel bauletto della pizza, ma ’sto coglione! E gli ho detto proprio così infatti: «A chi denunci tu? Tu ti fai i cazzi tuoi sennò io ti spacco», e m’è partita pure una pizza, ma nel senso della manata ’sta volta. E ’sti grandissimi cazzi dei capelli bianchi! Potevi starti più attento alle parole che usavi! Denunci a chi? Comunque è andata a finire che m’ha pagato e s’è rinfilato in casa con la coda fra le gambe, il vecchio. Ma siccome a me non m’era per niente sbollito lo scazzo, e siccome mi sentivo pure allegro e contento come quando ero arrivato, allora mi sono tirato fuori il cazzo e gli ho pisciato sul tappeto, sulla porta e sul campanello. E vaffanculo. Sono uscito che 64


Pizzaconnection ridevo. Ho acceso il motore della Uno, ho mollato di colpo la frizione e ho affondato con l’acceleratore così gli ho lasciato sotto casa metà delle gomme, per quanto ero felice e contento. Quella volta ho sbroccato di brutto, ma non ti credere, con i clienti capita sempre. Gliene ho fatte poche io a quelli delle palazzine ricche di q4 e q5, ne ho fiondata poca di posta nei bidoni della mondezza quando poco poco mi rispondevano male. Bollette, pacchi, cartoline, tutto. Tutto nell’umido. Che fai ridi? E ridi ridi che intanto io sono sei anni che sto a Pizzaconnection. Alla fine ci sono cresciuto dentro ’sto posto. Quando sono arrivato ero un pischello. Un botto di tempo. Una boato. Sul motorino e sulla Uno bianca. A fare su e giù tutte le sere per Viaisonzo, Viadellerose, Viapantanodinferno, e piano piano è diventato un impiccio che non se ne esce, mangiare merda sputare sangue. Tutto ’sto tempo seduto sulle sedie di plastica insieme con gli altri, Danilo il Bove Pennabianca, ad aspettare la consegna, a parlare, a fumare, a guardare il pelato di fronte che mena i figli una sera sì e l’altra pure e noi a dirci: «Adesso andiamo lì e lo spacchiamo di botte!» Ma non ci siamo mai andati perché pure quello è una guardia. Ci siamo pure fatti le peggio risate però. Quelle sere che non si combina un cazzo e quando è ora di pagare il Boss ti fa storie perché la moglie lo pressa, ma noi lo guardiamo storto e allora si sta zitto e abbozza, sennò davvero davvero lo ammucchiamo pure a lui con tutto il bancone e la moglie. Quelle sere lì magari ci scappa uno spino o una schicchera, capito come? E dal frigo spariscono tipo tre quattromila peronipiccole e allora sì che ci tagliamo e quando salta fuori una consegna litighiamo per un’ora e mezza con le pizze che rimangono a freddarsi e la moglie del Boss che ci rompe le palle e noi giù a pigliarla pel culo. Oppure stiamo tutti zitti a guardare fisso la finestra del pelato con lui che si vede Paperissima Sprint, ognuno coi pensieri suoi nella 65


Fabrizio Miliucci testa. L’unico che parlava sempre era Goffredino che era il più rompicoglioni di tutti e non sputava un secondo. Una volta era tutto il pomeriggio che mi faceva: «Ti devo fa’ vede’ una cosa», finché a mezza serata non s’è tirato giù pantaloni e mutande, s’è coperto il cazzo con una mano e con l’altra ha tirato fuori una palla enorme, tutta bianca e senza un pelo. «Toccala», diceva pure quel coglione, «è molliccia». Poi tempo dopo Gianmarco era tutto strano ma io non lo sapevo che era successo, allora l’ho salutato e lui m’è sbottato a piangere sopra una spalla, come a un fratello, e in mezzo ai singhiozzi m’ha chiesto: «Ma come si fa a mori’ a diciott’anni?» Quella volta là ci ha pensato Fobia a dire qualcosa perché io c’ero rimasto troppo male, e non mi usciva più una parola e non sapevo che fare. Allora ha attaccato lui con un lungo discorso, uno dei suoi tutto impicciato che non si capisce niente per via della erre moscia e degli spuntoni sul labbro. Ma quella volta, nel buio del retrobottega, quello che diceva lo abbiamo capito tutti. Guardava per terra e ogni tanto si accarezzava la cresta, faceva frullare il teschio del portachiavi, si incantava un momento e poi continuava. Ascoltavamo tutti in silenzio ma appena c’è stata una consegna io mi sono alzato e mi sono dato pure se non era il turno mio. Sono montato in macchina e ciao. Dopo un po’ mi sentivo già meglio. Sì perché girare per la città a un certo punto diventa un fatto automatico, le mani e i piedi ballano intorno alle leve e allora tu non pensi più a niente, non c’è bisogno nemmeno che la guardi, la strada, così guardi tutto il resto, i cartelloni pubblicitari coi culi delle modelle, i barboni che ficcano la testa nei cassonetti, quelli che girano col Mercedes, le ville degli zingari con gli Audi tt parcheggiati davanti. Comunque sia va sempre a finire che ti perdi, fai i giri più assurdi, ti scordi dove stai andando, te ne freghi e ti incastri sulle rotonde. 66


Pizzaconnection Io una volta ne ho fatta una per sedici volte di fila. Alla fine mi veniva da vomitare ma ero contento lo stesso. Per quanto la prendi alla larga però è inutile, a un certo punto tocca che vai dal cliente. Così quella volta che Fobia stava ancora a parlare nel retrobottega di Pizzaconnection sono partito come una freccia, ho parcheggiato la macchina sotto ai palazzoni della mediana, ho chiuso con la sicura (che quelli che abitano lì stanno avvelenati peggio di noi) e mi sono accollato le pizze. Scala h. Citofono. Portone. Al piano m’ha aperto la porta una biondina tutta tirata, con le labbra rosse. Ho iniziato a passarle la roba e lei mi ha fatto un sorriso. E a me è quel sorriso che m’ha illuminato. Poco dopo ero in ascensore. Davanti lo specchio mi sono accorto che c’avevo un graffio lungo tutta la guancia come un filo di sangue e anche in bocca, sopra la lingua. A vedermi così m’è venuto da ridere.

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