VERDE 15

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protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 15 anno II agosto 2013

Grazia Greuter - Mother and Child

DI NITTO SPANU PICCOLINO GREUTER TEODORANI LUCCIOLA PALMER CARELLI


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Grazia Greuter - The Black Dahlia

libri liberi, ma liberi veramente

VERDE

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p.2 Edit p.3 TI ODIO POESIA #13: L’amore sfigurato (Lino Di Nitto) p.4 L’uscita (Alessandro Spanu) p.6 La Colombo non perdona (Luca Piccolino) p.8 Il Trittico di Jack (Grazia Greuter) p.10 Il suono e il silenzio (Alda Teodorani) p.12 SEMIAUTOMATICA #8 (Simone Lucciola) p.13 BLITZRECENZION #19: Mittagesein (S.H. Palmer) p.14 STORIE NERE #8: Camilla - Parte I (Luca Carelli)

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VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it

for ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY

dove siamo editoriale

Per festeggiare i trent’anni di Vamos a la Playa (la nostra canzone del cuore, insieme – per altre ragioni – a No tengo dinero), abbiamo preparato un numero dolce e sbarazzino come un’anguria giapponese e rosso emoglobina come le ustioni da tintarella che allieteranno le vostre nottate d’agosto. Ospite d’onore Grazia Greuter, la misteriosa pittrice degli incubi che non finiremo mai di ringraziare per i 7 quadri che ci ha concesso in esclusiva, splendidi affreschi in cui ognuno di voi – e non solo le nostre lettrici – potrà divertirsi a identificarsi nelle profumate sere d’estate che vi attendono in riva al mare. I versi del mese sono di Lino Di Nitto, i racconti di Alessandro Spanu, Luca Piccolino (tutti alla prima volta su VERDE) e della nostra colonna Alda Teodorani con un inedito. E alle onnipresenti Semiautomatica (attorno ai simpatici imprevisti di stagione) e Blitzrecenzion (cartoline da Berlino), si affianca il redivivo Luca Carelli, con una lunga Storia Nera che l’autore ci ha supplicato di pubblicare in una sola puntata, ma che noi, per rispettare il clima solare e estivo di questo numero, abbamo brutalmente mutilato.


TI ODIO POESIA

L’amore sfigurato Lino Di Nitto Ho liberato il mio vecchio corpo onesto Dalla poesia ingannevole che non ripaga Scegliendo di viaggiare Osservando E tradendo Proprio lungo quel tragitto da leggersi in apparenza Come fuga Il pretesto è l’esigenza d’accomiatarmi Senza motivazioni E trattenermi dall’infierire e giustificare la mia resa Come il flusso incessante di una sola delusione Ero persuaso che quanto la vita sprigionava Andasse rispettato lungo il suo solco preciso L’opportunità che s’offre come un dono Sempre vigile e infallibile E se adesso ho smesso di crederlo Ho provato l’orgoglio di specchiarmi ferito Poiché in realtà chiunque ci crede ancora Non ci ha davvero provato mai

Lino Di Nitto ha 40 anni e vive a Gaeta. Alla sua prima silloge poetica (1997), ha fatto seguito un’intensa attività poetica, culminata nella Trilogia dell’Isolamento, edita per i tipi di Caramanica Editore. Nel 2010 si ripresenta con la raccolta Come un soffio che vive (Perrone Editore). La sua ultima fatica letteraria Atroce in privato (2012) conclude una fase di dannazione e di tormenti, un percorso di ricerca stilistica da cui spera di essersi definitivamente affrancato. VERDE

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L’uscita Alessandro Spanu Nella sala ristoro della corsia ci sono: un lunghissimo tavolo in formica rivestito da una tovaglia a mo’ di patchwork, uno schermo piatto coreano acquistato al centro commerciale per circa 229 euro, un frigorifero che emana un odore terribile come di spazzatura andata a male (lo dividono circa 12 pazienti), delle stampe di Massimo Campigli alle pareti. Sono le stampe delle serigrafie dedicate al circo. Dunque sono immagini di immagini di immagini. Quella non è una ballerina. Nonostante la delicatezza della tavolozza di Campigli, persa nei tenui rosa pastello o antico, nei cerulei appena accennati, il polittico emana una malinconia che non è quella dell’artista. È la tristezza della solitudine dell’ospedale, con i suoi egoismi e l’inedia che scarnifica la polpa umana dal di dentro e la risputa fuori sotto forma di silenzi indefiniti. Il televisore a schermo piatto parla di una ragazzina violentata dai suoi coetanei. Una signora ammonisce, con acredine: «Eeeeh, magari li avrà provocati!» (quattordici anni), «E poi una ragazza di quell’età cosa ci fa a quell’ora da sola. Se l’ha proprio cercata». Il maschilismo di questa generazione di donne che ha creato questa macchietta antropica che è l’uomo italiano. Un cordone ombelicale tessuto nell’indulgenza. Nessuno dei malati replica, solo una, la più anziana, dondola il capo in segno di assenso. Mi chiedo se durante l’ascesa di Hitler si potessero incontrare degli ospedali così, con delle pazienti in tarda età così. Il male nei pori della pelle, e la morale e la bontà sulla punta della lingua. Antropofagia. Poco prima della cena passa il prete per dare la comunione. Il prete è cinese: si chiama don Andrea, come il santo. In un italiano stentato fa un paio di battute su come telefonare a Dio nel caso qualcuna delle pazienti avesse trascurato di conversare con il suo creatore. La comunicazione è la base di ogni relazione che voglia avere un futuro. Ecco perché la metafora mediale del telefono. Una telefonata allunga la vita. Poi, una a una inserisce le ostie in quelle bocche semiaperte in un gesto coattivo, svuotato di ogni referente simbolico. Un rito vuoto: s-comunicato e incomunicabile. Qualcuna ridacchia, come eccitata nel ricevere la VERDE

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particola per la prima volta da un uomo con gli occhi a mandorla. In silenzio si consuma il pasto. Si consuma dal vassoio bianco come le pareti bianche, i camici bianchi, i lenzuoli bianchi, gli occhi bianchi. Nel vassoio ci sono: sette penne all’olio scotte, una minuscola fettina di vitella dura come il cuoio, dei fagiolini bolliti insipidi di un verde cupo spento, come esausto dall’interminabile cottura. C’è una donna in sedia a rotelle. È paralizzata dalla vita in giù, e mangia con fatica, in un modo un po’ scomposto che suscita il ribrezzo delle vicine. La guardano schifata come fosse un’appestata. La malattia rende egoisti e cattivi. Non c’è solidarietà dove c’è dolore. La donna non riesce a contenere la vescica e lo sfintere, e puzza di ammoniaca e di merda. Ha un segno largo almeno un pollice di ricrescita proprio dove i capelli si scriminano in mazzetti confusi e untuosi. Viene posata, non accompagnata. Come se fosse arredamento e non un vero e proprio essere umano. In tedesco oggetto di dice gegenstand, come dire ciò che ci occorre, che viene a cozzare con noi. Il dolore di questa donna è davanti a me, muto, in un corpo che è di carne ed escrementi: non è vera carne. Non la carne che viene dipinta dall’arte sacra, ma quella che Tertulliano descrive nel De Carne Christi. Una materia talmente immobile e densa da risultare intoccabile e dunque eterea. La donna è logorroica, racconta a fiume di come venga trattata lì, di come la famiglia si occupi di lei, del suo senso di colpa, pesare sulle spalle della società e dei suoi cari. «Non posso spendere i miei soldi, mi ritirano tutto. Ho chiesto a mio figlio se mi potevo fare un tatuaggio, il simbolo dell’infinito. Sono anni che mi dice che mi porta, ma non mi porta!» Le rispondo con un sorriso che è talmente artificiale da sembrare un’oscena smorfia, una macchietta di persona empatica ed indulgente. Lentamente, il resto dei degenti si defila per evitare l’attacco verbale della donna, che non risparmia commenti acidi sugli infermieri: si trova sola in una manciata di secondi.


bisogno di andare fuori. La porto in terrazzo mi fa. Io le dico no io voglio andare fuori. Cosa c’è fuori mi fa. L’uscita le dico io!» Mi volto, a quel punto, e attraverso tutta la corsia fino alle scale, fino alla porta d’ingresso dell’ospedale: fuori. E lì torno a respirare normalmente e non sono più spaventato, sono lo stronzo che non tocca i pomelli delle sedie a rotelle. Mentre mi avvio verso la macchina, mi volto per guardare l’uscita, per me la fonte di ogni disagio, uno specchio della mia attitudine al rifiuto del dolore. La mia uscita è una teca di cristallo dove ho collocato gli oggetti con cui posso interagire, che posso gestire. Gli altri, quelli della bruttezza e della disperazione, della puzza di piscio e merda e della morte, devo lasciarli inequivocabilmente all’Uscita. Un confine per me, un limite per chi è dentro. La speranza di qualcosa al di là della miseria umana della malattia e del corpo che si disfa, pezzo dopo pezzo, organo dopo organo. Cedono i reni, il fegato, il pancreas. Lo stomaco è una tumescenza viola, il sangue è penetrato ovunque. Perché non sono riuscito a spingere quella carrozzina? Ero disgustato, spaventato, indifferente, o forse avevo semplicemente paura di stabilire un contatto. Sono solo corpi mi ripeto. Non hanno molto da vivere. Eppure mi atterriscono. Paralizzano le mie dita, mi rendono una persona peggiore. Kafka disse: «Ho paura che la vergogna mi sopravviva.» La mia paura è molto meno metafisica, ho solo terrore, un giorno di non riuscire a raggiungerla questa maledetta uscita.

Grazia Greuter - The Kiss

Gegenstand. Rimango lì imbarazzato, senza dire una parola. Solo annuisco mentre mi racconta della sua visita al Louvre. Mi alzo per tornare in camera, e lei mi guarda con un’aria un po’ di sfida un po’ di resa. Ho i pomelli della sua sedia a rotelle e non riesco ad afferrarli. Non riesco a stringere il dolore nell’unica fisicità concreta che mi sia concessa. I braccetti di quella sedia sono il dolore, è il dolore nella sua semplice presenza. Ad un tratto, la sua compagna di stanza dolcemente impugna la sedia e la conduce con decisione verso il suo letto. «Mi porteresti una cioccolata?» mormora. A quel punto io: «Gliela porto subito, non si preoccupi». Quando sono davanti alla macchinetta del caffè, penso a quanto sia codardo e impotente di fronte a queste situazioni. Mi terrorizza il fatto che fossi terrorizzato dal toccare quella sedia. Allungo una mano per afferrare il bicchiere di plastica con la cioccolata che ha un colore impossibile da descrivere molto simile a quello di una placenta. Quando torno al piano, la donna mi riceve con una specie di sorriso. Le porgo la sua cioccolata, un po’ in colpa. Lei muove leggermente il capo e mi sfiora un braccio in un tentativo maldestro di carezza. Grazie è tutto ciò che dice. Ma in quel momento, non sono più teso, non vedo più la ricrescita dei suoi capelli unti, non sento il puzzo di piscio che emana dalla sedia, e quasi non mi da più neanche fastidio quella logorrea insistente. Mi siedo e l’ascolto. «Oggi ho chiesto all’infermiera se mi poteva accompagnare in Chiesa per ascoltare la messa. Ma ha detto che era troppo stanca, ne aveva già accompagnata. Io le ho detto che avevo

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La Colombo non perdona Luca Piccolino ROMA 1994 Pietralata. Due del mattino. Fari su una strada buia. Il Piastra non si preoccupava di andare piano. Non c’erano abitanti in quella viuzza, soltanto un paio di magazzini di materiali edili e uno sfasciacarrozze. Al contrario dei magazzini, però, lo sfasciacarrozze era aperto. Il Piastra rallentò, fermandosi innanzi a un cancello sovrastato dalla scritta verniciata a mano: Autodemolizioni Proietti. Diede due colpi brevissimi di clacson e dopo neanche trenta secondi il Sorca Mario era già ad aprirgli. Velocemente l’auto transitò nel piazzale per infilarsi in un garage costruito con bandoni di lamiera. Mario accostò il cancello e raggiunse il Piastra. «Dove l’hai fregata ‘sta merda?» «Perché merda? Guarda, non c’ha neanche trentamila chilometri. Ed è diesel!» «Per me potrebbe andare pure ad acqua, resta una merda di macchina coreana che non vale un cazzo.» «Oddio ce n’è sempre una però! Una volta è giapponese, un’altra è coreana, un’altra ancora c’ha un difetto di fabbrica...»

«È colpa mia se c’hai un fiuto speciale per le macchine di merda?» «Va beh dai, basta. Quanto mi dai?» Il Sorca Mario girò un paio di volte intorno all’automobile, si espresse ancora una volta in toni critici verso la corea, i coreani e le fiche strette delle coreane e tra una Madonna e l’altra disse: «Guarda, ti posso dare duecento... due e cinquanta, giusto perché sei te.» «Sono venuto dall’Eur! È nuova, sta macchina!» «Prendi le decentocinquanta. dammi retta. Se no va a finire che ti tocca riportarcela, all’Eur!» Il Piastra sentì la foga montargli dentro. Se l’era rischiata per arrivare fino a lì e alla fine dei giochi ci avrebbe guadagnato soltanto quello stronzo di Mario. Non gli andava giù: «Sai che c’è? Tieniti i tuoi soldi. Ciao.» E salì in macchina, di scatto. Mario, col sorriso sulle labbra, cercò di fargli cambiare idea: «Ma dove cazzo vai? Nessuno ti darebbe di più per questo catorcio lo vuoi capire o no?» «Non me ne frega niente. Non la voglio l’elemosina!» Il Sorca Mario replicò qualcosa ma la sua voce fu coperta dal motore che il Piastra aveva acceso. In retromarcia partì e lo lasciò lì come


Grazia Greuter - La Vittinma

lo stronzo che era. Via Cristoforo Colombo. Direzione Eur. Il Piastra non aveva ben chiaro il motivo che lo stava spingendo a riportare indietro l’auto. L’aveva detto Mario, facendo una battuta e nel suo attacco d’ira si era mosso pensando in automatico. Tutta colpa del suo stupido cervello che, a fasi alterne, si spegneva nei minuti in cui la rabbia lo sovraccaricava. Avrebbe dovuto prendere i soldi. Non era giusto, erano troppo pochi ma sì, a quel punto tanto valeva prenderli. Comunque avrebbe potuto trattare, accordarsi in qualche modo, invece che cedere per l’ennesima volta a un’ira incontrollabile. Il fatto era che non lo faceva apposta. Glelo diceva sua nonna: «Sicciss! Tieni lu diavulu’n corp!» Era vero. Quel diavolo lo aveva sempre fatto diverso. E il diavolo, in un corpo vigoroso, adatto a scontri e battaglie, ci stava da Dio. Lo temevano tutti, al Piastra e il potere conferitogli dal fatto di essere un violento mezzo scemo lo sedusse, incatenandolo per sempre al suo destino e legandolo a filo triplo alla feccia che lo circondava. La Colombo era deserta. Guidava una macchina rubata e aveva lo stomaco pieno di Campari e Gin. Uno schifo di situazione. Pensò che era da una vita che rubava e non gli era mai successo di riportare indietro qualcosa. Nemmeno da bambino quando fregava penne, pennarelli e gomme da cancellare. Ne aveva fatti piangere sempre tanti, il Piastra, e se davvero quella era una serataccia non valeva la pena rovinarla ancora, mandando a puttane pure l’autostima. All’incrocio giusto tirò dritto.Verso il mare. Guidò per una quarantina di minuti a velocità sostenuta. Accendeva una sigaretta dietro l’altra, continuando a girare in maniera epilettica la manopola dello stereo. Arrivato a Ostia proseguì per il lungomare. Anche lì deserto. Incrociò un paio di superstiti e venne assalito dalla tentazione di prendersela con loro. Era uno di quei momenti. Quelli dove aveva voglia di spaccare tutto e sfogarsi. Non importava se era giusto o no. Importante era il dopo. Quella calma che sopraggiungeva. Quella lieve sensazione di acqua e sole tiepido in aprile. Verso l’Idroscalo, l’immensa distesa di stabilimenti cessò e oltre il finestrino il Piastra poté finalmente osservare il mare. Luci riflesse sulla superficie che man mano diventavano sempre meno. Il cemento e i

marciapiedi lasciavano il posto a uno scenario più selvatico. L’auto rallentò nei pressi di uno spiazzo erboso e si infilò all’interno di un lungo prato acquitrinoso. Poi si fermò. Il Piastra cominciò a cercare sotto al sedile e dopo un bel po’ riuscì ad afferrare la bottiglia del gin. Scese. Si sedette sul cofano e iniziò a tracannare avidamente. Poi, mentre continuava a bere, prese a girare intorno alla macchina. Il Sorca Mario non aveva torto. Era uno scassone. Nuovo o no, sarebbe rimasto uno scassone, ovunque e per chiunque. L’aveva rubata senza pensarci due volte. Soltanto perché sembrava in ottime condizioni. Non si era fermato a riflettere. Come al solito. Che senso c’era nel fare sempre le stesse cazzate, rendersi conto di averle fatte e infine continuare a farle? Che c’è di bello nella vita quando ti rendi conto che non c’è niente da fare e quelle cazzate fanno parte di te? Il Piastra non lo sapeva. Sapeva di aver vissuto e di aver preso la vita come gli era arrivata. Ci era nato così e quegli scatti da matto, quell’incapacità di ragionare mentre faceva le cose, lo avevano portato a essere quello che era. Un individuo pericoloso per qualcuno. Un bisonte degno di rispetto per altri. Al di là di quel che pensava la gente, il Piastra capiva perfettamente cos’era. Un uomo solo che nessuna donna avrebbe mai avvicinato gratis. Una persona senza amici, che non sapeva mai di chi fidarsi. Il Piastra non tirò giù l’ultimo sorso dalla bottiglia. Si tolse i calzini, li annodò insieme. Lì bagnò col gin rimasto. Aprì lo sportellino del serbatoio, svitò il tappo e pian piano infilò nel buco la lunga stringa di stoffa blu… Accese la miccia e si incamminò verso il mare, senza neanche godersi lo spettacolo.

Luca Piccolino vive e lavora a Roma come imbianchino e manutentore nella sua ditta personale. Nel 2002 fonda la rivista letteraria Rizoma. Nel 2007 ha pubblicato l’opera di poesia X Tre (Arduino Sacco Editore). Il libro è finalista al Premio Camaiore 2008 (Sezione Camaiore proposta). Dall’inverno 2008 fa parte del collettivo Scrittori Precari.

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Grazia Greuter - Il Trittico di Jack


Il suono e il silenzio Come il gatto che viveva con lui, Stefano amava il silenzio. Lo amava a tal punto da essersi chiesto più di una volta se quel suo modo di vivere non fosse una maniera di prepararsi alla morte. E se ci pensava, in effetti si rendeva conto che, proprio come il suo gatto, detestava tutto quel che urtava con forza i suoi sensi: i profumi troppo forti delle donne, le luci sfavillanti, i rumori, i gusti speziati o piccanti, gli abiti aderenti, le cinture strette, i tessuti ruvidi o grezzi. “Quando morirò avrò tutta la pace che voglio,” pensava spesso. La mattina, al risveglio, oziosamente s’interrogava sulla sua morte, su cosa sarebbe successo dopo, su cosa avrebbe provato – gli era inconcepibile. Per questo gli piaceva innamorarsi: non pensava alla morte in quei rari periodi d’amore che la vita gli concedeva. Poi era arrivata Lina e aveva trasformato la sua vita in VERDE

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qualcosa di diverso. Lina, terrorizzata dal silenzio, dal buio, dalla prospettiva della morte Stefano, che caparbiamente manteneva le sue abitudini, teneva le finestre con le persiane abbassate ma quando Lina, nel primo pomeriggio, tornava dall’ufficio, era come se la casa cambiasse carattere. Prima era tutto spento, silenzioso: il gatto, sulla coperta a quadri fatta a maglia dalla nonna con gli avanzi della lana, dormiva tranquillo e ogni tanto faceva dei piccoli versi; il suo respiro era regolare ma leggermente ansimante e Stefano si era chiesto a volte se come lui non soffrisse d’asma. Vivere da solo – per modo di dire, poiché con Tigre non era mai solo: il loro legame, in quegli anni, era stretto, molto stretto, quasi simbiotico – gli aveva restituito equilibrio, lo aveva reso di nuovo forte, senza bisogno di stampelle. Di tanto in tanto i ricordi riaffioravano, il dolore tornava, ma non si soffermava mai a lungo, e

Grazia Greuter - Sweet Children O' Mine

Alda Teodorani


si faceva sentire sempre in maniera sopita. Tutto era immobile, dormiente come il gatto. Ma quando Lina rientrava e si preparava da mangiare, da quel momento in poi era come se il suono assumesse una sua precisa sostanza, una sostanza estesa; il fuoco nel camino riprendeva vita, l’acqua ricominciava a bollire, le stoviglie facevano udire il loro

suono cristallino o argentino nel lavello, mentre Lina con le sue esili mani nervose aggiustava la disposizione dei piatti del pranzo di Stefano ancora da lavare: era come se s’innalzasse una sinfonia di vita. La vita che avrebbe potuto sconfiggere senza alcuna difficoltà qualsiasi emissario della morte si fosse trovato a passare di lÏ.


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Inverno ’93, nella vecchia Stazione Termini. Sono lì con almeno altri tre amici assortiti tra compagni delle superiori e vicini di casa, perché andiamo spessissimo a Roma sostanzialmente per mangiare al McDonald’s e fare rifornimento di dischi che a Formia non si trovano (parlo di classici hard rock e punk sputtanatissimi, AC/DC, Sex Pistols, Kiss, Motörhead, Whitesnake, Black Sabbath, per quanto possa sembrare incredibile). Di tutto l’assortimento della Ricordi di Via del Corso io – che ancora non capisco un cazzo di musica – ho comprato proprio Destroyer dei Kiss con quella sua orribile copertina viola e chissà quale altro trascurabile e muffoso cavallo di battaglia anni ’70. Forse è un’epoca felice, del resto ho quindici anni, e anche se la giornata non è stata un granché alla fine già il fatto di attraversare le vetrine invernali chiacchierando sotto un cielo buio e incamminarsi verso il treno con un pacchetto della Ricordi nello zaino vale di per sé il gioco e relativa candela. Senonché sono le dieci di sera e mentre gli altri, in attesa sul binario, cazzeggiano tra loro alla solita, liceale maniera, io prendo e mi allontano un attimo per comprare un pacchetto di sigarette, e il caso vuole che trovi un tizio di colore che le vende di contrabbando all’inizio di un sottopassaggio. Ha vari pacchetti con sé, dunque scelgo Marlboro o Diana rosse non ricordo, ma mentre gli sto dando il cambio in lire lui mi fa cenno di seguirlo in fondo al tunnel buttando indietro la testa e comincia ad allontanarsi prima a passo veloce e poi di corsa. Io penso che mi stia fregando i soldi o chissà che e lo seguo, ma dopo manco due metri arrivano correndo due poliziotti in divisa, uno giovane e uno sulla quarantina che mi sbatte il braccio teso sul collo, facendomi malissimo, e mi scaraventa di forza contro un muro, mentre l’altro mette a terra il nero e lo preme a faccia in giù sul pavimento sporco come un sacco di patate. A questo punto si danno il cambio e mentre quello che ha servito me ammanetta quel poveraccio, il giovane (che possa morire in questo preciso momento su un’autobomba, se per disgrazia ancora campa) estrae la pistola, toglie la sicura e me la incastra sotto le costole, urlando stai fermo stai fermo non ti muovere con tutto il fiato che ha in gola. Il bello è che questo figlio di puttana non ha che vent’anni e trema come una foglia, e tra le tante cose che gli tremano, oltre a voce mascella gambe occhi spiritati, c’è la mano con cui tiene il cannone che mi sta puntando contro perché secondo lui io sono un pericoloso sospetto, nonostante il fatto che sia evidentemente un moccioso e che il suo collega di quarant’anni mi abbia praticamente picchiato senza lasciarmi dire una sola parola. L’equivoco viene chiarito dopo due minuti in cui rimango inchiodato contro il muro a guardare la paura riflessa negli occhi vitrei di un sottosviluppato che non solo non fa rispettare l’ordine ma non appartiene tout court alla mia razza, pensando ecco qua, adesso gli parte un colpo e sono finito. Quando finalmente mi lasciano aprire bocca e apprendono che il nero vende sigarette e che io sono un semplice avventore occasionale e minorenne, mi dicono di andarmene e nel frattempo continuano a rompere i coglioni a lui che oltretutto è pure extracomunitario. Io me ne vado insultandoli e guardando le loro facce inerti che si beccano tutti i miei improperi senza assumere una qualsivoglia espressione: gli avranno detto che non giustificare il loro operato è di prassi. Fine della bella giornata. Tornato al binario, gli altri mi chiedono dove sono andato a cacciarmi. Tiro fuori una scusa. Mi vergogno abbastanza di quello che mi è successo e non voglio farne parola con nessuno, come penso accada a chiunque abbia subito una violenza gratuita e visto suo malgrado il lato disumano del mondo. Da allora odio la polizia, l’autorità, lo stato. Da allora ho subito più di duecento fermi tra polizia, carabinieri e guardia di finanza con cani antidroga (per inciso, mai venduto o portato in giro droga in vita mia). Da allora, pur essendo tuttora incensurato e non avendo mai rubato neanche una caramella, continuo ad essere perseguitato come non accade a tante altre persone e sono quasi certo che il mio nome sia segnalato in qualche incartamento della Digos. Da allora ho il sospetto che loro sappiano chi sono io come io so chi sono loro. VERDE 12 12


BLITZRECENZION S. H. Palmer

BLITZRECENZION

Mittageisen

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«Ciao mamma, anche qui fa caldo. Mi mancate anche voi, certo, ma sai... è meglio così. Forse riusciremo a vederci a Natale. Qui va tutto bene, ci sono anche le ciliegie.» (shanduziopalmer.tumblr.com)

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storie nere

STORIE NERE Luca Carelli

L’assassino non lascia mai il luogo del delitto se la città è la sua scena. Le vittime scompaiono sotto le strade, dentro campi abbandonati, in buche profonde e sanguinanti. Non verranno mai più ritrovate. Sono storie tutte uguali che cominciano sempre allo stesso modo: un uomo impugna un’arma e colpisce dove fa più male; se viene bene si pente e poi sparisce, sotto una pioggia fitta e oscura o nella cortina fumosa di un pomeriggio infernale. Se viene male l’arma uccide, il braccio si pente ma si fa scoprire in fretta per una collutazione non prevista o una sigaretta di troppo. Nel peggiore dei casi la storia viene molto male: l’arma colpisce e la mente è glaciale, non si pente né si fa braccare. È così che iniziano le serie, le eccezioni che eccitano i giornali perché sono rare e spettacolari. Ma cosa succede quando le serie non si possono contare o non è possibile montarle in sequenza perché la pellicola è bruciata o è stata tagliata male?

dovuto dare forma e ordine alla materia oscura e nera dello stragismo di destra. Il camerata Paolo Stroppiana – novello demiurgo neomussoliniano – prometteva di squarciare il velo di Maya per consentire al mondo in attesa di conoscere tutta la verità; ma l’ex tippino torinese andò a sbattere contro il simulacro di una bellezza inesistente e tormentata e prese male la mira, sfregiando il volto di Maya. Tanto rumore per nulla. Fu da un errore che prese inizio la stagione della lunga serie. La sera del 2 aprile 1996 la logopedista torinese Marina Di Modica è ospite a cena della dottoressa Bianca Tovo. Lì conosce Paolo Stroppiana e la sua compagna Beatrice Della Croce Di Dojola. L’uomo, impiegato alla Bolaffi, è un appassionato di filatelia, e durante la cena scopre che Marina conserva in casa vecchi francobolli emessi dal Regime negli anni Trenta. Interessato all’acquisto, le propone una valutazione gratuita: i due fissano un appuntamento di lì a qualche giorno. Tre settimane più tardi, il 26 aprile 1996, Marina prenota una visita gineologica presso l’ospedale Sant’Anna di Rivoli, dove lavora la dottoressa Tovo. È un particolare tipo di esame glicemico che si effettua dal quarto mese di gravidanza in poi. Quasi dieci anni dopo, durante il processo di primo grado, la dottoressa che riceve la telefonata sostiene di aver creduto all’epoca che la chiamata non provenisse dal centralino, ma da un numero interno dell’ospedale; la dottoressa inoltre rivela che, come contatto telefonico, Marina avrebbe lasciato il recapito di una casa disabitata di proprietà dei genitori, pur abitando da diversi anni da sola in un appartamento in affitto. Non c’è traccia nell’agenda di Marina di quell’appuntamento. I parenti e gli amici più stretti non erano a conoscenza di un’eventuale gravidanza della donna, che non si sottoporrà mai alla visita.

Quando mi arrestarono ero sereno e solo un po’ seccato: sapevo che in carcere non mi sarebbe accaduto nulla, perché ormai era troppo tardi e a nessuno interessava più la nostra storia. «Non ti accorgi che non conti un cazzo», mi disse una volta un compagno romano, «perché se tu volessi parlare non avresti niente da dire». Avrei voluto veleggiare, come lui, lungo quella sottile linea tenebrosa di segreti rubati e ambiguità ostentate che non si dipanavano mai in un’unica direzione ma si riavvolgevano senza fine in un nastro elegante come seta e più spietato di un filo spinato. Eppure mi sfuggiva la contingenza, fermo com’ero nella contemplazione di un passato che non era più il mio. E il futuro non mi apparteneva, perché scorreva in una corrente diversa, quella che altri riuscirono a guadare in virtù di un vissuto che era ancora presente e grazie a un proscenio maieutico e indulgente da dove incassare tutto in cambio di niente. In cambio di una infiltrazione, un pentimento e una sequenza di testimonianze esplosive che avrebbero VERDE

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Poco meno di un anno prima, il 30 agosto 1995,

Grazia Greuter - Variazioni sul tema

Camilla


Letizia Teglia raggiunge in un autobus lo stesso ospedale. La donna, 24 anni, centralinista ipovedente del Tribunale minorile di Torino, capelli mossi e scuri, ha già abortito una volta e sospetta di essere nuovamente incinta. La visita ginecologica, fissata alle 15:30, termina verosimilmente attorno alle 18. Mezz’ora dopo la donna viene vista per l’ultima volta da un suo vicino di casa davanti alla fermata di un autobus in Corso Unione Sovietica, dall’altra parte della città. Come ha fatto Letizia ad arrivare fino a lì? Qualcuno l’ha accompagnata in macchina? Quasi dieci anni dopo la signora Teglia è nella stanza della figlia, che da allora è rimasta com’era. Ogni mattina passa la lucidatrice, rifà il letto, apre la finestra e spolvera la libreria. Poi apre l’armadio e accarezza i vestiti della figlia, che sanno di polvere e naftalina. La plastica protettiva crepita sotto il tocco pesante delle sue mani, un cappotto si sfila e finisce su una pila di maglioni piegati. Quella pila nasconde una scatola di scarpe piena di nastri incisi che erano sfuggite alle precedenti perquisizioni della polizia. Sono le audiocassette che Letizia utilizzava per le sue lezioni di inglese, ma una ha una etichetta che attira l’attenzione della mamma: è indirizzata a Vittorio Emanuele Sia, l’ex-ragazzo della figlia. Due ore di registrazione in cui Letizia confesserebbe di essere stata violentata da due uomini, nella stessa stanza in cui la mamma si trova in quel momento. Il corpo di Letizia non è mai stato ritrovato. La mamma è convinta che sia stata rapita. L’8 maggio 1996 Marina Di Modica esce di casa alle 17:30 con una scatola piena di vecchi francobolli e sparisce nel nulla. Uscita da lavoro alle 16:30, è stata dal parrucchiere, ha acquistato dei collant nuovi e forse un rossetto color pastello. La sua Y10 verrà ritrovata tre giorni dopo davanti all’ospedale Mauriziano, a pochi passi dal Sant’Anna. Dall’agenda della donna i familiari scoprono che la donna alle 18 doveva incontrare Paolo Stroppiana, il filatelico che avrebbe voluto acquistare i francobolli della donna. Ma Stroppiana nega: Marina ha disdetto

all’ultimo momento l’appuntamento. Per cinque anni non verranno condotte indagini. È solo un’altra delle tante donne che spariscono ogni anno in città, pensa la polizia. Poi nel 2001 a un poliziotto o a un magistrato o a un giornalista televisivo torna in mente quell’appunto sull’agenda e pensa: ma chi cazzo è Paolo Stroppiana? Quel poliziotto o quel magistrato o quel giornalista televisivo scopre che: Stroppiana ha militato nel gruppo di Terza Posizione; è stato arrestato a 17 anni per aver sprangato un compagno; nel 1982, infiltrato dalla polizia nel gruppo dei Nar, contribuisce all’arresto di numerosi camerati; ha collaborato con la magistratura nei processi per la strage di Bologna, testimoniando contro Paolo Signorelli (ideatore), Licio Gelli (mandante) e la banda Fioravanti (esecutori). Nel 1985 è stato rilasciato. (CONTINUA) Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir. Nel 1986 viene condannato a 25 anni di carcere per banda armata e terrorismo. Non si è mai dissociato né pentito. È stato scarcerato nell’agosto del 2011. Per VERDE scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di cronaca nera.



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