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RAFFAELE GUIDA PATRIZIA PESARESI ALDA TEODORANI S.H. PALMER SIMONE LUCCIOLA LUCA CARELLI EMERA

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protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 13 anno II giugno 2013


dove siamo editoriale

L’amore, lo dice anche il poeta, ci dividerà di nuovo e dopo i festeggiamenti per il nostro primo anniversario – e l’ottima accoglienza ricevuta dal numero speciale di maggio (l’edizione cartacea in split con lo zero è in arrivo mentre scriviamo) – ricominciamo con una sola certezza: non v’è miglior carnefice della persona che amiamo. A suggerircelo è la prosa elegante e raffinata di Patrizia Pesaresi, per la prima volta su VERDE, in un filo rosso che percorre e attraversa i versi scalmanati di Raffale Guida, le bordate crudeli e insuperabili di Alda Teodorani, le instancabili Semiautomatica e Blitzrecenzion, una Storia Nera che ha i colori della violenza in famiglia, e si abbevera alla fonte dei pennelli crepuscolari di Emera, ad illustrare un numero che, ne siamo certi, amerete fino all’odio; o viceversa. LEGGETE, CONDIVIDETE, SCARICATE, DIFFONDETE!

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P.2 Edit p.3 TI ODIO POESIA #11: Abbandono (Raffaele Guida) p.4 L’amante del Boia (Patrizia Pesaresi) p.6 La cacciatrice (Alda Teodorani) p.8 Madre terra (Emera) p.10 Settantacinquepercento (S. H. Palmer) p.12 SEMIAUTOMATICA #6: (Simone Lucciola) p.13 BLITZRECENZION #17: Lei vive in un tempo tutto suo (S.H. Palmer) p.14 STORIE NERE #7: Emanuela (Luca Carelli)

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PARTNERS IN CRIME

Aujourd’hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas.

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VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista verderivista.blogspot.it

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Raffaele Guida Le ombre affilate affondano nei muri s’allungano e s’assottigliano sulle rose pallide si scuotono impaurite al bisbiglio di una candela al gelo del nord che scavalca le montagne. Ho lasciato una zattera sulla riva del mare l’ho lasciata infreddolirsi sotto un leggero alito di promesse. I giorni desiderati e le parole future sono vele lontane nella barba grigia dell’orizzonte. Ho venduto la mia casa e ho comprato una vela immagini confuse e ricordi immaginati ho cercato un vecchio marinaio che mi svelasse antichi trucchi e ho trovato le teorie di un uomo improvvisato. Perché noi siamo niente e tutto ciò ci è nuovo gettati nei colori esplosi all’improvviso in iridi bambine che si dilatano dolcemente in un atroce sogno vibrante di carne. Raffaele Guida è nato a San Felice a Cancello (CE) il 3/1/1987. Nel 2006 si reca a Roma dove si iscrive all’indirizzo di Lettere, Musica e Spettacolo dell’università La Sapienza. Dopo appena un anno compila la domanda di rinuncia agli studi. Rimane altri tre anni a Roma esercitando i mestieri più disparati, per poi ritornare a Marina di Minturno, causa imprevisti famigliari. L’esperienza dei tre anni romani caratterizza la sua raccolta poetica Vietato cantare all’ora di pranzo della Perrone Editore Lab (2010). Coinvolto nell’annata 2011 come attore nel laboratorio teatrale della Compagnia Costellazione di Roberta Costantini, ha esordito nello spettacolo Gente di Plastica, un rifacimento dei testi di Camus (La peste), Chayefsky (Quinto potere) e Ionescu (La peste), vincitore del Festival Internazionale Teatrale di Skopjie e del Festival Internazionale Teatrale di Fès. Dopo poche date ha abbandonato la compagnia per problemi economici e personali. VERDE

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TI ODIO POESIA

Abbandono


L’amante del boia Un tempo, quando gli dèi erano giovani e incorrotti, io camminavo. Al tramonto, per lo più, lungo la collina coperta d’erba che strapiombava sul mare e separava i due golfi creando un gomito. Il tempio sulla cima era dorico, di pietra rosa, dedicato alla dea delle felici navigazioni, Afrodite Euplea. che le sacerdotesse onoravano sorvegliando ogni notte il grande fuoco sacro, monito per i marinai della prossimità della costa e garante di sicuri approdi nel porto sottostante. Ero una di loro. Una notte, durante la veglia, Euplea – che era anche la dea dell’amore fecondo – condusse al mio cospetto Diomede. Diomede non era un marinaio, o un contadino, e neppure uno di quei commercianti siracusani che si diceva discendessero dai fondatori della Città. Evitato da tutti, e da tutti temuto, circondato come i suoi predecessori da leggende oscure e terribili, viveva in una casupola di pietra poco lontano dal tempio, e dal tempio dipendeva per il suo sostentamento. Diomede era il boia della Città. Ce ne erano stati altri due come lui, da quando servivo la dea, ma il primo era già decrepito quand’ero una novizia e se ne era andato in fretta, e l’altro era morto durante una pestilenza portata da Oriente proprio da un condannato a morte. Diomede era diverso. Era giovane, gentile, e mi raccontava storie avventurose con voce scura e precisa, alla luce del fuoco che sorvegliavo, notte dopo notte. Ci amammo una sola volta, al cospetto del mare, una notte senza luna di mezza estate. Il fuoco arse fino all’alba e quando lo spensi Diomede era già tornato nella sua VERDE

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casa di sassi e terra. Al tempo del solstizio d’inverno fu finalmente evidente alle mie compagne la natura della colpa che avevo commesso. Avrei potuto dichiarare d’essere stata visitata nottetempo da un dio travestito da viandante, ma non lo feci: Diomede non era più venuto a conversare con me, nelle notti di veglia, e la sua indifferenza mi aveva spezzato il cuore. Dopo la nascita del bambino, in primavera, fui messa a morte. Era una questione riservata, un misfatto che doveva restare segreto, perciò tutto si consumò in fretta, all’alba, dopo lo spengimento del fuoco sacro, nel cortile interno del tempio, e fu proprio Diomede ad officiare la mia esecuzione: dopo lo strangolamento, il mio corpo sarebbe stato smembrato, e i pezzi dispersi in mare. Le mie compagne assistettero alla prima parte del rito, poi si ritirarono. Diomede chiuse il mio corpo in un sacco e lo trascinò verso la sua casa. Ero sicuramente morta, in quel momento, ma non ancora del tutto separata dal mio corpo quando Diomede, con un solo colpo d’ascia, tagliò via i miei piedi all’altezza delle caviglie. Poi lavò il mio corpo, fasciò con bende profumate i moncherini delle mie gambe e mi vegliò per tutto il giorno, mormorando preghiere incomprensibili in una lingua dimenticata. Al tramonto scese lungo la collina fino ad una caletta nascosta, caricò quello che era stato il mio corpo di donna sulla sua barca e remò a lungo, finché il fuoco sacro in cima alla collina fu solo il rosseggiare di una monetina di rame, reso sgranato dalla foschia notturna. Diomede mi calò in acqua, con delicatezza direi, salutando il mio veloce affondare con una specie di salmodia.

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Patrizia Pesaresi


Dicono che essere amati da chi è designato dagli dèi a dare la morte agli uomini renda immortali. So per certo che non è così: anch’io un giorno finirò, come tutto ciò che ha avuto un inizio sulla terra. Ma è il concetto di durata (o piuttosto quello di forma?) ad essere cambiato per me, dopo la notte di mezza estate in cui il boia della Città mi amò, e quell’alba gelida di primavera in cui Diomede, il mio primo ed unico amante, fu convocato per darmi la morte. Sono ancora qui. In una forma diversa. A volte osserbo dal pelo dell’acqua le grandi

navi entrare sicure nel porto, sollevando onde tracotanti che schiaffeggiano la mia coda di pesce e sommergono le piccole spiagge di sassi alla base della collina. Il tempio non esiste più, sostituito da una cattedrale di pietra simile ad una conchiglia, in cui è venerata la Donna che protegge i pescatori dalle tempeste e con una storia che potrebbe essere stata la mia. A volte nuoto intorno, cercando la caletta dalla quale Diomede partì per liberare il mio corpo in mare, ma non ne esiste più traccia, divorata secolo dopo secolo dalle correnti di questo mare così basso e tanto pericoloso. A volte, quando la nebbia cala come un sipario di velluto grigio sulla linea della costa, mi trascino su uno scoglio e canto. Canto il tempo degli dèi giovani e incorrotti, quando camminavo lungo una collina coperta d’erba che strapiombava sul mare e separava i due golfi creando un gomito. Patrizia Pesaresi affianca alla sua professione di psicanalista l’attività di scrittrice. Vincitrice del Premio Gran Giallo al Mystfest di Cattolica con il racconto Uno per tutti, edito ne Il Giallo Mondadori n. 1919, ha pubblicato vari racconti per le case editrici Mondadori, Piemme, Sonzogno, Garzanti e altre e i romanzi Ancor non vi fu donna (Libreria dell’Orso, 2004) e Dopo la prima morte (Dario Flaccovio Editore, 2005) finalista del premio Scerbanenco nel 2005. Il suo racconto Il momento tra il cane e il lupo apparso su Seven (Piemme, 2012) è scaricabile su Amazon.

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La cacciatrice Alda Teodorani La sera, a casa, mi annoiavo a morte. Me ne stavo seduta per ore davanti al computer, guardando gli insetti che volavano dentro casa. Quando ce n’erano. Altrimenti mi limitavo a fissare il nulla. Lo schermo acceso mi infastidiva con il suo ronzio, ma non ci potevo fare niente. Non volevo spegnerlo, no. Spegnerlo significava accorgermi che ero stata sconfitta. Oh, ne avrei di cose da scrivere. Ma tutto quello che posso fare, al di fuori del lavoro giornalistico, non ha la minima chance di essere accettato da un editore e i manoscritti si accumulano sulla libreria, stampata dopo stampata. Mi piange il cuore pensando a tutta la carta che sto sprecando. Chissà quanti alberi ho ammazzato... mah. Non è la crisi dello scrittore, la mia. Non ho mai conosciuto crisi a meno che non fossero causate da lavori su commissione, dove io non sapevo, non sapevo proprio, cosa dire. E specie quando non c’erano delitti su cui indagare, era davvero duro. «Alda, scrivi trenta righe sulla discarica di Formello1» «Alda, due cartelle sullo sciopero della metro» «Alda, ti va di scrivere un articolo sui cessi otturati alla stazione?» «AAAAAA, allora! Ti ho chiamato per ore e avevi sempre il cellulare spento. Ora vorrei sapere checcazzo te lo sei comprata a fare, il cellulare, me lo vuoi dire?» «Senti, che ne diresti di un’inchiesta sugli ospedali? Cominciamo dal Pertini che sta vicino a casa tua, mia sorella è stata ricoverata a cardiologia e mi ha detto che le davano spazzatura da mangiare e la trattavano come un cane...» blablabla. «Checcevo’, Alda?». Già, che ci vuole? Ci vuole spirito giornalistico, fiamme in corpo e un mare di esibizionismo. Ci vuole la voglia di arrivare a tutti i costi. Eppure da quando è cominciata questa impressionante ondata di delitti improvvisamente il mondo è cambiato. E io ho iniziato a leggere e scrivere il giornale con più interesse. Perché vorrei capire, veramente, cosa muove gli assassini. Me lo sono sempre chiesta. Non ho mai trovato una risposta. Hai voglia a scrivere di fatti del genere. Tu dirai: «Be’, che ti impressioni? Ne hai scritte di efferatezze, da far rizzare i capelli in testa e adesso ti scandalizzi...» e nessuno capisce la cosa più importante, cioè la differenza tra la verità e la fantasia, tra un libro e la cronaca o tra un film e il telegiornale. Posso leggere Ellis, Ellroy, Koontz o Harris senza VERDE

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nessun problema. Ma se sul giornale di quartiere leggo di un cane che è stato travolto da un’auto dopo essere stato scaricato da una famiglia che voleva andare in vacanza mi si serra lo stomaco. Come mi si serra adesso che leggo la cronaca dei delitti che si stanno verificando a ripetizione in Italia, oppure delle selvagge uccisioni del serial killer che a Roma è stato chiamato “lo squartatore”. Solo le ultime tra tante, e lui che colpisce per la sua crudeltà. Non ha niente a che fare con Jack. A mio parere è molto più feroce. Rapisce le donne. Le lascia senza mangiare per un paio di settimane e poi le uccide, appropriandosi di parti del loro corpo. Lembi di pelle. Il raccapriccio mi impedisce perfino di ragionare. «Alda, ti va di scriverci due cartelle?» urla il caposervizio dalla sua scrivania come se mi avesse letto nel pensiero. Chino la testa facendo finta di non aver sentito. Il chiasso della redazione mi sta ammazzando, adesso che ci sono tutti. Mi giro con la sedia verso il muro, e furtivamente recupero gli auricolari del lettore audio che porto sempre in tasca, poi li metto e accendo David Bowie. Parte Starman, la mia preferita, e chiudo gli occhi. Penso alla morte di quelle donne. Avevano tutte più o meno la mia età. Cosa si prova a essere nelle mani di un serial killer? Cosa si sente quando il coltello ti affonda nelle carni? Quanto dolore, e dopo quanto tempo arriva l’incoscienza e poi la morte a liberarti? Non ho mai scritto seguendo le vittime. Non me la sento, preferisco l’assassino che è un vincente e ti dà più possibilità di muoverti. Alla faccia di certi editori o curatori di collane buonisti, quelli che quando faceva “nuovo” o “tendenza” commissionavano i romanzi più efferati mentre invece adesso, che servirebbe un po’ di cattiveria, si sentono tanto governativi da voler abolire la violenza perfino dentro i romanzi. Ma la mia scrittura non me la lascerò imbavagliare. Questi signori, i biechi servi della moda letteraria, non hanno capito che qui si tratta solo di fantasia. Io non ho mai ammazzato nessuno. Non ho mai versato sangue. La mano che bruscamente e senza alcun riguardo mi serra la spalla non mi fa sobbalzare: me lo aspettavo. E’ il capo che mi guarda da sotto le lenti azzurrate e accenna un finto sorriso (finto perché so da fonte certa che ha la dentiera). prima che parli lui gli dico: «Scendo in campo, dài.Ti


trovo lo squartatore e ti faccio il paginone centrale con la sua intervista». Nel frattempo penso che sto diventando pazza. «No, non mi interessa». Be’, il pazzo è lui, in effetti. E continua: «Lo squartatore è scaduto». (SCADUTO, cazzo, ha detto proprio così!!!) Adesso ce n’è un altro, di serial killer. Se le mangia, le sue vittime. Tutte donne». Poi mi dà un paio di coordinate e mi collego a internet. Mi infiltro come un hacker, crackando siti su siti di informazioni riservate della polizia, dell’interpol e perfino degli intelligence di altri stati. Scopro tutti i particolari, ci sono anche le foto delle vittime. Con i pezzi di carne strappati dai morsi dell’assassino. Mi viene in mente Il grande nulla di Ellroy, con i morsi di animale sui cadaveri. Ma questi sono morsi umani. Guardo le ferite irregolari, aperte come pozzi scuri (è quel colore quasi nero che prende il sangue raggrumato) sulla carne di cera delle vittime. Osservo i tendini che penzolano come fili di marionette dalle braccia e dalle gambe, in corrispondenza dei morsi, e lentamente mi sale il voltastomaco. Questa volta voglio prenderlo io. Non ci sono mai riuscita, a catturare un assassino, dopo anni di giornalismo investigativo. Ripenso allo squartatore. Chissà perché questi due casi mi sembrano tanto simili. La mente vaga, scappa via per dimenticare gli orrori che ho appena visto. Uno squartatore e un cannibale. E tutti i delitti dei mesi scorsi. Che cosa li accomuna? Mi sembra di trovarmi come tra le pagine di un libro che, se lo leggi superficialmente, non riesci a capire. Decido in un attimo dove andare. Volerò a Quantico. Ho bisogno di affogare la depressione, di volare ancora una volta, cambiare aria e vedere una vecchia amica. Patricia mi aiuterà a radunare gli indizi che mi guideranno sulle tracce del cannibale. Patricia è la campionessa delle scrittrici-investigatrici, un mestiere sempre più diffuso e meglio retribuito. È stata lei con sua nipote a ideare un sistema di catalogazione su scala mondiale dei serial killer e del loro modus operandi. Sa dove si trovano, sa tutto sui loro movimenti. Invidio Patricia. Non fino in fondo, perché sezionare cadaveri e farlo di mestiere secondo me è la cosa peggiore che possa capitare. Ma può raccontare tutte le nefandezze che vuole e gliele pubblicano senza problemi, in America perché lì le cose funzionano diversamente che da noi e in Italia perché qui certe cose son permesse solo agli scrittori americani. Beata lei. Comunque sono partita. La trovo con quella sua aria stralunata, intenta a ripulire ossa facendole bollire in un pentolone, come una vera strega. Mi saluta con una stretta di mano, noto che non si è tolta i guanti di lattice e resto un attimo perplessa a fissarmi il palmo, domandandomi quale contaminazione mi ha appiccicato addosso. Le chiedo dove si trova il bagno, corro a lavarmi poi torno da lei, che è già

davanti al computer. Ma quando le racconto del cannibale, lei fa un cenno di assenso. Lo conosce, ne seguiva la storia da un po’ e sa dove si trova. È americano, o aveva cominciato a uccidere in America. Per questo ora era stato localizzato a Firenze, da dove aveva telefonato a un’ispettrice dell’FBI con la quale si divertiva a giocare a rimpiattino. Con l’FBI alle calcagna, oltretutto. Patricia mi ha dato tutte le informazioni che mi servivano, informazioni riservate, che nessun altro conosce perché ci è arrivata da poco, dopo aver analizzato certe tracce che il cannibale ha lasciato su una lettera.Tracce di profumo, di un sapone che si fabbrica solo a Firenze in una certa erboristeria dietro Santa Maria Novella. Prendo il primo aereo e torno in Italia. Firenze mi accoglie sempre con un’aria diversa da quella di tutte le altre città che conosco. È un’aria raffinata, salottiera. Per strada si afferra tra le dita, si sente sul viso, nell’aria, la patina che hanno i libri antichi, le vecchie pergamene, gli edifici importanti. Firenze è una città indefinibile, con vibrazioni a sé stanti, che ti fa venire le vertigini con i suoi marmi e i suoi grigi splendenti come mai lo è stato nessun altro grigio. Non mi meraviglio che questo raffinato serial killer americano abbia scelto Firenze come rifugio. Non trascuro di entrare nell’erboristeria Santa Maria Novella e di comprare una crema per il corpo prima di dirigermi verso il centro. Verso Palazzo Capponi e la sua biblioteca. Il palazzo è deserto come se si fosse preparato ad essere descritto nella scena di un romanzo. I pochi studiosi che lo visitano hanno la testa china, fissano i pavimenti e camminano lentamente. Entro nella sala della biblioteca e vedo un uomo dietro il bancone. Sta girando cautamente, con la mano guantata di cotone, la pagina di un vecchio codex. Quando mi avvicino a lui sento un brivido accarezzarmi la schiena. E vedendolo in faccia capisco finalmente cosa mi ha portato lì, perché ho scelto di indagare nelle pieghe del male, e ancora quali sono le mie reali doti. L’ho sentito dentro la testa. Ma non è opera sua, lui ne è perfettamente inconsapevole. Sono io. Son riuscita a leggere l’inferno dentro i suoi occhi, a individuare il fascino di quel fuoco che vi si nasconde. Quell’intellettuale che sa leggere così perfettamente il latino volgare è uno dei più pericolosi serial killer della storia dell’umanità, perché è dotato di una raffinata intelligenza. L’unico, me ne rendo conto ora mentre gli faccio un sorriso del tutto naturale lui mi risponde con un cenno della testa, non ha capito niente di quello che mi sta succedendo che non sarà mai catturato, di sicuro. È lui. È Hannibal Lecter. Hannibal “the Cannibal”. Ora riesco perfettamente a inquadrare quel che sta succedendo. I titoli sui giornali, tutta questa inspiegabile ondata di violenza, che si propaga come un’onda d’urto. Sono Loro. Stanno uscendo dai libri. Dai romanzi horror, dai thriller. Gli assassini più difficili da catturare... già... perché non esistono.... VERDE

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Emera, pittrice e disegnatrice, è diplomata in Scrittura Creativa e in Fumetto Realistico Italiano ed Estero presso l’Accademia delle Arti Figurative e Digitali Scuola Internazionale di Comics di Roma. Ha collaborato tra gli altri con: Edizioni Tunué, Cut-Up Edizioni, Arcipelago Edizioni, Arnoldo Mondadori Editore. http://marautilio.wix.com/artemera http://www.artemera.com/


Settantacinquepercento S.H. Palmer Ogni cosa è fatta di pezzi. Parti connesse, incastrate o solo accostate tra loro. Percentuali di sé e del resto del mondo che si intersecano per creare qualcosa di unico (ma troppo spesso, anche solo banali copie). Una riflessione numerica, non da me, probabilmente. Flettersi e riflettere: la cura di ogni male a metà tra yoga e ripensamenti. Il settantacinque percento di tutto quello che abbiamo, non ci appartiene sul serio. Chiedere il settantacinque percento a qualcuno significa privarlo del suo contatto con il mondo. La considerazione – puramente speculativa – mi porterebbe a chiedermi di più sul significato del numero. Si dice in giro che settantacinque non porti così male. Lo spirito è confuso e ha bisogno di analizzare tutto. Ogni pezzo, ogni frammento. Scomponendo il numero, l’essenza della coscienza rivela la strada attraverso la porta che dal profondo del sé conduce a un bagaglio di occultismo e interiorità, perdendo di vista il tutto, la foresta a beneficio di ogni singolo albero. Scompongo settantacinque in sette e cinque ottenendo due rune. Sommo sette e cinque per ottenere dodici e infine ancora uno e due che insieme fanno tre. L’arcano maggiore numero tre è l’imperatrice. Gebo e Raido sono i simboli runici della maîtresse. L’azione immediata, la decisione il viaggio... con auspicio buono, per la padrona del suo destino. Da neonati siamo fatti per il 75% di acqua, che si asciuga con il tempo crescendo in una terra – la mia – bruciata dal sole. Mongoloid she was a mongloid. Le percentuali mi sfiniscono, di domenica pomeriggio. I dati sono troppi, quante sono le guardie svizzere. Una volta uno stronzetto per fare colpo mi ha detto «Lo sai che son 75 VERDE

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le guardie svizzere», ma io non c’ho mica creduto subito. Però c’ho pensato. Non è più un ciclico ricominciare. Si ricomincia sempre da un punto diverso. La credenza e la noncuranza hanno fatto pace, sotto una cascata di risate e di aria fresca. 75% è quello che probabilmente spetta. Ciò che spetta di diritto e che ci viene sottratto dalla realtà quotidiana. Tutti vorremmo essere belli, ricchi e intelligenti mentre quando si possiede una sola di queste qualità spesso le altre due si tirano indietro, cavallerescamente. Senza contare lo stupro intellettuale, la schiavitù. La kabbalah ci insegna a guardare oltre; una volta in tasca mi sono tenuta per mesi un taglierino. Aspettavo con ansia la situazione in cui il velo di Maya fosse stato così spesso da oscurarmi i sensi e la coscienza. Quando avvenne non ero pronta: mi sono lasciata trasportare dalle apparenze, sebbene sotto punti di vista e dentro canoni diversi. Dopo un paio d’anni però, frugandomi dentro con gli occhi semichiusi, ho ritrovato la forza di prendere la lama e tagliarmi in due. Sforzi e cambiamenti, decisioni e patteggiamenti. Il numero corrisponde anche all’essenza. Di tre. Tutti erano in lacrime e si battevano il petto dal dolore, ma egli disse: «Non piangete! La ragazza non è morta, sta soltanto dormendo!» Queste parole sollevarono amara derisione, perché tutti sapevano che era morta. Allora Gesù la prese per la mano e le disse: «Alzati ragazza!» In quel momento la vita torno in lei, e subito ella si alzo. «Datele qualcosa da mangiare!» (Luca 8, 51-55) Non cadere più, come Dante durante l’infinita passeggiata tra le cantiche. E il


Ricordo qualcosa circa il fluire dell’essere e del tempo: non sei più la stessa. Non sei più uguale e te stesso. Come Paganini, senza ripetersi mai. Ogni sette anni (e ci forzo cinque mesi per condizione) ci si trova di fronte al sé biologicamente rigenerato. Ogni cellula ciclicamente è diversa. Il quest’ottica il concetto di cambiamento assume altri toni, più astrattamente pratici. È quindi assolutamente nella norma che da bambina amassi qualcosa che ora odio: al di fuori dall’esperienza. Volevo disegnarmi addosso tutto il mazzo di Thoth. A parte un paio di concetti però non ce l’ho fatta ancora. È l’archetipo che comanda il mondo, ancora non ce la fanno a capirlo tutti. Guardare il fuoco, per quanto possa dividere le categorie di razionali e non, é inevitabile. Ovunque e con chiunque.

Una lista infinita di nulla e di sempre che attanagliano i nostri sapori odori ed esistenze, al 75%. La percentuale perfetta per ricredersi e cominciare di nuovo a cercare tra i pezzi – i tasselli mancanti al ricongiungimento con sé, primordiale. Nata a Brentwood il 3 febbraio 1971,S.H.Palmer è la più giovane e significativa esponente dei DISTRUZIONISTI, oscura avanguardia romana di fine anni Ottanta, nata in seno agli ambienti di estrema destra della capitale, dove Palmer si era trasferita nel 1985. Poetessa, narratrice, autrice di numerosi testi teatrali e di romanzi dai temi controversi (su tutti APOCALYPTICAL MARSHMELLOW CRUNCHERS), dopo aver a lungo lottato contro una insidiosa depressione post-disintossicazione, muore a San Severo il 27 dicembre del 2004, a soli 33 anni.

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fervore – della storia e dei frammenti – non può ferire, non riesce a scalfire.


#6 Vecchio, la Nazionale schiacciata tra le labbra, al caffè pomeridiano. Vecchio, la pelle si spacca come un krapfen, le braccia due carrube. Vecchio, cartografia di un’Italia assente, trent’anni di telegiornale, totocalcio e noia. Vecchio, indifferente di fronte alla vita e alla morte, che lascia andare deserti i funerali dei suoi vecchi amici. Vecchio che meglio a lui che a me. Povero vecchio. A che è servito spingersi tanto in là, se tu che c’eri sempre non ricordi mai? Tra il tuo mezzo silenzio e un silenzio completo solo l’attesa delle mosche.

Quasi ogni anno qualcuno mi telefona o mi ferma per strada o in un locale qualsiasi per dirmi che un mio amico è morto. Un altro, penso io, e invece di provare la commozione che il codice non scritto dei sentimenti umani prevederebbe provo soltanto indignazione e rabbia, indignazione per l’ennesima storia senza happy ending nonostante tutti gli sforzi fatti dal protagonista nell’arco di anni e anni di insensato calvario, rabbia perché il protagonista era un amico mio, un altro della mia squadra che viene espulso dal campo a beneficio della fetta di umanità avversaria. Tutti i miei amici morti erano legalmente abilitati a guidare una macchina, un motorino o altri mezzi di locomozione, tutti rispondevano a uno o più numeri di telefono, tutti sembravano forti e assolutamente certi delle proprie forze. Qualcuno di loro era due VERDE 12 12

volte me. Tutti avrebbero potuto battermi a braccio di ferro in due minuti o meno. Tutti avevano quotidianamente la vitalità di un motore a scoppio, si svegliavano lavandosi la faccia e vestendosi sommariamente e andando a scuola, al lavoro o semplicemente in mezzo alla strada a inaugurare qualcosa da poco come il sole del mattino, una partita a pallone o un barattolo schiacciato di chiacchiere tabacchere al bar. Spesso ripetevano le stesse cose mille volte con un gesticolare chiassoso, rumore di nacchere per nascondere e notificare la disperazione: perché così è la nostra razza, dichiara e nega contemporaneamente. Avrei potuto aiutarli? No, non credo. E loro avrebbero potuto aiutare me? Tutti si erano isolati. Per un’ora, per un mese, per un lustro, per un anno, per due settimane, per dieci minuti. Tutti sono morti soli, orfani di quel distratto amico che io sono e di tutti gli altri amici altrettanto umanamente distratti. Però abbiamo riso e vissuto insieme, ci siamo sganasciati di risate seduti sul ciglio di un marciapiede, ci siamo incazzati con la stessa persona o cosa, abbiamo avuto qualcosa da festeggiare insieme, un viaggio d’andata o un viaggio di ritorno da condividere. Ma è stato ieri, è stato il mese scorso, è stato l’altra settimana, quella volta che, tanti anni fa. I sentimenti non valgono quattro soldi, quando pensi a come cala il sipario. E non ci sono parole per dire alla terra e al vento e al mare che gli hai voluto bene e che li vorresti ricomposti in quella sagoma perduta e irreplicabile.


BLITZRECENZION S. H. Palmer

BLITZRECENZION

Lei vive in un tempo tutto suo

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«Ho cominciato a uscire di casa in pigiama per comprare le caramelle e il caffè, a scrivere tutto il giorno e uscire con chi voglio. Dire quello che voglio e mettermi quanti anelli al naso mi pare, e andare a scuola per imparare a chiedere d’accendere.» «... Hai cominciato?» «... Ricominciato?»

(shanduziopalmer.tumblr.com)

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storie nere

STORIE NERE Luca Carelli

Nella maggior parte dei casi di sparizione, rapimenti e violenze su minori, i colpevoli sono da ricercare all’interno delle famiglie. (Anonimo Amerikano)

Ho conosciuto Emanuela trent’anni fa, sui muri della città che in un attimo, dal tramonto all’alba, si riempirono di quella foto sgranata che scrutava tutti dall’alto, in una fissità ipnotizzante e misteriosa che rivista oggi fa venire i brividi. In ogni quartiere, in tutte le strade, nei vicoli ciechi e nei cortili privati, Emanuela sorrideva come in uno di quei manifesti inquietanti che seguono lo sguardo in ogni direzione: una stereo-illusione pop – che Andy Warhol non avrebbe saputo immaginare meglio – che incendiava la città già avvolta dalle fiamme di un’estate spietata – che oggi qualcuno, senza cognizione, è disposto a rimpiangere.

sono state ritrovate ammontano a 65858. Le regioni più colpite sono il Lazio e la Lombardia seguita dalla Campania e dalla Sicilia.1

Abitavo da un anno all’Esquilino, dove avevo trovato un albergo sincero nella mancanza di equilibrio che mi portavo dietro. Il mio primo romanzo era appena stato pubblicato e già mi vantavo di non essere letto da nessuno, ma in quei giorni stavo lavorando al suo seguito, il libro che nella mia testa avrebbe dovuto sopire il conflitto e il disorientamento tra quello che desideravo e ciò che temevo di essere diventato. Quell’estate, foriera di nulla come sempre, sarebbe passata nell’impressione, non già un ricordo, di un tempo inutile e appiccicoso, se non si fosse prestata, suo malgrado, a grancassa emozionale di quello che, a prima vista, appariva come l’ennesimo e banale caso di sparizione di una minorenne a Roma. Fu il tempo a dirci che ci sbagliavamo.

la nostra volontà di azzeramento e di castigo, da noi confusa banalmente per libertà di identificarci con le vittime e di contrastare quelli che chiamavamo i carnefici di secondo grado, i parenti degli scomparsi che elevavano, ad arbitrio generale, sentimenti ingestibili e irrazionali.

La cronaca nera assillava sopra ogni cosa il mio immaginario e quello dei miei sodali: ad ossessionarci, di sparizioni estranee e lontane, era una domanda ripetuta all’infinito che tradiva, allo stesso tempo, tensione e invidia: come si fa, ci chiedevamo in pieno transert messianico, a svanire completamente dalla realtà, senza pietà per le ancelle della memoria che restano a vegliare? Erano casi, inutile puntualizzarlo adesso, di costrizione surrettizia che nulla avevano a che fare con

Emanuela

Dal 1974 ad oggi risultano scomparse 25229 persone di cui 10000 minori e 15000 stranieri. Le persone che inizialmente erano scomparse e poi

Ovunque ci girassimo, Emanuela era presente: in televisione, nelle chiacchiere da bar, sul Messaggero, sul Tempo e nelle gloriose pagine di cronaca nera dell’Unità – l’unico motivo per cui leggevamo ancora il giornale del Partito – nelle sale d’aspetto di medici augusti di periferia e nei saloni sporchi e oscuri dei barbieri della Prenestina. Le sue fotografie cominciarono a circolare dappertutto, in un caleidoscopio confuso e seducente che non fissava alcun punto e non serviva a nessuno scopo, se non a oscurare ed esaltare l’inspiegabile icona scelta per i 3000 – si seppe più tardi – manifesti ufficiali affissi nel giro di due giorni 1 Persone

VERDE

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Scomparse (da Wikipedia)


il nostro culto del dolore, nel momento in cui fu chiaro – agli albori, quando la storia divenne una tavola imbandita che s’offriva a chiunque – che non si trattava delle sorti di Emanuela – lei che non baccanò mai al suo banchetto e non salì mai sulla giostra in cui vollero trasformarla – ma di un giocattolo oscuro che le ancelle della memoria cominciarono a reclamare per ravvivare le loro giornate, abbaiando senza lacrime al vento di verità e giustizia, non curanti dell’adagio popolare che vuole dentro la famiglia, prima che altrove, le colpe da perseguire per deframmentare con sucesso urla, dolore, sofferenza e castigo di una sparizione. Emanuela Orlandi, quindicenne cittadina vaticana, viene avvistata per l’ultima volta il 22 giugno 1983 su Corso Rinascimento, a Roma: da allora la sua sparizione rappresenta uno dei casi più intricati, misteriosi e inspiegabili di depistaggi incrociati d’altissimo livello, inaugurati da Karol Wojtyla il 3 luglio 1983. Da subito si è tentato di far passare il caso per un rapimento politico internazionale contro il papato o un ricatto a scopo estorsivo ai danni dello Ior (ad opera dei Lupi Grigi, dei marautilio.wix.com/artemera www.artemera.com servizi segreti bulgari, sovietici, tedeschi, iraniani, di Marcinkus o della Banda della Magliana), fino in città, ovunque la colla facesse presa sotto alla recente teoria delle messe nere pedofile a la carta; da subito, e inevitabilmente, quei San Pietro. L’unica pista mai seriamente battuta è cartelloni blu polizia ci apparvero come quella che vede Emanuela vittima di un tentativo santini beffardi e sinistri che mai avrebbero di violenza carnale dagli esiti tragici (la sera permesso un riconoscimento, ma tuttalpiù stessa della sparizione). l’introiettamento di un’espressione luminosa La soluzione più semplice, verosimile e statisticamente ricorrente, soprattutto in ambito persa nel tempo e nello spazio. familiare e/o vicinale. Quando la vicenda divenne una narrazione, quando cioè si fece ordito intricato e Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli insondabile, quando gli intrecci e i colpi di anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per scena cominciarono ad affastellarsi senza un fortuito errore di stampa cromatico vengono alcuna logica e nessun rigore, quando la accolti dalla critica come noir. sparizione divenne il caso maestro per la Nel 1986 viene condannato a 25 anni di carcere televisione di Stato, orchestrato con sapienza, per banda armata e terrorismo. Non si è mai ritmo e mestiere da sceneggiatori esperti e dissociato né pentito. misteriosi – nell’ombra, ma non invisibili – È stato scarcerato nell’agosto del 2011. Per cominciammo a seguire e studiare la storia VERDE scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di Emanuela come un manuale di scrittura di cronaca nera. performativa, dato in pasto a un pubblico ingenuo e famelico che fino ad allora non Il caso Orlandi o come evitare a tutti i costi di far aveva mai vis(su)to niente del genere. Lo sapere la verità (Pino Nicotri) show trasformò ben presto l’informazione in intrattenimento, con le sue tecniche rigorose Tutte le notizie sul caso Orlandi da Blitz quotidiano e le sue strategie costantemente aggiornate, Ultimi sviluppi sul caso Orlandi: intervista a Pino mai deludenti anche nelle ripetizioni più Nicotri noiose; seguirlo in ogni sua sfumatura fu un patto che potemmo stringere, senza venirne Vogliamo la verità su Emanuela Orlandi - Il gruppo mai meno, con noi stessi, la nostra empatia e di Facebook VERDE

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Aujourd’hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas.


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