Eat Parade

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Š 2011 Antonio Vallardi Editore


Antonio Vallardi Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol www.vallardi.it Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it www.infinitestorie.it © Copyright © 2011 Antonio Vallardi Editore, Milano Redazione di: Eduardo Grottanelli de’ Santi, Mirabilianetwork, Milano Impaginazione: www.giroidea.it, Milano Grafica di copertina: Moskito design

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A mio fratello Lucio

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Sommario Prefazione Introduzione

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Prima parte SAPER FARE Basilicata • UN «PIENO» DI RISORSE (COAST TO COAST) I Fagioli di Sarconi Le ricette di Terenzio Bove - Fagioli tabacchini all’Aglianico del Vulture - Tagliarelle e fagioli con u ziff

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Campania • L’ORO GIALLO DI SORRENTO Produttori di paesaggio (e di limoni ovali) Le ricette di Mariano Vinaccia - Insalata dei giardinieri sorrentini - Limoni di Sorrento con lo zucchero

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Campania • LA MOZZARELLA PERFETTA Una stalla a cinque stelle Le ricette di Antonio Palmieri - Sformato di broccoli e ricotta di bufala - Dolcetti di ricotta

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Emilia-Romagna • CULATELLO, IL RE DEI SALUMI I salumi della Bassa parmense Le ricette di Massimo Spigaroli - Tagliolini al doppio burro e culatello - Bavarese di pere Williams

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Liguria • PARADISO DI ACCIUGHE E GAMBERI Il pane del mare, sotto sale Le ricette di Maria Rosa Costa e Luciano De Angelis - Acciughe ripiene in tegame - Gamberi della cambusa

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Sommario

Molise • DAL TRATTURO AL TARTUFO, UNA STORIA ANTICA Bianchi o neri, tra magia e genetica Le ricette di Ermes Colecchia - Piramidi ripiene in salsa di tartufo bianco - Filone di maiale in crosta tartufata

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Puglia • GLI ULIVI MILLENARI DELLA PUGLIA Alla scoperta dell’Oro dei Giganti Le ricette di Rosalba Balestrazzi e Angela Giummetta - Tortino di zucchine - Orecchiette in crudaiola

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Sardegna • L’INVENZIONE DELLA PECORA I post-salumi di Sardegna Le ricette di Elia Saba - Spezzato di Agnello Sardo con piselli - Bocconcini di pecora al Cannonau

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Trentino-Alto Adige • LA DINASTIA DEGLI ALOIS Il profeta della viticoltura biodinamica Le ricette di Alois Lageder - Tagliatelle con carne di manzo affumicata - Topfenblatteln con crauti

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Umbria • LEGUMI D’AUTORE 69 Il ritorno al futuro della roveja Le ricette di Lanfranco Bartocci 72 - Zuppa di roveja - Zuppa di roveja con aggiunta di quadrucci all’uovo - Zuppa di roveja guarnita da una quenelle di baccalà mantecato Valle d’Aosta • LE OLIMPIADI DEI GOLOSI Vent’anni di assaggi Le ricette di Gerardo Beneyton - A bucun - Bagnade de pomate di nonna Rosa

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Veneto • UN NANO PORTENTOSO Acquerello di sapori Le ricette di Rosetta Melotti - Risotto agli asparagi e ragù di tinca - Risotto con carciofi, Melottina e origano fresco

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Sommario

Seconda parte FAR SAPERE Abruzzo • ADOTTA UNA PECORA… E UN PASTORE Una legge contro i «furbetti del pecorino» Le ricette di Nunzio Marcelli - Sorcetti alla maritata - Bistecca del casaro Calabria • IL PEPERONCINO HA LA SUA ACCADEMIA Una regione molto piccante Le ricette di Enzo Monaco - Pasta tricolore - Morsello Campania • LA RINASCITA DEL MAIALE NERO CASERTANO I maiali che univano l’Italia disunita Le ricette di Luciano Di Meo e Berardino Lombardo - Minestra ammaritata con pezzentella - Stufato (o soffritto) di maiale nero alla contadina

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Emilia-Romagna • ESPOSIZIONI DA ASSAGGIARE I magnifici quattro Le ricette dell’Archivio dei Musei del cibo di Parma - Filetti di sogliola al Prosciutto di Parma Dop - Pere alla crema di Parmigiano Reggiano

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Emilia-Romagna • 58 ANNI MA NON LI DIMOSTRA L’Accademia italiana della cucina Le ricette di Giovanni e Annalena Ballarini - Bomba (o timballo) di riso col piccione - Friggione o «Vecchia»

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Emilia-Romagna • UN’ENCICLOPEDIA VIVENTE DEI SAPORI ROMAGNOLI Tre pilastri della terra Le ricette della memoria di Graziano Pozzetto - Pancotto - Manfrigoli in brodo - Patate sotto la cenere con formaggio raveggiolo

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Sommario

Lombardia • L’IGIENISTA GOURMET Dal chilometro zero all’impatto zero Le ricette di Gaetano Maria e Tommaso Fara - Risotto al verde dei porri - Pâté con i suoi ciccioli

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Marche • CENACOLO ARTISTICO DI FAMIGLIA La galleria delle bottiglie d’autore Le ricette di Danilo Bei - Cannelloncini ai gamberi con salsa di zucchine - Rana pescatrice al vino rosso

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Piemonte • ALLORA, CHE SI DICE? La frontiera del gastronomadismo Le ricette di Chef Kumalè - Straccetti di pollo con peperoncino chipotle - Tequila Sun-Rose

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Sicilia • UN FORMAGGIO CHE VIENE DA LONTANO Lo scaluni e i suoi fratelli Le ricette di Ciccio Sultano - Tortino di Ragusano Dop con cipolla di Tropea - Filetto di tonno in crosta di Ragusano Dop Toscana • IL PIACERE DI SCENDERE IN CANTINA Turisti per vino Le ricette di Donatella Cinelli Colombini - Pappardelle con sugo di peposo e ceci - Ciancifricola

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Terza parte RINASCERE IN CUCINA Abruzzo • IL TERREMOTO DEL GUSTO Una banca molto liquida Le ricette di Marzia Buzzanca - Spaghetti al profumo di gelsomino, ricotta e guanciale - Agnello e carciofi

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Sommario

Campania • SINDACALISTI IN CUCINA Lo street food di Spaccanapoli Le ricette di Antonio Tubelli - Riso alla salsa di provola e scaglie di patate fritte - Trancetti di baccalà e peperoni Emilia-Romagna, Toscana • SAN PATRIGNANO E MONDO X: I SALVAVITA Braccia restituite all’agricoltura Le ricette di Walter Tripodi e Fabio Rossi - Rigatoni alle mammole di carciofi - Polpette d’agnello con zucchine ripiene Emilia-Romagna • IL GOLOSO ORDINE DELLE CESARINE Indovina chi viene a cena Le ricette di Egeria Di Nallo - L’arrosto «Murri» - Involtini di melanzane e pesce spada Friuli-Venezia Giulia • COME RISORGERE DOPO UN SISMA La triade carnica Le ricette di Sara Zanier - Cjarsòns - Ravioli di patate povolarotte al formaggio di Enemonzo Lazio • RECITARE DAVANTI AI FORNELLI L’Andypasto Le ricette di Andy Luotto - Risotto ai gamberi e asparagi - Paccheri ripieni di pane, cardoncelli e salsiccia Lazio • DA «SUPERQUARK» ALLA GRANDE CUCINA CINESE Sapori e consistenze di un’anatra speciale Le ricette di Giacomo Rech e di sua moglie Yan - Anatra laccata alla pechinese (versione semplificata) - Ravioli al vapore (Xiao Long Bao )

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Sommario

Lazio • QUESTO FRANTOIO NON È UNA FICTION Il progetto Pane e olio Le ricette di Giampaolo Sodano e Fabrizio Mangoni - Caponata con ambrugliarìa di pesce (monumentale e monoporzione) - Spaghetti a la napolitaine Lombardia • CUCINA E CARCERE, INNOCENTI EVASIONI Una vita nuova in cucina Le ricette di Silvia Polleri - Carpaccio di carciofi e fonduta con porri e cozze - Corona di riso al pesto con moscardini e patate

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Sicilia • ANTIMAFIA DOC E DOP Il gusto della legalità Le ricette di Francesco Galante e Tommaso Fara - Zuppa di cicerchie - Pasta con il cavolfiore alla crema di gambo

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Toscana • IL PRINCIPE DEL VINO In vigna fra gli Etruschi Le ricette di Duccio e Clotilde Corsini - Carpaccio di filetto di capriolo - Passata di ceci con crema di porri

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Trentino-Alto Adige • LA VALLE INCANTATA Piccoli (grandi) frutti Le ricette di Riccardo Bosco - Guanciale di manzo alle more - Budino estivo

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Ringraziamenti Indice delle ricette Indirizzi utili Indice dei nomi Indice dei luoghi

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Prefazione

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olo da poco ci siamo accorti di vivere in una… miniera a cielo aperto, conosciuta e valorizzata solo in parte, dalla quale si estrae una materia prima preziosissima: la qualità della vita, fatta di luoghi belli e di prodotti artigianali e agroalimentari unici al mondo. La particolarità dei nostri cibi e dei nostri vini dipende dal contesto nel quale nascono, ma anche e soprattutto – come dimostra il libro di Bruno Gambacorta – dalle qualità dei nostri artigiani del gusto: fantasia, creatività, professionalità e amore per il territorio. Comprendere l’importanza di questo tessuto economico e culturale è assolutamente cruciale: se è vero che nei momenti di crisi gli italiani danno il meglio di sé, dobbiamo tutti capire che questi aspetti non sono elementi folkloristici né specchietti per le allodole a beneficio dei turisti, ma fattori dell’economia reale che tengono in piedi intere regioni. Alcune istituzioni lo hanno compreso e stanno favorendo la transizione da una industrializzazione, in parte illusoria, alle realtà vive e gratificanti del turismo, dell’agroalimentare e dell’enogastronomia. Per fortuna alcuni enti locali sembrano avere ormai acquisito questo discorso, e da tempo hanno predisposto gli strumenti per aiutare la ricerca della qualità e la sua comunicazione più efficace. Quello che non sembra acquisito, invece, è lo sforzo che tutto il Sistema Italia deve fare anche in sede europea, dove troppo spesso le ragioni della qualità cedono il passo a un’idea del cibo come pura commodity, come materia prima da valutare in termini di quantità e non di qualità. Tante, troppe decisioni hanno causato sconcerto e danni ai nostri produttori: dal latte e derivati al cioccolato, dai salumi al vino, le nostre eccellenze sono sempre © 2011 Antonio11Vallardi Editore


Prefazione

«sotto schiaffo», quasi debbano giustificarsi del livello qualitativo raggiunto, mentre la maggioranza degli altri Stati tira la volata a prodotti mediocri, fatti con ingredienti modesti e lavorati senza un briciolo di creatività. E non parliamo del «falso made in Italy», dell’italian sounding, dei Parmesan e dei finti Amaroni e Brunelli prodotti qua e là nel mondo, sui quali il Tg2 ha condotto numerose campagne di denuncia, purtroppo con risultati ancora parziali. Come testata del servizio pubblico, di più non possiamo fare: la difesa concreta di Culatello e Fontina, Maiorchino e salumi di pecora sardi, non spetta a noi. Ma far capire ogni settimana, a milioni di spettatori, quanto questi prodotti siano importanti, quanto debbano farci sentire orgogliosi di essere italiani, questo sì spetta a noi, e pensiamo in tutta onestà di farlo con serietà e passione. E anche meglio di altri, se proprio dobbiamo dirla tutta… Dal 1998, grazie a «Eat Parade» l’enogastronomia è entrata nei telegiornali come tema serio e non come semplice divagazione: ce lo riconoscono gli appassionati, che girano l’Italia per conoscere un vitigno raro o per incontrare un casaro nella sua malga, ma soprattutto i protagonisti, quei produttori di eccellenze che sono la parte sana del paese e lavorano per il benessere di tutti. Marcello Masi vicedirettore del Tg2 e curatore della rubrica «Eat Parade»

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Introduzione

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ono un appassionato di gialli, a casa custodisco con venerazione l’opera omnia in originale di Michael Connelly (grande giornalista divenuto eccellente giallista e scrittore preciso e coinvolgente) e immaginavo che, se mai avessi vinto la pigrizia e mi fossi messo a scrivere, sarebbe stato per seguire le sue orme… Il caso ha voluto diversamente: quando il gruppo editoriale Gems mi ha contattato per chiedere se fossi interessato a scrivere qualcosa di… commestibile, non ho saputo sottrarmi, pur convinto che in Italia escano fin troppi volumi, e che librai e lettori non sappiano più come gestire questa proposta multiforme e sempre più invitante, ma di fatto impossibile da seguire. Io stesso, pur essendo un lettore onnivoro e infaticabile, riesco a leggere l’un per cento di quello che mi interesserebbe, e sogno di poter, da pensionato, finalmente colmare qualche lacuna. Ecco perché, nello scrivere la mia prima opera, ho pensato soprattutto al lettore: titolo facile da ricordare, stile diretto da giornalista televisivo, storie brevi e dense come quelle che da circa 15 anni vanno in onda dentro «Eat Parade», la rubrica di enogastronomia e alimentazione del Tg2. Una versione scritta del primo «tg del cibo e del vino», seguito ogni settimana da due milioni e mezzo di spettatori. Un racconto più ricco di particolari, più attento a quegli aspetti che in un tg purtroppo non trovano spazio. Le storie sono 35, una per ciascuna regione e qualcuna in più per poche altre. Le ricette il doppio, quindi una settantina, tutte d’autore, alcune semplicissime e folgoranti, altre più complesse e sontuose. Il cibo e (in misura minore) il vino sono ciò che lega fra loro i detenuti di Bollate e i coltivatori di limoni di Sorrento, il principe collezionista d’arte e gli ex-tossicodipendenti di San Patrignano e di Mondo X, il docente universitario esperto di antichi formaggi siciliani e il direttore di reti televisive © 2011 Antonio13Vallardi Editore


Introduzione

diventato olivicoltore e frantoiano. Il cibo è ciò che ha salvato intere valli del Trentino dallo spopolamento, e qui troverete non le storie già più conosciute delle vallate che forniscono mele o spumante a tutt’Italia, ma quella meno nota di chi procura a pasticcieri e casalinghe i preziosi frutti di bosco… Cibo e vino, sempre loro, sono ciò che ragazzi appassionati e coraggiosi, con l’aiuto di Don Ciotti e di Libera, in molte regioni del sud stanno ricavando dalle terre sequestrate alla mafia. Ma anche in una regione meridionale come la Basilicata – che negli ultimi decenni invece della delinquenza ha avuto in sorte il petrolio – fagioli e peperoni, pecorini e Aglianico sono diventati un fattore di identità, un baluardo contro l’invadenza dell’oro nero. Un’altra storia che a me piace molto è quella della «mozzarella perfetta»: prodotto straordinario, sul quale si potrebbero scrivere interi volumi. Con Roberto Saviano condivido (fra l’altro) il primo punto del decalogo sulle «cose per cui vale la pena di vivere»: la mozzarella ci sta proprio bene, anche se lui cita espressamente quella aversana mentre io, che ho lasciato Caserta all’età di cinque anni, non ho preferenze geografiche. Amo tutte quelle fatte a regola d’arte, e in compagnia del «signor Vannulo» tento di spiegarvi come e perché… E che dire di Graziano Pozzetto? Uno dei personaggi più belli della sezione Far sapere. Dopo una vita lavorativa spesa a fare tutt’altro, questo omaccione romagnolo comincia a sfornare un libro dopo l’altro, fino a creare una specie di enciclopedia, colta e popolare al tempo stesso, della cucina romagnola. Non aggiungo altro, se non un’ulteriore piccola segnalazione per due storie corali: la salvezza degli ulivi millenari della Puglia e la resistenza civile dei ristoratori aquilani alla morte del loro centro storico dovrebbero essere di esempio per tutti, soprattutto per chi si lamenta e non fa niente per migliorare le cose. Buona lettura e buoni assaggi: in appendice, tutte le indicazioni per conoscere protagonisti, luoghi e prodotti! Bruno Gambacorta

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Saper fare In giro per l’Italia alla scoperta di personaggi e prodotti fuori dal comune, salvati dall’estinzione o reinventati all’insegna della qualità

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Un «pieno» di risorse (coast to coast)

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ei fagioli di Sarconi avevo sentito parlare a Tolmezzo, in Carnia, dove a margine di un convegno avevo avuto la possibilità di assaggiare un prodotto, incredibilmente buono e originale, che la delegazione lucana aveva portato dalla sua regione: la crema dolce fatta con quei fagioli così particolari, da gustare da sola oppure con le mandorle o con le nocciole. Una meraviglia, a colazione! Così, fui ben felice di andare a vedere, qualche mese dopo, la grande Sagra del fagiolo che, ormai da una trentina d’anni, vivacizza l’Alta Val d’Agri nei giorni che seguono Ferragosto. Nei vicoletti del centro storico, pieni di punti di assaggio o di vere tavolate per mangiare seduti, sciamano per due giorni, ogni anno, migliaia e migliaia di turisti, alla scoperta di questo legume. Il fagiolo è già stato valorizzato ampiamente in Toscana oppure a Lamon nel Bellunese, ma forse non abbastanza in Basilicata. Eppure si tratta di un prodotto al quale l’Unione Europea ha riconosciuto, già da una decina d’anni, l’Indicazione geografica protetta (Igp): fu il primo della Basilicata a tagliare il traguardo, assieme al peperone di Senise Igp, e davanti a formaggi come il Caciocavallo Silano Dop, il Canestrato Igp della vicina Moliterno, il Pecorino di Filiano anch’esso Dop. Poi sono arrivati l’olio della Dop Vulture, il Pane di Matera Igp, la Farina di Carosella del Pollino Dop, la Melanzana rossa e i Fagioli bianchi Dop (entrambi di Rotonda). Senza citare altri prodotti ricercatissimi, come il prosciutto di Marsicovetere o i grandi vini del Vulture, che traggono forza e nobiltà dal vitigno Aglianico. Insomma, sono veramente tante le eccellenze, soprattutto in rapporto a un territorio piccolo e a una popolazione di appena 600.000 abitanti. © 2011 Antonio17Vallardi Editore


Saper fare

In questa regione, che ha anche il grande vantaggio di essere stata parzialmente risparmiata dall’assalto più feroce della criminalità organizzata, la fortuna (o sfortuna) è stata invece quella di avere un sottosuolo ricchissimo di petrolio e gas naturale. Già da anni, la Basilicata è la maggiore fornitrice di greggio (80% della produzione italiana, pari al 6% del consumo nazionale), grazie ai due grandi giacimenti della Val d’Agri e dell’Alta Valle del Sauro. E non è tutto, perché tra pochi anni si prevede un ulteriore aumento del 40% della produzione. Si pensi che, in Basilicata, nel 2010 sono arrivate royalties petrolifere per ben sessantacinque milioni di euro, in larga parte investiti nel principale luogo di estrazione, il comprensorio di Viggiano in provincia di Potenza, a poca distanza da Sarconi. Ma l’estrazione del petrolio – dicono i critici – ha creato qualche centinaio di posti di lavoro e, in compenso, inquinamento, danni al paesaggio, traffico eccessivo (i treni sono pressoché assenti e le strade variano dall’ottimo al pessimo, senza criterio apparente). E, soprattutto, ha determinato la perdita di alternative, di speranza in un futuro diverso da quello offerto dall’oro nero. Perché, se i soldi arrivano così copiosamente senza far nulla – se non chiudere un occhio sugli aspetti negativi appena elencati – ogni altra attività rischia di apparire come una sorta di passatempo, un modo per fingere di far qualcosa. Il turismo enogastronomico, l’agricoltura di qualità, la protezione e l’utilizzo sostenibile di zone bellissime come il Parco Nazionale del Pollino, sembrano quasi un hobby, un giochino per i pochi che restano, mentre ogni anno emigrano quasi cinquemila lucani, soprattutto giovani e laureati. Il paradosso è che proprio la principale zona di estrazione, la Val d’Agri, è diventata parte di un nuovo Parco Nazionale che da essa prende il nome. Altro paradosso: gran parte delle produzioni di qualità, come quelle che abbiamo elencato prima, nascono a poca distanza dalla zona petrolifera. Ecco che il soprannome di Lucania «Saudita», affibbiato alla regione con un misto di aspettative e di disillusione, mette impietosa18Vallardi Editore © 2011 Antonio


Un «pieno» di risorse (coast to coast)

mente il dito nella piaga: nella maggior parte dei paesi produttori di petrolio, infatti, l’estrazione avviene in una terra di nessuno, mentre qui i pozzi dovrebbero convivere con fagioli, pecorini e centri storici. Le royalties hanno un duplice effetto: da un lato mettono a rischio l’agricoltura per l’inquinamento e ne evidenziano la scarsa rilevanza economica; dall’altro, consentono quelle attività di promozione del territorio e dei prodotti che, in altre regioni, sono rese invece sempre più difficili dai tagli della spesa pubblica. La scelta, però, sembra ormai irreversibile: con un miliardo di barili di petrolio nel sottosuolo, la Basilicata è il maggiore bacino petrolifero dell’Europa continentale. Da questa grande tasca piena di euro, finora sono stati estratti solo gli spiccioli… e meno ancora è finito nelle tasche dei cittadini.

I Fagioli di Sarconi Cuociono velocemente e sono particolarmente digeribili: due dati importantissimi, visto che gli italiani hanno sempre meno voglia di stare in cucina e che i legumi, nonostante gli inviti dei nutrizionisti, sono amati soprattutto dai vegetariani. Ma la cosa principale è che sono buonissimi, grazie a una mescolanza di fattori, dai metodi di coltivazione al clima, dai terreni alle acque. Me ne sono accorto durante la grande Sagra del fagiolo di Sarconi, alla quale ho partecipato qualche anno fa. Ero stato invitato da Terenzio Bove, a lungo presidente del Consorzio di tutela e grande propugnatore dell’agricoltura biologica in Basilicata. Una tradizione che, da almeno tre secoli, lega il piccolo comune di Sarconi (1500 abitanti circa) a questo legume, che nei secoli ha acquisito nomi unici e inconfondibili con i quali adesso si differenziano i quasi venti ecotipi coltivati in zona. Si va da nomi sibillini ma intuibili come tabacchino (per il color tabacco), riso (simile ai chicchi del cereale, può essere bianco o giallo), San Michele (una frazione della vicina Grumento Nova), ad altri che richiedono la traduzione, come panzaredda, muna-

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Saper fare

chedda, marruchedda, ciuoto, tuvagliedda e nasieddu (può essere di vari colori). Marruchedda, per esempio, è il nome dialettale della lumaca, a cui questo seme assomiglia. Nasieddu fa riferimento invece a una macchia colorata che sembra un piccolo naso. Dunque, un prodotto abbastanza conosciuto e ben commercializzato. Ma le cifre sembrano confermare la scarsa rilevanza economica di queste produzioni, a fronte delle royalties petrolifere. Una quarantina i produttori e venticinque gli ettari coltivati, per una produzione annuale di altrettante tonnellate, che fruttano tre o quattrocentomila euro: una cifra che si distribuisce negli undici comuni inseriti nel disciplinare della Igp. Insomma, una manifestazione di identità e di orgoglio, un ammirevole modo di mantenere vivi sapori e tradizioni, più che un affare in grado di cambiare la vita di questi agricoltori. Ma, per fortuna, qualcuno ci crede e continua a coltivare, altri non rinunciano a divulgare il prodotto, e qualche bravo chef come Federico Valicenti pensa a come presentarlo con gli altri grandi pilastri della cucina lucana. Poi arriva un assist insperato come quello di Rocco Papaleo (il suo divertente film Basilicata coast to coast ha portato più turisti di una campagna pubblicitaria), e anche qui si riesce a immaginare un futuro meno roseo ma più verde.

Le ricette di Terenzio Bove Terenzio fa il dottore di ricerca in Produttività delle piante coltivate, ha guidato il Consorzio del Fagiolo di Sarconi e l’Associazione italiana agricoltura biologica (AIAB), sezione lucana, e soprattutto si definisce «uno studioso ai fornelli». In queste ricette, spiega Bove, «l’ingrediente indispensabile è il Fagiolo di Sarconi Igp, per il quale combatto da tanti anni. Un prodotto che tutti dovrebbero conoscere: provate a chiederlo, e non accontentatevi di legumi anonimi, quando il nostro paese ha la 20Vallardi Editore © 2011 Antonio


Un «pieno» di risorse (coast to coast)

fortuna di averne alcuni di grandissima qualità, al nord, al centro e anche da noi, al sud. Costano un po’ di più, neanche tanto a dire il vero, ma già in fase di preparazione capirete la differenza. Poi, all’assaggio…»

Fagioli tabacchini all’Aglianico del Vulture  500 g di fagioli di Sarconi (varietà tabacchino)  150 g di pancetta affumicata del Pollino, tagliata a fette  ½ l di vino rosso (Aglianico del Vulture)  50 g di olio extravergine (possibilmente biologico delle Colline materane)  erbe aromatiche  sale  pepe

Mettete a bagno i fagioli per una notte. Il giorno dopo, fateli cuocere per un’ora e mezzo nel vino rosso, aggiungendo mezzo litro di acqua fredda e le erbe aromatiche. Fate quindi dorare nell’olio, per 10 minuti, i fagioli e le fette di pancetta. Servite con una spolverata di pepe.

Tagliarelle e fagioli con u ziff  250 g di fagioli secchi (varietà ciuoto)  2 cucchiai di peperone di Senise macinato a scaglie (u ziff, in dialetto)  1 spicchio d’aglio  olio extravergine Per la pasta:  200 g di semola di grano duro Senatore Cappelli  200 g di farina di grano tenero Carosella del Pollino Dop  sale  1 uovo (a piacere)

Dopo aver cotto i fagioli, preparate un impasto di farina e acqua e, lavorando con il mattarello, stendete la sfoglia che va poi arrotolata e tagliata. Fate cuocere in acqua salata le tagliarelle così ottenute, scolatele e aggiungete i fagioli. Nel frattempo, in una padella fate soffriggere l’olio con l’aglio e la polvere di peperone. Versate il tutto sulle tagliarelle con i fagioli e servite.

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Allora, che si dice?

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rima ancora di inventare «Eat Parade», che esordisce alla fine del 1998, per il Tg2 mi ero occupato di alimentazione soprattutto dal punto di vista nutrizionale. Col dietologo Giorgio Calabrese avevamo realizzato, fra l’altro, una decina di servizi su alcune cucine etniche presenti in Italia alla metà degli anni Novanta. Calabrese è astigiano (benché di origine siciliana) e ci tornava comodo girare questi servizi a Torino, dove già allora non avemmo nessun problema a trovare ristoranti argentini, thailandesi, libanesi o caraibici. Ne uscì fuori una bella serie e quello fu il seme da cui sarebbe poi nato il primo telegiornale dedicato all’alimentazione e all’enogastronomia, «Eat Parade» appunto. Proprio in quel periodo, nella città della Mole stava diventando famoso su una radio locale un certo Vittorio Castellani, che faceva sentire dell’ottima world music e, soprattutto, parlava dei piatti di tutto il mondo, delle spezie più strane, dei locali etnici da conoscere e dei banchi più curiosi del mercato di Porta Palazzo. Queste ricette le faceva provare agli amici invitati a casa, e una sera da uno scambio di battute col direttore della radio, al quale aveva chiesto in piemontese «allora, kumalè» («che si dice?»), uscì fuori il suo nome d’arte. Un nome divertente e che resta ben impresso, anche se crea qualche malinteso: Vittorio non è uno chef, anche se forse potrebbe esserlo… D’altra parte, i giochi di parole gli piacciono molto: dalla sua trasmissione prese vita il Couscous Clan, e Vittorio è l’unico ad avere sul sito il proprio… curryculum! Non sono molti, in un paese piuttosto provinciale come il nostro, i conoscitori della cucina etnica, e questo signore non ancora cinquantenne, sempre ottimista e sorridente, si dedica a scoprirla e raccontarla da almeno quindici anni. Tempi non sospetti, insomma. Tutto è cominciato quando – con una moglie 144Vallardi Editore © 2011 Antonio


Allora, che si dice?

e tre figli – pur amando girare per il mondo, ha capito che molti viaggi si possono fare anche stando a casa e incontrando il mondo che è venuto a casa nostra (non sempre, anzi quasi mai, per libera scelta come facciamo noi quando andiamo all’estero). Nel 2000 aveva già lasciato la sua prima vita di organizzatore di eventi musicali in una cooperativa per diventare «Chef Kumalè», quando partecipammo a una delle prime, innovative edizioni del Cous Cous Fest di San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani. Era fine settembre: di giorno seguivamo le Olimpiadi di Sidney e giravamo fra la Riserva dello Zingaro e Custonaci, la sera assaggiavamo e valutavamo varie versioni di quel piatto tipico del Nord Africa. Un piatto etnico per eccellenza, che però nei secoli scorsi, grazie alla dominazione araba e ai frequenti contatti anche successivi fra la Sicilia occidentale e il Maghreb, è diventato parte integrante della cucina trapanese. Al punto che il grande gastronomo Pellegrino Artusi nel suo libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene lo cita nel capitolo delle minestre in brodo. È la ricetta numero 46: «Il Cuscussù è un piatto di origine araba che i discendenti di Mosè e di Giacobbe hanno, nelle loro peregrinazioni, portato in giro pel mondo, ma chi sa quante e quali modificazioni avrà subite dal tempo e dal lungo cammino percorso. Ora è usato in Italia per minestra dagli israeliti, due de’ quali ebbero la gentilezza di farmelo assaggiare e di farmi vedere come si manipola. Io poi l’ho rifatto nella mia cucina per prova, quindi della sua legittimità garantisco; ma non garantisco di farvelo ben capire». Vittorio, che da sempre usa con intelligenza tutti i new media, stava sperimentando una specie di attrezzatura che permetteva di riprendere con una piccola telecamera digitale poggiata sul corpo e trasmettere subito via Internet, e girava bardato come un cavaliere medievale, nonostante il caldo ancora estivo. La verità è che Vittorio si è assunto il compito di far conoscere le genti del mondo davanti a un piatto, a una tavola imbandita o a un negozio di specialità gastronomiche: per lui non c’è modo migliore per superare le reciproche diffidenze. Lo sa bene perché, quando da giovane girava per il mondo, attaccava bottone con tutti e assaggiava tutto quello che gentil© 2011 Antonio145 Vallardi Editore


Far sapere

mente gli veniva offerto. Qualche volta gradiva, altre volte non tanto, ma in ogni caso prendeva nota e fotografava. Di cucina etnica e anche di cucina del mondo (cioè gli usi e costumi gastronomici, non necessariamente legati alle migrazioni) scrive da vent’anni su giornali e libri. Ne ha parlato alla «Prova del cuoco» e spesso a «Eat Parade», ha dato una mano a Carlin Petrini nella fase ideativa di Terra Madre (il grande incontro dei produttori di cibo che, dal 2004, ogni due anni completa il Salone del gusto) e ha trasformato la sua passione in un lavoro e in una missione. Di pace, senza dubbio.

La frontiera del gastronomadismo Quando sono uscite le prime ordinanze comunali contro locali e cibi etnici, spesso peraltro sgangherate e inefficaci, «Chef Kumalè» ha lanciato il manifesto-decalogo del Couscous Clan contro la xenofobia gastronomica. «Proprio noi italiani – spiega – dovremmo essere i primi sostenitori della cucina etnica, perché la nostra lo è sempre stata, dai tempi degli antichi Romani. Il porto di Ostia duemila anni fa era il crocevia di ogni spezia e cibo del Mediterraneo; la cucina di tutte le regioni dell’arco alpino è influenzata dai paesi confinanti (Francia, Austria, Slovenia); e non parliamo delle influenze degli spagnoli o dei monsù francesi sulla cucina napoletana… Decine di piatti siciliani hanno origine o influenza araba, a cominciare dal couscous appunto. Allo stesso tempo, non mi meraviglia la diffidenza verso i cibi o i prodotti che arrivano da fuori: secondo alcuni (non la maggioranza degli studiosi, per la verità) la melanzana, arrivata in Italia dall’India grazie agli Arabi, fu chiamata così – mela insana – perché suscitava una certa repulsione. In effetti, non è possibile mangiarla cruda, ma quando abbiamo imparato a cuocerla siamo stati capaci di farla diventare un pilastro della cucina, soprattutto meridionale. E anche in quel caso probabilmente si trattò di un prestito: il nome indicherebbe un’origine nel ducato di Parma e un successivo trasferimento a Napoli con i Borboni, fino a diventare un sim146Vallardi Editore © 2011 Antonio


Allora, che si dice?

bolo della cucina partenopea. Prima di affermarsi anche da noi, del resto, il caffè subì un forte ostracismo fra il Cinquecento e il secolo successivo, perché era visto come una bevanda del diavolo, essendo amato dagli infedeli, cioè dai musulmani.» Pur con tutta la passione per il cibo etnico, a nessuno fa piacere mangiare ingredienti scadenti, conservati male o deteriorati perché arrivano dagli antipodi. «Questo è un problema – afferma Castellani – ma la soluzione è semplice. Si sta diffondendo, con soddisfazione reciproca, l’esecuzione dei piatti etnici con ottimi ingredienti italiani. Un’azienda ferrarese è il maggior produttore italiano di couscous e sta per diventarlo anche a livello europeo: fra un po’ quello che mangeremo nei ristoranti francesi verrà dalla Romagna! E ancora, a Torino è possibile mangiare dell’ottimo kebab preparato con la carne fornita dal Consorzio di tutela dei bovini della pregiata razza piemontese. Per non parlare di certe qualità di riso giapponese che, troppo costose per essere prodotte e importate dal paese del Sol levante, sono ormai coltivate direttamente in pianura padana, dove hanno attecchito benissimo.»

Il decalogo del Couscous Clan Noi crediamo: 1. Che ogni cultura gastronomica è frutto di incontri e scambi avvenuti con le altre culture gastronomiche, come ogni altra disciplina, dalla musica all’arte. 2. Che ogni cultura gastronomica si modifica ed è modificata dagli scambi con ogni altra cultura gastronomica e pertanto è destinata a cambiare ed evolversi nel corso del tempo. 3. Che tutti i piatti migliori delle grandi cucine del mondo sono frutto dell’incontro e dello scambio di concetti, tecniche e prodotti con altre culture: dal riso allo zafferano in foglia d’oro di Gualtiero Marchesi (di origine moghul), al doner kebab degli immigrati turchi di Kreutzberg a Berlino. 4. Che il protezionismo economico (non brinderai con le bollicine d’altri…), il fanatismo e l’orgoglio nazionalista (non

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Far sapere

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mangerai il pomodorino, se non quello di Pachino), i precetti alimentari delle religioni (far le cucine come Dio comanda), sviluppano solo ideologie, barriere culturali e pregiudizio. Che i cibi e i prodotti hanno sempre viaggiato, portati dall’uomo e dal vento, nello spazio e nel tempo, e parlare oggi di chilometro zero significa negare l’evidenza storica, mentre nessuno penserebbe mai di porre limiti alle esportazioni del made in Italy nei cinque continenti (ma solo a limitare le importazioni dal Sud del mondo). Che parlare di disciplinari in cucina è un non senso, perché la cucina è arte ed espressione di sé e della propria cultura, quindi è impossibile porre limiti all’estro e al mutare delle cose. Che nel futuro, che è già presente, l’amore per le cucine, i prodotti e i cibi esotici può tranquillamente convivere con l’amore per i piatti, i prodotti e i cibi della nostra terra nativa, poiché ciò che amiamo ci piace e basta. Quindi basta con le crociate, per favore! Che gli xenofobi che urlano nei loro comizi «polenta sì, couscous no» sono solo degli ignoranti e dimenticano che il mais non è un prodotto tipico della padania, ma del Centro America. Che «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere»: quindi, prima di pronunciare idiozie e sproloqui riferiti alle altre culture alimentari, sarebbe opportuno stare zitti o, ancor meglio, studiare e documentarsi a fondo per porre rimedio ai propri vergognosi pregiudizi e lacune. Che «la vita di conoscenza è la vita che è felice nonostante le miserie del mondo» (Ludwig Wittgenstein ).

Le ricette di Chef Kumalè Dichiara convinto Vittorio Castellani: «Si parla tanto di intolleranze alimentari, vere o presunte, ma per quanto mi riguarda credo che a tavola l’intolleranza… scompaia!». 148Vallardi Editore © 2011 Antonio


Allora, che si dice?

Straccetti di pollo alla cacciatora con peperoncino chipotle Adoro i peperoncini, e non solo per l’ebbrezza piccante che trasferiscono ai cibi, ma soprattutto per le loro note aromatiche. Spesso mi diverto a cucinare alcuni piatti, elaborandoli con peperoncini speciali, come questa ricetta al chipotle messicano, dalle note di tabacco, fumo e liquirizia, molto apprezzato dai miei amici più intimi.  1 pollo ruspante tagliato a pezzi  800 g di pomodori da sugo  300 g di cipolle bionde  500 ml di brodo di pollo  30 g di burro  6 peperoncini messicani chipotle  4 spicchi d’aglio tritati  4 cucchiai di prezzemolo  sale

Fate dorare il pollo nel burro, aggiungete quindi i pomodori sbucciati e privati dei semi, la cipolla e l’aglio tritati, il prezzemolo e il sale. Proseguite la cottura per circa 25 minuti, aggiungendo il brodo di pollo poco alla volta, e lasciandolo evaporare lentamente. Disossate quindi le carni, sfilacciatele e risistematele a cuocere con la salsa, unendo i peperoncini chipotle tagliati a pezzi. Lasciate cuocere per qualche minuto, mescolando, e alla fine servite con riso lesso.

Tequila Sun-Rose La rivisitazione di un cocktail tropicale… nata per caso, una sera, a Genova. Mi chiesero di preparare un cocktail, ma mancava lo sciroppo di granatina. C’erano però ottime arance siciliane tardive e del meraviglioso sciroppo di rose. Nacque il Tequila Sun-Rose.  36 cl di spremuta di arance di Sicilia  18 cl di tequila  6 cl di sciroppo di rose della Valle Scrivia  ghiaccio compatto

Preparate quattro bicchieri highball con ghiaccio pressato. Spremete e filtrate il succo di arance fresche, versatelo nei bicchieri e subito dopo aggiungete la tequila. Completate versando a filo, su un lato del bicchiere, lo sciroppo di rose che andrà a depositarsi sul fondo, donando al drink l’effetto sunrise (alba). Guarnite con mezza fetta d’arancia e una ciliegina al maraschino.

© 2011 Antonio149 Vallardi Editore


Rinascere in cucina Le storie di chi si è inventato una nuova vita tornando a coltivare la terra, a produrre o raccontare cibo e vino

Š 2011 Antonio Vallardi Editore


Il terremoto del gusto

C’

è chi ha tremato, come la famiglia Pelini del ristorante «Conca all’antica posta» (non lontano dalla disastrata Basilica di Collemaggio), ma si è risvegliato sano e salvo, con il locale pronto a riaprire. E, per tutta la fase dell’emergenza, si è offerto di farne la mensa per soccorritori e terremotati. Altri, come Stefano Biasini e Michele Morelli del «Gran Caffè» in piazza Duomo, hanno invece il locale in un palazzo moderno che non ha subito alcun danno. Se solo ci fosse rimasto qualche cliente, avrebbero riaperto subito dopo il sisma. Ma il centro è un deserto, e allora i clienti se li sono andati a cercare in periferia, dove propongono – in una sede provvisoria – deliziosi gelati allo zafferano o alla genziana. Luca Ciuffetelli, con la sua «Enoteca Evoè», in pieno centro, aveva appena ricevuto il premio del Gambero rosso per il miglior cocktail dell’anno. Per chi fa questo lavoro con impegno, è un bel traguardo. Tutto in macerie, l’enoteca è andata persa… Per fortuna, è riuscito a ripartire con un bar nell’affollatissimo (un tempo!) incrocio dei Quattro Cantoni, dove con qualche fatica raduna gente, sia per la colazione che per l’aperitivo. Ma la storia più drammatica, forse, è quella di Maurizio De Luca, che aveva la sua fornita e prestigiosa enoteca «La fenice» proprio di fronte alla Prefettura aquilana. Chiunque abbia visto anche un solo telegiornale, non può non ricordare quella facciata da finto tempio greco, con colonne spezzate, frontone sbilenco e la scritta «Palazzo del governo» che ha rappresentato il disastro in maniera allo stesso tempo iperrealistica e metaforica. Lui era lì, e potete immaginare che fine abbiano fatto le sue migliaia di bottiglie pregiate. Quel che è peggio è che Maurizio e la sua famiglia abitavano a cinquanta metri di distanza: li hanno estratti sani e salvi dalle macerie solo all’alba. Ma il mito della fenice © 2011 Antonio167 Vallardi Editore


Rinascere in cucina

vuole che l’uccello risorga dalle proprie ceneri. E così è stato, nonostante le difficoltà raccontate da Maurizio agli spettatori di «Eat Parade», durante il servizio speciale dedicato al dopo terremoto: capitale azzerato (nel senso di bottiglie distrutte), sede inagibile, cassa integrazione per i dipendenti ma non per lui, banche sorde e cieche a ogni richiesta, qualche fornitore che esigeva il pagamento di vini rimasti sotto le macerie. Non so come abbia fatto, ma dopo due anni Maurizio ha riaperto: non lì, ma accanto a porta Castello, comunque nel centro storico. Ha recuperato dalle macerie le poche bottiglie ancora intatte e le molte danneggiate, scheggiate o con etichette rovinate, le ha marcate con un apposito bollino che dice «a prova di terremoto» e le stappa, ogni tanto, per chi sa apprezzarle. I soci torinesi dell’Organizzazione nazionale assaggiatori di vino, per premiare il suo coraggio, gli hanno regalato l’impianto ad azoto per proteggere i vini in mescita. E mentre in piazza del Duomo ha ripreso abbastanza bene il «Caffè Nurzia», lo storico locale famoso anche per la produzione di torroni (che per fortuna va avanti), sull’altro lato del centro storico, vicino alla Fontana luminosa si vive un piccolo boom grazie alla forte domanda giovanile. I ragazzi, finiti nelle new town e negli alloggi di fortuna decentrati, desiderosi di riavere qualche punto di ritrovo hanno dato il via alla riapertura di paninerie e locali da aperitivo, strapieni dal giovedì al sabato sera, tanto da richiamare la presenza quasi fissa della polizia, che effettua i test alcolimetrici sulla strada di uscita. Quello che è difficile capire, per chi non è stato nel capoluogo abruzzese prima e dopo il fatidico 6 aprile 2009, è che un centro storico un tempo affollatissimo, vissuto, con decine di migliaia di residenti e altrettanti abitanti temporanei (impiegati, negozianti, professionisti, studenti), adesso sembra un set di Cinecittà oppure una di quelle ghost town, le «città fantasma» di cui è disseminato il west americano. A prima vista e da lontano, tutto sembra in ordine: le facciate stanno su, le strade sono ormai sgombre, ci si incontra perfino qualcuno, in genere con una divisa addosso. Ma, se si guarda con attenzione, si scoprono solai bucati, crepe mostruose, negozi pieni di detriti, ci168Vallardi Editore © 2011 Antonio


Il terremoto del gusto

nema con le locandine di film usciti tre anni fa, lunghi porticati inaccessibili per le transenne, chiese sbarrate, appartamenti intatti ma… stranamente pendenti da un lato. Anche i rari palazzi agibili restano vuoti per sicurezza, dal momento che la costruzione adiacente potrebbe crollare da un momento all’altro. Anche il famoso ristorante «Vinalia», nonostante la stella Michelin e la fornitissima cantina, è rimasto coinvolto nel disastro: la sede, nel bel palazzo Signorini Corsi, si regge solo grazie ai puntelli. La sua proprietaria, Marzia Buzzanca, ha dovuto cercarsi un’alternativa per sopravvivere e per non impazzire. In una delle stradine ridivenute accessibili, a trecento metri dalla Fontana luminosa, quindici mesi dopo il terremoto è riuscita ad aprire un locale piccolo ma elegante, «Percorsi di gusto», che con testardaggine è diventato punto di riferimento per i pochi abitanti e per i tanti aquilani in trasferta forzata, che non hanno perso la speranza di far rivivere, un giorno, il centro storico. Racconta Marzia che all’inizio, pur di riaprire, hanno cucinato con le bombole del gas, e che in certi giorni di recrudescenza del sisma, per non far morire il lievito madre (con cui, orgogliosamente, ogni mattina fa il pane), è andata in cucina con la scorta dei vigili del fuoco. «Adesso, quando la mattina arrivo in città, non sento più i macchinari in funzione, il vocio degli operai, i capocantieri che mi auguravano il buongiorno (e io gli rispondevo: «preparo un bel caffè e due dolcetti”). Tutto è tristemente fermo, il futuro sempre più incerto. Come ogni aquilano, vivo in uno stato depressivo generale. È sorprendente come tutti abbiamo lo stesso sguardo e lo stesso spirito: disperazione e preoccupazione. Siamo davvero in una situazione molto critica e non sappiamo cosa ci aspetti domani!» Ma con donne come lei, che hanno dimostrato di non lasciarsi fermare neanche da un evento così traumatico, la speranza di ripartire rimane viva. Nell’ottobre del 2010, quando abbiamo girato il servizio di «Eat Parade», l’ho vista all’opera: è riuscita a riempire il locale per una bella cena abbinata alla degustazione degli interessanti vini di una cantina aquilana, aperta pochi anni fa da due produttori, marito e moglie, trasferitisi © 2011 Antonio169 Vallardi Editore


Rinascere in cucina

in Abruzzo dal Piemonte e dal Veneto proprio per fare vino. Anche loro, adesso, sono impegnati ad aiutare se stessi e la loro patria adottiva a ricominciare. La nostra trasmissione ha seguito passo passo questi sforzi, per farli conoscere a milioni di italiani: passare le vacanze lì, comprare lo zafferano di Navelli, i formaggi e i salumi, i torroni e i vini di questa terra, sono il modo migliore per aiutare i piccoli produttori. E, se capitate da quelle parti, andate a vedere, cercate di rendervi conto della situazione, prendete il caffè e pranzate in ciò che resta di uno dei centri storici più belli d’Italia. Sperando che Marzia, Maurizio, Luca, i Pelini, Stefano e Michele, possano riavere i loro locali e i loro clienti. Perché il segreto del successo del nostro paese, agli occhi dei turisti stranieri, è nel mix irripetibile di contenitore e contenuto, di centri storici belli e vivaci che ospitano artigiani del gusto e dell’accoglienza. Tutto quello che L’Aquila merita di ritrovare.

Una banca molto liquida «Non si è pensato alla ripresa economica, ma solo a tutelare gli interessi delle banche»: questa è l’accusa di un’imprenditrice aquilana intervistata da «Vanity fair» nella primavera del 2011, a due anni esatti dal terremoto. Non sono in grado di stabilire se l’accusa sia fondata, in tutto o in parte, ma voglio parlarvi di una «banca» che, nel suo piccolo, ha tentato di dare una mano a un’esigua ma significativa parte degli aquilani: enotecari e ristoratori. I promotori, oltre a Marzia Buzzanca, sono stati due giornalisti, Roberto de Viti e Antonio Paolini. Quest’ultimo nel capoluogo abruzzese ha passato l’infanzia e la giovinezza, ha imparato a giocare a rugby e a scrivere per i quotidiani; dal Vinitaly di Verona si era precipitato all’Aquila, la mattina dopo il terremoto, in cerca dei genitori e della sorella che vivevano in un palazzo (ormai distrutto) nel cuore del centro storico. Ha dunque vissuto sulla propria pelle, pur abitando a Roma, la tragedia e i disagi di quel periodo, rendendosi conto che ognuno poteva fare qualcosa per 170Vallardi Editore © 2011 Antonio


Il terremoto del gusto

risolvere anche solo un singolo problema per qualche aquilano. L’ha chiamata «Banca solidale del vino» e ha avviato la raccolta del… capitale: 1600 bottiglie, donate da oltre cento aziende, da alcuni consorzi di tutela ma anche dalla Confraternita del Sagrantino e del Soave, da colleghi suoi e dei potenziali beneficiari. Dopo un anno dal sisma, il capitale iniziale è stato distribuito a una trentina di locali riaperti nella zona più colpita: ognuno ha ricevuto una media di 60-70 bottiglie, con aggiustamenti proporzionali alla cantina di partenza e alle perdite subite. «Per noi – racconta Paolini – è stato importante dare un aiuto concreto, per quanto parziale, alla ricostituzione dei patrimoni enoici intaccati dal sisma, ma anche raggiungere tre obiettivi più politici. Volevamo innanzitutto far presente la difficoltà degli esercenti aquilani, e indurre reazioni solidali anche nel futuro, per ciò che riguarda forniture e pagamenti. Secondo scopo: dare un forte incoraggiamento a chi ha avuto il coraggio di ricominciare. E, in questo senso, credo sia stata significativa anche la cerimonia di consegna delle bottiglie: si è svolta dentro la mitica caserma della Guardia di Finanza a Coppito, che ha accettato di fungere da caveau della «banca”, alla presenza del sindaco Cialente, dei rappresentanti della Regione, del Comune amico e «fratello” di Teramo, dei consorzi e delle Confraternite che avevano aderito. Terzo obiettivo era creare una relazione, per così dire affettiva, con un certo numero di produttori, per passare poi alla seconda fase del progetto, basata su una sorta di gemellaggio, con serate e degustazioni speciali nei locali rinati, soprattutto quelli del centro, dando loro nuove occasioni di richiamo, di vitalità e di visibilità. Hanno già aderito al programma di massima nomi come Piero Palmucci di Poggio di Sotto a Montalcino, Silvia Imparato di Montevetrano in Campania, Riccardo Reina dell’Ilva di Saronno con i suoi vini marchigiani e siciliani, gli abruzzesi di Valle Reale e Cataldi Madonna e, dal parallelo mondo della birra, Teo Musso della cantina Baladin. Ancora, una star dei fornelli come Davide Oldani ha accettato di fare a quattro mani, con Marzia Buzzanca, una serata di cucina low cost con prodotti aquilani, mentre il pastificio Verrigni ha organizzato un cooking show. Diciamo che,

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Rinascere in cucina

dopo aver ripreso a respirare, gli aquilani che lavorano nella ristorazione ora possono allargare i polmoni, tranquillizzarsi un po’ e soprattutto non sentirsi soli.»

Le ricette di Marzia Buzzanca Marzia, nel suo ristorante «Percorsi di gusto» all’Aquila, commenta commossa: «Creare queste ricette è stato per me molto difficile, lo confesso. Dopo la morte di mio padre, il mio entusiasmo se n’è andato con lui. Era lui che in questa fase della vita mi ripeteva «coraggio, che Dio ti aiuti”... allora io immagino la sua voce e continuo a scrivere».

Spaghetti al profumo di gelsomino, ricotta e guanciale Un piatto che unisce i sapori della tradizione aquilana a un candido e profumato omaggio floreale per coloro che lo gusteranno.  320 g di spaghetti  10 g di infuso di gelsomino  400 g di ricotta di pecora  100 g di guanciale  80 g di pecorino semistagionato  qualche bacca di ginepro  pepe  sale  timo

Fate bollire l’acqua della pasta e aggiungete l’infuso di gelsomino. Preparate una padella con olio e foglie di timo. Dopo 5 minuti di cottura della pasta nell’infuso, versate gli spaghetti nella padella, lasciando un po’ d’acqua, e iniziate la cottura come per il risotto. Aggiungete la prima manciatina di pecorino e, dopo qualche minuto, la ricotta che avrete amalgamato con un po’di latte, schiacciandola con una forchetta dentro un recipiente, per renderla più cremosa e facile da unire agli spaghetti. Aggiungete pian piano l’infuso, con un mestolino, e continuate a mantecare. Aggiungete 172Vallardi Editore © 2011 Antonio


Il terremoto del gusto

la ricotta e un’altra manciatina di pecorino, oltre alle bacche di ginepro. Mantecate e aggiungete una piccola dose di pepe tritato e le fettine di guanciale. Nel frattempo, fate soffriggere qualche tocchetto di guanciale, che vi servirà come decorazione e per dare un rinforzo gustativo finale. Aggiungete l’ultima manciatina di pecorino, spadellate e arrotolate gli spaghetti con un forchettone, per adagiarli su un piatto piano. Poggiate le fettine di guanciale sugli spaghetti, aggiungete un filo di olio a crudo e un pizzico di sale, poi un fiore di gelsomino come decorazione.

Agnello e carciofi  500 g di spezzatino di agnello  240 g di polpa di agnello  4 carciofi  mentuccia fresca  olio  pepe  sale grosso affumicato  rosmarino  bacche di ginepro  vino bianco  1 cipollotto  1 spicchio d’aglio  limone

Cuocete l’agnello come uno spezzatino classico, in un tegame con rosmarino e ginepro, aggiungendo un po’ di vino bianco. Fate cuocere finché non sentite che la carne diventa morbida. Cuocete i carciofi alla giudìa in padella, con aglio e olio. Nel frattempo, tagliate sottilissima la polpa di agnello, come una tartare. Tagliate in pezzi piccolissimi anche il cipollotto, che aggiungerete alla polpa con un pizzico di sale, pepe e un po’ di succo di limone. Questa operazione deve esser fatta quando lo spezzatino è a fine cottura, altrimenti la polpa di agnello si «cuoce» con il limone. Una volta cotto lo spezzatino, impiattatelo e insaporitelo con del sale affumicato. Accanto, in una formina rotonda, pressate la tartare di agnello, sopra la quale poggerete i carciofi, conditi con qualche fogliolina di mentuccia fresca. Una macinata di pepe, un filo d’olio a crudo e una foglia di menta sullo spezzatino, renderanno aromatico e gustoso questo piatto.

© 2011 Antonio173 Vallardi Editore


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