APPUNTI PER UN ANNO - WEBINARTE 2021/2022

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APPUNTI PER UN ANNO

Valeria De Rossi racconta i WebinARTE di Alessandra Gennaro 1 dicembre 2021 - 30 novembre 2022

IN PRIMA PERSONA

Ero bruttarello e alto poco più di un metro e mezzo. Più che i miei autoritratti, lo dimostrava il carboncino in cui l’amico Degas mi aveva rappresentato.

Eppure io mi consideravo un figo. Del resto, il mio successo con le donne lo dimostrava.

Facevo il pittore. Di sicuro avete sentito parlare di me: Giovanni Boldini.

Sono nato il giorno di San Silvestro, anno 1842. Ferrara, la mia città, era allora dimora di artisti cultori del Quattrocento, insomma seguaci del Purismo.

Anche mio padre -Antonio- era un pittore. Anzi, un pittore/restauratore.

È dal suo studio che ho sottratto il materiale con cui ho realizzato il mio primo atelier nel granaio dei casa.

“Che c’è di strano?” direte “Anche Steve Jobs ha creato la Apple partendo dal garage”. Di strano c’è che, allora, io non avevo più di cinque anni.

Quattordicenne, ho dipinto il mio autoritratto. E a quel punto, il genitore ha avuto la piena conferma del mio talento.

Lo devo ammettere, la mia vita è stata costellata di colpi di “lato B”.

Primo, sono stato riformato dal servizio militare, e ho potuto così dedicarmi a ciò che più mi piaceva.

Secondo, ho ricevuto la discreta eredità di uno zio morto senza discendenza.

Soldi grazie ai quali ho lasciato Ferrara, che mi stava tanto ma tanto tanto stretta.

Mi sono quindi trasferito a Firenze per frequentare l’Accademia di Belle Arti. Ed è qui che la mia storia è veramente iniziata.

FIRENZE 1862-1866

Il capoluogo toscano pullulava a quel tempo di gruppi artistici spesso progressisti, anche se a volte un pochino casinari.

I Macchiaioli, per esempio: gente senza un manifesto, pittori che non si erano mai presi sul serio fino in fondo. Ragazzi che si incontravano al caffè Michelangiolo, in via Cavour.

Per un po’ li ho seguiti, mutuando dal loro stile, soprattutto, le corpose pennellate e la capacità di rappresentare la luce.

Nel 1866, con loro, ho addirittura partecipato all’esposizione Promotrice Fiorentina guadagnandomi un bell’articolo in cui Telemaco Signorini mi definiva “brillante”, “di un merito non comune” e “innovatore”.

Le mie opere di questo periodo?

Il Ritratto di Lilia Monti, presentato all’esibizione dei Macchiaioli: vi si ritrovano il loro sfondo uniforme, pochi colori, la pennellata densa. I Ritratti di Alaide Banti, in cui incominciavo a tratteggiare la stanza circostante. L’amatore delle arti, anch’esso ambientato come i precedenti, carico di dinamismo e di tensione. E, soprattutto, il Ritratto di Diego Martelli (1867), l’unico “sobrio” dei Macchiaioli, colui che di me aveva scritto “lo gnomo vi inviluppa, vi sbalordisce, vi incanta, le vostre teorie se ne vanno, ed egli ha vinto”. Qui Diego è piegato verso l’osservatore, in una posa anomala. Il punto di vista è ribassato, lo sfondo non uniforme. Lasciatemelo dire senza falsa modestia: si tratta di una raffigurazione decisamente originale.

Non so se ve ne siate accorti: ma su molte delle pareti che ho dipinto, certo non come imbianchino, ho appeso dei quadri, spesso miei.

In questo ho ispirato l’amico Telemaco Signorini per i suoi Aspettando e Non potendo aspettare. Beh, sono soddisfazioni.

Frequentare i talenti più vivaci e le personalità più in vista mi ha permesso di tessere una rete di conoscenze che mi si è rivelata utilissima.

I Falconer, per esempio, nobili inglesi proprietari di una villa vicino a Pistoia, villa che mi è stato chiesto di affrescare.

Poco importa se, alla fine, il mio sodalizio con loro si è deteriorato e se quegli affreschi sono stati coperti con l’intonaco: i Falconer si sono rivelati il terzo colpo di fortuna della mia vita.

Sono stato amico di entrambi.

Lei era senza dubbio una generosa mecenate.

Ma è stato lui, nel 1867, invitandomi all’Esposizione Universale, a farmi innamorare di Parigi.

Dimenticavo. Con Isabella Falconer sono stato in Costa Azzurra.

Qui, nel 1868, ho dipinto Ritratto di Generale spagnolo: uno sfondo rosso cupo che evidenziava non solo i capelli scompigliati e il volto stanco, ma anche i gradi e l’importanza dell’ufficiale. Questa è un’opera che mi ha dato grande fama, ed è piaciuta moltissimo a un altro aristocratico inglese. Quarto colpo di…

LONDRA 1870 – 1871

Soprattutto grazie alla protezione dell’inglese di cui sopra, signor Cornwallis-West, durante il mio soggiorno a Londra fioccarono le commissioni.

Erano quadri di piccolo formato, per i quali mi ispiravo a ritrattisti inglesi del XXVIII secolo come Thomas Gainsborough.

Ma, alla fine, anche Londra mi annoiò, e non potei far altro che ritornare alla vita brillante della mia adorata Ville Lumière.

PARIGI 1871 -1879

Così, fu di nuovo Parigi. Fu Positivismo.

Furono musei, scoperte scientifiche.

Furono boulevard, grandi parchi, locali alla moda, sale da ballo, teatri.

Fu la luce elettrica e il riappropriarsi, grazie a essa, dello spazio e del tempo.

Furono di nuovo occasioni fortunate.

Abitai in case lussuose nei quartieri più chic, con una modella/amante giovanissima e bella. Avevo amici artisti con cui discutere al Café de la

Nouvelle Athènes, proprio quello degli Impressionisti.

E avevo incontrato Adolphe Goupil, mercante d’arte aggressivo e astuto che mi proiettò nel firmamento francese.

Berthe, splendida Berthe, tenera musa e compagna! Ti ho declinata in innumerevoli pose, toilette, ambienti ed espressioni. Ricordi?

Berthe che guarda un ventaglio, in cui indossavi abiti moderni in una stanza antica. Simile a una damina in Berthe esce per una passeggiata. Ammiccante, con note rosse, in Sulla panchina al Bois: un quadro che, per il tuo atteggiamento nonostante la giovane età, alla critica proprio non è andato giù. Berthe che fuma: in cui eri stravaccata, discinta, quasi volgare.

Alla fine, purtroppo, anche il nostro rapporto si è esaurito.

Tu hai passato il testimone a Gabrielle durante una Conversazione al caffè. Tutto vi allontanava l’una dall’altra: la posa, gli abiti, il tavolino.

E io, questo, l’ho riportato sulla tela.

In quegli anni, sotto l’egida di Goupil, ho partecipato a diverse esposizioni, frequentato la Parigi più esclusiva, guadagnato il guadagnabile.

E tentato di avvicinarmi al vedutismo.

Lo giuro, ci ho provato sul serio: con La Senna a Bougival, con Strada maestra a Combes-la-Ville.

Non era quello, però, il mio stile.

Così, sono tornato a dipingere ritratti.

Ero divenuto un pittore à la mode: non perdevo un’occasione mondana, e i borghesi facevano a gara per farsi ritrarre da me.

Io, naturalmente, li accontentavo facendoli apparire bellissimi, inserendoli in ambienti lussuosi (L’amica del Marchese, Due signore col pappagallo).

Nei miei quadri, la donna diventava quella femme fatale capace di dominare sessualmente l’uomo.

La mia era forse ironia? Purtroppo no. Solo sfacciata adulazione.

GABRIELLE DE RASTY 1879 – 1890

Era destino che finisse, la mia collaborazione con Goupil. Era destino che finisse anche la mia storia con Berthe. Era destino che, nella mia vita, entrasse come un ciclone Gabrielle.

Spregiudicata e provocante, la contessa de Rasty non si è mai sottratta al fuoco di questa nostra relazione. Nè ai dipinti che hanno documentato il nostro rapporto e la passione che ci legava.

Sensualissima Gabrielle, che in Primizie portava alle labbra una fragola di cui pareva di avvertire la dolcezza. E che, abbracciando il cagnolino ne L’amico fedele, lasciava immaginare la morbidezza delle curve del proprio corpo.

Gabrielle, che assumeva pose provocanti anche nelle opere più castigate, come i tanti suoi ritratti.

E che non si è tirata indietro, nemmeno di fronte ad allusioni dichiaratamente erotiche.

Come ne La contessa de Rasty a letto, in cui ho fatto emergere il suo volto dallo sfondo, cosa che avevo imparato dai Macchiaioli.

O ne La lettura sul letto, privo di dettagli eppure ugualmente impudico.

E, soprattutto, ne La toilette, in cui appariva addirittura scandalosa, sicura di sé al punto da farsi ritrarre mentre si asciugava le parti intime: in un invito sfrontato e volgare.

I CAVALLI

Guardate il dipinto La corsa di cavalli a Longchamp di Manet: bellissimo, sì, ma fotografico e, se vogliamo, un pochino antiquato.

E osservate il mio. Quel cielo livido, i cavalieri che diventano tutt’uno con i cavalli, le linee oblique che squarciano la tela. Ma, soprattutto, il senso del movimento. Ditemi poi se non ci vedete il Futurismo.

Ho adorato i cavalli. Sono stati per me un’ossessione. Tra il sedere di una ragazza e quello di un purosangue, vi giuro, ho sempre preferito quest’ultimo.

Quanti ne ho rappresentati! Tesi e contratti durante la corsa in Due cavalli bianchi. Trasformati in larve leggerissime in Ritorno dei Dragoni in caserma. Quasi un’esplosione di movimento, con scarse macchie di colore, in Uscita da un ballo in maschera. Un’immagine che potrebbe tranquillamente essere definita impressionista.

I RITRATTI

Con la pittura, per me, è sempre stato come con le donne. Sperimentavo tutto. Ma non c’era niente da fare. Ritornavo sempre a loro, ai ritratti.

Ho rappresentato sia maschi che femmine.

Tra i più famosi, un ritratto maschile: quello di Robert de Montesquiou, il conte dandy sostenitore – insieme ad altri intellettuali- non solo di una fuga dalla realtà con l’aiuto di alcol e droga, ma anche dell’avanguardia artistica del tempo.

E, poi, innumerevoli immagini di donne. Donne in pose statiche, in equilibrio precario, in movimento.

Con uno sfondo ricercato ed elegante, come quello del Ritratto di Madame Charles Max, oppure striato di lunghe pennellate e dematerializzato come nei ritratti della Marchesa Luisa Casati.

Signore fasciate in elegantissimi abiti che io stesso sceglievo.

Abiti che stiravo, stropicciavo, facevo cadere e muovere in mille modi diversi.

Abiti colorati di nero, di bianco, di grigio, di giallo, di rosso, di rosa.

Donne che dipingevo mentre camminavano nel mio atelier (sì, proprio quello che avevo rilevato da Sargent dopo lo scandalo di Madame X). Donne con il décolleté e le spalle scoperti, le caviglie ostentate, le scarpine sottili e luccicanti.

Donne che facevo parlare per ore e ore, prima di iniziare il mio lavoro. Alla ricerca di un’anima che forse non sono mai riuscito a svelare.

LA REGINA DI SICILIA

Ma chi era la più bella?

Donna Franca Florio, naturalmente. Grandissima signora, in tutti i sensi.

Per ritrarla ho lasciato Parigi alla volta di Palermo. Indossava un abito nero accollato e una lunghissima collana. Trecentosessantacinque perle: si diceva che per ognuna di esse lei avesse versato una lacrima, a causa di quel marito “fimminaro” che tanto l’aveva fatta soffrire.

La raffigurai con una profonda scollatura, e provocai le ire del gelosissimo consorte. Il ritratto fu rifiutato e rimase nel mio studio per oltre vent’anni.

Divenendo così parte della mia vita.

Nelle pause dal lavoro, mi ci sedevo davanti e guardavo quella donna dai capelli nerissimi, il corpo sottile, la pelle chiara, le labbra vermiglie. Giravo lentamente il cucchiaino nel caffè, e sorridevo a quell’accenno di sorriso. Prendevo in mano il pennello, e le scoprivo poco alla volta le braccia, le spalle, le caviglie.

Alla fine, socchiudendo le palpebre, mi allontanavo di qualche passo per vedere il risultato. Mi immergevo nella tristezza di quegli occhi grigi.

E mi chiedevo se, in un’alta dimensione, Donna Franca l’avrei potuta amare.

EPILOGO

Il XX secolo avanzava, portandosi via non solo lo sfavillio della Belle Époque, ma anche il mio desiderio di dipingere e la mia vista. Ciononostante, ho continuato a viaggiare, a ricevere onorificenze.

Avevo quasi novant’anni quando ho sposato Emilia, giornalista trentenne, autrice della mia biografia. Me ne sono andato l’11 gennaio 1931.

Avrei potuto essere tumulato a Parigi, al cimitero del Père-Lachaise, tra le tombe degli artisti più illustri. Invece ho scelto diversamente.

E sono ritornato a Ferrara.

SOTTOVOCE

PRIMA DI TUTTO

Improvvisamente, il silenzio. Inatteso, rassicurante eppure irreale.

Per qualche istante rimango immobile, gli occhi chiusi, le braccia appoggiate allo schienale, le mani distese, i piedi leggermente disgiunti.

Poi, lentamente, abbasso le braccia portando le mani in grembo.

Accarezzo con la punta delle dita il mio abito chiaro. Avverto la rigidità del tessuto, le pieghe scolpite, i bottoni freddi.

Ruoto un poco la testa per sgranchire il collo irrigidito. Apro piano le palpebre.

La penombra che mi avvolge ha il colore del cioccolato e quell’odore indefinito che lasciano i visitatori quando se ne vanno.

Il desiderio di uscire dalla cornice mi assale all’improvviso. Lo assecondo.

Mi lascio scivolare verso il basso. E incomincio a camminare in mezzo ai quadri.

SILVANA

Non mi sentivo così leggera dal 1922: l’anno in cui venni ritratta.

Felice Casorati mi ha chiamata Silvana Cenni, ma si dice che in realtà io fossi una delle sue allieve, e che non sia nemmeno certo il mio nome.

Affermano anche che il pannello che occupo fosse in origine quadrato -ai lati, due studenti intenti a ritrarmi- e che sia stato tagliato in seguito, mantenendo solo la parte centrale.

Un po’ come nell’altro capolavoro del mio maestro, Lo studio, andato distrutto nel ’31 nell’incendio del Palazzo di Cristallo a Monaco di Baviera.

C’è il rigore di Piero della Francesca, nel mio quadro. Ci sono la sua tavolozza controllata, le sue geometrie, il suo equilibrio.

C’è una luce garbata ad accarezzare la tunica che indosso.

C’è un tessuto damascato a rivestire lo scranno su cui siedo.

Dietro di me, c’è una finestra che si apre su un paesaggio rinascimentale. Davanti a me, sul pavimento, libri e rotoli di carta.

Il fascino e il terrificante del sacro convergono nella mia posa ieratica, quasi da sacerdotessa.

È un mistero da svelare. Nel tempo immobile dell’attesa.

FELICE

«Vorrei saper proclamare la dolcezza di fissare sulla tela le anime estatiche e ferme, le cose immobili e mute, gli sguardi lunghi, i pensieri profondi e limpidi, la vita di gioia e non di vertigine, la vita di dolore e non di affanno».

È tutto qui, in questo pensiero, il suo linguaggio artistico.

Era figlio di un militare, il mio maestro. Quanti trasferimenti, per lui e la sua famiglia!

Iniziò a dipingere a diciotto anni, sui Colli Euganei. Si trovava lì per un periodo di riposo, perché affetto da quello che allora veniva definito “esaurimento nervoso”.

A Padova si laureò in Giurisprudenza.

Ma, per la vita, preferì seguire la propria grande passione: l’arte.

Felice Casorati dipinse, fu incisore, designer, scenografo. Fu docente.

Una delle allieve della sua scuola, Daphne, era nipote dello scrittore Somerset Maugham. Donna incantevole, come la sorella Cynthia, raffigurata in un ritratto senza luogo né tempo. Daphne diventò sua moglie. Gli dette un figlio. E anch’egli amò la pittura.

ADELE

In punta di piedi, percorro la galleria. Mi guardo intorno, incantata da tanta bellezza.

Com’è raffinata, sensuale e misteriosa la donna su quella tela!

Elegantissima, curata nei dettagli: le piume ai polsi, i gioielli, la morbidezza delle maniche e del corpetto.

Il colore della sua pelle richiama le immagini della vela, dei gondolieri e della basilica che spiccano sullo sfondo.

Il verde scuro dell’abito si diffonde nella comune sfumatura del mare, del cielo. E dei suoi occhi.

Si capisce che è una donna preziosa per il proprio uomo. E che, anche se cristallizzata in un tempo sospeso, è una donna vera.

Le sorrido. Mi risponde con un cenno del capo. Dopo un istante, è al mio fianco e cammina con me lungo il corridoio.

“Sono Adele, ma tutti mi chiamavano Dhely. Ubaldo Oppi, l’autore del mio ritratto, era mio marito” mi sussurra.

“Vorrei tanto accompagnarti.” aggiunge. “Posso?”

“Certamente” le rispondo sorridendo “Sarà un piacere vedere la mostra insieme a te”.

C’è un’aria incantata, nel corridoio, un’atmosfera rarefatta che non vogliamo scalfire.

Parliamo sottovoce, avvicinando i visi. Se un’opera la colpisce, Adele me la indica con il suo sguardo verde e profondo.

“È stato un periodo stupendo, per l’arte, quello dal 1920 al 1935 .” mi dice “Poco importa se il Realismo Magico

non è stato un movimento, ma una corrente che ha raccolto artisti differenti”.

“No” la correggo “il Realismo Magico è nato due anni prima, con la rivista Valori Plastici, fondata e diretta da Mario Broglio. Che pubblicò tra l’altro, Le figlie di Loth di Carlo Carrà”

“Le figlie di Loth… è esposto proprio qui dietro. Andiamo a vederlo”. Dhely mi prende sottobraccio. E mi trascina verso il capolavoro.

CARLO

È quasi un’Annunciazione, l’olio su tela di Carlo Carrà.

Eppure racconta la vicenda incestuosa -riportata nella Genesi- di due figlie che, pur di non interrompere la discendenza della propria famiglia, si fecero ingravidare dal padre.

Diversissima dalle opere degli artisti che in precedenza avevano trattato lo scabroso argomento, Le figlie di Loth di Carrà rappresenta due donne vestite. Una di esse è incinta, con la mano sul ventre. L’altra rimane in ginocchio davanti a lei. Tra le due, un cane che inizialmente era un unicorno.

Un cippo funebre e un tempietto a rammentare la morte. Vicino a quest’ultimo, in cielo, il punto di fuga del dipinto.

“Un’immagine come questa è capace di trasformare un evento drammatico come l’incesto in qualcosa di puro” afferma Dhely.

“Merito del rigore geometrico, della luce, della sospensione del tempo” penso io “Gli stessi che ritroviamo nel Pino sul mare”.

“Lo sapevi che all’inizio della sua carriera Carlo è stato Futurista?” un po’ di pettegolezzo non guasta, deve pensare Adele. “Fu dopo una litigata di due ore e mezza con Marinetti, che ruppe con il movimento. Aveva intuito che il solo nuovo non bastava più”.

“Sì, lo so: dopo aver combattuto nella Grande Guerra aderì al Realismo Magico. Traumatizzato, era stato ricoverato in manicomio nella stessa stanza di Giorgio De Chirico. Un medico consigliò loro di continuare a dipingere per elaborare lo shock. Medico illuminato: grazie a lui, il loro genio si aprì a nuovi orizzonti”.

GIORGIO

L’opera d’arte metafisica è quanto all’aspetto serena; dà però l’impressione che qualcosa di nuovo debba

accadere in quella stessa serenità e che altri segni, oltre a quelli già palesi, debbano subentrare sul quadrato della tela. Tale è il sintomo rivelatore della profondità abitata.” La signora Oppi sospira. “Questo l’ha detto De Chirico nel 1919. Non ti pare la definizione del Realismo Magico?” mi chiede.

“Certamente.” convengo “Anche nei suoi quadri aleggiano il tempo sospeso e un mistero angosciante. Ecco perché, negli anni Cinquanta, De Chirico ha affermato di essere l’inventore del Realismo Magico. Ed ecco il perché, in questa mostra, sono presenti i suoi Autoritratto del 1920 e Ottobrata del 1924 ”.

NATALINO

“Ma a te non capita di provare disagio, davanti alle opere di Cagnaccio?” domando a Dhely, incamminandomi insieme a lei verso il quadro Dopo l’orgia.

“Era un tipo mica del tutto normale, sai? Si definiva Cagnaccio di San Pietro, ma il suo vero nome era Natalino Bentivoglio Scarpa: un ribelle, anarchico, anticonformista. Persino il suo Realismo Magico era differente: nella sua forma compatta e precisa, quasi fotografica, richiamava la Nuova Oggettività tedesca.” Lo stile di questo pittore mi indispone, e fatico

a tenere bassa la voce. “Ha rischiato di passare dei guai con quest’opera. Denunciava i costumi licenziosi del regime, come testimonia il polsino con lo stemma del Fascio”.

“Sì, ma guarda quella donna dal corpo più rosato delle altre, rannicchiata in posizione fetale” mi interrompe Adele poggiandomi una mano sulla spalla come per tranquillizzarmi. “Non si tratta solo della sofferenza per l’abuso subito, trasmette anche il dolore del mondo”.

Ha ragione, la mia amica. D’ora in poi guarderò a Cagnaccio con occhi diversi.

MAGIA

Talmente reale da risultare irreale: la definì così, Vasilij Kandinskij, quella nostalgica corrente che proponeva il ritorno a forme confortanti, rassicuranti, familiari.

Si trattava di una reazione allo smarrimento in cui la prima guerra mondiale aveva gettato l’umanità. Facendo sentire tutti responsabili del conflitto. E nessuno, come insegnava Freud, padrone di se stesso.

Una reazione alla crisi del Positivismo, l’ottimismo contagioso che aveva acceso le luci della Belle Époque.

Una reazione alle avanguardie -il Cubismo in Francia, il Futurismo in Italia, l’Espressionismo in Germania- che, negli anni Dieci del Novecento, avevano proposto l’abolizione delle forme d’arte esistenti.

Gli artisti ritornavano a forme equilibrate e pulite, all’evocazione ma non all’imitazione, al tempo sospeso.

Era l’arte di Piero della Francesca, riscoperta in chiave moderna nel 1913 dal critico Roberto Longhi. Quel Piero della Francesca inventore della prospettiva: fede e ragione insieme, ordine e matematica accomunati in una regola eterna.

Si trattava sempre e comunque di realismo. Ma, questo, era un Realismo Magico.

COME PRIMA

L’ultima ora della notte lascia spazio alle prime luci del giorno. Il silenzio nella galleria è ancora una volta rassicurante, irreale. Ma ora tutto deve tornare come prima.

Adele mi saluta con un movimento quasi impercettibile delle labbra, mentre rientra nella cornice modanata. Si aggiusta l’abito morbido. Si accomoda i capelli con un tocco lieve.

Appoggia la mano destra alla balaustra.

E mi rivolge ancora una volta uno sguardo del colore del cielo e del mare che la circondano.

Tocca a me.

Con un balzo leggero sono nello studio dipinto. Raggiungo il mio scranno davanti alla finestra. Siedo sul tessuto damascato. Accarezzo con la punta delle dita la mia gonna chiara.

Poi ruoto piano la testa. Discosto un pochino i piedi. Appoggio le braccia allo schienale. Distendo, morbide, le mani.

E, proprio come prima, abbasso le palpebre.

LA SFIDA

AL SUO FIANCO

È ancora calda. Dall’umidità del telo che la avvolge, un brivido di ribrezzo mi sale attraverso le braccia, fino alle spalle, fino al collo.

L’odore del sangue mi attanaglia lo stomaco. In bocca, ho il sapore acido della paura.

Cammino lungo le mura della città. Il buio tutto intorno è punteggiato dai fuochi dell’accampamento. Il silenzio è spezzato dalle voci sguaiate dei soldati.

Accanto a me, cammina la mia padrona. Bellissima, elegante. Virtuosa, casta. Giuditta.

È una donna astuta, capace di ingannare con la propria bellezza.

Ha fatto ubriacare Oloferne, il generale dell’esercito che da settimane assedia Betulia, la nostra patria.

Da persona forte e fiera qual è, non ha esitato a staccargli, con due colpi di spada, la testa.

Quella testa che io, Abra, sua ancella, porto ora dentro questo sacco.

Quella testa che verrà issata sugli spalti della città e indurrà il nemico a fuggire.

Sì, è vero: Giuditta ha ucciso. Ma l’ha fatto per proteggere il proprio popolo. Ha ucciso per volere di Dio.

E, donna contro un uomo, devota contro infedele, ha superato vittoriosa questa difficile sfida.

GIUDITTA

Sarà la Bibbia a fare della mia padrona un’eroina. La presenterà con una lunga genealogia. Le dedicherà un inno.

La indicherà come simbolo di fedeltà.

Già nel Medioevo, la sua immagine comparirà nei codici miniati.

Per Donatello, in una meravigliosa statua bronzea, diverrà un simbolo politico.

La sua bellezza e la sua leggerezza contrasteranno con il volto contratto del generale. E il cuscino vagamente a forma di otre su cui l’uomo siede simboleggerà sia il vino che l’ha ubriacato che l’agognato amplesso.

Quanto sono affezionata alla mia Giuditta!

Tanto da essere in ansia per quel viso triste, per l’aria amareggiata di chi è stato violato che ella assume nel dittico del Botticelli. Una rappresentazione in cui tiene una spada e un ramo di olivo.

Immagine rubata mentre entrambe ci avviamo sulla via di Betulia (la testa di Oloferne, lugubre anche se non sanguinolenta, vicinissima alle nostre). Nel momento esatto in cui nella tenda del generale montano concitazione e angoscia per il macabro ritrovamento.

Pazienza se Michelangelo mostrerà un interesse limitato a questa storia, rappresentandoci di spalle e a evento già compiuto. Sarà Correggio, cent’anni prima di Caravaggio, a regalare a lei un delicato ritratto al lume di candela e a me i lineamenti esotici di una schiava.

E se Cranach il Vecchio la darà un aspetto fastidiosamente seduttivo, compiaciuto e violento, ci penserà il Tintoretto a restituirle eleganza, grazia e umanità.

Sarà infine la Chiesa, dopo il Concilio di Trento, a esaltare la mia amata padrona come modello contro le dottrine luterane.

E l’arte, ancora una volta, diverrà un prezioso veicolo per la diffusione della sua esemplare vicenda.

IL PITTORE

Mi ha dipinta come una vecchia ruvida e grinzosa, bassa, sdentata, con gli abiti ingialliti, le orecchie a sventola, e le nocche delle dita deformate dall’artrite.

Mi ha descritta come una figura spietata: lo sguardo crudele, le labbra strette in un ghigno, le mani contratte a stringere le cocche del grembiule.

Per questo l’ho odiato, Caravaggio. Profondamente. Finché non mi sono resa conto che l’aveva fatto per rendere ancora più seducente e spirituale lei.

Giuditta. Gli occhi scurissimi. La bocca piccola ma carnosa. I capelli acconciati con cura. Gli orecchini con la perla e il fiocchetto. Le braccia tornite. I seni giovani sotto il tessuto chiaro e leggero.

L’ovale perfetto del viso appena aggrottato dall’orrore di quel gesto estremo che era costretta a commettere.

Perché Giuditta ha ucciso per liberare Betulia. E l’ha fatto perché ispirata da Dio.

Prega, Giuditta, nel momento in cui affonda la spada. Il suo corpo è fermo, solo la sontuosa veste gialla ne mostra il movimento.

È decisa, concentrata. Sa che dominando i propri istinti può dominare l’uomo. Perché la debolezza del maschio sta nell’essere vittima della carne.

Eppure c’è pietà per Oloferne, in questo quadro così rivoluzionario da sembrare quasi il fotogramma di un film.

È un omicidio in diretta, come quelle decapitazioni pubbliche alle quali il Merisi tante volte ha assistito. Ma, questa volta, davanti a quello sfondo buio e sotto quel drappo rosso, c’è il volto del pittore.

Nessun uomo, in seguito, è riuscito anche solo lontanamente ad avvicinarsi alla perfezione di quest’opera.

Pur essendosi ispirati al Caravaggio, non ci sono riusciti Louis Finson, né i suoi presunti allievi, con quella vedova vestita di nero così poco sensuale (difficile credere che fosse, come qualcuno ha ipotizzato, la “Giuditta mezzana” del Merisi, andata perduta e non ancora ritrovata).

Non c’è riuscito nemmeno Giuseppe Vermiglio, nella cui opera mancano tensione e immedesimazione.

Ce l’ha fatta invece una donna. E non poteva essere altrimenti.

LA PITTRICE

In me ha visto una figura giovane, robusta, determinata. Mi ha resa parte attiva nella sanguinosa impresa.

Anch’io, come Giuditta, mostro la mia ferocia, tenendo fermo Oloferne. Braccia che si intrecciano, in un incrocio di vite. Mentre lei – l’espressione fredda e sicura, le maniche sollevate oltre i gomiti, il polso destro torto nello sforzo –affonda la spada nel suo collo.

Per Giuditta sono una compagna, un’alleata, una complice. Sono un’amica.

Solo una donna può rappresentare in questo modo la solidarietà femminile.

Anzi, solo una donna la cui dignità sia stata profanata.

Artemisia Gentileschi.

La violenza subita dalla giovanissima Artemisia è fatto noto.

Agostino Tassi, quadraturista e paesaggista, era a quel tempo talmente popolare da collaborare con i maggiori pittori, tra cui Orazio Gentileschi.

Agostino era anche il maestro di prospettiva di Artemisia.

Che violentò, “dopo aver compiuto tre giri intorno al tavolo” e aver chiuso fuori dalla porta la donna che avrebbe dovuto vigilare sull’integrità della fanciulla.

La relazione tra i due durò a lungo, troppo. Artemisia sperava nel matrimonio, senza sapere che lui, sposato, lo era già.

Ne seguì un processo, intentato da Orazio. Un processo interminabile e mortificante, durante il quale la giovane fu sottoposta a tortura e a visite ginecologiche pubbliche.

Un processo ancora più umiliante dal momento che il Gentileschi mise sullo stesso piano l’onore della figlia e il presunto furto, da parte del Tassi, di un quadro raffigurante Giuditta.

Probabilmente non si saprà mai a quale tela il pittore si riferisse: certo non alle due Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne – attribuite una a Orazio e l’altra alla giovane- di dimensioni troppo limitate per poter essere definite “di capace grandezza”.

Mi piace invece pensare che l’oggetto del contendere fosse proprio una delle due decapitazioni di Oloferne dipinte da Artemisia. Opere in cui l’immenso odio della pittrice sembra pervadere sia Giuditta che me, sua ancella e soprattutto sua amica.

Perché, in questo caso, probabilmente il cerchio si chiuderebbe.

SOLA

Non me lo sarei mai aspettata, che mi lasciassero nuovamente fuori dalla tenda, proprio come si raccontava nel Libro di Giuditta. Eppure, tre secoli dopo Caravaggio e Artemisia, questo è avvenuto. Tre secoli. Un periodo lunghissimo, durante il quale i due artisti e le loro opere sono stati osannati, dimenticati, riscoperti.

Un lasso di tempo in cui, nelle loro immagini, io sono rimasta al fianco della mia padrona.

Ma ora no: nelle mani di Gustav Klimt, e in quelle di Franz von Stuck, Giuditta si ritrova sola con il suo nemico. Sola con se stessa.

È sempre più bella: una donna fatale, una sorta di Salomè.

Simile a un personaggio dell’inconscio, affiora dal buio con una spada in mano, pronta a decapitare e forse a evirare il maschio.

Eppure è circondata d’oro e di luce. I suoi capelli raccolti ricordano un’aureola. Il suo sguardo trasmette una forza nuova.

Giuditta. La definiscano pure ambigua, seduttiva, carnale. Per me, che la conosco nel profondo perché tanto a lungo le sono stata accanto, rimarrà sempre e soltanto una santa.

“È BELLISSIMA”

Ore 10,45

“Ciao, papi”.

Eccoci qui, nella casa di riposo in cui vivi da quando la mamma se n’è andata.

La sala riservata alle visite è ampia e luminosa. Profuma di disinfettante e di pulito.

Indosso i guanti azzurri di nitrile. Mi siedo accanto a te.

Ti prendo la mano. La tua stretta è forte e affettuosa.

Ti guardo negli occhi, tu guardi nei miei. Hanno un sapore dolce, questi sguardi. Il sapore dell’amore che ci lega.

Ti parlo a bassa voce, ma fatichi a sentirmi. Aumento il tono e ti faccio la consueta domanda: “Vuoi vedere la foto della mamma?”.

Sì, lo vuoi.

Ti apro sull’iPhone quell’immagine in bianco e nero scattata alla Mina diciassettenne. Con la mano sinistra accarezzi lo schermo.

La foto scompare mentre tu sussurri “È bellissima”.

Probabilmente, saranno le uniche parole che pronuncerai in questa mezz’ora di visita.

“Papà, vuoi che ti faccia vedere le opere d’arte che la mia amica Alessandra ha trattato nel suo webinar e nelle sue storie di Instagram?”. È difficile far passare il tempo se a parlare sono solo io.

Mi fai cenno di sì con il capo. Anche se non sai che cosa sia un webinar, né le storie di Instagram. E non hai idea di chi sia Alessandra.

“Questi dipinti sono esposti alla National Gallery di Londra” esordisco mentre smanetto per aprire il primo link.

“La National Gallery è un enorme museo fondato ai primi dell’Ottocento e ampliato in seguito. Contiene oltre duemila opere di valore inestimabile, soprattutto quadri europei eseguiti tra il 1200 e il 1900”.

“Sai, papi, fin dall’inizio, la finalità di questa struttura è stata quella di promuovere la conoscenza dell’arte al grande pubblico”.

“Da sempre, entrare non costa nulla, perché -nell’atto di costituzione- si afferma che la gente ha il DIRITTO alla cultura”.

“Da sempre non esiste un codice di abbigliamento. Insomma, potremmo andare vestiti così come siamo: tu in tuta e io in jeans”.

“Da sempre, in questo museo i bambini sono i benvenuti. Perché è importante avvicinarli quanto prima alla bellezza. E per permettere a tutti i genitori -anche a quelli che non possono contare su una baby sitter- di visitare l’esposizione”.

Finalmente il primo dipinto compare sullo schermo del telefono.

Mi aspetto il massimo disinteresse, da parte tua: sei sempre stato una persona estremamente curiosa e avida di cultura, ma i tuoi novantacinque anni e la malattia hanno purtroppo spento in te tante velleità.

E invece mi stupisci: raddrizzi la schiena, ti aggiusti gli occhiali sul naso, e appoggi la mano sulla mia come per indurmi a fermare l’immagine.

Andrea da Bonaiuto da Firenze, Madonna col Bambino e dieci santi (1365-70)

“L’avresti mai pensato, papà, che un polittico di questa fattura potesse avere la funzione di mappa?”.

Scuoti la testa, e mi guardi aggrottando un po’ le sopracciglia.

“Sì, è la pianta di Santa Maria Novella, la principale chiesa domenicana di Firenze. A ogni santo rappresentato corrisponde una delle cappelle dislocate ai lati dell’altare maggiore, altare dedicato alla Vergine Maria”.

“È un’opera particolarissima, unica nel suo genere. La Madonna e il Bambino occupano l’arco centrale, sormontato da un timpano decorato da foglie intagliate. Gli inglesi le chiamano crockets, grilli. Su entrambi i lati, cinque santi sono incorniciati da colonne tortili. Le colonne sono sormontate da “pennacchi”, arricchiti da perle di vetro che rappresentano pietre preziose”.

“Tu li conosci, papà, gli attributi dei santi? Per esempio, il leone di San Marco, il bue di San Luca, l’aquila di San Giovanni. Oppure l’unguento con cui Santa Maria Maddalena ha unto i piedi di Gesù, il giglio di San Domenico, la palma del martirio di Santa Caterina d’Alessandria e di San Pietro. O la luce emanata dalla mano di San Tommaso d’Aquino, che, con il proprio insegnamento, ha illuminato la Chiesa”.

Sei sempre stato un cattolico praticante, papà. In passato, avresti sicuramente notato che, tra gli evangelisti, manca San Matteo. Avresti saputo anche dirmi che questi simboli

permettevano agli analfabeti di riconoscere i personaggi raffigurati.

Mi piace pensare che, questo, tu lo ricordi anche oggi. Perché, guardandomi negli occhi, annuisci lentamente con il capo. Il Dittico Wilton (1395-99) Bellezza (anzi, eccezionale bellezza) e politica a braccetto. Almeno una volta nella storia, è stato possibile. Il dittico Wilton ne è la prova.

Sono necessarie due foto, per poter apprezzare completamente questo dipinto. Perché il dittico ha un fronte e un retro. E, come dice l’etimologia, una piega centrale per chiuderlo come un libro.

“Guarda che meraviglia, papà: si tratta di un capolavoro del Gotico Internazionale, uno dei pochissimi scampati alla follia iconoclasta successiva allo scisma che portò alla fondazione della Chiesa anglicana”.

“Vi è rappresentata l’incoronazione di Riccardo II Plantagenet. Riccardo, imberbe, inginocchiato, indossa una veste con decori che ricordano la ginestra. Perché il

nome latino di quest’ultima -Planta genista- gioca con il cognome del re.”.

“Cristo benedice Riccardo, la Vergine lo guarda con dolcezza. Tre santi lo affiancano. Sono Giovanni Battista, che annunciò la venuta del Messia, ed Edmondo martire con Edoardo il Confessore, santi che furono sovrani. Non ti pare che, messi così, l’uno dietro l’altro, rammentino i Re Magi? Del resto, Riccardo era nato il 6 gennaio”.

“Il re fanciullo -fu incoronato a dieci anni- indossa una spilla a forma di cervo bianco. E il bianco, si sa, è segno di purezza. La stessa spilla compare sugli abiti azzurri degli angeli, a dimostrare il loro sostegno al monarca. Il cervo è riportato anche sul retro del dittico. Ma perché un cervo? Forse per assonanza -cervo in inglese si dice hart- con Richart, versione francese del nome Richard”.

“Vedi, papà? Tutto, in questo dipinto, concorre a sottolineare l’origine divina del committente: il suo governo sarà sacro, ed egli regnerà sotto la diretta protezione della Vergine e di Cristo”.

Sei incredibilmente attento. Che tu amassi la politica, lo sapevo. E ora ho anche la prova di quanto tu apprezzi la bellezza.

La signora al pianoforte

Scorriamo insieme le fotografie. Ce n’è qualcuna -stupenda- in bianco e nero.

Tra le altre, ti colpisce l’immagine di una signora di mezza età al pianoforte. Mi guardi negli occhi, e il tuo sguardo mi chiede chi sia.

“Si chiamava Myra Hess”, ti racconto.

“La sua storia è commovente ed estremamente attuale” continuo, e con angoscia mi chiedo se tu ti sia reso conto dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

“All’inizio della seconda guerra mondiale, i dipinti della National Gallery furono messi in sicurezza in una miniera di ardesia in disuso, nel nord del Galles. Fu il curatore della National Gallery, Kenneth Clark, a occuparsi del trasferimento e a preoccuparsi che le opere non subissero danni”.

“A quel punto, i quadri erano al sicuro. Però le cornici erano vuote, le sale del museo deserte. E Kenneth malinconico e depresso”.

“La guerra può toglierci tutto, ma non il piacere della musica. Fu proprio una musicista a rasserenare il signor Clark: una pianista famosa che si chiamava Myra Hess, la quale si offrì di suonare nelle sale vuote. Fu un trionfo. Myra tenne i suoi concerti nella National Gallery per oltre

sei anni, nelle pause pranzo, dal lunedì al venerdì. Non saltò un solo un giorno, neppure sotto i bombardamenti. E mai chiese alcun compenso”.

“Alla fine del conflitto, la Hess suonò a New York, convocata dal grande Toscanini. Interpretò un pezzo per pianoforte di Beethoven”.

Cerco l’esecuzione su YouTube, te la faccio sentire. Si tratta del concerto numero 3. La musica mi è familiare. Chiudo gli occhi, rallento il respiro. Come per magia, ritorno indietro nel tempo.

Sì, papà: è la stessa melodia che, quand’ero piccola, tu ascoltavi dal registratore Lesa la domenica mattina.

Cimabue Madonna con Bambino e due angeli (1280-85)

È un po’ scura, questa immagine, perché Cimabue utilizzava la biacca, che offuscava i colori. Ciononostante, è commovente.

“Ha un che di bizantino, questo quadro. Ma è meno formale, e rende più accessibile al fedele il suo rapporto con Dio”.

“La Madonna è seduta su un trono e tiene in braccio il figlio. Il cuscino sotto di loro si affloscia e dà la sensazione del loro peso. Gli angeli e Maria, tristissimi, guardano verso di noi, condividendo la conoscenza della natura divina di Cristo e della sorte che lo attende”.

“Il Bambino, proprio come fanno tutti i bimbi del mondo, gioca con la mano della madre”.

Ti parlo lentamente.

“È un’immagine dolcissima, papà. Tu non hai la sensazione che siano realmente davanti a noi?”.

Mi sorridi. Prendi la mia mano. E, quasi come farebbe un bambino con la mamma, giochi con le mie dita.

Duccio Madonna con Bambino, San Domenico e Sant’Aurea (1312-15)

“Linee eleganti, colori tenui e armoniosi: questo è Duccio, il principale artista senese del Trecento”.

“Duccio è raffinatezza: le vesti sono pregiate, le aureole curate e intrecciate. Duccio è tenerezza: lo vedi, papà, lo sguardo che unisce madre e figlio?

Non ti emoziona il Bambino che gioca con il velo della madre? E le mani della Vergine che circondano i piedini di Gesù?”.

“Ma non è tutto: sui pannelli laterali di questo trittico, san Domenico in bianco e nero e sant’Aurea con un mantello rosa e oro sembrano proteggere e benedire madre e figlio”.

“Quando i pannelli vengono chiusi, rimangono visibili solo i Profeti, con le loro pergamene”.

E annunciano l’avvento di Cristo.

Maestro del Crocifisso di Borgo (Maestro dei Crocifissi Francescani) L’uomo dei dolori (1255-60)

Di questo quadro, Alessandra non ha parlato. Ma lo adoro, quindi te lo racconto io…

“L’uomo dei dolori: Cristo sulla croce, raffigurato immediatamente dopo la morte. Un’immagine che affonda le radici nell’arte bizantina. Una rappresentazione popolare nell’Ordine Francescano, devoto alla contemplazione delle sofferenze di Gesù”.

“Vedi, papà? Dietro la grande aureola, la croce presenta tre sfumature: tre come i diversi legni (abete, palma e

cipresso) di cui si pensava essa fosse costituita. Tre come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”.

“La pelle di Cristo ha il colore della morte. Gli angeli sopra di lui si coprono gli occhi disperati. Il dolore di Gesù è tangibile. E coinvolge anche chi guarda”.

Mi accorgo che abbassi gli occhi. La sofferenza che traspare da questo dipinto ha colpito anche te.

Beato Angelico Pala di Fiesole (predella) (1424-25)

Quanti personaggi ci sono, nell’opera che compare a questo punto sullo schermo del mio smartphone: serafini vestiti di rosso, cherubini in blu, santi.

“Sai? Questo è l’unico dipinto esistente in cui compaiano tutti i santi.

Gli angeli cantano, ballano, suonano strumenti musicali. Cristo, al centro, in piedi su nuvole sottili, tiene in mano il vessillo bianco e rosso simbolo della resurrezione”.

“La senti, papà, la gioia che sprigiona da questo pannello? Con il suo stile grazioso, raffinato e decorativo, Beato Angelico non è mai drammatico”.

“Anzi, con le sue opere, ci rammenta che la pace e la fede in Dio sono la soluzione”. Caro papi… non c’è bisogno che, questo, io te lo dica. Ne sono certa: tu lo sai già.

Ore 11,15

È tempo di andare. L’infermiera si avvicina a noi sorridendo per ricordarci che il nostro incontro è terminato. Purtroppo.

In silenzio, papà, appoggi le dita sul mio avambraccio, come per chiedermi di non cancellare dallo schermo quella splendida opera d’arte che ancora la illumina. Per qualche istante, rimani immobile a guardarla.

Ti osservo, e vedo che muovi le labbra pronunciando una brevissima frase. “È bellissima”, mi dici.

Una frase sussurrata a mezza voce. Semplice ed emozionata.

Anche se la tua mente non è più la stessa, il tuo cuore non è cambiato.

“È bellissima”. Ripeto io.

Mi rendo conto che si tratta delle stesse parole che avevi pronunciato al mio arrivo.

Le avevi riservate alla mamma.

Alla donna che, per oltre sessant’anni, è rimasta al tuo fianco.

Alla donna che è stata il più grande amore della tua vita.

CARO PAPÀ

Da giorni cerco l’ispirazione per questo racconto. Ma, da quando te ne sei andato, caro papà, il mio pensiero finisce lì, all’ultima volta in cui ci siamo visti. Al giorno in cui ti ho raccontato le opere d’arte di cui Alessandra aveva parlato a lezione.

Così, mentre cammino avanti e indietro per la casa senza uno scopo, mi ritrovo di nuovo a parlare di bellezza con te.

E il tuo ricordo si fa ancora più dolce.

Gentile da Fabriano Madonna Quaratesi (1425)

Ti rivedo, seduto sulla tua sedia a rotelle, infagottato in una delle tue tute oversize, infastidito dalla mascherina.

Ti descrivo quella Madonna di Gentile da Fabriano che è stata denominata Quaratesi. Perché Quaratesi erano i committenti, produttori di tessuti.

Ti tratteggio lo sfondo d’argento smaltato di rosso che mette in risalto la grazia di quella mamma e di quel bimbo.

E sorrido, ricordando che Ale aveva definito questo polittico “il primo quadro brandizzato della storia dell’arte”. Un brand di lusso, però.

Ti sarebbe piaciuta tanto, questa Madonna.

L’oro della cornice, il manto della Vergine, gli angeli ai lati ti avrebbero ricordato il quadro appeso alla destra del tuo letto, insieme alle due icone che avevo regalato a te e alla mamma per uno dei vostri più importanti anniversari.

Era sopra il mobiletto dove tenevi i fazzoletti. E lo guardavi tutte le sere prima di dormire.

Masaccio Madonna con Bambino (1426)

Anche Masaccio aveva perso il padre. Quando accadde, la madre -dalla provincia di Arezzo- si trasferì con il figlio a Firenze. Qui, insieme a Brunelleschi e a Donatello, egli costituì un triangolo fondamentale nella storia dell’arte.

Grande artista, Masaccio. Perfino Michelangelo e Raffaello si ispirarono a lui.

Casinaro, trasandato: per questo il suo nome, Tommaso, venne storpiato in quel nomignolo peggiorativo che lo accompagnò per tutta la vita, e oltre.

Non è bella, questa Vergine, così massiccia e monumentale.

Non è bello nemmeno Gesù Bambino, con le pieghe della pelle e quell’aureola posta in orizzontale.

Ma in quest’opera c’è la prima ombra della storia. C’è una luce che colpisce tutte le figure dallo stesso lato. C’è la sensazione della profondità. C’è tanto amore nei gesti.

La sofferenza che verrà è già visibile nei volti, e in quel grappolo d’uva nera, simbolo della passione di Cristo.

Caro papà, Masaccio, come Giotto, è il pittore dell’essenziale. Il messaggero del sentimento umano.

Bottega di Robert Campin Madonna con Bambino in un interno (Prima del 1432)

Guarda che meraviglia, papà: pensa, si tratta di un gioiello piccolo come una cartolina.

È dipinto con tempera a olio su legno di quercia, con dettagli ben definiti, sfumature e velature. Si tratta probabilmente della copia di un’opera perduta di Robert Campin, capostipite della pittura fiamminga.

Una mamma bellissima e snella, elegantemente vestita, siede in una stanza in cui le suppellettili e i tessuti preziosi rievocano la ricchezza della società mercantile del tempo.

È giorno, eppure su quel camino -che tanto ricorda il trono della Madonna- brilla una candela accesa: forse, la metafora del matrimonio.

La manina del piccolo accanto ai propri genitali, lungi dall’essere irriverente, ci ricorda la sua circoncisione e il fatto che Maria, simbolo della Chiesa, era considerata la sposa di Cristo.

I capelli della Vergine sono scoperti e sciolti: perché è una regina, e perché è illibata. Anche i raggi d’oro intorno alla sua testa indicano che non si tratta di una mamma ordinaria, ma della Madre di Cristo.

C’è una bacinella piena d’acqua, ci sono panni bianchi. Si tratta di una scena avulsa da ogni testo sacro, del momento intimo e tenero del bagnetto a un bambino.

Quel bagnetto che eri tu, papà, a fare ai tuoi figli piccoli. Perché, come diceva la mamma, eri “velocissimo e preciso”.

E, aggiungo io, sempre pronto a coccolarli.

Paolo Uccello

La battaglia di San Romano (1438-40)

“Oh, che dolce cosa è questa prospettiva!”. Lo diceva Paolo Uccello, senza rendersi conto che sarebbe stata tale ossessione a portarlo fuori strada, allontanandolo dagli amici, dagli affetti e riducendolo in povertà.

Del resto, bisogna ammetterlo, la realtà frammentata presente in quest’opera mette un po’ a disagio.

Eppure la Battaglia di San Romano piacque a Lorenzo il Magnifico, tanto che acquistò il dipinto e lo fece modificare, aggiungendo le arance, presenti nello stemma dei Medici.

I cavalli in primo piano dimostrano la capacità di questo artista nel raffigurare gli animali. Anche se i suoi preferiti erano gli uccelli.

Nella Battaglia di San Romano è rappresentato il comandante Niccolò da Tolentino alla guida di un

attacco, durante la guerra sostenuta da Firenze per l’accesso al porto di Pisa.

La scena è ricca di personaggi in armi, di cavalli imbizzarriti. Eppure si tratta di una rappresentazione senza movimento né sangue: insomma, non appare come un evento bellico, ma come un balletto, come una scena di corte.

Secondo il Vasari -in condizioni diverse- Paolo Uccello sarebbe potuto addirittura divenire uno dei maggiori maestri di tutti i tempi. Ma, invece di privilegiare la pratica degli effetti figurativi, egli si dedicò con eccessivo zelo appunto alla prospettiva. Con i risultati di cui sopra.

Caro papà, anche tu e io, come questo pittore, ci siamo sempre fatti travolgere dai nostri mille interessi.

Quindi, ti faccio una proposta: freghiamocene del Vasari e dei denigratori di Paolo Uccello. E, a questo strano artista passionale e appassionato come noi, continuiamo a regalare tutta la nostra simpatia.

Paolo Uccello

San Giorgio e il drago (1470)

Tra i santi è di sicuro il più figo: elegante nella sua armatura, atletico sul suo cavallo bianco rampante, combattivo con quella lancia che gli permette di annientare ogni nemico.

La vicenda è nota. Un drago atterriva la città libica di Silene. Aveva sbranato animali e bambini. Che questi ultimi fossero ricchi o poveri, non importava. Quel giorno, la vittima designata era la figlia del re. Vestita da sposa, ella venne portata al luogo del sacrificio.

La principessa piangeva, piangeva. Ma ecco il colpo di scena: un cavaliere cristiano di nome Giorgio, apparso all’improvviso, catturò il drago e lo legò con una cintura.

La bestia venne portata in città. Giorgio promise agli abitanti di Silene che l’avrebbe uccisa, ma solo se tutti, proprio tutti, si fossero convertiti al cristianesimo. Fu così che l’intera città divenne cristiana. E che San Giorgio, come promesso, uccise il drago.

Paolo Uccello ha unito due parti di questa storia in una piccola e strana immagine. Non conosciamo il destinatario del dipinto, né il periodo in cui è stato realizzato.

Ciò che possiamo dire è che la principessa è annoiata, il drago curato nei dettagli, l’ambientazione magica, immobile e senza tempo, il santo buffo come un giocattolo.

Caro papà, come dice Alessandra nella sua bellissima storia dedicata a quest’opera, Paolo Uccello -ossessionato dalla prospettiva- è un innovatore. Eppure egli “ama quel passato che sta per essere travolto dal Rinascimento”. Interpreta dunque la vicenda in chiave onirica, astraendo la realtà, proiettandola nella dimensione del sogno. Ed entrando così di diritto nel novero degli artisti che hanno influenzato il surrealismo.

Piero della Francesca Battesimo di Cristo (Dopo il 1437)

Un matematico. Uno studioso della prospettiva. Un creativo. Un grande.

Nelle sue opere Piero della Francesca fa, della geometria, arte. Sì, papà: è la sua precisione geometrica a trasmettere quella calma e quel senso di armonia che lo caratterizzano.

La sua pittura è svincolata dalla vita di città.

Piero, infatti, pur avendo studiato a Firenze, sceglie di abitare nel borgo di Sansepolcro e di lavorare per le corti limitrofe.

Vive quel Rinascimento italiano per il quale ciò che unifica la realtà è la ragione. Un periodo storico in cui è fondamentale la riscoperta dell’uomo, in cui tutto è dettato dall’occhio di chi guarda e un quadro è una finestra davanti alla quale fermarsi a osservare.

Chissà perché quest’opera è intitolata “Battesimo di Cristo” (nome utilizzato in genere dopo la risurrezione) e non “Battesimo di Gesù”.

Comunque sia, io lo adoro, questo capolavoro di Piero della Francesca.

Ne adoro i colori chiari, il tempo sospeso, le figure e gli spazi.

Adoro le gocce d’acqua che cadono sul Salvatore, le sue mani giunte che non si toccano, la sua posa misurata, la sua pelle che richiama il tronco dell’albero di noce che lo affianca.

Adoro i tre angeli – tre come la Santissima Trinità- in vesti e ali colorate, che si tengono per mano e si appoggiano l’uno all’altro.

Adoro lo sguardo che uno di loro dirige verso lo spettatore.

Mi piacciono il paesaggio e la vegetazione, gli stessi che anch’io ho potuto ammirare durante una visita a Sansepolcro.

Mi diverte il personaggio che, in secondo piano, si spoglia per essere battezzato. O, forse, si riveste dopo il battesimo.

Mi incuriosiscono le minuscole figure oltre l’ansa del fiume: con i loro grandi cappelli all’orientale potrebbero rappresentare i tre Magi, tre patriarchi, tre insegnanti di greco…

Eppure, ciò che più mi ha colpito di questo dipinto è la forma: un cerchio in alto a racchiudere il cielo e le fronde del noce, un quadrato in basso a richiamare i quattro elementi principali, acqua aria terra e fuoco.

Osservando attentamente, sono molte di più le linee e le figure geometriche che possiamo tracciare collegando le diverse parti di questo capolavoro. È però l’intersezione del diametro orizzontale del cerchio e del lato superiore del quadrato con la linea verticale passante per il corpo di Cristo a definire il fulcro dell’opera: uno Spirito Santo sospeso nell’aria sotto forma di colomba bianca.

Caro papà, mentre cammino avanti e indietro per la casa senza uno scopo, mi lascio andare ai sogni. Immagino di trovarmi insieme a te in mezzo alle opere più significative della storia dell’arte. Che insieme le contempliamo, le commentiamo.

Che con noi ci sia anche la mamma. Che lei ci chieda quale sia il nostro autore preferito. E che noi due, all’unisono, le rispondiamo “Piero della Francesca”.

È una scena a cui penso e ripenso. Su cui fantastico. Su cui rifletto.

E, alla fine, me ne convinco: un giorno, in un altro tempo e in un’altra dimensione, tutto questo accadrà davvero.

RAPHAEL

Che splendido regalo!”

“Lo meriti, mamma. In fin dei conti, da settant’anni sei Elisabetta II: la nostra regina”.

Le due figure -leggermente incurvate- camminano nell’oscurità.

Conoscono bene quel percorso: tante volte è stata lei a portare il figlio bambino in quel museo, lei a fargli amare l’arte.

La temperatura è fresca, l’aria ha il profumo della pioggia che ha da poco cessato di cadere.

Carlo ed Elisabetta si soffermano per qualche istante a osservare il manifesto che pubblicizza la mostra dedicata a Raffaello.

L’occhio destro de La Muta -il sinistro è stato tagliato per ragioni di grafica- contraccambia il loro sguardo.

“L’ho già vista, a Urbino, nel 1988” sussurra il principe di Galles “e me ne sono innamorato. Sono felice di incontrarla di nuovo”.

Una volta raggiunto il portone rettangolare seminascosto tra due colonne, la regina estrae dalla borsetta la chiave argentata, la tiene per qualche istante tra le dita, fa scorrere il pollice e l’indice sulle scanalature, poi la porge al figlio.

Lui le rivolge il suo consueto sorriso timido, deglutisce quel sapore dolce che sempre lo accompagna quando si avvicina alla bellezza, e si accinge ad aprire la porta del museo.

La chiave raspa un po’ nella serratura, si blocca per un attimo, ma poi -improvvisamente- inizia a girare come se qualcuno l’avesse lubrificata.

Ecco, sono entrati. Soli.

Per qualche secondo restano fermi, in silenzio, nell’attesa che i loro occhi si adattino al debole chiarore delle luci di emergenza. Poi Carlo si avvicina alla parete al suo fianco, la tasta con le dita, trova l’interruttore.

Davanti a loro, l’armonia. Sulle pareti blu, rosso carminio e verde bosco, si accendono le opere dell’Urbinate: quasi cento, illuminate da una luce che rasenta la perfezione, circondate da cornici che sono anch’esse dei capolavori.

Il Principe di Galles percorre lentamente la sala, soffermandosi davanti a ogni quadro.

Elisabetta lo segue con lo sguardo. Seduta sulla grande panca dislocata al centro della stanza, ha gli occhi che brillano, gli angoli delle labbra incurvati in un sorriso affettuoso. È l’espressione che ogni madre riserva al proprio figlio. Ma che a lei, in pubblico, è preclusa.

“Lo sai perché ti ho chiesto di vedere da sola con te questa mostra?” gli dice a mezza voce.

“Perché nel nostro DNA c’è l’amore per l’arte” risponde Carlo.

“Anche. Non dimentichiamo i nostri antenati, in particolare Albert e Victoria” ribatte lei. “Ma la ragione principale è che, invecchiando, i beni materiali non ci interessano più: vogliamo qualcosa che ci rimanga dentro, che ci accompagni per sempre”.

“Mamma, non hai bisogno di spiegarmelo: sono sempre un figlio, ma non sono più un ragazzino”. Mentre parla, l’ultrasettantenne principe si ferma a osservare il languido e raffinato San Sebastiano (1502), impreziosito da una splendida cornice dalla linea essenziale.

Alla vista dell’opera, Carlo non può che parlare d’arte: “L’ha dipinto un Raffaello così giovane da essere ancora

sotto l’influenza del Perugino. L’iconografia è particolare: se non avesse l’aureola e non tenesse la freccia in quella mano elegante e sussiegosa che dà profondità al dipinto, non sembrerebbe neppure un santo. Il volto vagamente femminile è simile a quelli dipinti dal maestro dell’artista, che si ispirava alla propria moglie: ha infatti occhi e labbra piccoli. Il rosso del mantello riscalda l’immagine, contrastando i colori freddi del paesaggio collinare sullo sfondo”.

“Si dice che fu Perugino, resosi conto della grandezza dell’allievo, a seguirne le orme”, commenta Elisabetta.

“E forse fu davvero così” risponde il principe annuendo con il capo “Certo è che Raffaello ha sempre saputo ispirarsi ai migliori, migliorando ulteriormente le loro caratteristiche e integrando la loro arte con la propria. È stato sempre diverso da se stesso, eppure un grande, grandissimo artista. Tanto da essere amato dallo stesso Leonardo”.

Carlo alza lo sguardo verso la Crocifissione Gavari (1503).

La grande tavola è circondata da una cornice dorata, con decori a tralci. La parete blu a cui è appesa fa risaltare l’azzurro sfumato del cielo e i due angeli, con i loro nastri ripresi dal drappo di Gesù.

“In Italia, a Siena, ho visto un’opera analoga” è ancora il principe a parlare “mi pare si chiamasse Pala Chigi e che fosse proprio del Perugino. Anche in quella, la croce era in avanti e le figure simmetriche. Anche là, si riconoscevano San Giovanni e San Girolamo, e comparivano richiami rossi negli abiti, a indicare il sangue e la passione. Mamma, guarda che anatomia perfetta, e che raffinata acconciatura”.

Carlo indica il corpo del Cristo e la Maddalena ai suoi piedi.

Elisabetta annuisce. Poi muove le pupille verso destra e strizza gli occhi come per mettere a fuoco: in una singolare cornice di legno, con due colonnine ai lati, c’è una piccola immagine di San Giorgio e il drago (1505 circa).

La regina appoggia i palmi sulla panca e si aiuta con entrambe le braccia per alzarsi.

Il figlio le si accosta e la solleva: ha visto l’interesse della madre per il minuscolo quadro e vuole farglielo osservare da vicino.

“Sì, mamma, l’abbiamo già visto al Louvre, questo San Giorgio. E un’altra opera analoga di Raffaello è esposta alla National Gallery of Art di Washington”.

La regina aggrotta le sopracciglia, cercando di ricordare.

Carlo non si interrompe: “In entrambi i casi San Giorgio è bello, contenuto ed elegante: al di sopra di ogni emozione. Qui c’è un enorme dinamismo: il cavallo si impenna, l’asta è spezzata, la principessa corre sullo sfondo. Dal drago alla principessa, passando per il corpo del cavallo, corre una diagonale che attraversa e lega l’intera scena. Il rosso della sella, della decorazione della lancia e dell’abito della principessa evoca la passione di Cristo e il martirio del santo”.

Una lieve pressione della mano di Elisabetta sul braccio del figlio gli fa capire che l’interesse della madre si è spostato sul quadro successivo.

Ha la stessa cornice e le medesime dimensioni del precedente, anche qui ci sono mostri, anch’esso è stato dipinto nel 1505. Ma stavolta vi è ritratto un arcangelo: si tratta di San Michele e il drago.

“Guarda che garbo, pur nella torsione del corpo” è la regina a intervenire “Il protagonista non è per nulla affaticato: sembra quasi che danzi. Eppure la scena è inquietante, alienante: la città in fiamme, i sepolcri infuocati degli eretici, gli ipocriti incappucciati, i ladri assaliti dai serpenti”.

“E che mi dici di quelle orribili creature in secondo piano? Non ti ricordano quelle di Hieronymus Bosch?” Carlo ama questi collegamenti, e non perde l’occasione

per farli notare “Comunque, si dice che il pittore, per questa immagine, si sia ispirato anche all’Inferno della Divina Commedia, un poema italiano scritto da un certo Dante Alighieri”.

C’è una sala dalle pareti rosse, poco distante da quella in cui si trovano. A braccetto, Elisabetta e il principe vi si avviano.

I piccoli tacchi delle scarpe della regina provocano un sommesso ticchettio sul parquet.

In una importante cornice bombata e decorata a palmette, un quadro dal taglio modernissimo, quasi fotografico. Dalla tela un ragazzo li osserva. Accanto a lui, un altro giovane. Bellissimi entrambi.

Sono vestiti di scuro, tutti e due portano la barba. Si tratta dell’Autoritratto con un amico (1514 circa), in cui la mano dell’uno sulla spalla dell’altro parla di sintonia, di grande complicità.

“Che posa ieratica ha Raffaello! Mi ricorda un autoritratto di Dürer che ho visto anni fa a Monaco di Baviera. Ma l’altro chi è?” chiede la regina.

“Nei secoli sono state fatte tante ipotesi” risponde Carlo “L’uomo sulla destra tiene una spada: potrebbe essere un maestro di scherma. Oppure un committente, come Agostino Chigi. O Giulio Romano, importante allievo/

collaboratore. Oppure ancora il trasgressivo Pietro Aretino”.

Improvvisamente, il cuore del Principe di Galles accelera il ritmo: davanti a lui, La Muta (1507).

Ha avuto una storia rocambolesca, quest’opera che sembra dipinta da Leonardo. E oggi questa donna affascinante e misteriosa è qui, con le sue labbra serrate, forse a custodire un segreto.

“Si è ipotizzato che si trattasse di Giovanna Feltria, vedova di Giovanni della Rovere. Oppure della loro figlia, come fa pensare l’immagine ai raggi X”. Sa tutto di lei, il principe Carlo.

“Indossa un grembiule, i suoi abiti non sono eleganti. Eppure i gioielli che porta sono preziosi. E simbolici: il rubino è segno di prosperità, lo zaffiro ci dice che è casta”.

Il Ritratto di Giulio II (1511) esprime potere: parlano di potere la tenda su cui spiccano le chiavi di Pietro, la sedia gestatoria rivestita di velluto, il colore rosso, i numerosi anelli, le ghiande dei Della Rovere.

“Eppure porta la barba lunga, simbolo di dolore. Ha un fazzoletto in mano.” dice il principe a mezza voce “È girato di tre quarti. Appare più in basso rispetto allo spettatore”.

In quest’opera, il Papa Guerriero è solo un uomo triste, amareggiato. Un uomo sconfitto.

Poco oltre, Carlo si ferma davanti al Ritratto di Bindo Altoviti (1515).

“Era un amico del Sanzio, un mecenate nobile e colto.” Il principe descrive il giovane alla madre. “Osservane lo sguardo, le labbra sensuali, la posa fotografica. Il mantello blu, le basette curate e il cappello simile a quello dei pittori ci dicono quanto fosse elegante”.

Le labbra della regina si schiudono in un sorriso sornione.

“Ed è anche il più figo della galleria”, sussurra. Fortunatamente, nessuno può sentirla.

Sul carminio della parete, i quadri di due donne che si assomigliano un po’, e potrebbero rappresentare Venere nella sua raffigurazione celeste e terrestre.

Sono La Velata (1516 circa) e La Fornarina (1520 circa).

Elisabetta è stanca. Lascia il braccio di Carlo e si siede. Appoggia sulla panca l’inseparabile borsetta nera di Launer, stira con i palmi delle mani l’abito verde acqua chiuso sul davanti e poi, con la testa, fa un cenno al principe: è pronta ad ascoltarlo.

Carlo si slaccia la giacca e siede alla sua destra. Guarda per qualche istante La Velata prima di incominciare a parlare: le sue maniche così importanti gli ricordano quelle dell’abito da sposa di Diana, e la cosa gli provoca, nel profondo, una lontana sensazione di disagio.

“Velata è una donna sposata” esordisce con la voce un po’ stridula “e Raffaello non era certo un fautore del matrimonio: quante volte lo ha posticipato! Eppure le donne gli piacevano, eccome se gli piacevano: pare sia morto – a soli trentasette anni- proprio a causa degli eccessi amorosi”.

“Comunque, questo ritratto è meraviglioso” continua il principe più rilassato “Guarda, mamma, gli inserti d’oro del vestito, la collana di ambra. E quel capello che sfugge sulla tempia sinistra della donna, quasi un segno della sua confidenza con la persona che riceverà l’opera”.

“Decisamente diversa, la Fornarina, non credi?” pronunciando queste parole, la regina arriccia un po’ il naso.

“Margherita Luti. Margherita come la perla appesa a quel turbante che le copre parte dei capelli: sì, perché in latino margherita significa perla” ora è Carlo, a parlare “Era la figlia di un fornaio, anche se i maligni insinuano

che si trattasse di una prostituta. Il forno, in fin dei conti, potrebbe avere un significato sessuale”.

“Ci sta” lo interrompe la madre “Non vedi che espressione maliziosa?”

“Eppure, questa giovane era importante per Raffaello. Osserva l’armilla con il nome dell’artista, quasi un marchio di proprietà. Guarda il piccolo anello all’anulare sinistro, dito in diretta comunicazione con il cuore, la posizione delle mani, il mirto sacro a Venere sullo sfondo. E non dimentichiamolo: questo è l’unico quadro che il pittore aveva in casa, forse addirittura protetto con ante da occhi indiscreti”.

Carlo difende la Fornarina con la stessa veemenza con cui difenderebbe Camilla.

“Margherita viveva con lui, rimase al suo fianco al cantiere Chigi, egli le lasciò un vitalizio. Addirittura, si dice che in segreto avessero contratto matrimonio. Alla morte del pittore, la Fornarina si registrò come vedova e, dopo qualche mese, si rinchiuse in un convento. Fu un grande amore, davvero”.

La sala successiva ha le pareti blu: su di esse risplendono le cornici delle tante Madonne esposte.

Elisabetta è ormai affaticata, ma rimane in piedi in segno di rispetto.

“Raffaello, di Madonne, ne ha dipinte quarantasette: tutte figure delicatissime, che trasmettono intimità e dolcezza. Eppure tutte diverse tra loro”.

La voce del principe di Galles si fa morbida, mentre il suo sguardo si sposta da un quadro all’altro, e dai quadri al viso stanco della madre.

“Intorno al 1504, all’inizio del suo soggiorno fiorentino, l’artista conobbe Leonardo Da Vinci. Ispirandosi al Tondo Doni di questi, nel 1505 produsse la Madonna Terranuova: un quadro rotondo, con un paesaggio roccioso e fortificazioni, in cui il sentimento e l’umanità della Vergine sono espressi in maniera mirabile nella bellezza del suo volto”.

“Questa, che sembra un’opera fiamminga, è la Madonna dei Garofani (1506 circa): nell’intimità di un ambiente domestico sobrio, ma agiato, in cui verdi e gialli si armonizzano e un letto intonso richiama alla castità, Maria sorride al proprio piccolo, che gioca con dei garofani rosso sangue. Un’immagine tenerissima, influenzata dalla Madonna Benois di Leonardo”.

“Il motivo a spirale della Madonna Bridgewater (1507 circa) ricalca invece il tondo Taddei di Michelangelo”.

Elisabetta è esausta, ma -ancora in piedi davanti ai quadri- ascolta con orgoglio le spiegazioni del figlio: forse non avrà la possibilità di diventare re, il suo Carlo,

ma è un uomo buono e colto, e lei non lo vorrebbe diverso da com’è.

Il principe glieli legge negli occhi, questi pensieri.

Si interrompe, e la abbraccia. Lei gli appoggia il capo sulla spalla.

Egli la sostiene delicatamente e la accompagna, piano piano, davanti all’Autoritratto dell’artista a cui è dedicata la ricchissima mostra: un quadro del 1506, in abbigliamento da pittore e con il berretto “alla raffaella”.

Ha lo sguardo mesto, il Sanzio, in questa immagine. Forse sta pensando alla madre, che ha perso da bambino e la cui immagine ha cercato di fissare in un tenero affresco dipinto sulle pareti di casa.

Ma è ora di tornare a Buckingham Palace. Carlo spegne le luci e si avvia verso l’uscita, sempre al fianco di Elisabetta.

Prima di aprire il portone, depone un bacio lievissimo sui suoi candidi capelli.

“Grazie di essere rimasta fino a oggi insieme a me, mamma” le sussurra.

La regina solleva la testa. Gli sorride. Lo guarda con amore.

Al chiarore delle lampade di emergenza, nei suoi occhi luccicano due piccole lacrime di commozione.

UNA STORIA D’AMORE

Venezia, 7 marzo 1457

Tarsia, amore mio, quanto mi manchi!

Guardo il cielo entrare attraverso le sbarre e rivedo l’azzurro dei tuoi occhi. Sento lo sciabordio delle onde e ricordo la dolcezza della tua voce. Respiro l’odore salmastro del mare e ripenso al tuo profumo.

Anche qui, solo in questa cella, avverto sotto le dita la morbidezza della tua pelle.

E, sulle labbra, ho il sapore dei tuoi baci.

Mi hanno trascinato in carcere con le mani legate. La gente, nelle calli, mi additava e mi scherniva.

“Hai voluto rubare la moglie a un onest’uomo, un marinaio lontano per lavoro? Questo è ciò che ti meriti”, mi gridavano.

Ma io non ti ho rubata, Tarsia mia. Io ti possiedo da sempre. Tu, da sempre, possiedi me.

Venezia, 7 settembre 1457

Tarsia, amore mio, dove sei?

Credevo che ti avrei trovata ad aspettarmi, oggi, fuori dalla prigione. E invece il cortile era deserto.

Sono andato di corsa a casa nostra. Ansimavo, avevo il cuore in gola. Ma le stanze erano vuote, polverose.

Allora mi sono precipitato là, dove, prima di conoscermi, avevi abitato con tuo marito. La porta era sprangata, le finestre chiuse.

Le mie nocche hanno sanguinato per il tanto bussare. Ho gettato sassi contro le imposte. Ho urlato fino a rimanere senza voce.

Niente.

Allora, disperato, me ne sono andato da Venezia. Per non tornare mai più.

Zara, 15 maggio 1465

Tarsia, amore mio, sappi che non ti ho dimenticata.

Vivo da anni in Dalmazia.

Qui mi considerano “habitator”, “civis”, “pittore veneziano”.

Firmo le mie opere “Opus Caroli Crivelli Veneti”. Perché, anche se sono lontano, il mio cuore resta a Venezia.

Rimane lì, vicino a te.

Ascoli, 25 marzo 1482

Tarsia, amore mio, siamo lontani da oltre venticinque anni, eppure non posso non pensare a te quando mi accade qualcosa di bello.

Oggi, festa dell’Annunciazione, qui ad Ascoli Piceno -dove da tempo mi sono trasferito- è arrivata la bolla papale “Libertas Ecclesiae”, che concede l’autonomia a questa città finora dominata dal papa.

Ebbene, proprio ora ho ricevuto l’incarico di dipingere una grande pala per celebrare l’evento.

Mi ci vorrà molto tempo per portare a compimento l’opera, ma sono sicuro che sarà il mio capolavoro.

E non potrò che dedicarlo a te.

Ascoli, 24 marzo 1486

Tarsia, amore mio, ti scrivo mentre stendo le ultime pennellate sulla tela de L’Annunciazione con Sant’Emidio.

Ce l’ho fatta: la pala che mi è stata commissionata quattro anni fa è terminata e domani verrà esposta nella chiesa della Santissima Annunziata dei Frati Minori Osservanti.

D’ora in poi, ogni anno, il 25 marzo una processione percorrerà le strade cittadine e si concluderà ai suoi piedi.

È un’opera imponente.

Da queste parti, dicono anche che abbia qualcosa di speciale.

Anch’io lo penso: ho posto l’arcangelo Gabriele all’esterno della casa di Maria, nel momento in cui lo Spirito Santo le invia quel raggio celeste che la trasformerà nella madre di Dio.

Al fianco dell’angelo c’è Sant’Emidio -il santo patronoche, tenendo in equilibrio un modellino della città, chiede la sua intercessione per Ascoli.

Ho voluto che la Vergine, dolcissima, rappresentasse una donna del nostro tempo. E che il suo corpo proteso in avanti, le sue braccia incrociate sul petto ne mostrassero la gioia per l’evento.

Nella camera che la ospita ho dipinto un soffitto a cassettoni a richiamare quello del piano superiore, tessuti e drappeggi preziosi, e i segni della castità e del suo matrimonio con Cristo: il letto intatto, gli oggetti nuovi, la candela.

Intorno ai tre protagonisti -e sotto il messo e l’ufficiale cittadino che si stanno scambiando il documento papale su un terrazzo- ho voluto che la città, ignara, continuasse a vivere la propria vita. E che solo un bimbo e un giovane si accorgessero del fatto straordinario.

Ho curato le ombre per dare profondità all’immagine.

Ho inserito i simboli cristiani: il pavone per l’immortalità e la regalità, il cardellino per la passione, il giglio e la colomba per la purezza.

E ho rappresentato quelli che sono e saranno per sempre il mio marchio: la mela per il peccato originale, un cetriolo colmo di semi per la resurrezione.

Lo ammetto: per la prospettiva e per quel punto di fuga lontanissimo e laterale mi sono ispirato al Mantegna, per

quel muro che divide i personaggi a Giovanni Angelo d’Antonio.

Ma i loro modelli li ho radicalmente modificati, adattandoli a uno stile solo mio.

Quello stile che ho iniziato a plasmare quando tu e io vivevamo insieme, e che tu tanto mostravi di apprezzare.

Matelica, 8 dicembre1490

Tarsia, amore mio, come vorrei averti qui, ad alleviare la mia angoscia! Terresti le mie mani tra le tue, le carezzeresti dolcemente, e forse il mio dolore scemerebbe.

Mio figlio è morto tre anni fa, e io ancora non mi do pace.

Mi sono buttato a capofitto nel lavoro. La mia bottega si è fatta grande, famosa. Sono divenuto il “pittore delle chiese marchigiane”.

Ma il dolore per la perdita di colui che era carne della mia carne è inestinguibile.

In questo periodo ho dipinto un’altra pala. Mi è stata commissionata dagli Ottoni, una ricca e importante famiglia.

L’opera è contenuta in una preziosa cornice con fregi dorati. Grandissima, rappresenta una Sacra Conversazione, e sovrasta una predella costituita di cinque pannelli.

Maria è eterea, bellissima e soave. Siede su un trono fastoso, sul quale è appollaiata una rondine, segno di rinascita. E dal quale pendono i frutti che sono la mia “firma”.

Gesù, sulle ginocchia della Vergine, la indica a un San Girolamo un po’ accigliato, ai cui piedi è rannicchiato il leone dalla cui zampa il santo tolse una spina.

Sulla destra, ho raffigurato un San Sebastiano bello ed elegante. Tiene in mano la freccia del suo martirio e, in onore dei miei prestigiosi committenti, è vestito da cavaliere.

In molti mi chiedono se, nella parte parte alta, siano intervenuti i miei collaboratori. Non lo ammetterò mai, ma la differenza dello stile e dei colori tra pala e predella lo farà sospettare in eterno.

Perché i tre pannelli centrali della parte bassa hanno tinte più spente rispetto alla pala. I protagonisti sono dolenti, smunti, contratti.

Quasi a esprimere tutta la sofferenza che mi lacera l’anima.

Fabriano, 6 agosto 1494

Tarsia, amore mio, sento che la fine si avvicina.

Le forze mi stanno abbandonando. Non mangio, non bevo. Nulla mi dà più piacere.

Vorrei lasciarmi andare, permettere al buio di scendere sui miei occhi.

Ma c’è ancora qualcosa che mi trattiene. È il ricordo di te, così forte, così intenso, così tenero.

Le gambe faticano a sostenermi, ma, appoggiandomi ai mobili del mio studio, riesco piano piano ad alzarmi. Mi avvicino lentamente a quella Maddalena sulla quale negli ultimi anni ho lavorato.

Mi lascio cadere su uno scranno di legno scuro. Strizzo un po’ gli occhi per mettere a fuoco.

Ho dipinto la santa con un abito rosso e blu, il corpetto slacciato, le maniche decorate.

Con la mano sinistra, solleva quasi vezzosa il mantello foderato di verde, scoprendo il piede calzato da un piccolo sandalo.

La destra mostra il vaso dorato dell’unguento. Ha un filo di perle tra i capelli biondo rossicci, lunghissimi e inanellati in riccioli regolari.

Ne osservo il viso, l’incarnato delicato.

La guardo, la riguardo.

E finalmente comprendo perché ho dedicato tanto tempo a quest’opera, perché mi è così difficile separarmene.

Tue sono le sopracciglia sottili, tuo il taglio degli occhi allungato, tue le labbra strette.

Tuoi il naso e il mento affilati che il mio pennello inquieto ha ricordato.

Tarsia, amore mio. Questa donna sei tu.

Finalmente posso lasciar cadere le braccia.

Abbandonare le spalle. Abbassare la testa sul petto. Rallentare il respiro.

E, con la tua immagine nel cuore, chiudere gli occhi per sempre.

SUPERBA INDAGINE

“Ih, che camurria!”.

Scendendo la scala che conduce al portellone di uscita, Montalbano cerca di scansare la fiumana dei passeggeri, tenendosi stretta contro il fianco la borsa di ecopelle nera che Livia gli ha regalato a Natale.

Questa volta ha deciso di raggiungere Genova in traghetto.

E, nonostante la durata e i maggiori disagi del viaggio, è soddisfatto della scelta: un tragitto di quasi ventiquattr’ore ti lascia tempo per riposare, per riflettere, per leggere.

Prima di partire, ha comprato dei fascicoli dedicati a Rubens e al suo libro Palazzi di Genova.

Sono testi leggeri, e li ha portati con sé per studiarli durante il viaggio: perché, a Genova, è in corso una mostra dedicata a questi argomenti. E lui, da sempre appassionato d’arte, non vuole perdersela.

Si perderà invece questa prima giornata genovese che avrebbe voluto trascorrere con la fidanzata: a lei la pittura del Seicento interessa poco, è occupata fino a

sera in un convegno e hanno deciso di comune accordo di incontrarsi prima di cena, per l’aperitivo.

Nel piazzale del ponte Assereto, Montalbano annusa l’aria salmastra, respirando così profondamente da sentire in bocca il sapore del sale.

Si guarda attorno, e si ferma per un istante, affascinato da questa singolare città che sembra spalmata dalle colline al mare.

La sirena di una nave poco lontana lo risveglia dai suoi pensieri.

Solo ora, il commissario si rende conto di avere sete. Tasta l’interno della borsa alla ricerca di quella bottiglietta d’acqua minerale che, ne è sicuro, Adelina gli ha preparato.

Ma, con i polpastrelli, avverte solo la morbidezza della biancheria.

Decide di fermarsi in un bar. C’è un locale nuovissimo, vicino al Bigo del Porto Antico. Moderno, interamente circondato di vetrate. Ogni volta che ci passano vicino, Salvo propone a Livia di entrare. Ogni volta, lei -che invece ama le atmosfere retro– lo trascina altrove.

Per raggiungerlo, a piedi ci vuole un po’ più di mezz’ora, ma Montalbano ha voglia di camminare.

Entra, si siede soddisfatto al bancone.

“Una bottiglietta di acqua gassata, per favore”, ordina al barista che a malapena ha alzato la testa al suo ingresso.

La beve tutta d’un sorso.

“Per cortesia, mi farebbe anche un caffè?”. Il barman non solleva neanche gli occhi, e si mette ad armeggiare con la Cimbali.

“E mi darebbe una brioche?”.

Lo sa, Montalbano, che qui fanno colazione con la focaccia. Ma per un siciliano è impensabile non incominciare la giornata con un dolce.

Improvvisamente, qualcosa sembra attirare l’attenzione del barista: è una donna sulla quarantina che varca rumorosamente la porta.

Ha lunghi capelli castani, lo sguardo corrucciato, il passo deciso.

Indossa scarpe basse di foggia maschile, un lungo trench nero, camicia e pantaloni grigio scuro.

Siede sullo sgabello al fianco di Montalbano.

“Il solito?” le domanda il barman, con un sorriso. Al cenno affermativo di lei, il giovane azzarda un “Come mai qui di prima mattina?”, al quale riceve come risposta un laconico “Ferie”.

Il commissario, sconcertato, gira il cucchiaino nel proprio caffè, scartabellando i fogli A4 su cui Catarella ha stampato le informazioni sulla mostra.

“Rubens a Genova”, esclama la donna, vedendoli. “Oggi mi sono presa un giorno di vacanza per andare a visitarla, questa mostra. Vuoi venire con me?”

Montalbano rimane a bocca aperta: non si abituerà mai alla sfrontatezza di certe donne. Ma il centro storico l’ha sempre visitato al seguito di Lidia, e da solo rischia di perdercisi. Una accompagnatrice del luogo gli sarebbe di grande utilità.

“Se la cosa non ti rompe i cabbasisi”. Pronunciando in modo un po’ impacciato la frase, il commissario allunga la mano destra e tenta di presentarsi.

“Solo i nomi di battesimo, nessuna informazione personale”, lo interrompe lei.

“Salvo”.

“Petra”.

Fianco a fianco, si avviano verso le due torri di Porta Dei Vacca.

“Genova è unica”. La voce di Montalbano continua a essere sottotono.

“Hai ragione” continua lei. “Ne conosci la storia?” “Poco” risponde lui.

È vero: del resto, Livia non la ama, la storia. Come non ama l’arte, né l’architettura. E raramente l’ha accompagnato a visitare i luoghi che rimandano al passato.

“Fin dal Medioevo, questa città senza territorio è fulcro di scambi, grazie ai quali diviene un centro ricchissimo. Nel Cinquecento, diventerà addirittura un polo finanziario di primo piano e, con ad Andrea Doria, una fiorente Repubblica”, inizia Petra.

“A Brera ho visto il ritratto di questo “principe” che tanto sarebbe piaciuto a Machiavelli. È un olio su tela del Bronzino, in cui Andrea Doria impersona Nettuno. Certo, non poteva essere altri che il dio del mare”, la interrompe Salvo.

“Lo meritava” continua lei “Ha ottenuto la libertà di Genova in cambio di finanziamenti all’imperatore Carlo V e ha sconfitto i Saraceni. Tanto che il popolo gli ha offerto il titolo di sovrano. Titolo che lui ha rifiutato, preferendo un’oligarchia retta da un Doge rieletto ogni due anni”.

“È grazie a lui che la città è ha assunto il suo ruolo commerciale? Se non ricordo male, la compravendita di pasta, zucchero, allume, perfino rose candite acquisì un’enorme importanza” interviene Montalbano. “Certo, e l’aristocrazia mercantile divenne un’aristocrazia finanziaria. Addirittura, con la concessione di prestiti ai grandi d’Europa. Fu allora che re, principi e potenti incominciarono a visitare Genova, e Genova si preparò alle loro visite”.

La donna ha una falcata di tutto rispetto. Ma Salvo, che quasi quotidianamente si allena sulla spiaggia di Marinella, non fatica a tenerle dietro.

Camminano parlando stretto, i due. E, quasi senza accorgersene, si ritrovano in via Garibaldi.

Petra è un fiume in piena: “Questa è l’antica Strada Nuova, la via dei palazzi più belli. Quella dove avveniva l’accoglienza delle personalità straniere in visita alla Repubblica. Gli alloggi erano classificati in diverse categorie in base alla qualità architettonica della sede, alle collezioni d’arte, alle decorazioni. In pratica, era stato istituito il sistema dei Rolli, gli elenchi delle nobili famiglie la cui dimora era adeguata all’hospitaggio”.

“Passando, sono rimasto folgorato da tre meravigliosi edifici. Uno -bianco e giallo- in Salita Santa Caterina. Gli altri due – uno con uno splendido loggiato, l’altro

decorato da un bugnato a punta di diamante- lungo via Garibaldi”. Con questa affermazione, Montalbano tenta di interrompere la sua interlocutrice.

Invano: “Devo ammettere che hai buon gusto: sicuramente erano Palazzo Doria, Palazzo Doria Tursi e Palazzo Lercari Parodi. I più prestigiosi in assoluto, gli unici a poter ospitare i dignitari di più alto rango come re, imperatori e papa”.

“Sono così belli che anche Rubens se ne è innamorato”. Montalbano si morde la lingua: innamorato non è il termine più adeguato da usare con una sconosciuta. Ma questa donna, così dura e decisa, ha un fascino che lo intriga. Aggiusta il tiro: “Esattamente quattrocento anni fa li ha descritti e disegnati in un libro”.

Piazza de Ferrari, con l’eclatante fontana rotonda e il neo-cinquecentesco Palazzo della Borsa, fa da anticamera a Piazza Matteotti e al luminoso Palazzo Ducale, sede dell’esposizione dedicata a Rubens.

Salvo acquista i biglietti per entrambi. Petra gli porge le banconote per pagare la propria parte. Scambiandosi denaro e biglietti, si sfiorano con le dita. Si guardano negli occhi per un istante, poi tutti e due distolgono lo sguardo imbarazzati.

“Lo sai?” questa volta è Montalbano a prendere la parola “Pieter Paul Rubens nasce sotto il segno dello scandalo. Nelle Fiandre dilaniate da incomprensioni tra cattolici e protestanti, suo padre Jan -magistrato colto e insigne, filocalvinista- si trasferisce a Colonia quale patrocinatore di Anna di Sassonia. Ma accade un evento inatteso: lei si innamora di lui (di nuovo questa maledetta parola, maledizione!) e ne nasce una relazione che porterà l’uomo al carcere e al conseguente esilio. Durante il quale nascerà il pittore. Alla morte di Jan, la moglie affiderà il figlio, tra gli altri, al maestro Otto Vaenius, che in Italia aveva conosciuto Zuccari e Correggio e trasmetterà al ragazzo la propria raffinatezza e il proprio desiderio di viaggiare. Così, dal 1600, Rubens si trasferirà per otto anni in Italia, facendo tappa a Venezia, a Roma e, naturalmente, a Genova. Inoltre, a Mantova, sarà pittore di corte al seguito di Vincenzo I Gonzaga, per la raccolta del quale eseguirà una serie di copie di nudo”.

Petra fatica a rimanere in silenzio. Poggiando la mano sul braccio di Salvo, tenta di interrompere questa valanga di informazioni. Al suo tocco, lui si ferma di scatto, senza respirare. A questo punto, a raccontare, è lei.

“Hai mai visto la sua Circoncisione di Gesù? È in una chiesa gesuita qui vicino. Un’opera emozionante, drammatica, che ha un significato simbolico: durante

questa cerimonia ebraica, infatti, al bambino veniva imposto il nome. Che ha un’importanza fondamentale soprattutto per la Compagnia che gliel’ha commissionato. In questo quadro trovi il movimento del Tintoretto, i colori di Tiziano, la luce fiamminga, la morbidezza e la sensualità degli angeli rubensiani, il primo evento cruento della vita di Cristo. Nessun dubbio: la sua teatralità ne fa la prima opera barocca della storia dell’arte”.

“Oppure… sei mai stato a Palazzo Spinola a vedere il Ritratto equestre di Gio’ Carlo Doria, l’unico aristocratico con tanta faccia tosta da farsi rappresentare a cavallo pur non essendo un principe? E da assegnarsi la Croce di San Giacomo pur non avendola ancora ricevuta? È un dipinto pieno di dinamismo, in cui il cavaliere tiene le redini tra due sole dita: perché non governa il destriero con la forza, bensì con l’intelligenza”.

Petra e Salvo continuano la visita camminando lungo le gallerie, a tratti parlandosi, a tratti in silenzio.

Lui si chiede che cosa lei nasconda dietro la propria ostentata sicurezza. Se abbia una famiglia. Quale sia la sua professione. Ma “niente informazioni personali”, gli ha intimato lei. E lui intende rispettare la sua richiesta.

Si distrae in questi pensieri, Montalbano.

Si distrae, mentre osserva l’immagine sontuosa di Violante Maria Spinola Serra sulla tela che fa da testimonial alla mostra.

Ne ammira l’abito rigidissimo e prezioso che riflette la luce, la gorgiera impalpabile che pare in movimento. Le guarda gli occhi remissivi, l’espressione dolce.

No, si dice: Violante non è come le altre donne genovesi del Seicento, spavalde e senza vergogna nel rapportarsi agli uomini, moderne e indipendenti come quelle di oggi.

Non è come Petra.

Improvvisamente, avverte accanto a sé una sensazione di vuoto.

Si gira all’indietro cercando con lo sguardo la sua accompagnatrice.

Petra non è più al suo fianco. Se n’è andata senza un saluto, senza una spiegazione.

Salvo avverte in bocca un sapore amaro, nel petto un senso di delusione.

“Minchia!”, sussurra. Ma doveva finire così…

E allora si assesta saldamente a tracolla la borsa nera di ecopelle. Raddrizza le spalle. Contrae i muscoli delle guance.

Sbuffando, si avvia verso l’uscita del museo. Lentamente, si dirige verso il Klainguti.

Pian piano, però, mentre cammina sente le labbra sciogliersi in un sorriso: in quel caffè ottocentesco dalle pareti color crema e le finiture dorate, davanti a uno spritz e a un piatto di cuculli, sicuramente c’è Livia che lo aspetta.

INTESA INTERNAZIONALE

Guarda a lungo lo schermo del telefono, il commissario Salvo Montalbano. Si sofferma sull’icona in bianco e nero con la foto di un ragno. Non sa decidersi.

Poi clicca il tasto “invia”. E il messaggio WhatsApp parte.

“No, non ce l’ho fatta: ho dovuto cercarti. E ti ho trovata.

Vuoi sapere come? Sono tornato al bar del porto, ho chiesto informazioni su di te. Le ho ottenute.

Trovare il tuo numero, poi, è stato un gioco da ragazzi. Del resto, sono un commissario di polizia, indagare è il mio mestiere”.

Nessuna spunta azzurra. Nessuna risposta.

Solo dopo una settimana compare la notifica con il nome di Petra.

Sette giorni eterni, durante i quali, per non pensare, lui si è buttato a capofitto nel lavoro.

Petra.: “Ti rispondo solo perché sei un mio superiore. Che sono un ispettore di polizia, ne sono certa, lo sai già. E sai anche che, nel nostro ambiente, le “amicizie" tra colleghi non sono ben viste”.

Montalbano: “Se rispondermi ti è di peso, chiudiamola qui”.

Petra: “Non mi è di peso. Ma tu sei fidanzato con una donna di Genova, e non mi va di invischiarmi in una storia che può portare solo rogne”.

Montalbano: “Una fidanzata genovese? Allora hai indagato anche tu: io questo non te l’ho mai detto”.

L’ispettore Delicado invia un emoticon. Ma lo cancella subito. Il commissario non ha il tempo di vederlo. Rimane solo la scritta grigia “Questo messaggio è stato eliminato”.

Montalbano: “Comunque io non ti sto chiedendo di avere una storia, ma di condividere la nostra passione per l’arte. Raramente ho incontrato una persona con la tua preparazione, una persona con cui sia così piacevole parlarne”.

Petra: “Non sono convinta che sia una buona idea. Comunque proviamoci”.

“Ti va se inizio io?” le scrive Salvo, “Sono a Mantova sulle orme del Pisanello”.

“Ma dai!” replica lei “In questo momento io sono a mezz’ora di strada da te, a Verona. Se non erro, Antonio di Puccio Pisano è nato da madre veronese, e in questa città ha lasciato alcuni dei suoi capolavori. Ma, di lui, non so molto di più: al liceo, la prof l’aveva addirittura saltato”.

Il commissario cerca di non pensare al fatto che domani anche lui sarà in provincia di Verona, all’aeroporto, in partenza per Catania.

Le risponde: “Più che probabile, che la tua insegnante il Pisanello non l’abbia trattato: dell’opera di questo artista ci è pervenuto meno del 10%. Moltissimo è andato perduto: gli affreschi di Venezia e di Pavia. Soprattutto, i dipinti di San Giovanni in Laterano a Roma, da lui eseguiti a completamento di quelli di Gentile da Fabriano”.

Petra: “Di questi ultimi ho sentito parlare, soprattutto per il fatto che, prima di morire, il maestro consegnò fisicamente ad Antonio i propri strumenti del mestiere”.

E meno male che ne sapevi poco, riflette Montalbano, leggendo i messaggi.

Mentre digita sull’iPhone, la giovane ispettore ricorda il vecchio testo di storia dell’arte -il Negri Arnoldi- unico libro del padre che lei abbia portato nella sua nuova casa.

“Nitida definizione delle forme, gusto naturalistico e cura minuziosa del particolare”, c’era scritto sulle note appuntate in matita vicino alle immagini un po’ sbiadite, alla pagina ingiallita dedicata al pittore.

Più sotto, sottolineata da una linea blu irregolare, la definizione “artista di transizione tra il Tardo-gotico e il Rinascimento italiano”.

“Pisanello è nato alla fine del XIV secolo. La sua morte, intorno al 1450, decretò la fine del Gotico Internazionale”, recita il commissario.

“Il Gotico! Che fosse chiamato Internazionale, Cortese, Fiorito, Tardo, oppure Dolce, rimane lo stile che più ho amato.

Si trattava di una cultura laica nata per contrastare la sfiducia causata da guerre, pestilenze, crisi politiche e spirituali.

Di un’espressione diffusa in tutta Europa, frutto dello scambio di esperienze. Di uno stile ideale, sereno ed elegante. In un mondo in cui, alle rivolte del popolo e all’affermazione della borghesia, si contrappose un’arte in grado di sublimare il decoro della nobiltà”, rimanda Petra.

Salvo, seduto a uno dei tavolini di marmo della pasticceria Caravatti, a due passi dal Palazzo Ducale di Mantova, gira il cucchiaino nel caffè mentre sposta lo sguardo dal pavimento a scacchiera allo schermo del suo Galaxy.

L’intelligenza, l’intuito, la preparazione di questa donna continuano ad affascinarlo e a coinvolgerlo. Suo malgrado.

Da lei gli arriva un altro messaggio: “Alla ricerca del Gotico Internazionale, prima del Covid, ho toccato con mano l’armoniosa complessità del duomo di Milano, la verticalità della cattedrale di Rouen, la bellezza delle chiese e del Ponte Carlo di Praga. E, a Digione, mi sono commossa davanti alla perfezione di quel Pozzo dei Profeti che ha ispirato Van Eyck e, di conseguenza, l’arte fiamminga”.

“A Verona c’ero già stata.” Petra continua con un nuovo invio. “Pochi sanno che i suoi signori, gli Scaligeri, dimostrarono di essere più avanti addirittura dei Gonzaga e della famiglia D’Este. E che questa è la città da cui Venezia ha attinto le proprie innumerevoli bellezze gotiche, che ancora oggi si sdoppiano riflettendosi nell’acqua dei canali”.

Montalbano, leggendola, rimugina sulla possibilità di raggiungere la donna. È nervoso, si piega in avanti, si appoggia di scatto allo schienale della poltroncina verde salvia. Appallottola la salvietta di carta che il cameriere gli ha portato insieme al caffè.

La stringe forte nel pugno, la getta nella tazzina.

Poi mette sul silenzioso il telefono, si alza, paga alla cassa e senza una parola esce dal locale.

Cammina pensieroso sotto i portici, scansando corrucciato i turisti.

E raggiunge Piazza Sordello, bella e impeccabile come lo scenario di un teatro.

Il Palazzo Ducale di Mantova è immenso. La mostra ne occupa solo una piccola parte.

La sala dei Papi lo entusiasma fin quasi a fargli comparire sulle labbra un accenno di sorriso.

I disegni neri e rossi delle sinopie, strappati grazie a quel rullo esposto in fondo al locale e qui riportati, sono di una modernità incredibile, di un dinamismo quasi paragonabile a quello delle opere dei futuristi.

Proprio in questo momento, il telefono vibra: Petra gli ha inviato alcune immagini di Verona.

Sono quasi tutte foto scattate nelle chiese di San Fermo e di Sant’Anastasia, e rappresentano quegli affreschi del Pisanello che solo la città scaligera ha compreso e salvaguardato.

“Questa Annunciazione -posta a completamento di un imponente sepolcro- è poco conosciuta, ma magnifica”

è il commento che accompagna le immagini. “Vasari la definisce la Vergine Annunziata dall’Angelo: le quali due figure, che sono tocche d’oro, secondo l’uso di que’ tempi, sono bellissime, sì come sono ancora erti casamenti ben tirati, e alcuni piccoli animali, et uccelli, sparsi per l’opera tanto propri e vivi, quanto è possibili immaginarsi”.

Siamo sulla stessa lunghezza d’onda, con questa donna, continua a pensare il commissario. E Verona si fa sempre più vicina.

Anch’egli incomincia a scattare fotografie. Spedisce quella più significativa a Petra.

È la rappresentazione di una decapitazione. Cruenta. Feroce. Eppure perfetta.

Ha la stessa perfezione, regala la stessa emozione dell’immagine di quel cavaliere morente sdraiato in terra in mezzo alla calca, nell’affresco della sala del Pisanello: scomposto, con i capelli scarmigliati, con gli occhi socchiusi, ma ancora elegante nell’armatura curatissima, con il mantello decorato da pizzi raffinati.

“L’affresco si svolge da destra verso sinistra e propone un episodio del ciclo arturiano: il torneo organizzato dal re Brangoire.

Il combattente più valoroso potrà sposare la figlia del sovrano.

E sarà Bohort, cugino di Lancillotto, il campione della giornata” è l’unica descrizione che parte dal suo Samsung.

Finito di scrivere, Montalbano si guarda intorno. Apprezza il fatto che il locale sia stato modificato per la mostra: il pavimento è stato rialzato e riportato nella

posizione originaria, le luci hanno la stessa collocazione che avevano ai tempi in cui il vano è stato affrescato. Apprezza anche che questa sala, per lungo tempo adibita a cucina e per secoli mortificata da intonaci che coprivano i dipinti, sia tornata all’antico splendore.

Un’altra vibrazione: gli arriva la foto di San Giorgio e la Principessa, ripresa da Petra nella basilica di Sant’Anastasia. Inquadrata dal basso, da lontano. Perché questo affresco, l’artista, l’ha dipinto sopra l’immenso arco della Cappella Pellegrini.

Anche lei alla ricerca di Pisanello, borbotta Salvo, chissà perché…

“Un drago si accinge a divorare la figlia del re di Trebisonda. San Giorgio sta per imbarcarsi per andare a ucciderlo. La principessa, elegantemente vestita, con un'acconciatura molto elaborata e quell’alta attaccatura dei capelli ottenuta depilandosi sulla fronte con una candela accesa, osserva muta la scena” è la didascalia inviata dall’ispettore Delicado. “Anche il paesaggio sembra partecipare al clima rarefatto: la parte superiore dell’affresco è occupata da un'alta rupe e da una ricchissima architettura. È un'atmosfera fiabesca, rotta però dalle notazioni grottesche del Gotico

Internazionale: sullo sfondo si vedono infatti due impiccati, uno addirittura coi pantaloni abbassati. È un

affresco malinconico e splendido, e ti assicuro che vale il viaggio”.

Montalbano cerca di non riconoscere, in queste ultime parole, un invito. No, non le scrive una risposta.

Cerca invece di concentrarsi sulle opere esposte. Le medaglie, orgoglio del Pisanello, alle quali si ispira ancora la medaglistica dei giorni nostri. I disegni, acquistati dal Louvre e attribuiti inizialmente a Leonardo, a riprova della considerazione di cui il pittore ha goduto nella storia.

Scatta fotografie a raffica. Le spedisce a Petra con un unico commento: “Ma perché, perché un artista di questo livello è stato nel tempo quasi dimenticato?”

La risposta non tarda ad arrivare: “Perché ha sottostimato l’importanza della prospettiva”.

Eppure la prospettiva è presente, nel meraviglioso Madonna tra i Santi Antonio Abate e Giorgio, l’unico quadro firmato da Pisanello, prestato alla mostra di Mantova dalla National Gallery of London. Una “ardita impostazione prospettica”, come la definirebbe il testo del padre di Petra. Evidenziabile soprattutto nella figura del santo con campanella e tau.

Nell’opera, a colpire Montalbano, è però il signorile abbigliamento di San Giorgio, agghindato con un enorme cappello e accurate finiture d’oro.

Salvo si sofferma davanti a un altro capolavoro: la Madonna della Quaglia. Una Vergine giovane, aristocratica, delicata. Seduta senza trono in un hortus conclusus.

Circondata da tanto oro, da rose e da angeli che ricordano le rondini.

Accompagnata da una santa Caterina in atteggiamento vezzoso, accanto alla quale spicca una quaglia, simbolo del cibo che salvò il popolo d’Israele.

“Questo quadro appartiene al Museo di Castelvecchio, di Verona” scrive il commissario all’ispettore, inviando insieme al messaggio l’immagine dell’opera, splendida benché sfocata a causa dei riflessi sullo sfondo oro “Ma tu non potrai vederla, perché ora è qui a Mantova”.

Adesso l’invito è partito da lui. Ma, anche stavolta, non arriva alcuna risposta.

Montalbano non se n’è quasi accorto, ma sono trascorse quasi quattro ore, da quando ha iniziato la sua visita a Palazzo Ducale.

Alle 18,15 è alla stazione dei pullman, alle 19,30 sarà all’aeroporto di Verona.

Domani ripartirà per la Sicilia. Per la notte, ha prenotato una stanza nell’hotel vicino all’aeroscalo.

Dorme un sonno agitato, in cui i personaggi di Pisanello si sovrappongono al viso di quell’affascinante donna conosciuta a Genova.

Si sveglia tardi, stanchissimo. Sotto la doccia, si chiede se sia il caso di ritornare a Vigata.

Indossa l’accappatoio, si veste, prepara la borsa in ecopelle nera ricevuta da Livia per Natale.

Guarda a lungo lo schermo del telefono, proprio come aveva fatto prima di spedire il primo messaggio.

Chissà se vuole davvero raggiungere Petra…

Si informa: per arrivare a Verona deve prendere un taxi.

Cerca il numero. Lo digita. Fa partire il messaggio registrato “Unione Radiotaxi, La preghiamo di attendere”.

Lo ascolta fino alla fine.

Poi, senza parlare, chiude la comunicazione. Esce dalla stanza, consegna alla reception la tessera magnetica, esegue il check out, raggiunge a piedi l’aeroporto.

E, per non saper né leggere né scrivere, si avvia verso il gate dell’aereo che lo riporterà in Sicilia.

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