U3 i Quaderni #09

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i QUADERNI Città in crisi: #09 aprile_giugno 2016 numero nove anno quattro

URBANISTICA tre giornale on-line di urbanistica ISSN:

1973-9702

morfologie e storie

Cities in crisis: morphologies and histories

a cura di Filippo De Pieri & Matteo Robiglio • Janet Hetman | • Laura Martini | • Lucia Baima | • Valeria Bruni | • Ludovica Vacirca & Caterina Barioglio |

• Davide Vero | • Gian Nicola Ricci | 1 Pavani | • Arturo


giornale on-line di urbanistica journal of urban design and planning ISSN: 1973-9702

Direttore responsabile Giorgio Piccinato Comitato di redazione Viviana Andriola, Lorenzo Barbieri, Elisabetta Capelli, Sara Caramaschi, Janet Hetman, Lucia Nucci, Simone Ombuen, Anna Laura Palazzo, Francesca Porcari, Nicola Vazzoler Comitato scientifico Thomas Angotti, City University of New York Oriol Nel·lo i Colom, Universitat Autònoma de Barcelona Carlo Donolo, Università La Sapienza Valter Fabietti, Università di Chieti-Pescara Max Welch Guerra, Bauhaus-Universität Weimar Michael Hebbert, University College London Daniel Modigliani, Istituto Nazionale di Urbanistica Luiz Cesar de Queiroz Ribeiro, Universidade Federal do Rio de Janeiro Vieri Quilici, Università Roma Tre Christian Topalov, École des hautes études en sciences sociales Rui Manuel Trindade Braz Afonso, Universidade do Porto

http://www.urbanisticatre.uniroma3.it/dipsu/ ISSN 1973-9702

La qualità scientifica del Quaderno è garantita da una procedura di peer review ad opera di qualificati referees anonimi esterni. Progetto grafico e impaginazione / Nicola Vazzoler Data di pubblicazione: Roma, ottobre 2016 In copertina: particolare del progetto grafico “Condominio +65” di Beppe Giardino > approfondisci a p. 109 edito da

con il supporto di

per informazioni

ROMA

TRE

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI

UrbanisticaTreiQuaderni#09


#09

aprile_giugno 2016 numero nove anno quattro april_june 2016 issue nine year four

in questo numero in this issue

Tema/Topic >

Città in crisi: morfologie e storie

Cities in crisis: morphologies and histories a cura di / edited by Filippo De Pieri & Matteo Robiglio

Filippo De Pieri & Matteo Robiglio_p. 5 Città in crisi: morfologie e storie

Cities and crises: morphologies and histories

Janet Hetman_p. 15 Profanazioni urbane dentro la crisi. La maniera di Napoli

Urban profanation within the crisis. The manner of Naples Laura Martini_p. 23 Londra 1970-1980: la città degli squat

London 1970-1980: The squats’ city

Lucia Baima_p. 31 Walk on the wild site. New York negli anni ’70

Walk on the wild site. New York in the 70s

Valeria Bruni_p. 39 Adattare gli ambienti delle prigioni: autodeterminazione e umanizzazione

Adapting prisons sites: selfdetermination and humanization

Ludovica Vacirca & Caterina Barioglio_p. 47 Città e crisi ai tempi di Airbnb: il Lower East Side (NYC)

City and crisis in the time of Airbnb: the Lower East Side (NYC)

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Davide Vero_p. 55 Facing Urban Ageing. CittĂ Giardino Torino: micro adattamenti per una crisi invisibile

Facing Urban Ageing. CittĂ Giardino Torino: micro adaptations for an invisible crisis

Gian Nicola Ricci_p. 67 Il post-postsocialismo: crisi urbana nel Centro Est Europa

The post-postsocialism: urban crisis in Central Eastern Europe

Arturo Pavani_p. 75 Accra Airport City: from Crisis to Practice

Accra Airport City: dalla Crisi alla Pratica

Atlante/Atlas > Janet Hetman_p.86 / Laura Martini_p.88 / Lucia Baima_p.90 / Valeria Bruni_p.92 Ludovica Vacirca & Caterina Barioglio_p.94 / Davide Vero_p.96 Gian Nicola Ricci_p.98 / Arturo Pavani_p.100

Apparati/Others >

Profilo autori/Authors bio p. 104

Parole chiave/Keywords

p. 107

Illustrazioni/Illustrations

p. 109

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Città in crisi: morfologie e storie Cities in crisis: morphologies and histories A cura di / Edited by Filippo De Pieri & Matteo Robiglio

La crisi finanziaria globale del 2008 è una crisi nata nelle città. Per un momento, per qualche settimana o mese, per un anno — ma in molti luoghi ancora oggi — quello che per tutto il dopoguerra era stato il cuore del meccanismo di creazione e consolidamento dei valori economici urbani — la garanzia ipotecaria del debito — e, molto di più, uno dei motori della straordinaria crescita del benessere nelle società della classe media europee e nordamericane — la proprietà immobiliare come forma privilegiata e diffusa di accumulazione del capitale (Piketty 2013) — sembra essersi fermato. Ancora una volta, più di altre volte, il binomio città/crisi si ripropone, in forme nuove: a ricordarci come la crisi sia dimensione costitutiva dell’urbano in quanto luogo dello squilibrio dinamico, del pluralismo conflittuale, della continua necessaria negoziazione di valori e simboli. Spingendoci così ad osservare in quali forme la città organizza i suoi spazi in risposta e a partire dalle nuove condizioni — sociali, culturali, economiche, spaziali — che la disruption della crisi ogni volta produce. Non a caso Max Weber individuava proprio nella rottura dei legami stabili delle fedeltà familiari e territoriali il punto di costituzione della città come forma di organizzazione umana (Weber 2003). Non a caso i saperi della città si propongono immancabilmente come correzioni dello squilibrio, della patologia, dell’ingiustizia, della bruttezza. Non a caso le narrazioni urbane uniscono sempre distruzione delle forme consolidate ed emergere del nuovo, nel racconto corale di una “distruzione creativa”: l’apparire della fantasmagoria delle merci in Au bonheur des dames di Zola (1883) distruggeva riti ed economie del commercio di ancien régime come oggi nuove forme di economia web-based aggrediscono i mercati urbani del trasporto, del cibo o del turismo. Questo quaderno di Urbanistica Tre raccoglie gli esiti di una discussione avviata nel 2015 all’interno del Dottorato in “Architettura. Storia e Progetto” del Politecnico di Torino, a partire dall’urgenza che attraversa molte riflessioni sull’architettura e sull’urbanistica contemporanee, e al tempo stesso a partire dalla percezione della necessità di rinnovare una parte dell’armamentario concettuale delle discipline del territorio, in particolare per quanto riguarda il problema del rapporto tra cambiamento urbano e spazio costruito. In che modo le città sono capaci di rispondere alle crisi? Il tema è da tempo un terreno di ricerca per le scienze sociali, per i saperi territoriali e per le discipline storiche, alla ricerca di spiegazioni su possibili fattori di successo o insuccesso del fenomeno urbano, sulla replicabilità delle condizioni che rendono le città capaci di esercitare alcune delle loro funzioni chiave (Glaeser 2011), sugli elementi costitutivi di quell’insieme di fattori che una vasta e discussa letteratura tende oggi a indicare sotto il nome di resilienza (Vale &

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Campanella 2005). Fenomeni di continuità e permanenza nel tempo caratterizzano la storia di tutte le città ma al tempo stesso ogni città si deve confrontare nel breve, medio, lungo periodo con congiunture in cui uno specifico assetto economico, sociale, spaziale si trova messo in discussione talvolta in modo radicale. Più volte nel corso dell’ultimo secolo la città, e in particolare la grande città, è stata considerata quasi come sinonimo di crisi. Quello della urban crisis era un tema ricorrente nelle scienze sociali nordamericane degli anni sessanta-settanta per indicare un punto di rottura nelle forme di convivenza e negli equilibri sociali che appariva, da diversi punti di vista, come una conseguenza inevitabile dei modelli prevalenti di sviluppo metropolitano (Warner 1968; Tretten 1970; Sugrue 1996). Come è stato osservato, l’uso della parola crisi in relazione alle città del Novecento è stato a tal punto ricorrente da portare a chiedersi se non sia proprio quello della crisi e della disfunzione lo strumento analitico più pertinente per descrivere e analizzare le trasformazioni urbane contemporanee e se al tempo stesso il carattere multiforme, contraddittorio e al tempo stesso pervasivo di questa categoria analitica non debba forse lasciar spazio a forme di scomposizione interpretativa più raffinate e lontane dal paradigma patologico (Voldman 1999, pp.5-9) Decostruire i discorsi è un compito essenziale di qualunque studio che voglia associare città e crisi (Topalov et al. 2010). Definire una crisi urbana può non essere facile ed è necessario osservare le ragioni e i momenti in cui la parola crisi viene pronunciata e gli attori che sono portatori di una simile visione. È importante chiedersi chi nomina la crisi e in che contesto, riorientando la percezione del cambiamento e dei processi in gioco. Una crisi può essere percepita dai contemporanei ed esplicitamente enunciata come tale oppure può essere pronunciata retrospettivamente, da osservatori esterni e sulla

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base di categorie interpretative costruite ex post. La crisi può essere vista Fig.1 e 2_ Black Scalpel come l’effetto prevalente di fattori esogeni oppure come l’effetto prevalente Cityscapes” di Damien Hirst, 2014 (Londra e Parigi). di fattori endogeni, di una perdita di coesione sociale e performance economica (Phythian & Adams 1979). Anche quando è istantanea, una crisi chiama sempre in causa un tempo più lungo leggibile attraverso la stratificazione nel tempo di strutture fisiche, rapporti sociali, fattori materiali e immateriali che costituiscono una città. La crisi è una forma di descrizione che presuppone, quasi per corollario, un’immagine di normalità della città — uno stato da cui la città si allontana e verso cui potrebbe ipoteticamente tornare. Può rappresentare un momento di rottura di un ordine o di un equilibrio ma anche l’apertura di nuove opportunità, di una possibilità di “reinvenzione urbana” (Ockman 2002). Le crisi possono essere un’occasione di rinegoziazione di rapporti di proprietà o dalla definizione di diritti di cittadinanza (Olmo 1989; França 1972), possono rappresentare un momento in cui le linee di confine tra pratiche informali e pratiche codificate e di costruzione dello spazio urbano vengono messe in discussione (Bocquet & De Pieri 2005), possono favorire un’accelerazione nell’evoluzione tecnologia e negli scambi transnazionali (Bankoff & LübkenSand 2012). Proprio per questo le domande su quali attori o gruppi possono beneficiare delle opportunità che si aprono in una fase di cambiamento sono cruciali in un’analisi del rapporto tra città e crisi. “Urban crises lay bare the underlying power structures, long-neglected injustices, and unacknowledged inequalities of contemporary cities. Moreover, such crises reveal certain forms of decision-making and organized action that tend to go unnoticed when everyday routines are stable and secure” (Gotham & Greenberg 2014, p.223). Nel campo degli studi urbani contemporanei è diffusa una lettura delle crisi come momenti di accelerazione dei processi di costruzione di disu-

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guaglianza che caratterizzano la città neoliberale (Davis 1998; Martin, Moore & Schindler 2015). Letture recenti della New York post-Ground Zero hanno scomposto i percorsi delle decisioni, i flussi di denaro e gli attori legati alle attività di ricostruzione, mostrando come un trauma collettivo possa rappresentare l’avvio di una profonda ristrutturazione al tempo stesso di un’economia e di un paesaggio urbano (Sagalyn 2016). Una parte della recente letteratura sulle crisi urbane ha proposto forme di possibile classificazione delle crisi, legate per esempio al loro rapporto con il tempo (graduali o improvvise), alle possibili cause (sociali o naturali), alla loro scala (Coaffee & Lee 2016). Dopo l’11 settembre 2001, e in un contesto globale segnato dalle paure diffuse legate al climate change, molta letteratura ha focalizzato la propria attenzione sui disastri naturali da un lato, sui problemi urbani legati al terrorismo internazionale dall’altro. Il presente quaderno si concentra, al contrario, su crisi urbane legate a processi di cambiamento che non sempre hanno carattere istantaneo né sono sempre così evidenti da poter essere riconosciute da tutti gli attori. Quelle raccolte in queste pagine sono storie di discontinuità urbane in cui la categoria interpretativa della crisi è leggibile in tutta la sua ambiguità e fragilità ma anche nella sua fertilità interpretativa. Il quaderno propone in particolare uno sguardo centrato sul rapporto tra crisi e forme urbane. Morfologia urbana e tipologia edilizia sono state isolate nel corso del Novecento da un’ampia letteratura soprattutto architettonica come possibili elementi centrali di un’analisi urbana rinnovata proprio in virtù della loro capacità di spostare lo sguardo su alcuni fattori di permanenza del fenomeno urbano nel corso del tempo (Lavedan 1926; Rossi 1966). Si può ipotizzare che alcuni dispositivi spaziali di una città, alla scala urbana come architettonica, siano in grado di dimostrare, in determinate situazioni

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di crisi, una peculiare capacità di tenuta? Quali forme si rivelano più adatte Fig.3 e 4_ Black Scalpel a favorire il cambiamento garantendo al tempo stesso una continuità? Quali Cityscapes” di Damien Hirst, strategie di appropriazione sociale dello spazio rendono possibile un simile 2014 (Rio e Roma). processo? Agli autori dei saggi raccolti nel quaderno è stato affidato il compito di definire contorni e tratti di una specifica crisi urbana e di individuare strategie e forme di risposta a questa crisi in un contesto dato, osservando in particolare gli intrecci con le forme del mutamento spaziale alle diverse scale. Ne emerge un repertorio di possibili declinazioni della crisi ma anche una potenziale tassonomia di reazioni in cui — al di là delle contrapposizioni consuete ma non sempre persuasive tra dominanti e dominati, top-down e bottom-up, gerarchia ed auto-organizzazione, mercato e condivisione — l’innovazione passa attraverso il riuso e l’attivazione di risorse spaziali implicite nelle morfologie urbane. La perdita di valore, di funzione, di senso che la crisi inevitabilmente comporta distrugge certo, ma libera anche potenzialità impreviste. Ciò che sembra accomunare le diverse forme di reazione alla crisi qui raccontate è da una parte il ruolo giocato dall’infrastruttura spaziale come capitale fisso attivabile per usi nuovi, dall’altra il ruolo quasi ecologico della diversità, della densità delle relazioni e della moltiplicazione delle opportunità che queste comportano. Lo spazio come risorsa a fronte della crisi. L’inerzia morfologica come resistenza positiva. Il pluralismo conflittuale come robustezza, resilienza, o, meglio, “antifragilità” (Taleb 2012). Ibridazione, eccedenza, ridondanza mostrano una logica diversa rispetto all’ottimizzazione taylorista dello spazio che ha costituito il vero modello della pianificazione e del progetto nel ventesimo secolo. Le retoriche dello sharing opposte a quelle usurate della competizione appaiono idealtipi che forzano la natura al tempo stesso conflittuale e cooperativa dell’arena urbana. Lo scambio gratuito e la

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Fig.5_

Black Scalpel Cityscapes” di Damien Hirst, 2014 (San Francisco).

transazione di mercato coesistono come alternative praticabili anche nello stesso spazio e tempo, da parte degli stessi attori. Per comprendere i dispositivi in cui questo ruolo dello spazio di volta in volta si declina occorre usare gli strumenti dell’analisi grafica e della narrazione visiva (Baum & Christiaanse 2012), aprendo uno spazio metodologico per una comunità scientifica che solo recentemente ha cominciato a ibridare con più insistenza i progetti formativi, finora spesso separati, della storia e del progetto — forse anche a partire dalla coscienza di una insufficienza, se non di una vera e propria crisi. Il disegno restituisce un’interpretazione insieme sintetica ed analitica dei fenomeni spaziali, ma prelude anche, in virtù di un codice condiviso, alla prefigurazione di una possibile trasformazione, alludendo al tempo stesso a un possibile ruolo operativo della conoscenza storica e ad un radicamento storico della prospettiva progettuale. Un percorso aperto a molte esplorazioni, di cui questi testi non rappresentano che un inizio.

Si ringraziano Janet Hetman e Davide Vero per la collaborazione al coordinamento degli autori e alla raccolta dei materiali.

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bibliografia Bankoff G., Lübken U. & Sand J., eds. 2012, Flammable Cities: Urban Conflagration and the Making of the Modern World, University of Wisconsin Press, Madison Baum M. & Christiaanse K., eds. 2012, City as Loft: Adaptive Reuse as a Resource for Sustainable Urban Development, gta publishers, Zürich Bocquet D. & De Pieri F., a cura di, 2005, La regola e la trasgressione: Parigi, Londra, Madrid, Lisbona, Milano, Beirut, Delhi, Toronto, Melbourne, “Storia Urbana”, vol. XXVIII, n. 108, pp. 5-156 Coaffee J. & Lee P. 2016, Urban Resilience: Planning for Risk, Crisis and Uncertainty, Palgrave, London Davis M. 1998, Ecology of Fear: Los Angeles and the Imagination of Disaster, Metropolitan Books, New York França J.A. 1972, Una città dell’Illuminismo. La Lisbona del marchese di Pombal, Officina, Roma Glaeser E. 2011, Triumph of the City: How Our Greatest Invention Makes Us Richer, Smarter, Greener, Healthier, and Happier, Penguin, New York Gotham K.F. & Greenberg M. 2014, Crisis Cities: Disaster and Redevelopment in New York and New Orleans, Oxford University Press, New York Lavedan P. 1926, Qu’est-ce que l’urbanisme? Introduction à l’histoire de l’urbanisme, Henri Laurens, Paris Martin R., Moore J. & Schindler S. 2015, The Art of Inequality: Architecture, Housing, and Real Estate, The Temple Hoyne Buell Center for the Study of American Architecture, New York Ockman J., ed. 2002, Out of Ground Zero: Case Studies in Urban Reinvention, Prestel, München Olmo C. 1989, “Le catastrofi e la redistribuzione delle opportunità”, in Gabetti R. & Olmo C., Alle radici dell’architettura contemporanea. Il cantiere e la parola, Torino, Einaudi, pp. 22-27 Piketty T. 2013, Le capital au XIXe siècle, Seuil, Paris Phythian-Adams C. 1979, Desolation of a City: Coventry and the Urban crisis of the Late Middle Ages, Cambridge University Press, Cambridge Rossi A. 1966, L’architettura della città, Marsilio, Padova Sagalyn L. 2016, Power at Ground Zero: Politics, Money, and the Remaking of Lower Manhattan, Oxford University Press, New York Sugrue T.J. 1996, The Origins of the Urban Crisis: Race and Inequality in Postwar Detroit, Princeton University Press, Princeton Taleb N.N. 2012, Antifragile: Things that Gain from Disorder, Random House, New York Topalov C., Coudroy de Lille L., Depaule J.C. & Marin B., eds. 2010, L’aventure des mots de la ville, Robert Laffont, Paris Tretten R.W. 1970, Cities in Crisis: Decay or Renewal?, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, NJ Vale L.J. & Campanella T.J. 2005, The Resilient City: How Modern Cities Recover from Disaster, Oxford University Press, New York Warner S.B. Jr. 1968, The Private City: Philadelphia in Three Periods of Its Growth, University of Pennsylvania Press, Philadelphia Voldman D. 1999, “Sur les «crises» urbaines”, Vingtième Siècle. Revue d’histoire, n. 64, pp. 5-10 Weber M. 2003, La città, Roma, Donzelli.

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particolare tratto dalla serie

“Condominio +65�

Beppe Giardino, 2016

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CittĂ in crisi Cities in crisis

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particolare tratto dalla serie

“Condominio +65�

Beppe Giardino, 2016

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Profanazioni urbane dentro la crisi. La maniera di Napoli

@ Janet Hetman |

# Profanazioni urbane | # Crisi | # Napoli |

Urban profanation within the crisis. The manner of Naples

# Urban desecration | # Crisis | # Naples |

Naples is a city whose complex history attests to the succession, and often intertwined, plural crisis. At the beginning of the XVII century it appears developed on itself within circumscribed boundaries, despite continued urbanization. Once formed, the Kingdom of Naples is its capital, and it shows a building congestion exacerbated by the absence of urban and regional economic policy, and by rules in favor of parasitism of religious factories. The city is literally smothered because of the limited urban tissue and of its growing population. An entire kingdom initially contained in one city without inhabitable spaces, and the urban fabric forced inside the walled belt: that’s the crisis. The first, and most radical, reaction is driven by people: the mass attacks and “swallows” built spaces, and it does so starting from military fortifications. Gutting the walls to inhabit them, and to enable the city to overcome them. Desecration is the people’s reaction to an unacceptable housing conditions, and by which the people takes possession of built architectures that were depleted of the original function. The desecration becomes the socio-spatial device, and illegal at first, to overcome the crisis; the action, large and uncontrollable, is taking charge of the institutions to become an urban and political tool.

Il funzionamento dell’organismo urbano richiede una sviluppata capacità d’indagine con cui distinguere attori e fatti rilevanti, al fine di riconoscerne le reciproche interazioni. La crisi è la manifestazione di uno o più episodi dannosi e si presenta come l’apice di un silente processo nocivo. Quando la città attraversa uno di questi episodi, è necessario osservare e misurare i fenomeni e seguire le tracce per riconoscere cause e nodi compromessi. È la disarticolazione delle questioni, caoticamente intrecciate, a consentire la ricomposizione di una specifica trama, e l’individuazione del tassello

Janet Hetman > Città in crisi > Profanazioni urbane dentro la crisi. La maniera di Napoli

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necessario alla comprensione che anticipa l’azione. La ricostruzione degli episodi è il metodo con cui la storia conquista il passato e lo restituisce al presente. Le discipline che si occupano di città studiano le configurazioni urbane, quale conseguenza dell’azione umana sullo spazio; una storia urbana, come osserva Cesare De Seta, “tale cioè da interessarsi, oltre che alle pietre, agli uomini e alle classi che sono attori di questa eccezionale scena” (De Seta 1981, p.5). La scena è Napoli, scelta per il rapporto familiare che la città ha con crisi di diversa natura, e perchè “nel corso della sua storia quasi tre volte millenaria è cresciuta su se stessa, conservando segni evidenti delle sue varie epoche” (Di Mauro&Vitolo 2006, p.5). La città è posta su un substrato vulcanico, è incastonata tra il mare e le colline, tra i Campi Flegrei ed il Vesuvio; ha una ricca condizione geografica e un’articolata storia politica, per cui la crescita urbana è impressa da programmi e linguaggi diversi dovuti alle alternanze dei poteri dominanti. Tanti soggetti, e relativi interessi, hanno impresso alla città i suoi diversi volti, incarnandovi gli storici problemi: continuità spagnola, brevemente interrotta dagli austriaci; un nuovo regno spagnolo, interrotto da una pausa francese; e a questi si sono spesso sovrapposti i poteri parassiti. In particolare “se facessimo un ideale spaccato di Napoli alla fine del settecento troveremmo in nuce tutti gli aspetti negativi dell’urbanesimo contemporaneo” (De Seta 1981, p.208). Proprio al fine di far emergere da questo spaccato i segni della crisi, è necessario leggerli in quell’intervallo temporale che ne contiene radici, manifestazioni e superamento. Già a partire dal XVI secolo il viceregno spagnolo attua a Napoli un accentramento di funzioni politico-amministrative e, insieme alla concessione di

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privilegi agli abitanti, si avvia un esodo dell’aristocrazia dalle campagne e un primitivo ma considerevole inurbamento. Questo incipit determina un andamento demografico crescente, seppur discontinuo, con cui Napoli arriva a contare 409.000 abitanti1, divenendo la prima tra le città italiane e, nel contesto europeo, paragonabile solo a Parigi e Londra. Il fenomeno però presenta una caratteristica singolare: va segnalato, concessi tra il XVI e la fine del XVII secolo, l’aumento della presenza del clero dovuto ai privilegi loro. Ciò favorisce l’insano processo di insediamento dell’edilizia religiosa nel tessuto urbano tale che

Fig.1_ Parziale

dell’illustrazione di F.B.Wernot, 1750.

“Napoli presentò una densità di conventi paragonabile a quella delle grandi città spagnole, ma ciò che maggiormente caratterizzò il panorama sacro della città fu [...] il cosiddetto diritto a ‘far isola’, cioè ad acquistare le costruzioni limitrofe alla fondazione religiosa, inglobarle o ristrutturarle fino alle strade delimitanti l’isolato.[…] Gli ordini religiosi si espansero in continuazione sottraendo spazio alle abitazioni civili, andando a volte anche a detrimento dello spazio pubblico.” (Di Mauro & Vitolo 2006, p.95) Insieme alla questione religiosa vanno considerate le speculazioni operate dall’aristocrazia di rientro dalle campagne; la città quindi “divenne il teatro di un doppio processo di aristocratizzazione e di sacralizzazione che la rimodella” (Di Mauro & Vitolo 2006, p.94) all’interno dei confini entro cui la forma urbana è costretta. (fig.2) Già a partire dal 1533, le prammatiche locali proibiscono l’espansione urbana oltre la cinta muraria, e stabiliscono i limiti di rispetto del manufatto militare: da 30 canne2 dentro a 200 canne fuori.

Janet Hetman > Città in crisi > Profanazioni urbane dentro la crisi. La maniera di Napoli

1_ Le fonti bibliografiche con-

sultate dichiarano un grado di incertezza sui dati forniti. Nonostante ciò si è ritenuto opportuno riportarli per restituire qualitativamente il fenomeno.

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Il fattore di conversione vede una canna equivalente a 2,646 metri.

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Il consumo urbano parassitario corrodeva irreparabilmente gli spazi liberi del tessuto costruito, nonostante ciò furono rinnovati le concessioni a titolo gratuito del suolo pubblico e la mancata tassazione sulla rendita immobiliare, per gli ordini religiosi, e il limite di espansione oltre le fortificazioni. Nel 1714, a fronte a queste condizioni, si ritennero urgenti “remedij più opportuni e propri affinchè non s’inoltrassero più gli Ecclesiastici nello acquisto dei beni stabili, dei quali già li medesimi in questa Città e Regno ne possedono tre e più delle quattro parti”, sottolineando come in alcuni quartieri le fabbriche religiose erano “fra loro in così immediato contatto da escludere, o quasi, le abitazioni civili.” (Giannone 1723 Vol III, libro XXXVIII, Paragrafo I in Santoro & Di Caramanico 1984). Nel 1734 un nuovo cambio politico vede l’insediamento di Carlo di Borbone e la costituzione del regno autonomo di Napoli e di Sicilia. Emerge dalle letture di storici, economisti e anche cartografi del tempo che il Regno di Napoli è la sua capitale; una città-capitale in cui sono concentrate tutte le funzioni amministrative, produttive, economiche e sociali del Regno. Una condizione eccessiva per una città già affaticata da problemi storici, e ancora irrisolti. Si assiste comunque ad un nuovo incremento demografico, stavolta insostenibile, e la pressione degli edifici ecclesiastici provoca “scompensi gravissimi” (De Seta 1981, p.309), generando condizioni di malessere diffuso e forti tensioni sociali. Il complesso intrigo con cui Napoli nel Settecento guadagna la dimensione metropolitana di città contesa tra richieste private ed utilità pubblica è ben illustrata dalla cartografia urbana. Letteralmente soffocata, la città brulica di reazioni popolari e, seppur talvolta taciute dagli storici, le risposte alla crisi hanno agito proprio su quello spazio proibito, trasformandolo nel luogo di azioni politiche e di segni urbani. La tavola di F. B. Wernot (fig.1), datata 1750, mostra un agglomerato urbano congestionato e addossato alla cinta muraria, ove si distinguono la presenza delle fabbriche religiose e la svettante altezza degli edifici, manipolata dalla addizione di piani per fare fronte alla penuria di abitazioni civili. Altre rappresentazioni settecentesche ritraggono la presenza di costruzioni al di fuori delle mura, queste ultime “apparvero quindi più come un ostacolo che una protezione” (Di Mauro&Vitolo 2006, p.108), e attraverso la lettura in sequenza delle principali cartografie su Napoli tra la fine del ‘500 e la fine del ‘700, si nota il costante avanzamento della città verso la struttura difensiva, che viene progressivamente inglobata3. Lo storico Leonardo Di Mauro attribuisce alla dismissione delle mura napoletane la prima manifestazione europea del progressivo assorbimento delle strutture difensive nella trama urbana, ed è proprio il carattere anticipatorio a rendere così rilevante la crisi partenopea. Il graduale inutilizzo fu dovuto in parte alla scelta politica di delocalizzare la difesa del regno ai forti di Capua e Pescara, e alle innovazioni in campo militare tali da rendere inadeguate le strutture esistenti, e in parte alla continua occupazione delle mura, a scopo abitativo da parte del popolo napoletano. La “fagocitazione”4 avviene in varie modalità: la distruzione e il riuso delle strutture difensive; la realizzazione di porte abusive; e l’appropriazione delle torri, o di parti della cinta muraria, mediante un processo di scavo seguito da insediamento.

Janet Hetman > Città in crisi > Profanazioni urbane dentro la crisi. La maniera di Napoli

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Fig.2_ Le mura della città su

mappa topografica di Giovanni Carafa duca di Noja, 1775.

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Si veda la pagina dedicata nell’atlante in appendice. 4_ Come definita dallo storico napoletano Leonardo Di Mauro.


5_

Le dimensioni variano dai 4,5 ai 5,6 metri circa, come specificato da Affortunato A. in Di Di Mauro L. 1997, Mura e torri di Napoli, Napoli, Electa. 6_ Ad esempio il Tribunale della Fortificazione nel 1723 concede l’autorizzazione ad edificare, come illustra Lucio Santoro, “al di sopra della muraglia senza superare l’altezza dei torrioni e di ricavare vani e scale aventi una profondità di 13 palmi e mezzo (circa 3,40 m) nello spessore della muraglia che era di 18 palmi e mezzo (4,5 m)”.

A scopo esemplificativo entreremo nel merito del tratto orientale delle mura, corrispondenti al periodo Aragonese, il cui impianto è caratterizzato da tratti rettilinei intervallati da torri cilindriche scarpate. L’altezza è uniforme tra i due elementi, lo spessore profondo circa quattro metri e il rivestimento composto da blocchi di piperno che celano un interno in tufo giallo. A partire dalle caratteristiche dimensionali e materiche è possibile riconoscere, nel tessuto urbano odierno, singolari tipologie edilizie esito del riutilizzo della cinta muraria; ne sono di esempio: la configurazione planimetrica di alcuni cortili di forma irregolare; e l’inglobamento della struttura muraria in edifici che vi si addossano, prima da un lato e poi da quello opposto, riscontrabile oggi nella differente altezza delle due parti. O ancora a seguito dell’inserimento di vani, abitazioni, e fabbriche nelle mura e nelle torri, dato che “la massiccia cortina aragonese poteva garantire uno spessore [...] variabile tra i diciotto ed i ventidue palmi napoletani” (Di Mauro 1997, p.9)5. Quella specifica dimensione ci consente oggi di leggere all’interno dei blocchi edilizi quella parte ottenuta dal riutilizzo della cortina muraria. Le reazioni sopra descritte vengono comprese e istituzionalmente legittimate; infatti il Tribunale della Fortificazione, ente preposto al controllo e alla verifica dell’integrità della struttura difensiva, “tentò di riservare sempre l’obbligo di non danneggiare l’aspetto delle mura”. (Di Mauro 1997, p.9) Porta Nolana (fig.3,4) è il caso scelto a rappresentare i due tipi di fagocitazione. Nei tracciati rettilinei si legge la sequenza di vani a profondità costante di 4,5 m, dimensione corrispondente proprio allo spessore originario del muro aragonese6. Attraverso Torre Fede, invece, è possibile riconoscere il sistema di riutilizzo delle torri che avveniva per svuotamento del pieno tufaceo, ricavandone due piani, a cui venivano aggiunti superiormente altri

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livelli, fino ad un massimo di tre7. Nel 1740 Carlo di Borbone, seppur senza alcuna visione urbanistica, riconosce l’urgenza di intervenire, autorizza lo sventramento delle mura, così che “spezzata ormai definitivamente la cinta muraria, l’abitato dilagò verso quei borghi di Chiaia e Posillipo che di fatto erano diventati parte, da oltre un secolo, dell’ organismo urbano” (De Seta 1981, p.177). Spostare la riflessione dalla Napoli del XVIII secolo, cresciuta su se stessa, alla città europea contemporanea, quella compatta del re-cycle, consente di fare alcune considerazioni. La città, a seguito di importanti cambiamenti tecnologici, produttivi o sociali, si ritrova un patrimonio architettonico “specializzato” obsoleto, e quindi svuotato di senso. La dismissione di queste architetture rappresenta, di fatto, l’opportunità per riassorbire quel patrimonio. La profanazione8 del sistema difensivo partenopeo al pari delle occupazioni, o altri tipi di alterazioni, delle abitazioni in atto in molte città contemporanee, mette in luce l’importanza delle pratiche collettive, vere e proprie reazioni diffuse ai problemi sociali. Esse “sono produttrici di significati […] e di senso inteso come orizzonte di possibilità” (Pasqui 2008, p.60); le pratiche, il cui carattere è spesso illegittimo, mostrano scenari di riutilizzo del manufatto architettonico, generando consapevolezza istituzionale sui limiti legislativi e suggerendo strategie per l’azione futura. La profanazione è l’azione volontaria con cui, infrangendo le norme, si depriva uno spazio dei suoi connotati codificati e le stesse azioni aprono ad opportunità nuove attraverso la denuncia della perdita del senso comunemente riconosciuto e, l’ attribuzione di nuovo senso ad uno spazio urbano.

Janet Hetman > Città in crisi > Profanazioni urbane dentro la crisi. La maniera di Napoli

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Fig.3 e 4_

Profanazione Torre Fede, Porta Nolana Napoli, 2016.

7_

Altri episodi esemplari sono quelli di Torre Gloria e Torre la Duchesca. 8_ Si fa riferimento alla definizione di Giorgio Agamben: “la profanazione implica una neutralizzazione di ciò che profana. Una volta profanato, ciò che era indisponibile e separato perde la sua aura e viene restituito all’ uso. La profanazione disattiva i dispositivi del potere e restituisce all’ uso comune gli spazi che esso aveva confiscato” Agamben G. 2005, Profanazioni, Roma, Nottetempo.


bibliografia Agamben G. 2005, Profanazioni, Nottetempo, Roma. De Seta C. 1981, Napoli, Laterza, Roma. De Seta C. 1973, Storia della città di Napoli dalle origini al Settecento, Laterza, Roma. Di Mauro L. 1989, “Le mura inutili. L’aggressione dei napoletani alle mura nei secoli XVII e XVIII”, in De Seta C. & Le Goff J., a cura di, La città e le mura, Roma-Bari. Di Mauro L. 1994, “La struttura urbana tra richieste private ed utilità pubblica”, in Settecento napoletano. Sulle ali dell’aquila imperiale 1707-1734, Napoli. Di Mauro L. 1997, Mura e torri di Napoli, Electa, Napoli. Di Mauro L. & Vitolo G. 2006, Breve storia di Napoli, Pacini, Pisa. Napoli Aragonese, consultato a maggio 2016, http://www.napoliaragonese.it/ Pasqui G. 2008, Città, popolazioni, politiche, Jaca Book, Milano. Pignatelli G. 2006, Napoli. Tra il disfar delle mura e l’innalzamento del muro finanziere, Alinea Editrice. Santoro L. & Di Caramanico A. 1984, Le mura di Napoli, Istituto italiano dei castelli, Roma. Venturi F. 1969, Settecento riformatore, Einaudi, Torino.

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Londra 1970-1980: la città degli squat

@ Laura Martini # Londra | # Occupazioni | # Punk |

London 1970-1980: The squats’ city

In the ‘70 Great Britain experienced a deep cultural and economic crisis. Young people, unemployed and clashing against older generations, were the most affected by the economic crisis. The most interesting spatial devices during a crisis are those that solve problems in an unusual way. These solutions are the one that produce a major impact on the city’s transformation and evolution. Hundreds of houses in London, at that time, were abandoned, in derelict conditions, locked, waiting to be demolished. The removing of boards and locks, and the occupation of these houses changed their status from private or public property to property available for the community, this was the immediate device to face the crisis. For the ones that were living in London squatting became a strategy to survive and to part from their families. Every abandoned place was a good place to squat. In particular abandoned Victorian neighborhoods fitted best for the housing issue. Victorian town houses that embodied the upper and middle class lifestyle in the XIX century became in the ‘70s of the XX century the chance for a radical socio-spatial turn . Squatting as a reaction to sudden needs has backed the production of long term effects on the cultural identity of the town, The decoding of squatting cultures produced a further level of resilience: land tenure valorization through cultural productions.

La comprensione di ciò che è accaduto spazialmente a Londra durante la crisi che va dal 1970 all’apparente ripresa degli anni ‘80 è di fondamentale importanza per decodificare ciò che sta accadendo oggi in tutto il mondo occidentale quando si parla di produzione di valore fondiario in aree in cui questo valore è andato pressoché perso. Oggi come allora la crisi manifesta non solo il passaggio da un ciclo economico-produttivo ad un altro ma anche un radicale cambiamento sociale e una cesura generazionale. Ritengo che i dispositivi spaziali di resilienza alla crisi prodotti dalla controcultura degli anni ‘70 contribuiscano a chiarire perché le pratiche

Laura Martini > Città in crisi > Londra 1970-1980: la città degli squat

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# London | # Squats | # Punk |


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di valorizzazione e riqualificazione urbana recuperino attualmente, in un Fig.1_ Nascita e diffusione momento di crisi duratura, pratiche urbane marginali come la street art e della London Squatters’ 1968-1976. l’estetica degli spazi occupati. In particolare è interessante approfondire ciò Campaign, (Autore: Laura Martini, dati che è accaduto a Londra tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80. dall’archivio del Advisory La risposta immediata di ragazzi e ragazze molto giovani alla recessione Service for Squatters). innescata dalla crisi furono le occupazioni massive di porzioni di città abbandonate, la nascita dello Squatting Movement e la London Squatters’ Campaign, in sostanza l’utilizzo di una pratica spaziale radicale e illegale, lo squat, come dispositivo di resilienza. Se in prima battuta, alla fine degli anni ‘60, le case occupate erano la risposta immediata all’emergenza abitativa, pochi anni dopo all’inizio degli anni ‘70 si sono trasformate in luoghi di sperimentazione di nuovi lifestyle e di una produzione culturale intensa che le ha caricate di una forte componente simbolica. Osservare la genesi di questa componente simbolica ci aiuta a mettere le basi per costruire un discorso sul continuo travaso tra il simbolico e l’economico. Nel caso dello spazio quello che ci interessa capire è come il valore simbolico prodotto da una pratica spaziale radicale produca valore simbolico e come questo si trasformi in valore economico e fondiario. A Londra all’inizio degli anni ‘70 corrono su binari paralleli due fondamentali cambiamenti: uno è economico dovuto alla grande recessione innescata, in maniera estremamente sintetica, dall’eliminazione dei cambi fissi nel 1971 (sistema di Bretton Woods) che fa crollare il potere d’acquisto della sterlina, alla crisi petrolifera del 1973-74 che dà il colpo di grazia all’economia britannica, ai numerosi scioperi che seguono e che bloccano il paese. L’altro è culturale, ovvero il passaggio da una società in cui il conflitto di classe è diretto e chiaro ad un modello di società in cui tale conflitto diventa, come vedremo, molto più ambiguo e si giocherà anche su un piano spaziale. La crisi crea un’enorme disoccupazione e investe per primi i figli della working class, tuttavia la rottura non è solo di classe ma anche e soprattutto generazionale. Per comprendere la situazione socio-economica degli anni ‘70 occorre ricordare che nel secondo dopoguerra, nel 1948, viene abolita la Poor Law del 1601 che viene sostituita dal National Assistance Act (NAA). Il NAA prevede che le autorità locali siano obbligate a destinare alloggi di emergenza ai senzatetto, tuttavia l’approccio restrittivo e panottico delle workhouses della Poor Law resta come impronta anche negli hostels dove le famiglie dei poveri vengono albergate. Spesso i regolamenti erano molto restrittivi, talvolta non permettevano ai padri di risiedere con le loro mogli e i loro figli, vi erano orari molto rigidi e come descrive Ron Bailey questi luoghi “… were the end of normal life, the end of consideration as a human being, the end of hope, the beginning of life outside society, the beginning of social rejection and ostracism”. (Bailey 1973, p. 7) Tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 il numero di richieste per l’iscrizione alle liste per l’attribuzione di un alloggio crebbero da 100.000 a circa 170.000 nella sola Londra. È in questo contesto sociale che nasce la London Squatters Campaign. L’intenzione dei promotori della campagna di squatting aveva come obbiettivo immediato quello di ottenere un alloggio decente e sicuro per le famiglie ospitate o destinate agli hostel, ma anche, non meno importante,

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quello di iniziare un attacco generalizzato alle autorità che gestivano gli alloggi da parte della gente comune (Bailey 1973, pp.31-34). I primi successi della Squatters’ Campaign avvicinano a questa pratica anche tutti i giovani, dropout, in conflitto con le famiglie, disoccupati che si mantenevano con i contributi del social security, che consolidano insieme agli homeless la pratica dello squatting fino ad arrivare a 30.000 squatter nella sola Londra (Fig. 1). Circa il 90 % delle case occupate era di proprietà del GLC (Greater London Council) (Bailey 2005), dalla ricerca fin qui condotta è possibile sostenere che gli squat erano per lo più occupazioni di case vittoriane, ed è in queste che si inscrivono i cambiamenti socio-economici e culturali di Londra dall’Ottocento in poi. I quartieri vittoriani furono costruiti dal 1840 per la middle e upper class che si andavano formando e aumentando nella Londra imperiale, siamo nel momento di piena espansione dell’impero coloniale inglese, con i quartieri vittoriani si fece fronte ad un esplosione demografica. Tra l’inizio del XIX sec. e l’inizio del XX sec. Londra passa da circa un milione di abitanti a sette milioni1. Alla fine del XIX sec., come rappresentato nelle mappe di Charles Booth2, i quartieri vittoriani erano occupati dalla middle class e dall’upper class, fatta eccezione per alcune zone ad est dove la situazione era più mista vista l’alta percentuale di immigrati provenienti dalle colonie dell’Impero Britannico. Un secolo dopo, nel secondo dopoguerra, molti di questi quartieri sono stati semi abbandonati, talvolta parzialmente distrutti dai bombardamenti del 1941. Il loro abbandono segna il primo cambiamento della classe borghese che già dall’inizio del XX sec. rinuncia alla città per vivere nei sobborghi di Londra (Hamnett 2003, p. 163), oltre la green belt, ovvero in case di nuova costruzione più moderne e confortevoli. L’obsolescenza degli immobili non è solo tecnologica ma rappresenta anche l’obsolescenza della rappresentazione dell’immaginario borghese ottocentesco. Le case quando vengono abbandonate, sono parcellizzate e affittate in porzioni alla working class (Glass 1964, p.xviii). Dagli anni ‘60 le politiche di investimento fondiario investirono nella demolizione di interi quartieri per la costruzione di edifici per uffici o commerciali, o per residenze moderne o nel recupero delle case vittoriane per i pionieri della giovane middle-class provenienti dai sobborghi. Molte case, seppur rilevate dalle autorità locali, restarono inutilizzate e sbarrate in attesa di progetti di sviluppo immobiliare. Se la casa vittoriana nell’ottocento era occupata da una famiglia e la sua servitù, con un’estrema gerarchizzazione degli spazi e dei piani (Kerr 1865, pp. 63-65), negli anni ‘70 lo squat diventa luogo della vita in comune, vi possono abitare più nuclei familiari, i piani bassi sono generalmente destinati alle attività ordinarie e pubbliche, gli scantinati sono adibiti a sala prove, i muri che separano i giardini sul retro vengono abbattuti, i piani alti sono destinati alla vita più privata. Affrontati i primi problemi di manutenzione degli edifici e degli impianti la permanenza, la diffusione, la densità in alcuni quartieri degli squat permette di estendere le sperimentazioni di “communality” ben oltre i confini delle singole case, trasformando pezzi di interi quartieri in “intimate living place” (Ingham 1978, p. 174). Talvolta si uniscono due case, si trasformano le case meno abitabili in luoghi di incontro, ristorazione, loisir fino a produrre un’atmosfera3 particolare per ogni quartiere occupato (fig. 2). Nel documentario Westway to the World4 Joe Strummer frontman della

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Fig.2_

Soggiorno vittoriano 1865-1975. Credits: Lady Frances Jocelyn, Interior, 1865, Washington National Gallery of Art, Open Access; Nick Wates, North London squat 1975 http://www.nickwates. com

1_

Fonte: https://www.oldbaileyonline.org/static/Population-history-of-london.jsp 2_ La London School of Economics ha scansionato le Poverty map di Charles Booth del 1898-99 e le ha rese disponibili online all’indirizzo: http://booth.lse. ac.uk/cgi-bin/do.pl?sub=view_booth_and_barth&args=532699,186265,1,large,0 3_ La parola “atmosfera” in italiano non rende bene come la parola tradotta in francese, “ambiance”, strettamente correlata con lo spazio e i luoghi. 4_ Il film-documentario è stato prodotto nel 2000 per la regia di Don Letts.


5_

Per “unité d’ambiance” si fa riferimento ad ambiance dal carattere coerente e unitario, dalle quali si può percettivamente entrare ed uscire. Un esempio sono le unité d’ambiance delle mappe “The Naked City” e “Guida Psicogeografica di Parigi. Discorso sulle passioni dell’amore” dei situazionisti.

band punk the Clash racconta: “In 1974 it did seem like life was in black and white. There were rows and rows of buildings, all hold up by the council, just left to rot and that was what gave birth to squatting, if we hadn’t had the squats, A. for a place to live and B. we could set up a rock ‘n roll band and practice in them”. Proprio la disponibilità di questi spazi ha favorito una nuova forma di vita associata che è stata decisiva sia nell’innovazione culturale del paese sia nella valorizzazione economica di tali spazi. In quegli anni la rottura generazionale ha portato molti figli della working class, ma non solo, a inventare nuove forme di vita, nuovi codici linguistici, nuovi codici immaginari, nuovi codici comportamentali che funzionavano come la loro propria modalità di resilienza alla crisi. Attraverso un’analisi dei documenti prodotti dagli squatter negli anni ‘70, in particolare i rilievi fatti dall’Advisory Service for Squatters, sopralluoghi nei quartieri, piazze, strade allora occupati, e soprattutto attraverso alcune interviste a personaggi che hanno partecipato sia alla diffusione degli squat, che alla diffusione della sottocultura punk, si può organizzare un discorso che ne intercetti proprio questo aspetto. Gli squat s’inseriscono nei quartieri vittoriani “derelitti” ambiti anche dalla giovane classe media dei sobborghi, mutandoli in un dispositivo spaziale di risignificazione dei luoghi e come produttori di “unitè d’ambiance”5, ovvero capaci di valorizzazione simbolica e quindi capaci, volenti o no, di ricapitalizzare tali spazi urbani. Lo squat è stato un dispositivo spaziale che ha facilitato l’aggregazione e la creazione delle band punk, il New Romantic, la diffusione della cultura Rastafari, e dunque delle relative sottoculture, tali sottoculture inaccettabili in quel determinato momento hanno prodotto, invece negli anni ‘80, la riqualificazione e valorizzazione di quartieri come Notting Hill a Kensington & Chelsea, Maida Vale a Westminster, Islington o il più noto Camden. Tra lo squatting dei punk londinesi o i “centri del proletariato giovanile” in Italia negli anni ‘70 e le occupazioni di oggi c’è una grande differenza che va evidenziata: le prime si dovevano conquistare uno spazio attraverso il conflitto sociale le seconde hanno a disposizione soggetti disposti a mediare nelle istituzioni e quindi un parziale consenso e tolleranza. Lo stesso dispositivo spaziale, quello di appropriarsi e popolare illegalmente uno spazio ridestinandolo a diversi usi come abitazione, club, trattoria, pub, dance hall, luogo di concerti, sala da thè, sala per le prove musicali, libreria, è profondamente diverso nei due momenti. Nel primo caso lo squatting punk, ad esempio, non si preoccupava affatto di dare una parvenza di accettabilità borghese agli spazi che popolava ma li ridisegnava così come ridisegnava i propri corpi, mentre oggi si cerca di ridisegnare gli spazi occupati in luoghi accoglienti accettabili anche dalle famiglie e da visitatori, tant’è che cominciano ad apparire spazi per i bambini, per le donne incinta, per il chill out quotidiano e non solo per gli eventi giovanili. È importante comprendere il processo spaziale descritto perché ci permette di decodificare ciò che sta accadendo oggi nelle nostre città, quando per esempio si parla di street art. Il punk, ad esempio, nato come pars destruens della società britannica di quegli anni una volta riconosciuto e divenuto un affare remunerativo nella musica, nell’ambiente della moda, nell’ambiente

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della grafica e dei creativi è divenuto involontariamente pars construens negli anni ottanta, valorizzando interi quartieri, aprendo la strada all’upper class, permettendo la loro riqualificazione in quartieri turistici. Occorre essere oggi consapevoli che senza quel primo inaccettabile atto di rottura la società britannica sarebbe stata più vulnerabile alla crisi.

bibliografia Arrighi G. 1996, Il Lungo XX secolo,Il Saggiatore, Milano. Bailey R. 1973, The Squatters, Penguin Books, Harmondsworth. (intervista a) 2005, A squat of their own, in Inside housing, consultato a gennaio 2016, http://www.insidehousing.co.uk/journals/insidehousing/legacydata/uploads/ pdfs/IH.050812.020-023.pdf Böhme G. 2010, Atmossfere, estasi e messe in scena, Marinotti, Milano. Debord G. 2006, Théorie de la dérive, in Internationale Situationniste n.2, Paris. Œuvres, Gallimard, Paris. Dudansky R. 2013, Squat city rocks, Proto-punk and beyond, CPSIA, LaVergne. Elliot K. 1999, The academic exploitation of bottom up urban practices, Lightning Source, Milton Keynes. Glass R. 1964, London. Aspects of change, MacGibbon & Kee, London. Ingham A. 1980, “Using the space”, in AAVV, Squatting, the real story, Bay Leaf Books, London. Hamnett C. 2003, Unequal city, Routledge, New York. Kerr R. 1865, The gentlemen’s house; or, how to plan English residences, from the parsonage to the palace, John Murray, London. Vazquez D. 2008, Manuale di Psicogeografia, Nerosubianco, Cuneo. Zukin S. 1989, Loft Living, Rutgers University Press, New Brunswick.

Laura Martini > Città in crisi > Londra 1970-1980: la città degli squat

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particolare tratto dalla serie

“Condominio +65�

Beppe Giardino, 2016

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Walk on the wild site. New York negli anni ‘70 Walk on the wild site. New York in the 70s

@ Lucia Baima |

# Spiritual crisis | # New York | # Alternative urban livestyle |

On the night of July 13th 1977 at 9:34 pm a blackout hits the city of NY. Darkness falls over the urban order. The covers of the major magazines immortalize a city in chaos. The episode is the culmination of a long, multilayered period of economic and social ills, which had roots in the previous decade, and was considered by some a spiritual crisis for the city. At the same time it is possible to analyze this period as a condenser of an extraordinary creative explosion that transforms the city into a stage and an urban laboratory. Entire music genres, in fact, are redefined and invented during this time, influencing the next decades. New artistic and collective movements are welcomed across the city and its spaces, determining new uses and intensifying functions through bottom-up processes. The article aims to analyze and highlight the correlation between the characteristics of the transformed spaces – incubators of new practices – and the architectural devices used or reinvented from these processes. The analysis intends to be articulated across the board, building an overview of the different processes of urban devices - urban anchors - transformed into artistic support. This includes the phenomena of loft-dwellers, graffiti artists and the birth of the squatter phenomenon, with a particular focus on the process of artists’ appropriation of abandoned industrial loft buildings to use for live-work as well as gallery and performance space purposes, leading to a redefinition of the loft typology, intensifying the diversity of functions within the flexible space. This will define new models of alternative lifestyles through alternative space use.

Nella notte tra il 13 e il 14 luglio 1977, alle 21:34, un blackout colpisce la città di New York. In alcuni quartieri cala il buio anche sull’ordine urbano. La copertina del TIME1 dell’epoca immortala una città nel caos e il New York Times apre così l’edizione speciale: “Within minutes after the power failed last night, police radios around the city began to crackle with reports of crime”.2 L’immagine è ben diversa dalla bella addormentata NY ritratta nella copertina di LIFE3 pubblicata all’indomani del blackout del 1965, vissuto inveTIME, 25 Luglio 1977. ce euforicamente come occasione per riscoprire la città sotto un’altra veste 1_ 2_ L. V. Gelder, State Troo(Stern, Fishman & Tilove 2006). pers Sent into City as Crime Lucia Baima > Città in crisi > Walk on the wild site. New York negli anni ‘70

Rises, New York Time, 14 luglio 1977, p.1. 3_ LIFE, 19 Novembre 1965.

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Fig.1_ Frammento di NY ai tem- Stesso evento, due fotografie opposte della stessa città. pi della crisi degli anni ‘70, photo by © John Fekner. Titolo originale: Burned-out building, Charlotte Street. Urban decay. Falsas Promesas Broken Promises (https:// en.wikipedia.org/wiki/South_ Bronx#/media/File:BrokenPromises_JohnFekner.jpg, immagine rifilata dall’autore).

4_ Tra il ‘56-‘75 la popolazione

a Manhattan passa dall’11,8 al 8.1% con un numero di impiegati dal 40.6% al 29.1%. Il settore manifatturiero si riduce dal 28,2 al 21,5%. Hoover and Vernon, Anatomy of a Metropolis, 1959, p.6, p. 248.

La reazione urbana registrata nella notte del ‘77 rappresenta l’episodio culmine della lunga fase di crisi economica e sociale sofferta dalla città ma, come la stessa parola crisi sottende, è possibile rileggere questo periodo come uno straordinario catalizzatore e condensatore per nuove pratiche bottom-up di trasformazione urbana e traino per far emergere prepotentemente quelle che in modo latente avevano già da tempo avviato un cambiamento rivoluzionario nell’uso degli spazi. La creativa ridefinizione funzionale dei dispositivi architettonici e urbani, attuata dagli stessi newyorkesi, forza le regole, le norme e ridefinisce i confini: si determinano così usi e commistioni di funzioni originali negli spazi urbani esistenti. I nuovi scenari che si vengono a definire sono in alcuni casi così potenti da rendere imprescindibile la modifica di leggi e regolamenti urbani che, legittimando questi nuovi usi, inaugurano inediti modelli dell’abitare e fungono da volano per il mercato immobiliare. Questo fermento creativo sorge in anni di profonda crisi nei quali si rafforza sempre più la consapevolezza che parte della città sia un terreno in abbandono. La crisi economica, aggravata dalla crisi petrolifera del ‘73, incide infatti intensamente sulla città a più livelli: nel settore manifatturiero NY perde più posti di lavoro di quelli che complessivamente si sono persi nel resto degli USA (Haris 1991), provocando conseguentemente l’ulteriore riduzione della popolazione residente a Manhattan4. Un processo questo iniziato nel decennio precedente con il trasferimento delle famiglie bianche benestanti nei desiderati sobborghi – il nuovo sogno americano – che abbandonano le case all’ondata di immigrati arrivati in città per trovare, paradossalmente, lavoro (Zukin 2010). Si determina così una reazione a catena che porta il

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sindaco A.D. Beame sul punto di dichiarare bancarotta nell’ottobre del 1975, Fig.2_ PSubway, New York dopo aver già sospeso, dati gli enormi buchi di bilancio, l’erogazione dei ser- 1973, photo by © Jim Pickerell Titolo originale: Graffiti on a vizi essenziali per la città. La delinquenza e il degrado dilagano. subway car on the lexington Il panorama sulla città è stridente: da un lato l’immagine l’affascinante e so- avenue line in new york city. fisticata del centro e dall’altro i desolanti quartieri dai fatiscenti fabbricati in In 1973 transit authority police arrested more than abbandono (Fig.1). 1,400 persons for such an Ambivalente è l’immagine di NY di questo periodo, ambivalente è la reazione degli abitanti alla crisi stessa. In contrapposizione all’abbandono si registra una straordinaria esplosione creativa che trasforma la città in un vero e proprio palcoscenico e laboratorio urbano creativo. Sono questi gli anni in cui nascono i generi musicali e le correnti artistiche che influenzeranno profondamente i decenni successivi, in una città che, allo stesso tempo, diventa catalizzatore di azioni urbane collettive senza precedenti. Emergono pratiche spontanee che trasversalmente innescano meccanismi nuovi di riappropriazione degli spazi della città resi disponibili dalla crisi: tasselli vuoti, edifici abbandonati, superfici orizzontali o verticali diventano supporti sui quali si intensificano o sovvertono le funzioni precedentemente programmate. I dispositivi architettonici ed urbani ri-usati diventano strumenti sui quali si trasferisce fisicamente il disagio e con i quali si attua la resilienza alla spiritual crisis (Mahler 2005). I fenomeni che emergono, il più delle volte totalmente illegali, forzando le regole e gli schemi, generano soluzioni impreviste che sfruttano il coinvolgimento e la ridefinizione dei dispositivi architettonici come strumento per (re)agire sulla città, in modo cosi capillare da poterla analizzare transcalarmente.

Lucia Baima > Città in crisi > Walk on the wild site. New York negli anni ‘70

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offense; in 1974 it was more than 2,000 offenders very few cars in the 232-mile subway system are free of graffiti despite a program of constant maintenance and repainting. the new york city transit authority system is of crucial importance. in 1970 it carried 47 percent of the city work force daily (fonte wikimedia, http://bit.ly/2dUqhe7 Immagine rifilata dall’autore).


Le superfici verticali: facciate, palazzi e vagoni della metropolitana vengono utilizzati come supporti dai writers per far conoscere e viaggiare i loro messaggi - i graffiti - indistintamente e provocatoriamente in tutti i quartieri della città (Fig.2), così come i tasselli interstiziali della griglia, resi vuoti dopo l’abbattimento delle case pignorate, si rigenerano in giardini urbani autogestiti, vere piattaforme nelle quali la stessa comunità si identifica, i community gardens. Anche gli stessi edifici abbandonati diventano catalizzatori di nuove pratiche: lo squatting movement, l’occupazione illegale di case abbandonate da parte di gruppi di abitanti, in particolare nell’East Village. Utilizzando minimi dispositivi architettonici, il più delle volte home made e, sfruttando a proprio vantaggio la tipologia dell’appartamento a tenement caratterizzante l’area, lo spazio interno viene frazionato in modo da ridefinire le funzioni e la distribuzione interna, la gerarchia e le proporzioni tra spazio pubblico e spazio privato, intensificando così gli usi collettivi e il numero dei nuclei abitativi.

5_

City Planning Commission, A report and Program, New York, 7 maggio 1963. 6_ L’arteria Lomex avrebbe collegato il New Jersey a Brooklyn tagliando SoHo lungo Broome Street.

Tali processi trovano i prodromi nell’occupazione da parte dei collettivi di artisti degli spazi industriali abbandonati e in particolare dei loft building. Una pratica, allora latente, che produrrà un processo rivoluzionario, sia per l’innovativo uso multiplo degli spazi, sia per la caratteristica collettiva del fenomeno, così potente da costringere alla ridefinizione di leggi e regolamenti urbani. Un adeguamento normativo che nel riconoscere e legalizzare l’avvenuta trasformazione dell’area, la salvaguarda e, intercettando il panorama socio-culturale dell’epoca, definisce nuovi modi di abitare o alternative lifestyles (Zukin 2010). Scenario principale di questo fenomeno è SoHo, un settore industriale al centro di Downtown che nei primi anni ‘60 offre spazi liberi, concentrati in un’unica area all’interno dei loft buildings: edifici costruiti nella seconda parte dell’800 per una manifattura leggera, che mal si adattano alle nuove tecniche produttive e, complice l’ombra della crisi, vengono dismessi. I proprietari, costretti a fare i conti con le ingenti ristrutturazioni che sarebbero necessarie, si adattano a richiede affitti a basso prezzo, considerando il degrado in cui versano gli immobili e il destino apparentemente segnato per la zona. L’area infatti è inclusa in un radicale piano di trasformazione, il South Houston Industrial Area5, che comprende anche la famosa Lower Manhattan Expressway6, un progetto capeggiato da Robert Moses che avrebbe determinato lo stravolgimento dell’area. La spinta di un’intera generazione di artisti ad occupare questa tipologia di fabbricati nasce quindi, prima di tutto da necessità economiche, ma ben presto le caratteristiche tipologiche di questi ambienti - le ampie volumetrie, l’indifferenziazione e neutralità della pianta, l’altezza degli interpiani e l’illuminazione - diventano l’attrattiva principale e l’incubatore ideale dove vivere e creare senza soluzione di continuità e costrizioni spaziali. Si liberano così pensiero, azione e gesto in spazi in cui esprimere la propria energia (Sandler 1984). Le caratteristiche architettoniche sono anche decisive nell’indurre un profondo cambiamento sul processo di produzione artistica. L’opera prodotta non è più vincolata alla superficie limitata di una stanza ma si definisce in rapporto alle dimensioni dello spazio ospitante, che a sua volta entra

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in relazione, virtualmente o fisicamente, con l’opera stessa. Si determina Fig.3_ Studio di J. Johns. così una intrinseca correlazione tra spazio vissuto, opera prodotta e la sua Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti spettacolarizzazione - relazione immortalata negli scatti di Ugo Mulas, in New riservati. Immagine rifilata York Art Scene e da Allan Tannenbaum in New York in the 70s (Fig.3). dall’autore. Lo spazio nei loft diventa quindi piattaforma per usi multipli e compresenti: creare, esporre e abitare. Grazie all’impiego di semplici elementi mobili, aggrappati alla struttura originaria: séparés, tende, griglie alle pareti, carelli, per citare i principali, le funzioni accolte nello spazio diventano per ogni elemento esponenziali, ibride e flessibili, a volte anche irrazionali o sorprendenti. All’occorrenza lo spazio sfruttabile si contrae o si dilata seguendo l’imprevedibilità che lo stesso processo creativo sottende. “If you live and work in a very small apartment, your ideas get very small” (LIFE, 1970). Il fermento e la nuova intensità di SoHo emergono già nel rapporto del professor Chester Rapkin7 del 1963 - rapporto commissionato dalla City Planning Commission allo scopo di evidenziare lo stato di conservazione del patrimonio edilizio e valutare le ricadute del radicale progetto: il South Houston Industrial Area. La fotografia che emerge dal rapporto evidenzia come l’area sia già diventata sede di intere comunità di artisti, un vero e proprio quartiere, organizzato in numerose cooperative di atelier ed associazioni8 per la tutela sia dei diritti degli suoi abitanti-artisti, sia per salvaguardare l’area stessa dalla costante minaccia della prevista trasformazione urbana. 7_ South Houston Industrial Area. Economic Significance Si delinea così un fenomeno senza precedenti: una fertile ed organizzata and Condition of Structures economia comunitaria nasce dall’occupazione collettiva illegale di edifici in a Loft Section of Manthatindustriali, illegale in quanto la Zoning Resolution Law del 1961 classifica tan, City Planning Commi1963. SoHo come zona M1-5 ovvero area destinata alla manifattura leggera e ne tion, 8_ L’Ata (Artist Tenants esclude quindi l’uso abitativo. Association), Aae (Artists Lucia Baima > Città in crisi > Walk on the wild site. New York negli anni ‘70

Against the Expressway) e Saa (SoHo Artists Association).

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La forza dirompente della comunità creatasi e il ruolo incisivo delle associazioni saranno determinanti nel costringere l’amministrazione a riconoscere l’unicità della nuova realtà e a concedere in un primo momento agli artisti di occupare legalmente due piani di un loft building per uso abitativo - con il vincolo di apporre sulla porta di accesso la scritta AIR artist in residence9- e successivamente, nel 1971, a modificare lo Zoning introducendo due sezioni M1-5A e M1-5B a destinazione mista – abitazione e lavoro. Viene così definitivamente abbandonato il progetto South Houston Industrial Area e legittimata l’appropriazione dei loft da parte degli artisti. L’area si trasforma istantaneamente in una zona residenziale legale, aprendosi così al mercato immobiliare sia proponendo un nuovo modello abitativo d’élite: il loft living, sia come fulcro della scena artistica internazionale. Apre qui infatti nel 1971 il primo art building: la galleria di Leo Castelli, André Emmerich, John Weber, Ileana Sonnabend al n. 420 di West Broadway creando così una completa osmosi tra spazi per abitare, creare, produrre e vendere. La modifica dello Zoning rappresenta quindi il passaggio fondamentale che condurrà la Landmark Preservation Commission a dichiare la zona protetta. Una conquista per le associazioni degli artisti sorte in difesa dell’area ma anche una vittoria per i movimenti creatisi negli stessi anni in opposizione alle grandi trasformazioni della città. Il caso di SoHo si inserisce infatti nel più ampio e acceso dibattito, largamente animato e portato alla ribalta da Jane Jacobs, che si oppone ai meccanismi e al modus operandi adottati dall’amministrazione per ridefinire la città, incurante di conservare e salvaguardare le caratteristiche e la vitalità della città densa.

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La targa AIR doveva servire ai pompieri per dirigersi immediatamente nell’appartamento indicato.

Lo spazio del loft contribuisce a determinare quindi un nuovo immaginario tipologico che nasce con il primo e più famoso loft di NY, la Factory di Andy Warhol. Siamo alla metà degli anni ‘60 e la sua pianta indefinita, ripartita solo dalla gerarchia strutturale, definisce una nuova categoria di spazio destinato non più alla produzione industriale ma neppure alla privata e solitaria creazione artistica, ma ad essere una vera e propria scena pubblica. Un luogo assimilabile ad un palcoscenico urbano, permeabile e predisposto anche ad una imprevista intensificazione d’uso. La successiva occupazione dei loft building da parte degli artisti produce, come analizzato, un’ulteriore ridefinizione dello spazio del loft che coniuga allo stesso tempo abitazione e atelier e condurrà, con la sua consacrazione, ad un innovativo e affascinante modo di abitare: il loft living. Sfruttando le caratteristiche tipologiche e strutturali di questi ambienti puri si lascia libertà - come avevano sperimentato gli artisti – di ridefinire individualmente e soggettivamente il proprio modo di abitare e di ripartirne la superficie, di includere o meno determinati usi, di avere confini mutevoli tra spazio pubblico e spazio privato (Fig. 4). I dispositivi architettonici impiegati il più delle volte mobili: tramezzi scorrevoli, tende, carrelli, pareti attrezzate ribaltabili, scalette, soppalchi, sono utilizzati come tessere interscambiabili in grado di sperimentare ogni volta nuove configurazioni dell’abitare, di gerarchizzare lo spazio interno su uno o più livelli, di definire nuove funzioni e significati (Nicolin 1990). Nel loft si supera quindi la necessità di una

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precisa identificazione dello spazio con la funzione programmata: si definisce Fig.4_ Studio di ogni volta un nuovo equilibrio tra i diversi usi, senza soluzione di continuità Rauschenberg. Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti o fissità. i diritti riservati. Immagine Lo spazio del loft è per questo paradossale (Zukin 1982). Complessivamente rifilata dall’autore. paradossale. I locali mantengono vivo il richiamo alla precedente funzione industriale dell’edifico, generando così un attraente contrasto tra forma e nuova funzione (Zukin 1982). La transizione tra esterno ed interno è diretta, la distribuzione essenziale ed immediata, vengono infatti eliminati tutti i riti di passaggio graduale tra gli ambienti, dell’abitare convenzionale, indistintamente per i diversi utenti. L’interno include le caratteristiche sociali dello spazio esterno “vivere in un loft è come vivere in vetrina, si vede e si mostra il suo interno” (Zukin 1982), scompaiono le gerarchie delle funzioni, la specificità dei locali, la transizione tra una stanza e l’altra e si genera così un nuovo e singolare modo di abitare. Il caso analizzato permette quindi di leggere in modo diacronico quella crisi e di cogliere la portata innovativa delle pratiche resilienti che hanno permesso di scoprire nuove ed insolite potenzialità rivelate nello spazio esistente sovvertendo l’uso tradizionale dei dispositivi architettonici. Pratiche in grado di definire nuovi strumenti o meccanismi che hanno innescato cambiamenti così potenti da far mettere in discussione leggi e regolamenti consolidati e a diventare esse stesse modelli che traguardano la crisi stessa. Old ideas can sometimes use new buildings. New ideas must use old buildings. (Jacobs 1962)

Lucia Baima > Città in crisi > Walk on the wild site. New York negli anni ‘70

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bibliografia Jacobs J. 1961, The Death and the Life of Great American Cities, Random House, New York. Living Big in a Loft in LIFE, 27 Marzo 1970. Lotus International, n. 66, 1990, American Lofts, Electa, Milano. Mollenkopf J. & Castells M. 1991, Dual City, Restructuring New York, Russel Sage Foundation, New York. Sandler I. 1984, The East Village Scene, University of Pennsylvania, Philadelphia. Solomon A. 1967, New York Art Scene, Hole, Rinehart and Winston, New York. Stern R., Fishman D. & Tilove J. 2006, New York 2000, Architecture and Urbanism Between the Bicentennial and the Millennium, The Monacelli Press, New York. Zukin S. 1982, Loft Living, Culture and Capital in Urban Change, Hopkins University Press, Baltimore. Zukin S. 2010, Naked City. The Death and Life of Authentic Urban Places, Oxfort University Press, New York.

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Adattare gli ambienti delle prigioni: autodeterminazione e umanizzazione

@ Valeria Bruni |

Adapting prisons sites: selfdetermination and humanization

The total institutions and the urban marginality places in Italy represent an insurmountable gap in the urban and social environment. Particularly, the prisons, located on the edges of the city, have spaces that are strongly determined by bureaucratic and political conditions, in which architecture and urbanism issues have little or no relevance. These are places of collective non-identification, in which both their residents and the city do not identify with them. Prisons sites have not a human scale, and prisons population is experiencing a condition of isolation from the city as well as internal conflict. Considering prisons as a part of cities, urban disciplines could address social and cultural transformations. This article presents prison spaces, their current situation and their requalification chance “from within”. Whereas in the context of high scarcity there is higher demand for project planning, this design action stands in response to the marginalization of architecture and architects, by focusing on the political dimension of the project (such as the ability to solve problems together), and its purpose as an instrument of rights and resources redistribution.

Da dispositivo di stato a dispositivo architettonico, il carcere rappresenta da sempre per gli architetti la miglior occasione per dimostrare come lo spazio influenzi la vita dell’uomo. Tralasciando quindi la sempreverde crisi foucaultiana del carcere, si propone qui uno spostamento della lente sulla crisi tipologica, portando la valutazione al campo dell’edificio detentivo. Prendiamo in considerazione il carcere in quanto edificio-strumento, nato per rispondere all’esigenza di contenimento di grandi masse di persone dichiarate pericolose per la società, come più umana alternativa alle pene corporali e strumento di ridistribuzione di diritti. Era la seconda metà del 1700,

Valeria Bruni > Città in crisi > Adattare gli ambienti delle prigioni: autodeterminazione e umanizzazione

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# Prigione | # Autodeterminazione | # Umanizzazione | # Prison | # Selfdetermination | # Humanization |


1892

1990

San Vittore, Milano

Lorusso e Cutugno, Torino quando per J. Bentham, dimostrare attraverso il progetto architettonico l’attuabilità di un sistema di controllo totale, significava un’alternativa anche alla pena di morte, a garanzia del diritto alla vita (Goffman 1968). Sin dal principio, come tuttora, si è trattato della migliore e più razionale risposta alla domanda irrazionale di sicurezza, alla paura del diverso. In Italia la riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 ha costituito uno spartiacque importante, segnando il passaggio (in via teorica) da un’idea di pena reclusiva esclusivamente punitiva ad una trattamentale, secondo cui diventa centrale il percorso rieducativo del condannato in considerazione della finalità di reinserimento nella società.

1_ Luigi Pagano è provvedito-

re regionale di Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Lombardia. Recentemente è stato definito da L. Manconi “un riformista cauto e prudente che ama l’istituzione e vi si identifica” (Manconi L., 2015).

L’istituto carcerario in Italia Le infrastrutture penitenziarie in funzione, prodotte ante riforma dell’Ordinamento del 1975, si caratterizzano per essere state concepite secondo logiche prevalentemente securitarie e contenitive. Quelle post riforma, concepite alla luce dell’auspicata funzione trattamentale, continuano per lo più a privilegiare un’organizzazione spaziale frazionata e compartimentata. Osservando strutture come San Vittore a Milano (anno di costruzione 1892), appare chiaro il pensiero che determina la forma, in rispondenza ad una precisa idea di pena, mentre carceri più recenti, come il Lorusso e Cutugno di Torino (anno di costruzione 1990), non è chiaro da che idea di pena derivino. Il problema strutturale oltre che culturale è stato introdotto di recente dal provveditore regionale Luigi Pagano1 con il concetto orwelliano di “bispensiero”, per via della perversa logica degli opposti di chiudere per rieducare. In generale le strutture detentive poco o nulla concedono ai bisogni esistenziali dell’utenza: detenuti, personale di custodia, operatori penitenziari e visitatori. Bisogni che sono di tipo fisico/fisiologico e di carattere psicologico/

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Flussi dei visitatori

I detenuti possono muoversi quasi esclusivamente all’interno delle sezioni, i prevalentemente ospiti dall’esterno (come educatori, famigliari e avvocati).

Il sistema dei corridioi

I detenuti di rado possono spostarsi dalla propria sezione per raggiungere altre aree (come le sale colloqui o i passeggi), gli agenti occupano prevalentemente

relazionale, che nel carcere possono essere ricondotti al fatto di poter vivere, lavorare e permanere in un ambiente umanizzato, ovvero confacente ai diritti della persona. Il carcere è una porzione di città, una città nella città, fatta di strade, giardini, isolati, edifici; se lo si considera dunque per questi elementi, emerge soprattutto un’inadeguatezza degli spazi collettivi, pensati quasi esclusivamente come luoghi di transito. La struttura carceraria è organizzata a matrioshka, mediante un sistema rigido di scatole con un unico accesso, il cui utilizzo è predefinito e controllato. Analizzando nella struttura i flussi di persone, emergono molti spazi ai margini e corridoi chilometrici sottoutilizzati. Questi presupposti sono emblematici del fallimento della città progettata nella sua totalità sulla carta e così costruita, dove un preciso ordine socialista, così come ispirato da Lewis Mumford, all’attuazione si dimostra incapace di rispondere ai quotidiani bisogni collettivi e individuali, e di adattarsi ai mutamenti della società (Sennett 2013). Di recente si è giunti ad un apparente punto di rottura nella stasi della condizione delle carceri protratta per decenni. La crisi delle strutture detentive è divenuta conclamata attraverso la sentenza denominata Torreggiani del 2013, con la quale la Corte Europea condanna l’Italia per violazione dei diritti dell’uomo per lo stato delle carceri, lasciando nuovo spazio alle istanze di tipo etico/giuridico. Da allora, anche attraverso i tavoli di concertazione ministeriali, il carcere è ritornato al centro dell’attenzione del mondo accademico e scientifico, ed in particolare ci si chiede cosa possa essere fatto per un miglioramento prestazionale di tutto il patrimonio carcerario costruito2. 2_ Valeria Bruni > Città in crisi > Adattare gli ambienti delle prigioni: autodeterminazione e umanizzazione

53.495 detenuti, ospitati in 193 istituti. Fonte: Ministero della Giustizia, aggiornamento al 31 marzo 2016.

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La cella aperta in regime di sorveglianza dinamica, prevede che i detenuti trascorrano la giornata fuori dalla cella, dunque prevalentemente nel corridoio (per alcune sezioni è previsto l’utilizzo libero dei cortili dell’ora d’aria altrimenti utilizzabili 1 ora al giorno).

Sezione tipo (sul modello della sezione femminile), celle e corridioio.

Sezioni detentive, aree all’aperto e cortili dell’ora d’aria (passeggi).

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Fig.1_ Casa Circondariale Una sfida possibile Dunque è possibile modificare lo spazio mantenendo la funzione in virtù di Lorusso e Cutugno, Torino. una rispondenza al dettato costituzionale e normativo? Guardando allo stato della ricerca sull’architettura penitenziaria nel nostro paese, emergono dal 2013 diverse esperienze di riqualificazione spaziale in alcune strutture detentive. Si tratta di esperienze partecipate, talvolta allo stato del progetto, talvolta portate all’attuazione, che hanno riguardato alcune aree collettive in diversi edifici del paese e che rappresentano risposte concrete alla necessità di adeguare gli edifici esistenti introducendo ambienti rispondenti alle finalità trattamentali. Alcuni dei promotori dei progetti sono tra l’altro impegnati attivamente nel Tavolo 1 degli Stati Generali: “Spazio della pena: architettura e carcere”. Luca Zevi con l’Istituto Nazionale di Architettura Inarch a Firenze, nel carcere di Solliciano, ha condotto uno studio partecipato per la verifica dello stato dei luoghi e la formulazione di adeguate proposte di intervento. Marella Santangelo con il Dipartimento di Architettura dell’Università di Napoli Federico II ha portato avanti dal 2014 diverse esperienze di progettazione partecipata, alcune oggi in via di realizzazione. In particolare nel carcere di Poggioreale i progetti degli studenti sono elaborati per essere realizzati dai detenuti. Emilio Caravatti dal 2013 col Politecnico di Milano ha svolto attività di progettazione e autocostruzione nelle carceri di Opera e Bollate a Milano e nel carcere di Monza3. A Torino, il Dipartimento di Architettura e Design ha lavorato al Lorusso e Cutugno, dove tra il 2014 e il 2016 ha realizzato due interventi in autocostruzione con studenti e detenuti. Il valore delle esperienze qui elencate si può individuare nel superamento delle barriere del carcere, per lo più sconosciuto e di difficile accesso. In tutti i casi il termine “azione” è centrale, si tratta di indagini che partono dal vissuto del contesto e che sono realizzate con il coinvolgimento degli utenti, che utilizzano gli strumenti partecipativi tanto per il progetto quanto per la sua costruzione. Si intravvede un tentativo di spostare il punto di vista dall’ottica mumfordiana di socialismo, a quella proposta da Jane Jacobs per la quale il comportamento spontaneo della comunità non può essere progettato poiché mai del tutto prevedibile e l’ambiente evolve con la società che lo abita (riprogettare senza progetto, tramite spontaneità). Nel carcere, dove lo spazio è per antonomasia rigido, ed ogni uso è nella teoria previsto e calcolato, emergono con chiarezza elementi di spontaneità, come accade in qualsiasi ambiente abitato, ma nel sistema chiuso del carcere, incapace di adattarsi, la spontaneità provoca una rottura. Il parallelismo tra sistema aperto e chiuso e quello tra socialismo di Mumford e di Jacobs, sono introdotti da Richard Sennett in una lezione tenutasi ad Harvard nel 2013, dal titolo: “The open city”. Domandandosi come l’architettura possa promuovere la democrazia, Sennett descrive la città come un sistema aperto, in continuo cambiamento, in cui regole semplici possono dare luogo a risultati complessi, in un procedere mai lineare. Il progettista ha così di fronte una realtà non conoscibile sulla carta, bensì attraverso lo smarrimento 3_ Più recentemente lo studio Caravatti di Milano ha otdell’esperienza diretta e dell’agire pratico (Sennett 2013). tenuto l’incarico di realizzare E’ tramite questo approccio che sembra possibile contrastare la condizione in autocostruzione con i deteValeria Bruni > Città in crisi > Adattare gli ambienti delle prigioni: autodeterminazione e umanizzazione

nuti una nuova sala colloqui e alcune “stanze dell’affettività” nel carcere di Opera.

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di inadeguatezza del carcere al contenimento della vita umana, anche alla ricerca di una capacità autopoietica dell’ambiente costruito. A fronte di una prassi consolidata che prevede l’esternalizzazione di gran parte degli interventi (dal progetto alla realizzazione), si contrappone la ricerca di nuove forme dell’abitare che emergano dalle azioni collettive e dalla quotidianità degli abitanti. Il progetto e la sua produzione sono gestiti dal carcere e dai suoi utenti e il progettista si inserisce nel processo di definizione dello spazio in qualità di facilitatore, compiendo un lavoro di mediazione tra tutte le parti, alla luce di un’autonomia del sistema preziosa per garantirne l’adattabilità (Ward 1991).

4_

Per l’amministrazione penitenziaria, hanno partecipato al progetto: l’ufficio tecnico, il gruppo M.O.F. (Manutentori Ordinari Fabbricati) e il personale socio sanitario. 5_ Hanno inoltre seguito il progetto il Comune di Torino, l’associazione Antigone e i garanti dei detenuti regionale e comunale.

Alcuni risultati A Torino la ricerca, passata attraverso la fase pratica di attuazione di due interventi nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno in collaborazione con gli organi preposti del carcere, cerca oggi di valutare i risultati. I progetti ed i lavori di realizzazione dei due interventi sono partiti e si sono sviluppati in concomitanza ed in concertazione con tutti gli attori interessati, coloro che avrebbero dovuto costruirli, manutenerli, utilizzarli e gestirli. Durante ogni fase si sono incontrati intorno al tavolo i dipendenti dell’amministrazione penitenziaria4, il comandante della polizia penitenziaria insieme agli agenti di sorveglianza, gli studenti ed i referenti scientifici del Dipartimento di Architettura e Design e del Dipartimento di Giurisprudenza di Torino5. Il progetto prevedeva la realizzazione di un’area relax per il personale (700 mq) ed un’area colloqui all’aperto per detenuti con figli minori (1000 mq), in due mesi. I lavori sono iniziati a giugno 2015. Dalla fine di luglio la prima area, quella per il personale, è entrata in funzione. Il cantiere aveva prodotto alcune nuove pavimentazioni e diversi arredi,

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tavoli, panche e sgabelli, un palcoscenico anche utilizzabile come solarium Fig.2_ a sinistra: nuova e alcune attrezzature a completamento di una già esistente area barbecue, area relax, Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. mentre mancava (ed è stato realizzato nel 2016) un sistema ombreggiante. Giulia, Raffaele e Coulibali Ad agosto 2015 sull’area si poteva apprezzare la cospicua presenza di perso- costruiscono la pedana/ ne, lavoranti del penitenziario, che vi trascorrevano pause pranzo ed in gene- palcoscenico. Luglio 2015 di Attilio Piano). A rale momenti conviviali, ed a settembre sul palcoscenico è stato ospitato un (foto destra: nuova area relax, concerto di musica classica. Casa Circondariale Lorusso L’area colloqui invece è stata inaugurata a più di un anno di distanza, e il suo e Cutugno. Il concerto effettivo utilizzo necessita ancora di verifiche6. Anche qui alla fine di luglio di MITO sul palcoscenico autocostruito. Settembre 2015 2015 erano state realizzate tutte le attrezzature necessarie, panche, tavoli e (foto di Attilio Piano). giochi per i bimbi, ad eccezione del sistema ombreggiante, ma sono serviti molti mesi perché venisse aperta ai detenuti. Per comprendere cosa sia successo è bene tener conto degli interessi individuali degli attori del processo, condizionati dai rapporti di forte subordinazione che caratterizzano l’ambito. Questi scaturiscono in conflitti e negoziazioni che necessitano di tempi lunghi per l’assorbimento, e che raramente vengono espressi chiaramente, mentre spesso si risolvono nelle retrovie, attraverso azioni individuali di resistenza. Alla luce del giorno c’è l’amministrazione Dall’autunno 2016, con penitenziaria, alla ricerca del giusto equilibrio tra tutte le parti, agenti di sor- 6_ l’associazione nazionale per veglianza e relativi sindacati da una parte, dipendenti dall’altra, e ancora da il monitoraggio della qualità della vita dei detenuti Antigoun’altra parte i detenuti. Vi è una chiara differenza tra i due interventi, riflessa nella posizione delle ne e il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di due aree nel territorio del carcere. L’area per il personale sta all’interno della Torino, sarà verificato l’effetprima cinta, che contiene i fabbricati a uffici, alcuni servizi (palestra, mensa tivo utilizzo (nonché le sue e spaccio) e tre caserme dove vivono gli agenti di sorveglianza7. Un’area alla modalità) dell’area colloqui. Soprattutto nelle carceri quale si accede previo controllo ma all’interno della quale vi è una sostanzia- 7_ del nord Italia gli agenti di pole libertà di movimento di tutti i soggetti. L’area per i colloqui sta all’interno lizia penitenziaria vivono nelle Valeria Bruni > Città in crisi > Adattare gli ambienti delle prigioni: autodeterminazione e umanizzazione

caserme collocate all’interno delle strutture detentive. Fonte: Ministero della Giustizia.

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di una seconda cinta, per raggiungere la quale occorre passare ulteriori controlli di sicurezza, e che ospita le sezioni detentive, dove gli agenti sorvegliano e i detenuti vivono. Qui la libertà di movimento dei detenuti è subordinata all’autorizzazione degli agenti. Succede che i movimenti di ogni individuo siano decisi da altre persone, che rispondono anche in considerazione delle proprie esigenze individuali. Modificare l’uso degli spazi è quindi molto difficile, anche quando le regole lo consentono, si verificano resistenze imputabili alle questioni di ordine interno. L’Ordinamento Penitenziario del 1975 voleva introdurre dei cambiamenti che ancora oggi, a distanza di più di quarant’anni, sono disattesi e l’uso diverso e umanizzato dei luoghi sembra non dipendere dall’ordine burocratico. Si tratta di una considerazione di valore generale, qui esemplificata attraverso il racconto di uno specifico accadimento, ma emersa anche dall’analisi dei casi studio sopra elencati. L’architettura, in cerca di nuova rilevanza, trova appiglio nell’aspirazione di redenzione del carcere, ma, all’atto pratico, si perde per l’incapacità generale di perseguire il cambiamento culturale. Come architetti possiamo trasformare gli ambienti insieme alle persone che li vivono, al di là delle valutazioni qualitative però vi è l’esigenza di condividere finalità, obiettivi e processi con tutti gli attori. Emerge dunque soprattutto la necessità di conquistare un’ordinarietà che poco appartiene al nostro mestiere e che vorrebbe la riqualificazione spaziale e la cura dei luoghi al centro del pensiero condiviso.

bibliografia Adler M. & Longhurst B. 2002, Discourse Power and Justice. Towards a New Sociology of Imprisonment, Routledge, Abingdon Oxford, New York. Anastasia S., Corleone F. & Zevi L. 2011, Il corpo e lo spazio della pena, Ediesse, Roma. Borella G.,a cura di, 2016, Colin Ward, Architettura del dissenso, Eleuthera, Milano. Cottino P. 2009, Competenze possibili. Sfera pubblica e potenziali sociali nella città, Jaca Book, Milano. Evans R. 1982, The fabrication of virtue, Cambridge University Press, Cambridge. Goffman E. 1968, Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e la violenza, Einaudi, Torino. La Cecla F. 2008, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Torino. Manconi L. & Torrente G. 2015, La pena e i diritti. Il carcere nella crisi italiana, Carocci, Roma. Manconi L., Anastasia S., Calderone V. & Resta F. 2015, Abolire il Carcere, Chiarelettere, Milano. Sennett R. 2008, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano. Spens I. 1994, Architecture of Incarceration, Academy Editions, London. Ward C. 1991, Influences: Voices of Creative Dissent, Green Books, Bideford. Sennett R. 2013, The Open City, http://www.youtube.com/watch?v=eEx1apBAS9A, 2013 [consultato il 04-06-2016]. Zevi L., a cura di, 2015, Tavolo 1, spazio della pena, architettura e carcere, https:// www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19_1_1.wp?previsiousPage=mg_2_19_1, 2015 [consultato il 04-06-2016].

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Città e crisi ai tempi di Airbnb: il Lower East Side (NYC)

@ Ludovica Vacirca | @ Caterina Barioglio |

City and crisis in the time of Airbnb: the Lower East Side (NYC)

Founded in 2008, after the American housing bubble collapse and in the midst of the global financial crisis, Airbnb is an online platform facilitating short-term rentals that enable people to diversify their incomes making money from underused assets. Replacing the traditional real estate supply chain and answering with a bottom up approach to the housing demand, Airbnb redefines the role of private and public actors in urban transformation processes and it introduces a new system of value production. In New York, where in the last ten years rental housing has become less affordable with the result that a larger proportion of households pays thirty percent or more of their income to rent, Airbnb became a necessity and, at the same, an opportunity to produce value breaking the mechanisms both of the real estate industry and the touristic market. City becomes the place of a struggle that reveals unexpected alliances between different actors: privates, public administrations, hoteliers and local groups. Mapping and analyzing Airbnb’s offers in the Lower East Side, this paper aims to explore how this house-sharing service, as an answer to the economical crisis, could reinvent the urban and domestic environments reframing the boundaries between private and common spaces and suggesting new living scenarios. In a neighborhood marked by struggles over residential change and displacement since the 19th century, the Airbnb phenomenon lead to rethink about urban redevelopment exploring role and potentiality of a service acting both as accelerator of gentrification and instrument of resistance against it used by local inhabitants.

La crisi economica che nel 2007 ha colpito gli Stati Uniti e, con un salto di scala senza precedenti, si è propagata a livello globale, ha rivelato la fragilità di un meccanismo fondato sulla stretta relazione tra finanza e mercato immobiliare i cui effetti sulla città hanno indotto a ripensare il rapporto tra valore, profitto e bene comune (Harvey 2011). E’ nella capacità di scardinare processi consolidati di produzione dello spazio urbano e gestione del costruito inserendo nuovi attori, muovendosi oltre i confini di un assetto giuridico riconosciuto, privilegiando azioni volte a garantire l’accesso a un bene (la casa) e non il suo possesso, che Airbnb si afferma come un dispositivo di risposta alla crisi.

Ludovica Vacirca & Caterina Barioglio > Città in crisi > Città e crisi ai tempi di Airbnb: il Lower East Side (NYC)

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# Airbnb | # New York | # Abitare condiviso | # Airbnb | # New York | # House-sharing |


Tra i servizi di sharing economy (Botsman&Rogers 2010) più diffusi al mondo, presente in 34.000 città e in 192 paesi con un’offerta di più di due milione di alloggi (Airbnb 2016), Airbnb nasce alla fine del 2007 dalla necessità di due giovani designers americani di diversificare le proprie rendite per fare fronte all’aumento del canone d’affitto di un appartamento in condivisione. Partendo dall’idea di subaffittare per brevi periodi gli spazi sottoutilizzati della loro abitazione e offrire servizi minimi di accoglienza turistica, l’intuizione sulla quale si svilupperà la fortunata società valutata già nel 2014 dieci miliardi di dollari, è quella di usare lo spazio virtuale della rete per mettere in connessione singoli individui interessati a trarre profitto dall’affitto di stanze o intere abitazioni vacanti. Grazie al sito Airbnb che funge da piattaforma abilitatrice e regola le transazioni di denaro trattenendo per il servizio una commissione che varia dal 6% al 12%, gli utenti possono sfruttare e rimettere in circolo il surplus immobiliare agendo sia come locatori che come locatari in un rapporto di collaborazione tra pari. Il fenomeno di sovrapposizione dei ruoli per cui ogni attore – nella maggior parte dei casi – è al contempo promotore e fruitore dello spazio offerto fa sì che la casa non sia solo lo spazio della vita domestica ma un bene altro che, per produrre rendita, deve sottostare alle leggi del mercato e alle logiche della persuasione. Si attiva così un’imprenditorialità che richiede ad ogni utente di mettere in scena il proprio spazio privato, attribuirgli un valore monetario e raccontarlo attraverso un codice di parole e immagini che cerca di aderire ad immaginari condivisi dell’abitare urbano, contribuendo a consolidarli. Il servizio di house sharing, riducendo il numero di attori normalmente messi in gioco nella filiera turistico-immobiliare e de-specializzando la tipologia alberghiera, risponde alla crisi mettendo in discussione il sistema tradizionale di soggiorno temporaneo e, allo stesso tempo, diviene

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generatore di conflitti che attraversano piani diversi. Il ruolo importante Fig.1_ Airbnb Homepage. Valeriesophie; che Airbnb acquisisce sul mercato della casa scatena un dibattito esteso ma Autore: https://commons.wikimedia. fortemente legato alle singole realtà locali. Sebbene il campo d’indagine sia o r g / w i k i / F i l e : A i r b n b . insidioso poiché costringe a confrontarsi con un’alta suscettibilità dei dati, png; immagine originale la mappatura dell’offerta e l’estrapolazione di informazioni dagli annunci di modificata con ritaglio; Creative Commons: Airbnb per il settore specifico del Lower East Side di Manhattan consente di licenza https://creativecommons.org/ stabilire relazioni con il costruito e con la produzione dello spazio urbano licenses/by-sa/4.0/deed.en . e permette di leggere da vicino e interpretare alcuni caratteri dell’ effettiva ricezione del servizio. La città di New York si impone come uno dei principali mercati in territorio americano per la piattaforma, concentrando e mettendo in gioco interessi diversi che trovano nello spazio urbano il loro termine e terreno di scontro. Qui negli ultimi dieci anni il rincaro degli affitti ha reso la casa un bene inaccessibile e ha costretto parte degli abitanti ad investire nell’alloggio oltre il 30% delle proprie entrate (NYU Furman Center 2013). Se da un lato l’uso di Airbnb nel contesto della crisi diventa un atto di necessità e un’opportunità per i cittadini di accrescere i propri profitti affittando stanze o posti letto nella propria casa, dall’altro il servizio sottrae al mercato immobiliare tradizionale migliaia di unità abitative che vengono destinate ad affitti a breve termine accrescendo così l’emergenza relativa ad una limitata offerta di alloggi a prezzi accessibili, soprattutto nei maggiori quartieri residenziali di Manhattan e Brooklyn. L’opposizione ad Airbnb ha generato nel contesto newyorkese inattese alleanze tra organizzazioni locali che combattono per il diritto alla casa, cittadini privati, pubbliche amministrazioni e albergatori che insistono sull’accusa di violazione da parte del servizio delle leggi locali e statali sugli short-term rentals, e contribuiscono quindi ad accelerare i processi di

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Fig.2_

Tenement houses nel LES. Autore: Dan DeLuca; titolo originale: 2nd-ave-between5th-and-6th; https://www. flickr.com/photos/

ridefinizione normativa. Se molte sono le accuse di inadempienza agli obblighi di legge mosse dai detrattori del servizio, secondo cui Airbnb non rispetterebbe le direttive della Zoning Law e quelle del New York City Administrative Code, l’assenza di un assetto giuridico-istituzionale in grado di assorbire e regolarne le pratiche, pone Airbnb in una zona grigia di a-legalità che da un lato sottolinea l’urgenza di un adattamento del sistema normativo e dall’altro lascia aperti diversi margini di azione. Una limitazione all’uso di Airbnb è definita dalla revisione nel 2010 della storica Multiple Dwelling Law (MDL), adottata nel 1929 per migliorare le condizioni abitative nelle sovrappopolate tenement houses dove si concentravano immigrati e working-class. Approvata dall’amministrazione Bloomberg, la rettifica di alcuni termini della legge vieta espressamente l’affitto per periodi inferiori ai trenta giorni di alloggi all’interno di edifici plurifamiliari residenziali di classe A, a meno che non si attesti la presenza del locatore. La crescita del fenomeno degli affitti a breve termine, con l’aumento delle prenotazioni su Airbnb di dieci volte tra 2010 e 2014, si rispecchia nell’ intensificarsi del dibattito. A seguito di un’indagine durata quattro anni sul fenomeno Airbnb nella città di New York, avviata dal procuratore Eric Schneiderman, nel 2014 viene pubblicato un documento che mira ad evidenziare, tramite una sistematica raccolta dati, la parziale illegalità del servizio, e rileva pratiche viziate, come l’utilizzo di Airbnb da parte dei grandi operatori immobiliari, che sfruttano i vantaggi della piattaforma digitale per mettere in locazione numeri ingenti di alloggi (New York State Office of the Attorney General 2014). Il settore di Lower East Side/East Village (LES), che fin dagli inizi del XIX

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secolo raccoglie i maggiori flussi migratori su New York registrando una Fig.3_ Public housing nel LES. stratificazione continua di usi e modi dell’abitare di popolazioni diverse Autori: Caterina Barioglio e Ludovica Vacirca. (Plunz 1990), costituisce un luogo privilegiato d’indagine. Secondo il report su Airbnb del 2014, è in Lower Manhattan che si concentra il 40% degli immobili offerti nell’intera città, mentre lo studio condotto dal Furman Center di New York nel 2013 sull’andamento dell’offerta abitativa, riporta nel settore del LES (compreso tra 14th Street, Brooklyn Bridge, East River e Bowery Street) un alto numero di appartamenti vacanti, a cui si aggiungono una bassa percentuale di proprietari di immobili e un tasso di disoccupazione maggiore rispetto alla media di Manhattan. Dalla lettura degli annunci sul sito web di Airbnb e la mappatura compiuta nel presente lavoro, emerge una distribuzione dell’offerta di alloggi non omogenea. Quasi la totalità infatti è concentrata nel tessuto compatto a nord di East Broadway e ad est di Avenue D, in un settore urbano che mantiene la struttura di matrice tardo ottocentesca senza subire importanti rimaneggiamenti nel corso del Novecento e dove la tipologia dominante è la tenement house, tratto distintivo dell’intero quartiere. L’ampia fascia che costeggia l’East River, dove l’offerta Airbnb è quasi assente, è stata invece oggetto di importanti trasformazioni. Gli estesi piani di public housing, sviluppati principalmente tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, attraverso politiche governative segnano profondamente distribuzione sociale e spazio urbano del quartiere, modificando con interventi su larga scala la consistenza del costruito. Se appare difficile stabilire un diretto legame tra la presenza di alloggi Airbnb e tipologie architettoniche diverse, la dispersione del fenomeno lungo la public belt (Schwartz 1993) può anche essere spiegata con l’incompatibilità del servizio rispetto ai regolamenti degli alloggi di edilizia pubblica e ai contratti condominiali restrittivi tipo Co-op

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che di norma negano la possibilità di subaffittare. Inoltre, manifestandosi Fig.4_ Distribuzione quasi come pratica informale, Airbnb risulta meno adattabile a tipologie dell’offerta Airbnb nel LES. Caterina Barioglio e edilizie dotate di più efficaci dispositivi di controllo, come, oltre a strutture di Autori: Ludovica Vacirca. proprietà pubblica, edifici residenziali di lusso che offrono servizi comuni ai residenti (portineria, palestre, lavanderie, ecc.). Lo studio del settore del LES, dove townhouses e tenement buildings – con meno servizi comuni e ridotta sorveglianza– si rivelano strutture ideali per gli hosts di Airbnb, suggerisce una riflessione sul diverso grado di ricezione del servizio legato più agli spazi d’azione dei regolamenti e alle zone grigie dei sistemi di controllo che agli spazi fisici dell’architettura. Superando la soglia di casa, Airbnb fornisce un ampio catalogo di dispositivi spaziali che intervengono sulla distribuzione interna e sui gradi di intimità degli ambienti: tende, paratie, divisori, soppalchi sono solo alcuni degli strumenti adottati per suddividere gli alloggi e gestire la crescita di densità dello spazio domestico, spesso aggirando e riformulando a livello concreto definizione e requisiti di “stanza” imposti dal building code. Sebbene ogni utente sia “Benvenuto a casa”1, varcare l’ingresso significa entrare nel sistema di leggi del quotidiano imposte dall’ospitante che incidono in modo vario e sensibile sulle pratiche dell’abitare: privacy, servizi e possibilità limitate dalle “regole della casa”2 vengono cercate dall’ospite altrove. E’ negli spazi pubblici della città che l’utente medio – abitante temporaneo in una condizione intermedia tra turista e residente – trasferisce il proprio spazio domestico assecondando una pratica propria dell’abitare contemporaneo. Le dinamiche di conflitto e le pratiche di negoziazione che Airbnb porta con sé si sovrappongono nel LES alle tracce ancora visibili degli scontri, che fin dal XIX secolo si registrano tra working-class e middle-class e tra nuovi e vecchi usi dello spazio urbano, in una tensione continua verso un mutamento che incide sulla composizione sociale del quartiere e sul costruito, a cui si oppone tutt’oggi una forma – più o meno organizzata – di resistenza da parte dei residenti. A partire dagli anni Settanta il quartiere è oggetto di un programma di reinvestimento da parte di operatori immobiliari rivolto ad una clientela medio-alta, che Christopher Mele esita a semplificare come narrazione di gentrification: l’estetica di cui infatti si appropriano i real estate developers nella vendita di un immaginario si rifà proprio a quei caratteri tradizionali del quartiere - attivismo politico, minoranze sociali e avanguardia artistica - che il processo di trasformazione minaccia di soffocare. Un’operazione di “symbolic inclusion” che traduce il valore simbolico in valore economico e su cui si fondano le recenti riqualificazioni che stanno allontanando i residenti dal quartiere (Mele 2000). Anche in un sistema come Airbnb, governato da individui esterni al settore, ricorrono pratiche proprie del mercato immobiliare: l’immaginario del “bohemian Lower East Side”, con le sue tenement houses decadenti e le sue strade trascurate, si ripropone come leit motiv negli annunci degli utenti del servizio attraverso cui si costruisce il ritratto di un quartiere che si veste di un’identità “ripulita” e, in qualche modo, esportabile. Ma come reagisce il LES ai mutamenti degli equilibri del mercato immobiliare 1_ Riferimento allo slogan di nella pagina di aperintrodotti da Airbnb? Come prova ad assorbire i flussi di popolazioni Airbnb tura, consultata a dicembre temporanee indotti dalla concentrazione di affitti a breve termine? 2014 https://www.airbnb.com 2_ Una delle voci che gli hosts Ludovica Vacirca & Caterina Barioglio > Città in crisi > Città e crisi ai tempi di Airbnb: il Lower East Side (NYC)

possono compilare all’interno dei loro annunci.

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La difficoltà nel trovare una risposta a tali domande, che forse solo il tempo potrà suggerire, porta a riflettere sulla natura ambigua di Airbnb che, essendo a disposizione di attori con interessi diversi (proprietari di casa, ma anche di locatari che subaffittano a terzi), può agire come trasformatore delle geografie sociali ma anche come nuova forma di resilienza da parte degli affittuari che, attraverso minime trasformazioni degli spazi interni, impongono la loro presenza in un quartiere con i prezzi in crescita, affittando spazi extra o creandone di nuovi. Il fenomeno Airbnb costringe a riorientare i termini del dibattito sullo spazio urbano, e indagare le potenzialità di un servizio che può essere sia acceleratore di gentrificazione che strumento di resistenza.

bibliografia Airbnb, About Us, consultato a marzo 2016, https://www.airbnb.it/about/about-us Angotti T. 2011, New York for Sale: l’urbanistica partecipata affronta il mercato immobiliare globale, Editpress, Firenze-Catania. Botsman R. & Rogers R. 2010, What’s mine it’s yours. The rise of collaborative consumption, Harper Collins, New York. Conway A.M. e Murphy L. (a cura di) 2011, Compendium for the civic economy, zerozero http://issuu.com/architecture00/docs/compendium_for_the_civic_ economy_publ Furman Center, State of New York City’s housing and neighborhoods in 2013, consultato a novembre 2014. Mele C. 2000, Selling the Lower East Side: Culture, Real Estate and Resistance in New York City, University of Minnesota Press, Minneapolis. New York State Office of the Attorney General, Airbnb in the City, http://www.ag.ny. gov/pdfs/Airbnb%20report.pdf Plunz R. 1990, A history of housing in New York City: dwelling type and social change in the american metropolis, Columbia University Press, New York. Schwartz J. 1993, The New York Approach, Robert Moses, Urban Liberals, and Redevelopment of the Inner City, Ohio State University Press, Columbus.

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Facing Urban Ageing.

@ Davide Vero |

Città Giardino Torino: micro adattamenti per una crisi invisibile Facing Urban Ageing. Città Giardino Torino: micro adaptations for an invisible crisis

# Urban Ageing | # Environmental Gerontology | # Urban Adaptation |

Disruptive demographic trends show a world that is rapidly ageing. The goal of this paper is to measure the possible fallout of the demographic phenomenon on the physical environment through multi-scale analysis - from the city to the house - and identifying the diachronic processes of adaptation and manipulation. The socio-demographic transformation has been interpreted by the demographers in terms of two forms of crisis: a future crisis of dependency and a crisis of programming of architectural and urban settings, which were previously dominated by the young. The heterogeneous literature focuses on the clinical aspects of the Environmental Gerontology or on the indications for the age-friendly city, overlooking the direct observation of the spaces and their transformation. The paper starts from this lack, reversing the perspective of cause and effect to find and highlight the elements of adaptation. In order to reach the geographical dimension of the phenomenon, the data related to the ageing population in the city of Turin are merged with the urban fabric. The ageing mapping obtained from this analysis shows the substantial convergence of the public city with the one of the elderly, with the exception of the neighbourhood of Città Giardino. Through the case study of Città Giardino in Turin and his story - made of continuous transformations - the paper points out the dynamic process of adaptation and some resilient practice. The analysis highlights the physical transformation and the tendency to place attachment, reinforced by new patterns of use of the existing public buildings. Within an invisible crisis and in a context of little institutional awareness, Città Giardino offers the opportunity to rethink urban policies and to organize a governance strategy in a longer time perspective.

I numeri della crisi Il mondo sta rapidamente invecchiando, in rapporto alla popolazione mondiale il numero delle persone di età superiore ai 60 anni raddoppierà entro il 2050, dall’ 11% al 22% (World Health Organization 2007). In quel momento, per la prima volta nella storia umana, ci saranno più anziani di bambini. L’Italia oltre ad essere oggi il Paese più anziano d’Europa dovrà affrontare una situazione ancor più drammatica, secondo il rapporto INU e CRESME del 2016 si prevede che nel 2034 ci sarà un anziano ogni due abitanti in età lavorativa (Magliozzi 2016).

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# Invecchiamento urbano | # Gereontologia ambientale | # Adattamento urbano |

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L’invecchiamento della popolazione, l’ageing, è stato descritto dai demografi come il risultato di due grandi vittorie dell’umanità: la maggiore longevità e la riduzione dei tassi di natalità (World Health Organization 2007). Lo spostamento verso una popolazione più anziana non è il risultato dell’inevitabile sviluppo evolutivo dell’organismo umano, ma è il prodotto di un processo di “modernizzazione” della società, un fenomeno cresciuto di pari passo con l’urbanizzazione e l’industrializzazione. Si tratta di fenomeno demografico senza precedenti, dalla dimensione globale e dalle profonde conseguenze su tutti gli aspetti della vita umana: economici, sociali e politici. Un fenomeno che si presenta come duraturo, delineando un processo che difficilmente potrà essere invertito nel futuro. Secondo Simpson (2015, p.14) la trasformazione socio-demografica è stata nella maggior parte dei casi interpretata attraverso due forme di crisi. La prima è una futura crisi di dipendenza per ragioni economiche e medico-sanitarie. La seconda è una crisi di programmazione architettonica e urbana, dovuta a un’idea di città per una società giovane e in crescita. Spazio, tempo e invecchiamento Recentemente si è assistito a un aumento dell’interesse e delle ricerche sull’invecchiamento della popolazione e della relazione fra il cambiamento demografico e l’ambiente riconducibile a tre filoni. Il primo si situa negli studi clinici, nello specifico si tratta dell’environmental gerontology, una specializzazione della gerontologia che tenta di comprendere la relazione fra anziani e il loro contesto fisico e sociale. Questi studi muovono dalla teoria “ecologica” di Lawton (1973) per portare alla luce prove “epidemiologiche” dell’influenza dell’ambiente nel processo di invecchiamento. Il secondo si concentra sulle politiche e sulle azioni per favorire spazi urbani age-friendly e per facilitare l’invecchiamento attivo della popolazione (Plouffe & Kalache 2010). Indicazioni per città a misura di anziano, caratterizzate da accessibilità fisica, servizi di prossimità, inclusione e sicurezza (World Health Organization 2007). Prescrizioni per una città ideale che aprono a prospettive critiche sul tema, maggiormente orientate verso una ridefinizione qualitativa della questione a partire dall’esistente (Buffel, Phillipson & Scharf 2012). In ultimo la descrizione parziale del fenomeno abitativo legato all’invecchiamento, quello delle retirement communities e delle migrazioni a queste correlate (King, Warnes & Williams 2000, Simpson 2015). Un letteratura eterogenea ma che sembra arenarsi sul dibattito teorico e sui modelli di studio, tralasciando l’osservazione diretta degli spazi e della loro trasformazione (Smith 2009). Il saggio si situa in questo vuoto, ribaltando la prospettiva causa-effetto per evidenziare gli elementi di resistenza e di cambiamento, le stratificazione dello spazio urbano e dei suoi usi. L’obiettivo è quello di misurare la possibile ricaduta del fenomeno demografico sull’ambiente fisico in una traiettoria multiscalare, dalla città al quartiere sino alla casa, e temporale, individuando i processi diacronici di adattamento e “manipolazione” dell’ambiente fisico (Golant 2003, Pynoos 1992). Risposte al cambiamento e forme di resistenza

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alla crisi, possibili strategie e modelli di sviluppo che si annidano nella relazio- < nelle pagine precedenti: _ Mappatura ne fra gli abitanti e gli spazi di vita, nei desideri e nelle necessità dei singoli e Fig.1 Invecchiamento Urbano della comunità di rapportarsi al presente e di re-immaginare il futuro. Torino Sud. Mappatura dell’invecchiamento urbano Nel tentativo di comprendere la distribuzione geografica dell’ageing appare necessario collocare la ricerca in un contesto preciso e scegliere un indicatore demografico efficace per valutare il fenomeno. Torino è il quadro dell’indagine, quantitativa e qualitativa, il luogo dove misurare il cambiamento attraverso l’indice di vecchiaia: il rapporto di composizione tra la popolazione anziana (65 anni e oltre) e la popolazione giovane (0-14 anni). I dati forniti dall’Ufficio Anagrafe (2015) del Comune di Torino - per quanto riguarda tutta la città - mostrano una distribuzione diffusa e irregolare, con una maggiore concentrazione della popolazione anziana nel sud della città (Mirafiori Nord e Sud, Santa Rita e Mercati Generali). Muovendo da queste considerazioni è possibile disaggregare ulteriormente i dati relativi all’indice di vecchiaia, per mezzo di un’unità territoriale dalla grana più fine: le zone di censimento (Arup 2016). Dalla sovrapposizione dei dati con la maglia urbana si deriva la dimensione geografica del fenomeno, la mappatura dell’invecchiamento (Fig. 1). La mappatura mostra un territorio disomogeneo, dove alle più alte concentrazioni di persone anziane corrispondono i settori della “città pubblica” (Di Biagi 200), convergenza che presenta un’eccezione: il quartiere di Città Giardino. Un brano urbano, un’isola che emerge all’interno di un arcipelago, frammenti di-segnati dagli edifici e dalle strade a scorrimento veloce che lo lambiscono (Fig. 2). Data la natura interdisciplinare del tema e nel tentativo di preservare il dinamismo e la diacronicità delle pratiche urbane osservate il metodo e gli strumenti di indagine sono diversificati: mappi, grafici e disegni. La ricerca si poggia su fonti d’archivio (disegni, documenti e riviste) e sull’esplorazione diretta dei luoghi, dove l’esperienza spaziale è supportata dall’uso di fotografie, interviste, incontri con attori e abitanti. Il lavoro tenta di far parlare il caso di studio e di registrare le numerose “microstorie” che si sono stratificate negli spazi e nel tempo, adattandosi ad una popolazione invecchiata. Città Giardino, biografia plurale Città Giardino, periferia sud-ovest di Torino al confine con Grugliasco, a partire dalla nascita fu costruita lontano dal resto della città - la stessa che da lì a pochi anni l’avrebbe raggiunta - immersa in un paesaggio agricolo di cascine, ma non lontano dalle fabbriche della FIAT. Nel 1947 la Società Torinese Città Giardino diede avvio ad una vasta operazione immobiliare propagandata in tutta Italia: «il più imponente gruppo di abitazioni che non mai sia sorto […] villette composte di sei o di otto camere ciascuna e disposte in modo da poter essere suddivise in più alloggi di due, tre o quattro camere. Ogni alloggio sarà corredato dei vari servizi indispensabili al moderno genere e tenore di vita. Tutte le villette hanno lo sfogo e l’ornamento di un giardino completamente cintato»1. L’offerta comprendeva tutte le infrastrutture e i servizi per la nuova classe media. Una soluzione

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Pubblicità Città Giardino, in «La Stampa Sera», 12 - 13 novembre 1948, p.2.

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“ibrida”, un villaggio urbano costituito da edifici indipendenti a due piani Fig.3_ Beppe Giardino. Città fuori terra, dotati di cantina e con la possibilità d’ampliamento. Un sogno Giardino, esterni, 2016. nelle pagine precedenti: destinato a svanire, dopo l’inaugurazione della prima abitazione nel 1949, <Fig.2 _ Assonometria Città con il fallimento della società. Giardino Torino. Gli abitanti per far fronte all’isolamento e alla situazione di impasse costituirono un consorzio per ultimare i lavori e per ottenere il riconoscimento ufficiale da parte della città, pieno riconoscimento cha arriverà solo negli anni ‘70. Mentre le abitazioni venivano terminate e il quartiere si dotava di servizi e delle opere di urbanizzazione - realizzate a totale carico dei residenti (Libert 2003) - le aree circostanti vennero riempite da nuovi edifici di edilizia privata e pubblica. Dagli anni ‘60 gli abitanti di Città Giardino videro crescere intorno a loro una cortina di alti edifici (Fig.3), erano i progetti INA-Casa (Di Biagi 2008), seguiti poi dall’edificazione degli isolati della Legge 167 (Caramellino, De Pieri & Renzoni 2015). L’edilizia pubblica tentava di dare forma alla crescente urbanizzazione, innestando nuove abitazioni e servizi, in particolare chiese e scuole, con l’intento di ricucire il tessuto urbano e sociale. Un processo di costruzione e trasformazione che può dirsi continuo anche a Città Giardino, in un racconto che appare affine a quello delle Coree milanesi. Parallelismo tracciabile negli aspetti morfologici e nei modelli sociali: schemi di arrivo, catene famigliari e strategie di avvicinamento. La specifica struttura sociale – famiglie che provenivano da realtà rurali del Piemonte – può spiegare una precisa componente ideologica relativa all’immigrazione italiana, dalla quale emergono una serie di valori conservatori, «il desiderio di riprodurre la vita ordinaria del villaggio rurale con piccole case, giardini, orti, terrazzi e balconi» (Foot 2004). Le comunità si costituivano attorno a forti legami di solidarietà e di organizzazione per il bene comune, dove la presenza statale risultava spesso tardiva il riferimento diventavano le istituzioni ecclesiastiche e quelle del lavoro. Adattamenti ad una crisi invisibile Muovendo dalle considerazioni di Lawton (1973, p.619) e considerando “l’ecologia dell’invecchiamento in termini di adattamento dell’uomo al suo ambiente e la sua alterazione dell’ambiente come parte dell’adattamento umano”, così anche la città è cambiata nel tempo: la crescita demografica e il cambiamento visibile, il mantenimento degli ampliamenti e degli inserimenti e infine l’attuale ridefinizione delle esigenze da parte di una popolazione invecchiata. Città Giardino e il suo intorno oggi mostrano una serie di nuove pratiche resilienti. Il tessuto commerciale tenta di resistere a un mutato contesto economico, i grandi edifici pubblici – sotto la pressione della popolazione – rivelano nuove funzioni compatibili con l’invecchiamento. Dagli spazi lasciati liberi dalle scuole sono sorti centri di ascolto, servizi di prossimità e locali per l’attività fisica, mentre la Cascina del Giajone dopo un iniziale abbandono è diventata un polo culturale e amministrativo. Per quanto riguarda la trasformazione dell’ambiente fisico in Città Giardino, agli ampliamenti iniziali delle abitazioni - le sopraelevazioni, l’aggiunta del garage e della veranda, la cancellata per definire e proteggere le proprietà - sono andati ad aggiungersi trasformazioni minute, esternamente invisibili.

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Pubblicità Città Giardino, in «La Stampa Sera», 12 - 13 novembre 1948, p.2.

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Gli interni si sono dotati di nuovi sistemi medico-sanitari per gli abitanti an- Fig.4_ Beppe Giardino. Città ziani della casa, ambienti più ampi, dispositivi per consentire l’accessibilità Giardino, interni. 2016. abbattendo le barriere architettoniche (Fig.4 e Fig.5). Interventi spesso di difficile applicazione nei limitrofi condomini, bloccati da regolamenti e prescrizioni che tendono ad insistere unicamente sull’adeguamento energetico degli edifici (Pynoos 1992). Ad emergere dall’osservazione e dalle interviste è la necessità da parte degli anziani di poter fruire degli spazi domestici e di quartiere, dai servizi alle aree verdi sino ai trasporti. Una necessità che va di pari passo con la richiesta di partecipare alla vita comunitaria e politica. Un “attaccamento” ai luoghi che si dipana a partire dalle biografie famigliari e dai fenomeni identitari che tendono a sovrapporre gli spazi della vita con quelli del ricordo e della memoria (Golant 2003). Elemento che introduce ai concetti, propri della ricerca gerontologica, di ageing in place (fisico) e di place in ageing (psicologico). Mentre il primo si occupa di comprendere il processo di invecchiamento in un ambiente famigliare, il secondo tenta di capire il significato del luogo nel processo di invecchiamento (Smith 2009). Una possibile prova a supporto di questi comportamenti è data dallo studio del mercato e delle proprietà immobiliari a Città Giardino, il quadro che emerge mostra una “resilienza famigliare” intesa come una tendenza a rimanere negli stessi luoghi o di ritornarci tramite schemi di riavvicinamento, solitamente in funzione della presenza di anziani con problemi cognitivi o fisici. All’interno di una crisi poco visibile - ma latente - Città Giardino non è solo una blueprint dell’invecchiamento e delle esigenze mutate, quanto rappresenta l’occasione di ripensare a politiche e progetti pesati per un cambiamento morfologico e funzionale. In un contesto di istituzioni poco coscienti del fenomeno, appare necessario misurare le esigenze dei “nuovi” abitanti, confrontarle e organizzare una strategia di governance lungo una prospettiva temporale più ampia, al futuro.

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bibliografia ARUP, Help Age International, Intel & Systematica 2015, Shaping Ageing Cities, consultato a maggio 2016, http://publications.arup.com/publications/s/shaping_ageing_cities Buffel T., Phillipson C. & Scharf T. 2012, “Ageing in urban environments: Developing ‘age-friendly’ cities”, Critical Social Policy, vol. 32, no. 4, pp. 597-617. Caramellino G., De Pieri F. & Renzoni C. 2015, Esplorazioni nella città dei ceti medi, Lettera Ventidue Edizioni, Siracusa. Di Biagi P. 2008, La città pubblica: Edilizia sociale e riqualificazione urbana a Torino, Allemandi, Torino. Foot J. & Lumley R. 2004, Italian Cityscapes: Culture and Urban change in Contemporary Italy, University of Exeter Press, Exeter. Golant S. 2003, “Conceptualizing Time and Behavior in Environmental Gerontology: A Pair of Old Issues Deserving New Though”, The Gerontologist, vol. 43, no. 5, pp. 638-648. King R., Warnes T. & Williams A. 2000, Sunset Lives: British Retirement Migration to the Mediterranean, Berg Publishers, Oxford. Lawton MP, Nahemow L. & Eisdorfer C. 1973, The psychology of adult development and aging, American Psychological Association, Washington DC. Libert G. 2003, Città Giardino. Mezzo secolo di vita di un borgo di periferia, Associazione Amici Archivi Piemontesi, Torino. Magliozzi Z. 2016, “Italia, un paese sempre più vecchio”, Il Giornale dell’architettura, 13 aprile 2016, consultato a maggio 2016, http://ilgiornaledellarchitettura.com/ web/2016/04/13/italia-un-paese-sempre-piu-vecchio/ Plouffe L. & Kalache A. 2010, “Towards Global Age-Friendly Cities: Determining Urban Features that Promote Active Ageing”, Journal of Urban Health: Bulletin of the New York Academy of Medicine, vol. 87, no. 5, pp. 733-739. Pynoos J. 1992, “Strategies for Home Modification and Repair”, Generations: Journal of the American Society on Aging, vol. 16, no. 2, pp. 21-25. Simpson D. 2015, Young-Old: Urban Utopias of an Aging Society, Lars Müller, Zürich. Smith AE. 2009, Ageing in Urban Neighbourhoods: Place Attachment and Social Exclusion, The Policy Press, Bristol. World Health Organization 2007, Global age-friendly cities: a guide, World Health Organization, Geneva.

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Il post-postsocialismo: crisi urbana nel Centro Est Europa

@ Gian Nicola Ricci |

The post-postsocialism: urban crisis in Central Eastern Europe In Central and Eastern European countries (CEE) there has been a long debate about the end of the “post-socialist” transitional period and on how long this geographical area will still labelled as such. The prefix “post” reveals a will to disintegrate a former system, rather than a view on the future. It is indeed the lack of a homogeneous view on development that has kept the post-socialist transition alive, which continues to follow the rules originated as antithesis toward the antecedent totalitarian period. These rules follow a “metaphor of the pendulum”, according to which to an extremity one responds with another extremity: the doctrine of central planning has been substituted by the new-liberal doctrine, which aims at integrating the CEE countries in the global economic network. Urban planning no longer occurs at the government level; it is delegated to local administrations and follows the movements of the market, with individual housing solutions and commercial models. The fact that these countries have undergone a second phase of complete social renovation in less than 50 years allow us to view this area as a single laboratory, where the environment has been modelled following the change in the basic principles that regulate society. The landscapes of the socialist period have been contrasted by one of the major sprawling suburban areas of the beginning of the 21st century. The 2008 crisis has offered a first point where to analyse the situation of a model which is no longer sustainable. The aim of this article is to bring to light these meditations, according to which post-socialism can be overcome first of all by accepting, reusing and integrating the socialist heritage, while reflecting on re-balancing individual spheres and collective responsibilities.

Preambolo – due layer contrapposti. Il termine crisi ha oggi acquisito un significato negativo, di stallo, difficoltà, disagio. Per i greci krisis era la separazione del frumento dalla pula, la distinzione della parte buona da quella cattiva. Separare significa scegliere e scegliere significa proiettarsi verso il futuro. Nel momento di crisi esiste quindi un dualismo tra componenti, per cui nasce una tensione che si sfoga in un modello alternativo. È possibile individuare a livello urbano i segni di questo dualismo? Un caso è dato dagli ex paesi socialisti del Centro Est Europa (CEE). Essi hanno

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# Post-socialismo | # Città socialista | # Centro Est Europa | # Post-socialism | # Socialist city | # Central Easter Europe |


subito in meno di cinquant’anni due cicli di completa ristrutturazione economica e sociale, in cui l’ambiente costruito è stato modellato regolandosi al profondo cambiamento avvenuto nei principi basilari dell’organizzazione della società. Ogni ciclo ha generato un layer facilmente individuabile nel tessuto di città come Praga, Budapest, Varsavia, Belgrado, Sofia. Il fenomeno interessa anche centri minori, motivo per cui l’intera regione può essere considerata come un unico laboratorio di analisi urbana. Il primo layer, quello sviluppatosi nel secondo dopoguerra, corrisponde ai paesaggi più iconici del periodo socialista: la città compatta burocratizzata e la cintura razionale dei blocchi abitativi. Alla crisi politica del 1989 è andata contrapponendosi una fase di transizione postsocialista, improntata verso un sistema neoliberale, che ha dato origine a un secondo layer: una delle maggiori aree di sprawl suburbano a livello mondiale. A seguito della crisi economica del 2008, anche questo modello sembra essere in una fase di stallo, ma non è ancora chiaro se e in che modo sarà superato. Per la prima volta si è cominciato a ragionare sugli impatti dei nuovi pattern urbani e sono state considerate nuove politiche di sviluppo. La crisi economica non ha solo costretto i developers a riassestare i loro piani e intenzioni, ma ha offerto l’opportunità di considerare alternative alle politiche neoliberali adottate dai vari governi, principali cause dell’estensiva decentralizzazione delle città. Layer 1 - La città compatta socialista. Per comprendere l’attuale assetto urbano, nato come risposta alla crisi del sistema precedente, bisogna capire la crescita avvenuta sotto il socialismo, in cui le autorità imposero severi vincoli sui diritti della proprietà privata e l’attività economica, inclusi i diritti di possedere, sviluppare, affittare o vendere un terreno. Sotto queste condizioni l’urbanizzazione prese una direzione molto diversa se comparata allo sviluppo urbano nei paesi capitalisti, soprattutto in termini di collocamento di attività umane nello spazio (French & Hemilton 1979). La pianificazione urbanistica divenne lo strumento cardine per la distribuzione razionale e l’utilizzo efficiente delle risorse economiche e sociali. Essendo l’industrializzazione la priorità dei governi, una grande quantità di risorse pubbliche fu stanziata per la realizzazione di nuovi hub industriali, divenuti fonte d’attrazione per migliaia di contadini migrati verso la città a causa della collettivizzazione delle terre o della meccanizzazione del lavoro agricolo. Tra il 1950 e il 1990 la popolazione urbana della regione raddoppiò dal 38.3 al 66.5 percento rispetto all’incremento dal 61.7 al 72.8 percento registrato nei paesi dell’Europa occidentale (UN 2015). La città socialista si poteva leggere nelle sue tre componenti fondamentali: le zone industriali, lo sviluppo dei complessi residenziali popolari e la nuova funzione rilegata ai centri cittadini, divenuti monumenti della prosperità sociale raggiunta sotto la leadership dei regimi. I nuovi insediamenti furono realizzati ai bordi dei centri urbani, direttamente a contatto con le aree industriali. Questo modello di espansione, anche se con diverse sfumature, fu adottato universalmente in tutti i paesi come unica chiave di lettura dello sviluppo.

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Il controllo dello stato sulla proprietà ostacolò lo sviluppo di quartieri suburbani borghesi, anche se alcune abitazioni dei villaggi limitrofi furono trasformate in seconde case o cottage temporanei (dacia). Essi rappresentavano per molti il sogno di evasione verso un environnement abitativo differente da quello imposto dal sistema ma non vi fu mai uno sviluppo di comunità suburbane come avvenuto nei paesi occidentali, dove i sobborghi crebbero come entità autonome. Solo dal 1989 il sogno suburbano verrà realizzato su ampia scala. Layer 2 - Il sogno suburbano. Dopo quarant’anni di egemonia dei regimi, con la crisi del 1989, i paesi del CEE fecero repentinamente ingresso nel mondo del capitalismo e del libero mercato. Questa oscillazione del pendolo della storia ha fatto si, come spesso accade nei periodi di crisi, che ad un estremo si risponda con un altro di eguale forza: al controllo autoritario e centralizzato si reagì con un intervento minimo da parte dei nuovi governi. Gran parte Fig.1_ Due layer della proprietà pubblica di risorse e mezzi di produzione passò ai privati, le contrapposti: distribuzione forme di consumo collettivo divennero individuali. Ebbe origine un periodo dei blocchi residenziali e di transizione etichettato con il termine “postsocialista”. Il prefisso “post” degli insediamenti a bassa nella città di Praga rileva di per sé la volontà di disintegrazione del sistema precedente, piut- densità (elaborazione dell’autore). tosto che una visione del sistema che seguirà. Proprio la mancanza di una proiezione omogenea di sviluppo, ha mantenuto in essere fino ad oggi la transizione postsocialista. Essa sembra continuare, anche se in maniera più attenuata, a seguire le regole sviluppatesi per antitesi verso l’ordine del periodo totalitario ormai collassato. Se da un punto di vista politico, si potrebbe far terminare questo periodo di transizione con l’ingresso dei paesi ex-comunisti all’interno dell’Unione Europea, a livello urbano questa fase non sembra essere conclusa (Sýkora & Bouzarovski 2012). I nuovi investimenti hanno seguito le logiche di mercato, caratterizzate dalla presenza di una molteplicità di attori e dalla decentralizzazione del potere dalle autorità statali a quelle locali. La suburbanizzazione è diventata il processo più visibile del cambiamento e la restituzione delle terre ha impattato direttamente sullo sviluppo metropolitano delle città, portando alla dispersione delle funzioni oltre i limiti della città compatta. La deregolamentazione ha trasferito responsabilità agli enti locali e i grandi territori amministrativi sono stati separati in piccole municipalità non coordinate tra loro. La sola città di Praga conta oggi 200 municipalità indipendenti nel suo territorio metropolitano, Budapest 80, Varsavia 76. La nascita di una nuova classe media ha portato alla costruzione di nuove gated communities mentre la domanda di alti standard abitativi, che non era stata soddisfatta dal periodo precedente, è stata supportata da un sistema di finanziamento ammortizzato dalle banche. Il sogno suburbano fatto di piccoli cluster di abitazioni unifamiliari attorno alla città compatta è stato finalmente realizzato.

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Fig.2_ Due layer contrapposti: Le conseguenze leggibili di questo fenomeno sono il degrado ambientale, il confine tra blocchi residenziali l’elevato consumo di energia e di suolo, perdita di coesione sociale, mancane insediamenti a bassa densità in un via di Rimavská Sobota za d’infrastrutture adeguate, e una forte dipendenza dall’automobile per gli spostamenti. Le comunità di quartiere, punto di forza del socialismo, si sono (fonte: Google Street View). sfaldate. Molti residenti dei blocchi di appartamenti hanno preferito trasferirsi nei nuovi sobborghi, dove manca una forte identità comune poiché non si è innescata una coesione tra nuovi e vecchi cittadini. I sobborghi sono diventati così i santuari della libertà individuale, mentre i blocchi residenziali sono caduti nel degrado, trasformandosi in collettori dalle classi sociali meno abbienti. Un layer 3 per uscire dalla crisi? Dai primi anni Duemila, tutte le grandi città della regione hanno iniziato a discutere una seconda generazione di masterplan, che fa riferimento soprattutto ad agende per la sostenibilità derivanti dalle linee guida dell’UE. Il percorso intrapreso è quello della realizzazione di piani nazionali di coordinamento metropolitano e una profonda rivalutazione tra interessi pubblici e privati. Come spesso accade, più che dall’apparato legislativo, una risposta alla nuova crisi sembra essere offerta dalla società. Le città del Centro Est Europa stanno affrontando un processo d’inversione culturale notevole, riflettendo su come sfruttare i vantaggi lasciati dai parametri dell’eredità socialista. Alcune forme di rigenerazione urbana, forse il più valido strumento per contrastare lo sviluppo suburbano, stanno andando in quella direzione. Il riuso dell’enorme patrimonio costruito lasciato dal quarantennio di governo socialista è una grande opportunità per disegnare un nuovo modello di città, in grado di porre fine, anche dal punto di vista urbano, alla crisi della transi-

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Fig.3_ Parodia nei zione postsocialista. Pensiamo alla massa di edilizia sociale prefabbricata realizzata tra gli anni confronti della ripetizione: un fotogramma di un Sessanta e Settanta del Novecento: ancora oggi gran parte delle popolazioni video che rappresenta i vive in questi enormi complessi realizzati ai bordi delle città. Dalle capitali alle blocchi residenziali come gigantesco Tetris cittadine di medie dimensioni, queste costruzioni sembrano essersi cristalliz- un estratto dal zate nel paesaggio, diventando l’elemento caratterizzante di una vasta area (fotogramma video “Berlin Block Tetris” di geografica. A seguito dello sviluppo incontrollato, queste aree si sono trovate Sergej Hein). in una posizione favorevole di filtro tra il centro città e l’area suburbana, una sorta di cintura verde ben collegata con il centro. Pensare la totale distruzione di queste costruzioni è quasi utopico, poiché comporterebbe un grosso dispendio di capitale, soprattutto per lo smaltimento delle macerie. Il sistema prefabbricato, inizialmente pensato per risolvere il problema delle abitazioni a basso costo, implica grosse spese di manutenzione e non offre grandi prestazioni energetiche. L’elemento più irritante associato a questo sistema rimane la monotonia formale: già negli anni Settanta alcune parodie raccontavano tali spazi sotto forma di storie di persone perdute tornando a casa da lavoro, a causa della somiglianza tra i blocchi residenziali e ancora oggi questa standardizzazione quasi ossessiva è vista come qualcosa di negativo. Il dibattito è acceso, ma un nuovo approccio culturale può mirare a trovare nella ripetizione la qualità da cui partire per il recupero edilizio. Alcuni architetti pensano di rispondere alla prefabbricazione con la stessa arma: la produzione in serie di elementi sostitutivi che possano in qualche modo offrire un certo margine di personalizzazione. Lo studio di progettazione slovacco GutGut è andato in questa direzione dando una risposta concreta al problema. Il progetto “Panelak” ha ridato vita a un blocco residenziale prefabbricato e offre un caso studio interessante di recupero del patrimonio residenziale socialista. L’intervento è avvenuto nella periferia di Rimavská Sobota, una

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Fig.4_

ExRotaPrint - Berlin (photo by Levente Polyak).

piccola cittadina che, sebbene di dimensioni ridotte, esplicita gli stessi layer urbani e le stesse problematiche analizzate finora. Sempre più frequentemente piccoli investitori acquistano edifici di abitazione popolare che le municipalità non sono più in grado di mantenere, spinti dalla tendenza di ritorno delle nuove generazioni in queste aree, rese più appetibili dal buon collegamento con le zone centrali e i servizi. Accade però che il recupero di questi edifici non consideri il rapporto tra interno ed esterno, e le facciate vengano semplicemente uniformate attraverso l’uso di colori. Il progetto “Panelak” invece offre un approccio concettuale innovativo all’intero corpo di fabbrica: per rompere la monotonia del sistema prefabbricato sono stati aggiunti elementi facilmente identificabili, come il volume d’ingresso in cemento a vista, i 30 nuovi balconi 2x2m pre-assemblati in acciaio e una sopraelevazione all’ultimo piano che si presenta come un proseguimento della facciata compatta esistente. Il piano terra è stato pensato come uno spazio che accoglie diversi servizi, non solo per i residenti dell’edificio ma per il quartiere stesso, mettendo in interazione il fabbricato con lo spazio esterno. I vecchi appartamenti monotematici sono stati sostituiti da diverse tipologie, creando un mix abitativo che sfrutta la possibilità di modificare il sistema costruttivo a scatole prefabbricate sia nel senso verticale, che orizzontale. La monotonia della griglia di facciata è stata modificata con aperture diversificate. Il progetto è da considerarsi un esempio positivo di sfruttamento di un patrimonio critico e anche se rimane un episodio isolato, ha suscitato interesse tra gli abitanti degli edifici contigui innescando un processo di riqualificazione dell’area. Rimane l’interrogativo se questi nuovi tipi d’intervento debbano essere in qualche modo lasciati alla libera iniziativa dei privati. Probabilmente si deve

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Caso studio: favorire la modifica indipendente dei singoli edifici ma adottare un coordi- Fig.5_ progetto “Panelak” namento unificato degli spazi esterni, che erano e sono ancora oggi i punti il (fonte: foto studio GutGut, di forza di questi quartieri. Se gli edifici sono quindi gli elementi fisici su cui assonometria dell’autore). poter intervenire, come affrontare l’eredità degli immensi spazi pubblici tra un edificio e l’altro? Probabilmente il layout di questi insediamenti è l’unica cosa da mantenere inalterata, un elemento immateriale da preservare come unica memoria di collegamento con il passato, di riscoperta di un’identità comune che per essere tale deve tenere conto anche di quegli spazi. Come riprogettare il vuoto mantenendone l’integrità? Forse un terzo layer non è necessario, forse il post-postsocialismo significa semplicemente reinventare il socialismo.

bibliografia French R.A. & Hamilton, F.E.I. 1979, The Socialist City, Spatial Structure and Urban Policy, John Wiley & Sons Ltd, New York. Sýkora L. & Bouzarovski S. 2012, “Multiple transformations: Conceptualising post-communist urban transition”, Urban Studies no. 49, Vol.1, pp. 41– 58. United Nations (UN): World population prospects: The 2015 revision, Department of Economic and Social Affairs, Population Division, United Nations, consultato a aprile 2016, http://esa.un.org/unpd/wpp/

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particolare tratto dalla serie

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Accra Airport City: from Crisis to Practice

@ Arturo Pavani | # Città | # Crisi | # Accra | # City | # Crisis | # Accra |

Le città africane vengono spesso associate al concetto di “crisi”. Questo articolo propone di affrontare l’argomento mettendo a fuoco il concetto di “città africane” attraverso la lettura di un contesto urbano specifico, il Central Business District di Accra, Airport City. Il caso studio è analizzato attraverso le testimonianze di chi ha contribuito attivamente al suo sviluppo. Questo tipo di approccio permette di riconfigurare la crisi non solo come fenomeno negativo, ma come potenziale catalizzatore di innovazione. Accra Airport City rappresenta l’ultimo passo nello sviluppo urbano della capitale ghanese. La sua posizione strategica ha riposizionato il baricentro del business all’interno della città, allontanandosi dalla congestionata città storica ed avvicinandosi invece alle nuove zone residenziali suburbane. Vista da lontano, la sua architettura è assimilabile a quella di qualsiasi altro Business District. Uffici, alberghi e centri commerciali dalle forme e materiali moderni. Ad un’analisi più attenta invece si notano alcune peculiarità: elementi come la distribuzione, gli spazi pubblici, i dettagli architettonici, rivelano una vocazione locale ben più particolare. Tutto questo è frutto delle dinamiche specifiche del contesto della capitale ghanese, nella quale l’acquisto di un terreno segue dei processi ben diversi rispetto a quelli occidentali, e nella quale la mancanza di tecnologie e materiali di alta qualità influenza in maniera radicale i processi costruttivi e, di conseguenza, l’architettura. Attraverso le testimonianze di chi vi lavora quotidianamente emerge come la crisi ad Accra Airport City sia presente in tutti i suoi aspetti negativi, ma anche come generatore di nuove soluzioni, forme e configurazioni spaziali.

African Cities and Crisis “African cities don’t work” or are sometimes more generously defined as “works in progress, exceedingly creative and extremely stalled” (Simone 2004, p. 1). Joining a number of other authors such as Myers, Pieterse and Parnell, Simone advocates towards focusing scholars’ attention on how these cities work, rather than how we think they should work. Africa and its cities are often associated with the idea of crisis (Myers 2011, p. 3). This tendency ranges across different fields of study, from urban stud-

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ies to political science. From sanitation to infrastructure, education, security and urban sprawl, African cities offer fertile ground to those who seek to find emergencies and radical differences from their Western counterparts to which they might seem to aspire. As Murray and Myers suggest, we should move beyond the “diagnostic mindset” that looks at African cities only as examples of failed urbanism (Murray & Myers 2006, p. 7). Instead, it is imperative to turn to appreciate the local specificities of each city, trying to understand “how they make themselves and at the same time they are made” (Simone 2004, pp. 15–16). Cities in Africa are very much diverse, and the “African City” label has proven ineffective in addressing such heterogeneity. Simone looks at what happens “in a circumscribed space and time to help prepare specific actors to reach and extend themselves across a larger world and enact these possibilities of urban becoming” (Simone 2004, p. 3). The particular space that this paper analyzes is the Airport City Business District of Accra, Ghana. The analysis is conducted through field-research, with sketches and first-hand accounts of those who have contributed to its development. The choice to analyze a relatively exclusive and technologically advanced neighborhood is intentional. It derives on one hand from the will to shift the perspective on African cities too often portrayed exclusively as basket cases, “plagued” by informal settlements and slums and on the other hand to show that the potential and the challenges of contemporary urbanization are well visible also – and possibly more even easier to understand from a Western perspective – through the study of a district that might as well have been built in London, Paris or Milan. The following accounts were gathered over the past three years, during which I have conducted a number of field research study trips to Accra and the region, resulting in a series of interviews to local professionals that helped me better understand the background and the dynamics that led to the creation of this latest addition to the city’s urban environment. Accra Business Districts Ghana has been politically stable since 1992. In that, they somehow constitute an ideal case study – and cautionary tale – showing both the urban potentials and challenges that persist despite a stable political environment and a relatively steady economic growth. The spatial organization of Accra has always been related to its economic activities. During precolonial times, the city constituted little more than a fishing village organized around sheltered harbors (Hubbard 1925, p. 21). Colonization brought foreign models of urban development, that centered their activities around the coastal forts. In 1877, the township of Accra was established and some first attempts to the sanitation of the local environment were made. The port remained the epicenter of all activities with its docks, warehouses and railway terminals. Colonial administration’s buildings and military bases were all located nearby, and it became the starting point for the establishment of a regular urban pattern, which was gradually super-imposed over the existing non-planned city (Brand 1972). The first European Central Business District (CBD) was located next to the port, hosting

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a wide variety of activities, from trading to distribution, transportation, banking and insurance. In post-colonial times, foreign presence decreased, and by the 1980’s there was only a modest foreign presence in the urban economy of Accra (Grant 2009, p. 26). In the 1990’s, the political situation stabilized, and the commercial Real Estate market began to grow again, although the confusion in the land-holding systems determined a scarcity of available land in the city center. In 1962 commercial activities had been transferred to the nearby port-city of Tema and the city center had begun to shift gradually towards the now predominant connection with the rest of the world: the airport. Despite its historical value and potential as a tourist destination (Ghana’s coast counts 28 World Heritage Sites1), the traditional CBD located in Ussher Town decayed. Traffic congestion, poor maintenance and overpopulation led to its dismissal by most foreign companies. Despite its proximity to the Ministry area – where the bulk of Fig.1_ Map of Accra. From government buildings are still located – the CBD started to expand towards south to north, the city’s the central and more accessible Ridge area, where the presence of notable business districts: Usher Town, developments such as the World Trade Center and the Mövenpick Hotel had Ridge and Airport City. begun to attract the majority of businesses. Nonetheless, wealthy residential areas were growing in the only available space: on the outskirts of Accra. Commuting times increased considerably for the new generation of businesspersons, who resided in the northern parts of the city, and as maritime traffic and light industry were transferred to Tema, the airport became the hub for the city’s international connections. Its location being strategic also thanks to the proximity with the highway that connects it to the port and the rest of the coast. Airport City became the next destination for foreign companies. The shift towards Airport city began in correspondence with the country’s economic boom in 2007 when the country discovered crude on its shores. It also roughly coincided with the deterioration of the political situation in Ivory Coast, which forced many investors and companies to relocate elsewhere in the region. This combination of factors led to a prompt increase in the demand for quality commercial real estate. Unfortunately, the government borrowed more than it could afford, the oil production underperformed, and the oil crisis hit. A series of controversial economic measures followed in an ill-coordinated attempt to stop the local currency’s fall, resulting in a loss of over 40% of its value between 2014 and 2015, becoming the world’s worst performing currency (Blas, 2014). Nowadays, the situation has somehow stabilized. Despite the current economic stall, Ghana still represents an appealing destination for foreign investors, attracting more than 3 million US $ in foreign direct investments. In 2007, the planning of the Airport City Central Business District symbolized 1_ Forts and Castles, Volta, Arturo Pavani > Città in crisi > Accra Airport City: from Crisis to Practice

Greater Accra, Central and Western Regions. http://whc. unesco.org/en/list/34

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the beginning of a new era for Accra and Ghana, in which they consolidated Fig.2_ Map of Airport City. their position at global level both as an economic player and as destination The circulation within the is limited by the lack for international businesses (Mills-Tettey & Adi-Dako 2002). The area was district of access. strategically located in direct vicinity of the airport and the newly built residential areas of Airport residential and East Legon. In a context traditionally plagued by infrastructural issues, it provided a clean slate to plan and develop a completely new business district. Between 2007 and 2014, up to 20 new developments were planned and built, including three hotels, one shopping mall and a number of commercial buildings. Rent prices almost doubled, going from 22$ to 40$ per square meter, while in the rest of the city prices remained stable at around 30 $/sqm. Developing Airport City Today, Airport City looks like a traditional Central Business District, with its shopping malls, cafes and office buildings. However, getting close, some of its peculiarities jump at the eye: the absence of real public spaces and urban design elements, while, at the same time, street vendors are ubiquitous but never random: they choose their spot very carefully based on shade, circulation and local hierarchies. The use of unmarked pathways to travel around the district is a constant, with businesspersons hopping over little walls and crouching under parking bars to avoid walking around buildings. The almost artisanal look of every single architectural element is striking. Circulation and accesses suffer from the lack of regulations for public space and infrastructure (or their application), result in narrow streets, with no sidewalks and little public parking space. Entire portions of public streets have been privatized and closed, limiting access to the area and exacerbating the already problematic traffic situation. In Airport City, urban planning left much to be desired. By looking at a map of the district, it is clear how portions of land that should have been streets were instead sold to private developers, blocking the access to the district. Circulation within Airport City is precarious, as the only two entrances lie on the same trafficked road. Land rights and transactions also constitute a problem. Accra still lacks a proper land registry, and the jurisdiction on land is split between multiple government entities, a condition that not only undermines the growth of the city but also its citizens’ rights (Thurman 2010). At the same time, return on investment time is much shorter than in Western countries. As local developers explain, here the motto is “build fast, sell fast”. The pace of growth of Airport City has been stunning, as Joe Osae-Addo, local architect and founder of the ArchiAfrika magazine, recognizes. “When it comes to new large-scale developments the first issue is the speed at which they get built. They just sprout here and there from one day to the other. As a consequence, plans and regulations are chronically lagging behind the market and the construction activities”. Addo advocates for the integration of traditional activities within the contemporary city. Local architects have a central role in this, as they should “take on the responsibility that derives, on one hand, from a deep knowledge of the local context and on the other

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Fig.4_One

Airport Square under construction. Credits: Laurus Development Partners. < in the previous pages: Fig.3_ Airport City. Sketch by Arturo Pavani and Alberto Minero.

from the potential that lies beneath the surface in terms of innovation”. The reality of contemporary building in Accra suffers from a lack of care for the context, which derives from the unsustainability of its pace and manifests itself through buildings “that are not African in any way: they are just better or worse variations of the same curtain wall buildings and glass towers. They are ubiquitous, from Luanda, Angola to Abuja and Lagos in Nigeria, to Abidjan in Cote d’Ivoire and Addis Abeba in Ethiopia. West-inspired office buildings dominate the landscape; they are copied but not adapted in any way to the local conditions”. An exception to this rule is represented by One Airport Square (OAS), the first energy certified building in West Africa, designed by Italian architect Mario Cucinella. Its construction manager was born in Nigeria but has Italian roots. Jimmy Castagna explains how the lack of advanced building skills and technologies were the key to the almost handcrafted feel of the building, whose façade diagrid joints have been manufactured individually in Italy and were then cast in-place, contributing to its effective aesthetic. Indeed, the project was a commercial success even in times of economic crisis for the country. With this building, the developers wanted to show that it is possible to build quality contemporary architecture in Africa acknowledging the characteristics of the local context both in environmental and economic terms. One Airport Square is representative of a new approach towards architecture and Real Estate in Africa, which combines global technologies, design and skills with a deep knowledge of the local context. Joe Addo is confident that the time for local architecture to assume its driving role in the construction and development of a local identity will come soon, just as it has happened in visual arts, literature, music, cinema and fashion. “One luxury that African architects do not have is time; they must

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learn from the mistakes of others and experiment incessantly. Experiment and innovate. They should get inspiration from the challenges of the local context rather than discourage themselves and allow them to drive the design process, therefore rooting it within its territory” (Excerpt from Osae-Addo 2015). Ultimately, these episodes attest that Accra might in fact be considered in a state of crisis when it comes to its land rights, planning practices and its very own urban and architectural identity, but Joe’s prediction has already been proved right, as the challenges of the local environment have already started to catalyze innovation and generate positive outcome. Accra certainly has its own specific issues, but its challenges and potential can be easily recognized in a great number of other cities, both in Africa and beyond. A city where crisis becomes a positive catalyst, what Simone calls the city yet to come.

bibliografia Blas J. 2014, August 3. Ghana seeks IMF help after currency falls 40%. Financial Times. Retrieved from http://www.ft.com/intl/cms/s/0/195ce3ec-1a5f-11e4-8131-00144feabdc0.html#axzz3n1isrj00 Brand R. 1972, A Geographical Interpretation of the European Influence on Accra, Ghana since 1877 (Ph.D. Thesis). Columbia Universty, New York. Grant R. 2009, Globalizing City: The Urban and Economic Transformation of Accra, Ghana. Syracuse University Press, Syracuse. Hubbard J. 1925, Accra: A Geographical Study of the Historical Background to Development Up to 1920, Gold Coast Government Printer, Accra. Mills-Tettey R. & Adi-Dako K., a cura di, 2002, Visions of the City: Accra in the 21st Century. Woeli Pub Serv, Accra. Murray M. J. & Myers G. A., a cura di, 2006, Cities in Contemporary Africa, Palgrave Macmillan, New York. Myers G. 2011, African Cities: Alternative Visions of Urban Theory and Practice, Zed Books, London - New York Osae-Addo J. (2015, August 27). Interview. Simone A. 2004, For the City Yet to Come: Changing African Life in Four Cities, Duke University Press Books, Durham. Thurman G.K. 2010, “Land use regulations and urban planning initiatives in Accra, Ghana” in PLAN A6211, 1. Retrieved from http://mci.ei.columbia.edu/files/2013/03/ Land-Use-Regulations-and-Urban-Planning-Initiatives-in-Accra-Ghana.pdf

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Atlante Atlas

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BUILT IN THE LATE XIX SEC. FOR UPPER-MIDDLE CLASS Garden

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EVOLUZIONE DELLA VICTORIAN TOWN HOUSE DALLA UPPER CLASS ALLO SQUAT Se la casa vittoriana nell’ottocento a Londra era occupata da una famiglia e la sua servitù, con un’estrema gerarchizzazione degli spazi e dei piani, negli anni ‘70 lo squat diventa luogo della vita in comune, vi possono abitare più nuclei familiari, i piani bassi sono generalmente destinati alle attività ordinarie e pubbliche, gli scantinati sono adibiti a sala prove e laboratori, i muri che separano i giardini sul retro vengono abbattuti, i piani alti sono destinati alla vita più privata.

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A W


ABBANDONED OR PARCELLED FOR WORKING CLASS

REFUSE OF THE NUCLEAR FAMILY > LIVING IN A COMMUNE Garden

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Elgin Av. 2015

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WALK ON THE WILD SITE Loft building - Soho NY Evoluzione dell’uso dei loft building. Rappresentazione dei principali dispositivi architettonici impiegati per trasformare ed intensificare lo spazio interno da parte degli artisti a partire dagli anni 60 e quelli impiegati per trasformare successivamente lo stesso spazio in abitazione: il loft living.

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Loft living

Loft Art Scene

Loft building

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UNA CITTA’ NELLA CITTA’ Utilizzo/inutilizzo degli spazi aperti nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. La Casa Circondariale è edificata su una superficie di 250.000 mq e ospita c.a. 1200 detenuti (Fonte: Ministero della Giustizia, 2014), c.a. 750 agenti di sorveglianza e 16 educatori. Sono c.a. 150 i detenuti impegnati in attività lavorative interne, mentre quasi tutti accedono alle attività sportive per alcune ore alla settimana. (Fonte: Ministero della Giustizia, 2015). Gli agenti svolgono prevalentemente attività di sorveglianza in turni da 8 ore. 3 3

LEGENDA superficie a prato (non attrezzata) superficie a cemento cortile dell’ora d’aria / passeggio (non attrezzato) 92 area attrezzata

Descrizione delle aree attrezzate

1 ICAM/semiliberi 2 campo da calcio 3 giardini in disuso 4 colloqui all’aperto

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Apparati Others

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@ Profilo autori / Authors bio

Lucia Baima

Architetto e dottoranda in Architettura, Storia e progetto presso il Politecnico di Torino dove si è laureata, dopo un periodo un periodo di studi a Barcellona, con il progetto di tesi Cache-Cache (pubblicato su Metronord-emergenti forme urbane). Collabora con gli studi Avventura Urbana e MARC Architetti Associati con il quale partecipa alla 12 Biennale dell’Architettura - mostra AILATI. Dal 2009 collabora alle Unità di Progetto della Laurea Magistrale ed è tutor nel workshop internazionale 24h Beyond the City e per il progetto Sunslice. La sua attività di ricerca è incentrata sulla definizione di Intensità urbana come dimensione della progettazione architettonica approfondendo la ricerca a New York.

Caterina Barioglio

Dottore in architettura e dottore di ricerca in Storia dell’Architettura e

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dell’Urbanistica presso il Politecnico di Torino. Con una ricerca triennale svolta gran parte in territorio americano, la sua tesi di dottorato indaga il ruolo degli attori nei processi decisionali che regolano le trasformazioni urbane sulla Sixth Avenue a Manhattan negli anni compresi tra guerra e secondo dopoguerra. A seguito della laurea summa cum laude in Architettura conseguita nel 2012 collabora con diversi studi professionali occupandosi di architettura e comunicazione, e svolge attività di sostegno alla didattica universitaria in corsi di storia e progettazione presso il Politecnico di Torino e di Milano e presso la University Studies Abroad Consortium di Torino.

Valeria Bruni

Dal 2009 lavora come architetto progettista e nello stesso anno fonda lo studio bam! a Torino, col quale lavora per alcuni anni partecipan-

do a numerosi concorsi e raccogliendo alcuni premi tra cui YAP MAXXI 2013. Dal 2013 si occupa di carcere, nel quale entra prima come volontaria poi come ricercatrice nell’ambito del dottorato al Politecnico di Torino, Dipartimento di Architettura e Design. E’ particolarmente interessata ai processi di autodeterminazione dell’ambiente costruito e al potenziale in termini di sviluppo culturale per la cura dei luoghi di vita collettivi che ne deriva.

Filippo De Pieri

teaches architectural and urban history at the Politecnico di Torino. His research focuses on the history of contemporary European, North American, and East Asian cities. His publications include the volumes Il controllo improbabile: progetti urbani, burocrazie, decisioni in una città capitale dell’Ottocento (Turin:

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Franco Angeli, 2005), Storie di case: abitare l’Italia del boom (Rome: Donzelli, 2013, as a co-editor), and Beijing Danwei: Industrial Heritage in the Contemporary City (Berlin: Jovis, 2015, as a co-editor). He has been a visiting scholar at Harvard University and Tsinghua University and is currently a book review editor for the journals “Città e storia” and “Planning Perspectives”.

mente dottoranda in “Architettura. Storia e Progetto” presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino. Si è occupata fino al 2012 di gestione e valorizzazione degli immobili dello Stato, contemporaneamente ha fatto ricerca e interventi Janet Hetman sul territorio urbano attraDottoranda e teaching assistant in progettazione verso il Centro di Ricerca dei Luoghi Singolari, da lei architettonica e urbana fondato nel 2004 insieme presso il Dipartimento all’antropologo e urbanista di Architettura di Roma Daniele Vazquez Pizzi. Dal Beppe Giardino Tre. Laureata presso il 2011 scrive su e gestisce il Inizia a fotografare Politecnico di Torino con sito www.luoghisingolari. alla fine degli anni una tesi interdisciplinare ottanta, utilizzando il sull’innovazione tipologica net, spazio di condivisione mezzo fotografico come della casa urbana a partire di ricerche, pratiche e strumento di ricerca riflessioni sulla metropoli dai cambiamenti sociali, artistica, indagando sui contemporanea. ha inoltre svolto attività luoghi come contenitori di di ricerca con il centro di Arturo Pavani memorie. Dopo la laurea CRD-PVS e il dipartimento Ph.D. candidate in archiin architettura, si dedica DAD dello stesso ateneo. tecture, research focuses professionalmente alla Attualmente sta svolgendo on the forms and dynamics fotografia, privilegiando la ricerca di dottorato of urban development in tematiche legate sul rapporto tra le forme Accra, Ghana. Also workall’architettura urbana e dell’abitare urbano e i ing as a market analyst industriale. Parallelamente dispositivi della compreand consultant in Real prosegue l’attività artistica senza. Estate with experience concentrando l’attenzione in Italy, Ghana and Ivory sull’abitare esponendo in Laura Martini molte gallerie e istituzioni è un architetto, attualCoast.

Apparati

pubbliche e private. Ha partecipato a diverse campagne fotografiche per la Fondazione Italiana per la Fotografia mirate a documentare la città in trasformazione. Collabora attivamente con riviste e case editrici del settore.

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Gian Nicola Ricci

Architetto e dottorando in Beni Architettonici e Paesaggistici presso il Politecnico di Torino. La sua ricerca si concentra sulla preservazione del patrimonio architettonico del XXsecolo, con particolare interesse verso i Paesi del Centro Est Europa come la Polonia. Svolge attività di sostegno alla didattica nei corsi di Storia dell’Architettura Contemporanea e nei laboratori di Progettazione Architettonica. Nel 2012 fonda l’atelier di progettazione R3Architetti.

Matteo Robiglio

Architetto, PhD, insegna al Politecnico di Torino. E’ autore di diversi saggi e collabora con il Giornale dell’Architettura e con il Sole 24 Ore. E’ tra i fondatori di Avventura Urbana. Nel 2011 fonda, insieme ad Isabelle Toussaint, TRA_architettura condivisa, con cui sviluppa progetti di architettura e

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urbanistica di comunità. Nel 2014 fonda Homers, impresa sociale innovativa per la promozione di interventi bottom-up di housing sociale. E’ membro dei seguenti Comitati Scientifici: 3°Piano Strategico di Torino, Innovazione di IREN, Centro Studi Africani di Torino, e German Marshall Fund of the United States Urban & Regional Policy Program Fellow 2014-2015.

terra siciliano tramite la messa in rete e il riuso dei borghi rurali abbandonati fondati durante il fascismo, collabora con diversi studi professionali e svolge attività di sostegno alla didattica in uno dei laboratori di Progettazione Architettonica e Urbana del Politecnico di Milano.

Davide Vero

Architetto e dottorando in “Architettura. Storia e Progetto” presso il PolitecLudovica Vacirca nico di Torino. Laureato Architetto e dottore di in architettura nel 2013 ricerca in Storia dell’Archi- presso il Politecnico di tettura e dell’Urbanistica Torino con una tesi sugli presso il Politecnico di Tori- insediamenti informali no con una tesi che indaga a Buenos Aires. Durante i processi di esportazione sua attività di ricerca ha dei modelli della cultura collaborato con l’Universiarchitettonica americana dad de Buenos Aires e con nei paesi dell’Est Europa la Tsinghua University di durante la guerra fredda Pechino. Svolge attività di e per la quale ha svolto assistenza alla didattica in diversi periodi di ricerca Composizione Architeta New York. Dopo la tonica e Urbana presso laurea magistrale presso il Politecnico di Torino. Il il Politecnico di Milano suo lavoro è sempre stato con una tesi sulle possibili segnato dall’attenzione strategie di riattivazione alla città e alla sua trasfordel territorio dell’entromazione.

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# Parole chiave / Keywords

Abitare condiviso | Autodeterminazio- Crisi | Crisis House-sharing ne | Selfdetermina- J. Hetman_p. 15 Profanazioni urbane dentro la C. Barioglio & L. Vacirca_p. 47 tion crisi. La maniera di Napoli Città e crisi ai tempi di Airbnb: il Lower East Side (NYC)

Accra | Accra

A. Pavani_p. 75 Accra Airport City: from Crisis to Practice

Adattamento Urbano | Urban Adaptation

D. Vero_p. 55 Facing Urban Ageing. Città Giardino Torino: micro adattamenti per una crisi invisibile

Airbnb | Airbnb

C. Barioglio & L. Vacirca _p. 47 Città e crisi ai tempi di Airbnb: il Lower East Side (NYC)

Alternative urban livestyle

L. Baima_p. 31 Walk on the wild site. New York negli anni ‘70

V. Bruni_p. 39 Adattare gli ambienti delle prigioni: autodeterminazione e umanizzazione

Città | City

A. Pavani_p. 75 Accra Airport City: from Crisis to Practice

Centro Est Europa | Central Easter Europe G. N. Ricci_p. 67 Il post-postsocialismo: crisi urbana nel Centro Est Europa

Città socialista | Socialist city

G. N. Ricci_p. 67 Il post-postsocialismo: crisi urbana nel Centro Est Europa

A. Pavani _p. 75 Accra Airport City: from Crisis to Practice

Gerontologia Ambientale | Environmental Gerontology

D. Vero_p. 55 Facing Urban Ageing. Città Giardino Torino: micro adattamenti per una crisi invisibile

Invecchiamento Urbano | Urban Ageing

D. Vero_p. 55 Facing Urban Ageing. Città Giardino Torino: micro adattamenti per una crisi invisibile

Londra | London

L. Martini_p. 23 Londra 1970-1980: la città degli squat

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Napoli | Naples

J. Hetman_p. 15 Profanazioni urbane dentro la crisi. La maniera di Napoli

New York | New York

L. Baima_p. 31 Walk on the wild site. New York negli anni ‘70 C. Barioglio & L. Vacirca _p. 47 Città e crisi ai tempi di Airbnb: il Lower East Side (NYC)

Post-socialismo | Post-socialism

G. N. Ricci_p. 67 Il post-postsocialismo: crisi urbana nel Centro Est Europa

Apparati

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Prigione | Prison

V. Bruni_p. 39 Adattare gli ambienti delle prigioni: autodeterminazione e umanizzazione

Profanazioni urbane | Urban desecration

L. Martini_p. 23 Londra 1970-1980: la città degli squat

Spiritual crisis

J. Hetman_p. 15 Profanazioni urbane dentro la crisi. La maniera di Napoli

Punk | Punk

Occupazioni | Squats

L. Martini_p. 23 Londra 1970-1980: la città degli squat

L. Baima_p. 31 Walk on the wild site. New York negli anni ‘70

Umanizzazione | Humanization

V. Bruni_p. 39 Adattare gli ambienti delle prigioni: autodeterminazione e umanizzazione

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Illustrazioni / Illustrations Condominio +65 / Condominium +65 di/by Beppe Giardino Gli edifici di un sogno, la massima aspirazione per molte famiglie. Le fotografie dell’ordinario, spazi famigliari al presente. La relazione fra il costruito e la sua narrazione, inquadrature di quello che si vede e di quello che si vuole tenere nascosto. Le città invecchiano, così come i suoi abitanti, l’esplorazione fotografica Condominio +65 nasce da un progetto più ampio, Facing Urban Ageing, dove ad essere indagata è la relazione fra il fenomeno demografico dell’invecchiamento della popolazione e la trasformazione urbana a Torino. Prendendo le mosse dalla mappatura dell’invecchiamento nella città di Torino l’analisi si fa più articolata, la sovrapposizione della lettura fotografica mira ad aggiungere un ulteriore strato interpretativo. Le inquadrature, naturali e rigorose, si situano nei luoghi evidenziati dal pattern della città invecchiata mostrando una raccolta delle forme dell’abitare condiviso, gli spazi del condominio e delle famiglie del ceto medio. La campagna fotografica documenta i luoghi, interrogando attraverso la distanza temporale la possibile riposta alle nuove questioni demografiche e sociali. Le sezioni si muovono nel tempo attraverso gli edifici, gli spazi comuni e le soglie che dividono l’interno domestico dall’esterno urbano. I protagonisti sono i condomìni, quelli costruiti durante l’espansione di Torino tra gli anni ’60 e ’70 per far fronte alla vasta richiesta di abitazioni Gli scatti in bianco e nero per gli esterni e a colori per gli interni, quasi a sottolineare l’aspetto più domestico dell’abitare in contrasto con la freddezza dell’architettura circostante, tratteggiano aspirazioni abitative e stili di vita oggi lontani. La sequenza degli spazi rappresentativi, l’accuratezza dei dettagli costruttivi e la scansione degli elementi ricorrenti mostrano una diversa idea di abitare, immutata come i suoi abitanti, nonostante siano molto diverse le richieste e le aspettative della popolazione anziana che li vive. Beppe Giardino inizia a fotografare alla fine degli anni ottanta, utilizzando il mezzo fotografico come strumento di ricerca artistica, indagando sui luoghi come contenitori di memorie. Dopo la laurea in architettura, si dedica professionalmente alla fotografia, privilegiando tematiche legate all’architettura urbana e industriale. Parallelamente prosegue l’attività artistica concentrando l’attenzione sull’abitare esponendo in molte gallerie e istituzioni pubbliche e private. Ha partecipato a diverse campagne fotografiche per la Fondazione Italiana per la Fotografia mirate a documentare la città in trasformazione. Collabora attivamente con riviste e case editrici del settore. Beppe Giardino starts taking pictures at the end of the 80s using photography as a tool for artistic investigation and inquiring places as memory-containers. At the end of his graduation in Architecture, photography becomes a full-time profession favoring issues concerning urban and industrial architecture. Simultaneously he pursues the artistic activity focusing on the “living spaces” and he exhibits in many art galleries and institutions, both private and public. He takes part in many photographical campaigns for the Italian Foundation of Photography with the aim of recording the city in transformation.Today he actively collaborates with many magazines and editors of the architectural.

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In queste pagine: Senza Titolo (dalla serie “Condominio +65�), 2016

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In queste pagine e in quelle a seguire: Senza Titolo (dalla serie “Condominio +65�), 2016

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i QUADERNI #09 aprile_giugno 2016 numero nove anno quattro

URBANISTICA tre giornale on-line di urbanistica ISSN:

1973-9702

È stato bello fare la tua conoscenza!

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