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NEL CUORE DELLA CITTÀ

Tomba ad arcosolio con intonaco dipinto e iscrizione graffita.

Archeologia e conservazione a Ponte della Lama: l’intervento su un intonaco dipinto. di Velia Polito* Un progetto di archeologia su vasta scala non può prescindere, oggi, dall’integrazione di apporti scientifici diversi ma deve proiettarsi verso un tentativo di indagine ‘globale’, in cui le attività di ricerca sul campo sono svolte con l’impiego di una pluralità di discipline umanistiche e scientifiche, di tecniche e di fonti diverse, di specifiche competenze. La globalità dell’approccio, il superamento degli steccati disciplinari, l’utilizzazione integrata di fonti diverse, archeologiche e non, colgono, infatti, l’importante obiettivo di rispondere ad una molteplicità di domande storiche. In questa prospettiva, a partire dalle problematiche specifiche incontrate nel corso degli scavi e dalla necessità di rispondere ad esse adeguatamente, si è avviata una prima sperimentazione funzionale alla tutela dei contesti e reperti indagati e all’introduzione delle problematiche di conservazione a partire dalla fase di indagine sul campo. Il concetto di conservazione, nel dibattito metodologico più recente, si va sviluppando in senso sempre più autonomo rispetto a quello di restauro, come metodologia più consona al confronto con l’archeologia, che si propone come una diversa politica d’intervento, duttile, capace di rispondere ai problemi della tutela dei Beni culturali ed in grado di superare le proporzioni ben più impegnative dei restauri in termini economici, di tempo e di portata dell’intervento. Semplificando, mentre il restauro interviene come atto terapeutico che contrasta le patologie intercorse nella vita dell’oggetto, ed estetico, la conservazione tenta di congelare lo stato dell’oggetto arrestando i processi di degrado. Essa si concentra sulla aspettativa di vita dei beni culturali, elabora, in virtù di questo obiettivo, strategie dirette e preventive ed educa all’acquisizione di un comportamento di globale responsabilità, volto a garantire la sopravvivenza della materia. Il restauro, invece, si pone come un intervento mirato alla risoluzione di problemi specifici su oggetti specifici; è pertanto azione necessariamente diretta che si confronta non solo con la durata nel tempo della materia ma anche del messaggio di cui si rende portatore il bene culturale in questione. Il progetto di integrazione dell’indagine archeologica con i necessari interventi di conservazione dei contesti e dei reperti indagati deve, dunque, tenere conto dei problemi di degrado dei materiali archeologici innescati con la stessa fase di messa in luce delle strutture e dei reperti mobili. Il primo processo di degrado subito dai materiali archeologici avviene durante la fase di vita, uso e, successivamente,

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di interro, in cui le condizioni di assenza di luce, temperatura e alta umidità relativa determinano una prima trasformazione dei materiali. La seconda fase in cui i materiali interrati subiscono un rapido e violento processo di deterioramento avviene, d’altra parte, con la messa in luce, momento in cui i materiali tenderanno a stabilire un nuovo equilibrio con l’ambiente esterno ritrasformandosi o distruggendosi. In definitiva, perché un’indagine sul campo possa definirsi pienamente scientifica deve assumere la piena responsabilità del destino conservativo dei materiali indagati, prima fonte di studio e conoscenza in qualunque analisi archeologica. E’ decisivo, dunque, che un parallelo progetto di conservazione preventiva e diretta rivolto alle strutture e ai reperti indagati affianchi, come un inseparabile rovescio della medaglia, qualunque progetto di ricerca archeologica. E’ a partire da questa valutazione che si è avviato un primo tentativo di integrazione degli strumenti d’indagine attraverso l’elaborazione di una metodologia in grado di contemperare gli aspetti conservativi con le procedure dello scavo archeologico durante la campagna del 2006 presso il complesso cimiteriale di Ponte della Lama, nell’ambito del progetto di ricerca Coemeteria Requirere condotto dal Dipartimento di Studi Classici e Cristiani, Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’ (direzione scientifica di C. Carletti), in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni Archeologici (responsabile Marisa Corrente) e con la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Si è cercato di realizzare un’esperienza di conservazione in situ per rispondere, in modo differenziato, ai problemi posti dal contesto, alle specifiche problematiche conservative che caratterizzano gli ambienti ipogei o semipogei e alle dinamiche di degrado che si innescano con la messa in luce. Il programma di conservazione d’emergenza si è reso necessario con l’indagine degli insediamenti sepolcrali contigui al complesso catacombale c.d. di Santa Sofia (Saggio V). Le strutture ipogee e semipogee scoperte, infatti, hanno rivelato una presenza cospicua di intonaco di rivestimento parietale messo in opera come decorazione e finitura. A motivare la necessità di interventi mirati era non solo la presenza di peculiari strutture di rivestimento, ma anche la natura del contesto che ha posto diversificati problemi di degrado e ha richiesto l’elaborazione di differenziate risposte conservative.

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L’INTERVENTO SUL RIVESTIMENTO AD INTONACO BIANCO CON DECORAZIONE AD AFFRESCO ED ISCRIZIONE A SGRAFFIO L’intonaco costituisce il rivestimento del muro di delimitazione di una tomba ad arcosolio ricavata nella parete di fondo di una delle gallerie ipogee del complesso cimiteriale (galleria G). Di colore bianco e costituito da una stratigrafia di arriccio e intonaco, presenta un partito decorativo geometrico a bande rosse realizzato con tecnica ad affresco, resa evidente dalle impronte impresse dal pennello durante la fase di dipintura su una superficie ben levigata. Nella porzione nord-orientale della decorazione geometrica è incisa a sgraffio un’iscrizione che riporta il testo: ------/ et Fl(avi) Romodori. Il personaggio menzionato è Flavius Rumoridus, console con Teodosio II nel 403, dunque benché si conservi soltanto l’ultimo rigo, l’epigrafe consente di datare ai primi anni del V secolo la tomba ad arcosolio. Lo stato di conservazione del rivestimento era fortemente compromesso da un visibile distacco dal supporto murario, frutto del degrado dello strato di preparazione dell’intonaco, che ha aperto ampie aree di lacuna, fratture, disconnessioni e ha reso l’intonaco, soprattutto nelle zone di dipintura, frammentario. Si è cercato di controllare la delicata fase di messa in luce attraverso un’opera di monitoraggio microclimatico tale da garantire il mantenimento di condizioni igrometriche il più possibile vicine a quelle del rinvenimento. E’ stato dunque contenuto il rivestimento della tomba nello strato formatosi con l’abbandono. Lo scavo dell’ambiente è stato dunque condotto elaborando una strategia comune che rispettasse il più possibile equamente le esigenze di conoscenza archeologica del sito e quella di stabilizzazione delle condizioni termo-igrometriche dell’intonaco. A tal fine, durante le fasi di insolazione del rivestimento,

si è protetta la superficie con una copertura temporanea in geotessuto o in polietilene che aderisse all’intonaco rallentando l’evaporazione dell’umidità. Si è scelto, in ragione dello stato di conservazione critico del manufatto e della sua fragilità, di eseguire un intervento di emergenza nello stesso pomeriggio del rinvenimento. Fatte trascorrere le ore più calde della giornata si è dunque effettuato il consolidamento e l’ancoraggio al supporto murario in condizioni termo-igrometriche tali da non comprometterne ulteriormente lo stato di conservazione. L’intervento ha avuto inizio con il microscavo della struttura, un momento tecnico e conoscitivo fondamentale attraverso il quale si acquisiscono le informazioni essenziali sulla tecnologia produttiva, sul grado di connessione e di aderenza degli strati di preparazione con il supporto murario e nel corso del quale si elabora la strategia di consolidamento da adottare. A questa fase di rimozione della terra e di analisi autoptica delle deadesioni si è affiancata l’analisi acustica con il metodo della percussione manuale. Questo procedimento ha consentito di individuare le sacche d’aria, determinatesi per decoesione e disgregazione dell’arriccio (il nome tecnico dello strato di preparazione dell’intonaco, caratterizzato da un impasto più grossolano su cui si ‘aggrappa’ lo strato d’intonaco finale) che, isolate dal perimetro esterno, non erano state raggiunte dalla terra. L’intervento di conservazione attiva si è dunque concentrato in primis sul consolidamento meccanico-strutturale e sulla ricostituzione dello strato di preparazione dell’intonaco per garantirne l’ancoraggio al supporto murario. Il riallettamento dell’intonaco è stato realizzato attraverso infiltrazioni di malta idraulica premiscelata studiata appositamente per le superfici intonacate (malta PLM). Per il consolidamento strutturale è stato utilizzato un fissativo a base di calce naturale limitando il ricorso ai prodotti organici di sintesi per le numerose fessurazioni e fratture superficiali. Alla base di questa scelta c’è la volontà di rispettare al massimo la compatibilità dei materiali utilizzati per il restauro con quelli costitutivi dell’intonaco e di consentire, in modo più immediato, possibili interventi futuri. Concluso il consolidamento dello strato di preparazione dell’intonaco, una malta idraulica realizzata con inerti e leganti in proporzione di 3:1 ha permesso di sigillare il perimetro dei frammenti d’intonaco, nonché di colmare le lacune della superficie e del margine esterno. Le numerose zone di disgregazione del rivestimento a livello superficiale hanno reso necessario il ricorso ad un consolidamento di superficie realizzato con prodotti organici di sintesi (resine acriliche in emulsione acquosa) e microstuccature con materiali organici naturali per la ricostituzione di una superficie continua ed omogenea. La fase di pulitura, infine, ha concluso l’intervento sul rivestimento che presentava, sulla superficie, una stratificazione di efflorescenze saline solubili ed insolubili. La rimozione di questi agenti patogeni è avvenuta, in una prima fase, a secco con pennelli; una seconda fase ha invece coinvolto i sali solubili che sono stati in parte rimossi con una pulitura a base di acqua di rete. Uno strato di sali insolubili sulla superficie è responsabile di una non perfetta lettura del rivestimento; ma il carattere d’emergenza dell’operazione e le scelte ad esso legate hanno fatto propendere per il conseguimento di un obiettivo parziale. L’intervento non è stato definitivo e si è concentrato nelle zone di maggiore fragilità strutturale o esposizione agli agenti di degrado esterni. Sarà quindi necessario riprendere e completare le operazioni di conservazione in occasione della riapertura della prossima campagna di scavo.

Intervento di consolidamento dell’intonaco: infiltrazioni di malta PLM.

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*DIPARTIMENTO DI STUDI CLASSICI E CRISTIANI UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO”

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NEL CUORE DELLA CITTÀ

MONVMENTA ROMANA L’ARCO ONORARIO ATTRAVERSO LE TESTIMONIANZE LETTERARIE DEL XIX SECOLO E PITTORICHE DEL GRAND VOYAGE seconda parte

Jean-Claude Richard de Saint-Non, incisione

di Sandro Sardella

Sempre nel XVIII secolo l’Abate di Saint-Non afferma che un tempo l’arco doveva essere stato decorato con pilastri e da una cornice marmorea di cui non si distingue il profilo. A causa di tale situazione, l’Abate suggerisce l’ipotesi che il monumento in questione fosse stato in antico una tomba e non un arco onorario o una porta urbana. Anche in questo caso la motivazione di tale misera descrizione viene da due fattori: le informazioni fornite dal Desprez e il fatto che il Sant-Non sopraggiunse a Canosa dopo il suo assistente. Dimostrazione di tale osservazione, viene fornita da una ulteriore prova documentaria, offerta da Emanuele Mola. Siamo sempre nella seconda metà del XVIII secolo, anni in cui il Tortora descriveva molto precisamente la Storia della Chiesa di Canosa e Cesare Orlandi raccoglieva informazioni censitarie per la sua più tarda opera del 1778, Delle Città d’Italia e sue isole adiacenti. Emanuele Mola nel Giornale di Napoli LXXXVIII del 1797 afferma molto chiaramente: «[...]Vedesi quello isolato un quarto di miglio lungi dalla città presente verso ponente, poco discosto dal fiume; e dopo tanti secoli conserva tuttavia la sua maestosa figura, ravvisandosi ancora i pilastri marmorei di cui sono ornati i suoi fianchi, e quei larghi marmi in forme di tegole dei quali ne fu coperta la sommità e che non si sono fin oggi punto mossi dal sito in cui furono collocati anticamente. Deve supporsi che altri ornamenti di statue e bassorilievi lo avessero prima abbellito». Le parole di Mola sono veritiere e limpide; descrivono una struttura dove ancora chiari si vedevano i resti di alcune tegole marmoree e dei pilastri. Sembra che le informazioni di Mola concordino con l’incisione di Desprez, ma non con le parole degli autori del Voyage. Se da un lato tutto ciò appare abbastanza insolito e curioso, dall’altro trova una spiegazione plausibile e veritiera nel fatto che Mola era uno studioso di storia e antichità patrie ed era nativo di Bari. Tutto ciò conta psicologicamente molto più di quanto si possa pensare, poiché Mola nasce in quelle terre che appaiono così difficili ai viaggiatori d’Oltralpe. La sua è una opinione interessata a far emergere ogni minimo risvolto storico-archeologico dai monumenti e dai centri locali, mentre l’operato dei viaggiatori esterni a quelle realtà, aveva una finalità selettiva e lo scopo di far emergere la profonda differenza tra un Nord civilizzato e un Sud ancora aspro e difficile da domare. Il Voyage pittoresque à Naples et en Sicilie non è altro che un grande romanzo progettato per favoleggiare, di sognare l’avventurosa vita nelle selvagge terre del Sud alla pari dei grandi romanzi d’avventura sull’Africa, l’Egitto, l’India e l’Oriente che a partire dal XVIII secolo si diffondevano nei ceti aristocratici. Va da sé che per raccontare la crudezza di quelle terre, il Voyage pittoresque à Naples et en Sicilie doveva essere corredato da immagini vere, dove chiunque poteva calarsi nella parte dello spettatore e sulla falsariga delle parole e perché no maturare un viaggio in quelle terre. Sul filo di tali osservazioni si pongono le incisioni di Desprez al pari delle parole di Mola, mentre il Saint-Non si pone al pari di Desprez e delle narrazioni di Willem Hendrik van Nieuwerkerke, che hanno corredato le immagini pittoresche di Abraham Louis Rodolphe Ducrois, nell’opera di viaggio voluta da Nicolaas Ten Hove. Sostanzialmente tra osservazione diretta e narrazione dei luoghi, la scelta fu decisamente diversa perché lo scopo dei viaggiatori d’Oltralpe era stupire e rendere unica la propria avventura, mentre l’operato di Mola era aggiornare realisticamente su quanto quelle terre avessero da offrire. Sulla falsariga del Mola, Innocenzo Viscera nella sua opera Ricerche storiche su la Magna Grecia, conferma ciò che il precedente autore aveva visto verso la fine del XVIII secolo. Siamo nel 1879 e quindi a circa cento anni dalle testimonianze di Emanuele Mola. Tuttavia le parole a seguire sono lo specchio di ciò che in quei luoghi è ascrivibile come “la fissità del tempo”: «A trecento passi lungi dalla moderna Canosa, si vedono bellissimi pilastri di marmo, ch’erano sostegni di un arco trionfale innalzato al console Terenzio Varrone, come credono alcuni, quando condusse per quella città le legioni romane[...]». Lo scrittore osservava, alla fine del XIX secolo, ancora dei pilastri marmorei così pertinenti all’arco da esser definiti “sostegni”. Ancor più interessante è che li abbia definiti “bellissimi”, a prova quindi del fatto che esteticamente l’arco fosse stato decorato da modanature e verosimilmente rilievi degni della sua funzione originaria. Già alla luce dei confronti con le fonti del XVIII secolo, si respirano parole che sono pregne di altre situazioni storiche. Il XIX secolo fu un’epoca di riscoperta della cultura letteraria, sovente affiancata da nuovi studi sulla cultura etrusco-romana, permeata dalle scoperte degli avventurieri, dalla fondazione di Musei e collezioni pubbliche. Localmente fiorirono le scoperte ipogeiche. Il territorio canosino divenne una cava di tesori, oltre che di tufi, venduti a Musei e collezioni internazionali piuttosto che ad acquirenti privati. I terrificanti terremoti del 1851 e del 1857 avevano rovinato moltissimo i monumenti cittadini. Erano crollate più di 383 abitazioni private e sconquassati la Chiesa e il Convento di San Francesco, la Chiesa del Purgatorio, la casa comunale, il corpo di guardia e

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ulteriori abitazioni. Il Castello baronale, già scricchiolante per il terremoto del 1659 e abbandonato dal 1799, era crollato in occasione del terremoto del 1857 e rovinava nella valle sottostante. L’impulso allo scavo per estrarre tufi atti alla ricostruzione, garantì le molte scoperte archeologiche che rendono Canosa conosciuta in tutti i musei più prestigiosi del Mondo. Il Viscera quindi, non fece altro che rivelare e confermare ulteriormente quello che il Desprez ebbe modo di incidere per il Voyage. Tuttavia curiosamente, alla fine del XIX secolo un eminente archeologo di nome Mayer, ricondusse a uno status quo ante tutte le affermazioni che nel XIX secolo erano state scritte. Quest’ultimo affermò che l’arco era di laterizio e che la sua forma e differente costruzione non lo identifica come porta urbana antica, ma come l’entrata a N-O dell’antico tratto dell’AppiaTraiana. In effetti, almeno per la sua funzione logica, il Mayer aveva ben compreso che l’arco rappresentava un monumento onorario lungo l’Appia-Traiana e che in un certo qual modo era l’ingresso all’area urbana di Canusium affacciata lungo l’Appia e oggi corrispondente a via Alcide De Gasperi. Dopo l’affermazione di Mayer ebbe inizio tutto un filone di interpretazioni disfattiste che hanno contribuito a peggiorare e a non comprendere bene la funzione dell’arco onorario traianeo. Pienamente inserito in questo filone è il Pagenstecher, anch’egli eminente archeologo e studioso di archeologia classica. Dopo aver visitato il monumento canosino, nella sua celebre opera Apulien riferisce: «Attira molto l’arco di trionfo nel lato N-E della città che indica l’entrata della via Traiana[...] La rivestitura con lastre di marmo, l’attico con iscrizione e statua d’onore si sono perduti, così che l’impressione rimane un po’ misera[...] La tecnica ricorda molto l’anfiteatro castrense costruito nelle Mura Aureliane a Roma, che appartiene certamente al I secolo d.C.[...]». Dalle affermazioni ottenibili da quest’ultima fonte, si apprende che definitivamente nel XX secolo si era compresa bene la funzione dell’arco e il suo rapporto con la Via Appia-Traiana. Tuttavia appare chiaro che l’immagine descrittiva dell’arco cambia, perché mutata era la sua conservazione. La sua immagine “misera” ancor oggi è prioritaria così come lo era nei primissimi anni del Novecento, a cui appartengono le affermazioni di un altro emerito archeologo noto in tutto il Mondo, Thomas Ashby. Questi nel 1916-17 scrisse La via Appia e Traiana , citando puntualmente molti dei monumenti romani lungo l’attuale Via di Cerignola. Tuttavia le sue parole sono negative nei confronti del monumento qui preso in analisi: «Vi sono più in là altre tombe e un arco forse di trionfo, in opera a sacco, rivestita da un laterizio cattivo, molto più recente dell’epoca di Traiano, al quale vien generalmente attribuito». In questo caso, le parole di Ashby sono gravi, tanto da far emergere il sospetto che il monumento non fosse da attribuirsi a Traiano. A completare questa serie disfattista di affermazioni si aggiungono anche le parole del più eminente e prezioso degli scrittori patri, Nunzio Jacobone allievo di Giulio Beloch e di Cantarelli grandi nomi internazionali degli studi archeologici dei primi del Novecento. Un po’ convinto delle affermazioni di Pagenstecher affermò nell’opera Canusium testuali parole: «Riguardo all’età del Monumento siamo dell’avviso di Pagenstecher, ma è nostra opinione che esso non rappresenti se non un arco costruito per ricordare qualche fatto o avvenimento di grande interesse per la città sulla Via Traiana; altre ipotesi ci sembrano abbastanza ardue se non assurde; anzi dall’esame delle diverse parti che compongono il monumento finemente lavorate, ci sorge il dubbio che esso abbia potuto avere un rivestimento marmoreo con statua e colonne, non ostante l’autorità delle testimonianze su riferite; tranne che i continui rifacimenti non ne abbiano modificato la struttura primitiva». Queste ultime informazioni, purtroppo, fuorviano dal reale ruolo dell’arco relegandolo a qualcosa di secondario. Lo Jacobone afferma che «dall’esame delle diverse parti che compongono il monumento finemente lavorate» egli poté rassicurarsi sul fatto che l’arco non sia mai stato rivestito di marmi, opinione oggi assurda e ampiamente superata anche dalle osservazioni da me condotte a seguito di un esame fotogrammetrico. Motivazione di tale considerazione ce la fornisce una fotografia dei primi del Novecento, dove si osserva chiaramente che sui fianchi monumentali si scorgono le chiazze degli strati di cementizio fine e intonaco, che se uniti con le false modanature a cui si poggiavano i rilievi marmorei, forniscono una immagine fuorviante tutt’oggi del monumento. Assolutamente errata la posizione di Pagenstecher che lo data al I secolo d.C. a seguito di un confronto fatto col paramento laterizio dell’anfiteatro castrense a Roma, datato al III secolo d.C. e non al I secolo d.C. come ebbe modo di affermare lo studioso. Jacobone attribuisce ragione allo studioso tedesco, implementando i suoi dubbi anche circa l’originaria decorazione marmorea. Da tutta questa serie di affermazioni sino ad ora prese in analisi e riguardanti sia il Grand Tour che gli studi del XIX e XX secolo, sono emerse alcune verità oggettive che ruotano tutte attorno a un’unica deduzione finale: in mancanza di esami scientifici, l’arco è stato mal interpretato e mal inserito nel contesto topografico. Dall’esame fotogrammetrico, sono emerse non soltanto le forme delle lastre marmoree, quanto i punti di ancoraggio, le due o tre fasi di interventi, i confronti con altre tipologie di archi monumentali di pari epoca sparsi nell’Impero e anche in Canosa romana. E’ quindi certo che le uniche fonti, apparentemente più valide per l’analisi ricostruttiva dell’arco e a cui si pone piena fiducia scientifica, sono l’incisione di Desprez per il suo realismo e le parole di Emanuele Mola nonché del Viscera, per la chiarezza espositiva e la semplicità espressiva che trova confronti in tutte quelle tracce che l’esame fotogrammetrico ha rivelato su tutte le facciaviste monumentali.

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UNA PORTA DEGNA DI UN PRINCIPE

di Dario Di Nunno

Diciamo la verità: il Mausoleo di Boemondo ai canosini è apparso sempre come una sorta di appendice della Cattedrale. L’abitudine a guardarlo dall’alto in basso, sprofondato com’è di quasi quattro metri sotto il livello stradale, ci ha nascosto per decenni la sua straordinaria fattura, lo splendore dei suoi marmi e la raffinatezza della sua architettura. Ancor di più, è rimasta quasi nell’anonimato quella porta bronzea che ne costituisce la chiusura, offesa nello splendore dei decori dalle alterazioni inquinanti che l’avevano colorata con un ingiurioso verdognolo. Forse, ancor di più, offesa dall’innaturale punto di vista cui era costretta, quella innaturale visione, dall’alto della villa, in una prospettiva che mai chi l’ha ideata e realizzata avrebbe potuto minimamente immaginare. È un bene che, dopo il restauro ed il lungo peregrinare da Tokio a New York, ambasciatrice nel mondo del Principe di Antiochia e della sua Canosa, ora abbia trovato una migliore collocazione all’interno della Cattedrale, al riparo dalle intemperie e ben in vista, sia agli stupefatti occhi dei visitatori, sia ai fortunati compaesani, orgogliosi di siffatta, speciale, incomparabile opera, degna del Mausoleo di un Principe. Ma perché una apparentemente comune porta di bronzo dovrebbe essere considerata così particolare? In realtà, le caratteristiche che rendono unica la porta del Mausoleo di Boemondo riguardano tanto la tecnica di esecuzione quanto la decorazione. La porta posta a chiusura del piccolo edificio absidato costituente il sepolcro del Principe normanno Boemondo d’Altavilla, presenta due ante differenti tra loro: l’anta destra è divisa da tre traverse orizzontali che disegnano quattro pannelli; sul retro l’imposta è decorata con un motivo a cartigli con punte lanceolate e palmette fogliate; l’anta sinistra, fusa in un solo pezzo, risulta danneggiata in basso e risarcita con un’aggiunta bronzea di epoca e provenienza sconosciuta; il

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retro non presenta alcuna decorazione. La realizzazione a fusione piena e il fatto che l’imposta sinistra sia stata fusa in unico blocco, inducono a considerare questo manufatto come il più particolare tra le porte medievali note, che, in genere, venivano eseguite con la fusione di formelle applicate su battenti lignei. La porta è firmata nel battente destro con l’iscrizione “Rogerius Melfie campanarum fecit hoc ianuas et candelabrum”. Il rinvenimento di due fosse fusorie per campane all’interno del Battistero di San Giovanni a Canosa, delle quali la più antica è stata ipoteticamente posta in relazione con Rogerio anche per i caratteri epigrafici presenti in un frammento di forma per campana che richiamano i caratteri della firma dello stesso, testimoniano la presenza in loco di maestranze specializzate in manufatti di complessa realizzazione e di notevoli dimensioni, quali, appunto, le campane. A tale non comune abilità, probabilmente, allude Rogerio quando, oltre al nome e alla provenienza, evidenzia in firma l’aggettivo “campanarum”, quale vanto della sua maestria e delle sue capacità tecniche nella lavorazione del bronzo. Attitudine, questa, che potrebbe aver influenzato la committenza nella scelta delle maestranze in funzione di una specifica lavorazione, ovvero quella fusione piena di forte ascendente classicista. L’esecuzione della porta va dunque verosimilmente collocata in una officina strettamente autoctona operante tra Melfi e Canosa e se si considerano le porte bronzee pugliesi eseguite tra l’ultimo quarto del XI sec. e la prima metà del XII, (le due porte della Cattedrale di Troia, firmate da Oderisio da Benevento, e quella del Santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo), quella canosina è certamente l’unico esemplare di maestranze autoctone. Altro aspetto che potrebbe avere inciso sulla scelta della tecnica da utilizzare potrebbe essere legato alla funzione rappresentativa cui la porta era destinata, attraverso l’esplicitazione per immagini di un ben preciso messaggio. Tra le porte bronzee, quella di Canosa è l’unica ad avere destinazione privata e chiaro intento celebrativo. La gran parte delle porte bronzee giunteci dal Medioevo, apposte a ingressi delle chiese, assumevano valenze simboliche di «ianua coeli», cioè di passaggio in luoghi sacri, affidando alle immagini presumibili «itinerari di salvezza» (immagini di santi, di angeli, di scene e personaggi biblici e simboli zoomorfi o vegetali attinenti). Viceversa, la porta del Mausoleo di Boemondo, fortemente caratterizzata per la destinazione in ambito privato, propone messaggi, per così dire, «politici». Il riferimento comune e più immediato è, naturalmente, agli Altavilla, come confermano le lunghe iscrizioni presenti sul coronamento del tamburo che sovrasta il tempietto e sulla porta stessa, e le incisioni presenti nel secondo e terzo riquadro dell’anta destra raffiguranti personaggi comunemente individuati come appartenenti alla dinastia normanna. Probabilmente, vi fu l’intento di celebrare la ritrovata unità familiare e dinastica dopo i noti contrasti tra i figli del Guiscardo, Boemondo e Ruggero, che potrebbero essere individuati nei due personaggi inginocchiati in atteggiamento di invocazione davanti ad una immagine andata perduta. Nel riquadro inferiore, invece, il riferimento potrebbe

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essere alle persone di Boemondo II e Guglielmo, che si tengono per mano a simboleggiare la riunificazione del ducato di Puglia sotto l’egida di Ruggero II. Se questa lettura fosse corretta, la datazione della porta si collocherebbe, intuitivamente, non prima del 1111, data della morte di Boemondo, e non oltre il 1127 data della morte di Ruggero II. Tuttavia, sebbene suggestiva, tale ipotesi non ha riferimenti concreti e la datazione offerta da F. Vona, che la colloca tra gli inizi e la metà del XII sec. è al momento la più attendibile. La porta della tomba di Boemondo presenta, anche da un punto di vista decorativo, diversi elementi di sicura attrazione. Le due ante sono incorniciate da una lunga fascia con motivi floreali in rilievo che, ripetendosi all’infinito, disegnano nel bronzo il richiamo ad un lungo ricamo su preziosi tessuti. Nell’anta destra tre traverse orizzontali, con motivo simile alla cornice e terminanti agli estremi con maschere “a gattoni” di dimensioni diverse, delimitano quattro pannelli sovrapposti e incastrati tra di loro. Dei quattro pannelli quadrangolari così definiti, quelli mediani ospitano, come detto, incisioni figurate, mentre quelli alle estremità superiore ed inferiore ospitano due straordinari dischi arabescati, che inglobano meravigliosi e compositi «nodi di labirinto» con intrecci di motivi geometrici e vegetali tipicamente islamici, all’interno dei quali piccole figure di volatili e quadrupedi sono finemente lavorate. Sull’imposta sinistra, all’interno dell’unico rettangolo disegnato dalla cornice, campeggiano tre corone circolari di cui, quella centrale ospita al suo interno una protome leonina di pregevolissima fattura che, dai fori presenti ai lati della bocca, lascia intuire la presenza di un anello manubrio. Particolare interessante al riguardo, essa risulta essere uguale per lavorazione e lega metallica, ad un’altra rinvenuta sulla porta lignea della cattedrale; considerando che all’altezza della corona centrale, lungo una linea trasversale alla porta, vi sono tracce della riparazione di una frattura nel bronzo, l’ipotesi avanzata è che essa sia stata applicata a parziale copertura e rinforzo della parte deteriorata. Le tre corone, separate tra di loro da parti di una lunga iscrizione incisa nel bronzo, ospitano scritte in caratteri cufici che riportano immediatamente alle decorazioni architettoniche (e non solo architettoniche) sui manufatti islamici, facendone sospettare una provenienza orientale, non cristiana. E nella lunghissima epigrafe celebrativa, come detto sul cornamento del Mausoleo e sulla porta bronzea, i riferimenti geografici sono Antiochia e, per tre volte, la Siria. Tuttavia, nella corona superiore, all’interno della scritta, vi è traccia di tre fori piombati che certamente servirono all’ancoraggio di una figura applicata. Negli spazi intorno alla sagoma sono facilmente leggibili lettere di un’iscrizione riferita all’immagine: MARIA MATER D(OM)NI IH(ESU) S FILIUS MARIE: verosimilmente, una raffigurazione di Maria col Bambino. Il disco inferiore ospita all’interno un fiore a sei petali lanceolati. Tra i risultati più interessanti, emersi durante le operazioni dell’ultimo restauro (2000) presso il Laboratorio di Restauro della Soprintendenza P.S.A.E. per le province di Bari e Foggia dai restauratori del laboratorio per i restauri metallici, Osvaldo Cantore e Vito Nicola Iacobellis, si segnalano la presenza di consistenti tracce di colore rinvenute sulla porta. Esse, individuate sulle fasce vegetali periferiche e sul disco superiore di entrambe le valve, consistono in stesure compatte di rosso e nero. Il rosso è costituito da minio, il nero è costituito da una miscela di solfuri. Sembra accertata, anche attraverso la presenza di tracce di argento, la presenza di lavorazione ad agemina e a niello. L’incisione nel bronzo, all’uso costantinopolitano, rappresenta di per sé una lavorazione pregiata. Il bronzo è una lega metallica costituita da rame ed altro metallo, quasi sempre stagno, con parti di piombo o alluminio. Quando nella fusione al rame si aggiungeva lo zinco, si otteneva un metallo più lavorabile e, esteriormente più simile all’oro. Questa lega, conosciuta anche come “oricalco”, simile al nostro ottone, era conosciuta fin dall’antichità ed usata per il conio di monete come il sesterzio o il dupondio. Con lo zinco in lega, l’incisione risultava notevolmente più agevole; la lega di bronzo della nostra porta è una lega dura, senza zinco, più simile al bronzo campanario e, per la sua “durezza”, l’incisione doveva essere affidata ad un artigiano con grandi abilità tecniche e artistiche. La superficie molto scabra delle parti incise, ben visibile per esempio nei piedi e nelle mani delle figure degli Altavilla, confermano la difficoltà incontrata dall’incisore nel disegnare i personaggi dei pannelli mediani dell’anta destra. Argenti, smalti, incisioni e applicazioni di assoluto valore artistico, furono immaginate e realizzate con un obiettivo preciso: rendere la porta in bronzo degna della chiusura del Mausoleo di un Principe. Una porta straordinaria, dunque: con le porte della Cappella Palatina di Palermo essa resuscita la tecnica, classica e occidentale, della fusione piena; in essa convivono, per la prima volta, parti incise alla maniera costantinopolitana e rilievi all’occidentale, in una forma di contaminazione che, negli stessi anni, Oderisio da Benevento, con tecnologie differenti, sperimentava nella porta principale della Cattedrale di Troia. E se la comune ispirazione preveniva da un modello specifico, quella porta del Santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo sul Gargano, di cui è documentata la provenienza da Costantinopoli nel 1076, la specifica destinazione della porta di Canosa ne restituisce l’unicità e la straordinarietà. Evocazioni islamiche, tecniche bizantine, proclami normanni inseriti sulla stabile base dell’antichità romana, richiamata dalla fusione piena e dai bianchi marmi riutilizzati per il Mausoleo: a Canosa, con le porte del Mausoleo del Principe Boemondo, si fusero le diverse voci mediterranee con i fermenti di nuovi guerrieri venuti dal Nord.

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CENTRO RICERCHE DI STORIA RELIGIOSA IN PUGLIA - BARI

Convegno di Studio “Canosa - Ricerche storiche”

BASILICA CATTEDRALE DI SAN SABINO - CANOSA DI PUGLIA FONDAZIONE ARCHEOLOGICA CANOSINA

Estratto:

Sabato 7 Febbraio 2004

La morte del Principe Boemondo d’Altavilla nella narrativa ottocentesca seconda parte di Pasquale Ieva*

Cesare Malpica (Capua 1801 - Napoli 1848), fermandosi a Canosa nel Settembre 1841, dopo aver visitato la Chiesa Maggiore dedicata a san Sabino, nei suoi scritti rievoca la mitica figura di Boemondo e, rappresentando le esequie del Crociato, così racconta: «[…]È il di 28 febbrajo 1111. Per le vie di Canosa è un silenzio, un raccoglimento, un andare e venire, come a giorno di cerimonia solenne. I Sacerdoti colla Croce, i soldati colle visiere calate e l’asta in pugno, i Cavalieri co’ cavalli bardati a nero e colle lance in resta, passano in mezzo alla folla, e si fermano innanzi ad una casa posta su l’altura ove oggi s’alza il castello. Han la croce stampata su la cotta d’armi. Son valorosi che han vedute le guerre d’Oriente. Movevano col loro signore per alla volta della Grecia, ma ora li arresta una tremenda avventura. Eran lieti, ed ora son piangenti - Giunti che sono, quattro veterani entrano nel palazzo, e poco dopo ne discendono portando su le spalle un feretro, coperto da un drappo funebre, con sopra un elmo ed una spada. Chi è steso in quel feretro? Boemondo, figlio di Roberto Guiscardo, Principe di Antiochia, Principe di Taranto, Duca di Puglia e di Calabria; Boemondo, rammentato nel poema immortalato dal Tasso. Il corteggio s’avvia. Apre la marcia un drappello di arcieri. Vengon dopo i ministri del Signore. Appresso al feretro stan gli scudieri, e i paggi, guidando a mano, e circondando il cavallo della battaglia. Appresso vien lo squadrone de’ Cavalieri, seguiti da una folla di gente d’ogni età d’ogni sesso d’ogni condizione - Intanto dalle interne stanze del palazzo viene un suon di gemiti e di lamenti. È Costanza figlia di Filippo I, e già moglie di Ugo Conte di Sciampagna. Ahi! Non è che un lustro dacché a Chartres lei innanellata pria Boemondo avea disposata colla sua gemma: e già lo piange estinto! Già le gioje del talamo sono state disperse dal dolore della morte. Le Damigelle invano le son d’intorno a confortarla. V’è un affanno che ricusa ogni conforto; l’affanno d’una donna che piange il marito[…]. Deposto il feretro in un Tempio ivi dì e notte lo custodiscono finché un monumento non sorga degno di accogliere la spoglia d’un tanto guerriero. E sorse questo monumento. Avea le porte di bronzo su cui stavano inciso le sue lodi. Le mura della cella eran vestite di marmo; eran sormontate da una una cupola; eran adorne di tutte le forme dell’architettura d’Oriente. Era tal opra che avuto riguardo a’ tempi in cui fu costruita potea dirsi bellissima; ché non ancora le arti eran rinate in Italia; non ancora Arnolfo e Brunelleschi eran sorti a destar cogli esempi il Genio che dormiva sotto le rovine accumulate dagl’invasori». Pietro Paolo Parzanese (Ariano Irpino 1809 - Napoli 1852), sacerdote poeta e traduttore, cogliendo a piene mani dalle opere dell’Ariosto e del Tasso, suoi indivisibili “compagni” e nutrendosi dei cento e cento racconti dei Viggianesi 13, non par strano che, nel secondo viaggio in Puglia nel 1846, successivo a quello dell’anno precedente 14, visitando Canosa, rimane colpito dalla grandiosità del Mausoleo del Principe e, lodandone le gesta, anch’egli, come il Malpica, si cimenta nel racconto in prosa della sua morte, componendo un vero e proprio copione. Ripensando all’eroe normanno, infatti, Parzanese scrive a un suo amico a Napoli, l’abate Teodoro Grassi e al quale sono indirizzate tutte e nove le “Lettere descrittive”, di come gli si allarga e gli s’ingagliardisce l’animo ogni volta che pensava a quegli uomini vestiti di ferro, che palleggiavano aste che tre uomini non sarebbero riusciti a farlo e gli ricorda quei versi della Gerusalemme liberata tanto famosi, in cui: «[…]e fondar Boemondo al nuovo regno suo d’Antiochia alti principii mira, e leggi imporre ed introdur costume, ed arti, e culto di verace Nume». Parzanese vuole fare meglio del Malpica e, nel riportare il racconto degli ultimi istanti di vita del Principe morente nel castello di Canosa, superando il necessario metodo euristico finalizzato alla ricerca delle fonti storiche e letterarie di quella vicenda, fa riferimento a «[…]un pietoso racconto intorno alla morte di Boemondo», ritrovato in vecchie carte delle «cronache del secolo duodecimo», accreditandone l’autenticità. Egli, pertanto, non soffermandosi a citare bibliografie, evita di trattare l’argomento e scrive all’amico abate che non si riconosce in un “Archeologo di quinta classe” e nemmeno si ritiene un “Baccalare”, ovvero un dottorone e sapientone. Un giorno, forse, quando avrà scritto volumi e volumi, allora può darsi che verrà ritenuto un “archeologo di quinta classe” e, solo allora, essendo un’altra cosa, (sottintende che essendo diventato anch’egli importante al pari dei dottoroni), si renderebbe necessario «[…]citar vecchie pergamene e sfoderar testi arabi e caldei[…]». continua sul prossimo numero *PRESIDENTE COMITATO BOEMONDO 2011

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“Unde boat mundus quanti fuerit Buamundus”

Boemondo di Altavilla, un normanno tra Occidente e Oriente

Convegno internazionale di studio per il IX centenario della morte

Canosa di Puglia, 5-6-7 maggio 2011

Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Giovedì 5 maggio ore 9,30 Apertura dei lavori Saluti delle Autorità Francesco Ventola, Sindaco di Canosa di Puglia Corrado Petrocelli, Rettore dell’Università degli Studi di Bari Giuliano Volpe, Rettore dell’Università degli Studi di Foggia Pasquale Ieva, Presidente del Comitato Boemondo 2011 Nichi Vendola, Presidente della Regione Puglia Ore 10,20 Inizio dei lavori Presidenza: Sen. Prof. Cartesio Zecchino, Presidente del Centro Europeo di Studi Normanni Discorso Introduttivo Cosimo Damiano Fonseca, Accademico dei Lincei Boemondo tra storia, lstoriografia e mito

Venerdì 6 maggio Presidenza: Prof. Enrico Monestò, Presidente del Centro di Studi sull’Alto Medioevo

Sabato 7 maggio Presidenza: Prof. Cosimo D’Angela, Presidente della Società di Storia Patria per la Puglia

Ore 9,00 Pasquale Cordasco - Università di Bari Le fonti documentarie riguardanti Boemondo

Ore 9,00 Luisa Derosa - Università di Bari Le decorazioni marmoree del mausoleo

Ore 9,30 Giuseppe Colucci – Circolo numismatico pugliese La monetazione al tempo di Boemondo Ore 10,00 Pietro Dalena - Università della Calabria Gli itinerari di Boemondo Ore 10,30 Intervallo

Ore 11,00 Intervallo

Ore 11,00 Gioia Bertelli - Università di Bari Canosa al tempo di Boemondo

Ore 11,30 Jean-Marie Martin – CNRSF, Parigi Gli eredi del Guiscardo: Boemondo e Ruggero Borsa

Ore 11,30 Francesco Panarelli - Università della Basilicata Venosa al tempo di Boemondo

Ore 12,00 Andreas Kiesewetter - Università di Würzburg La signoria di Boemondo I e II d’Altavilla in Puglia

Ore 9,30 Maurizio Delli Santi – CNR, Ibam Il reimpiego dei marmi antichi Ore 10,00 Pina Belli D’Elia - Università di Bari Le porte di Bronzo Ore 10,30 Fabrizio Vona – Soprintendente ai Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici per la Puglia La porta del mausoleo di Boemondo e le porte bronzee in Puglia Ore 11,00 Intervallo

Ore 12,00 Discussione

Ore 12,30 Discussione

Seduta pomeridiana Presidenza: Prof. Raffaele Licinio, Direttore del Centro di Studi normanno-svevi dell’Università di Bari

Seduta pomeridiana Presidenza: Prof . Michael Matheus, Direttore dell’Istituto Storico Germanico di Roma

Ore 16,00 Cristina Andenna - Università della Basilicata, Potenza Boemondo e il monachesimo

Ore 16,00 Thomas S. Asbridge – Queen Mary University, Londra Boemondo e la fondazione del principato di Antiochia

Ore 16,30 Marina Falla Castelfranchi - Università del Salento, Lecce Il mausoleo canosino di Boemondo

Ore 16,30 Vera von Falkenhausen - Università di Roma Tor Vergata Boemondo e Bisanzio

Ore 17,00 Visita alla Cattedrale Basilica di San Sabino e al Mausoleo di Boemondo

Ore 11,30 Discussione Ore 12,00 Presidenza: Prof. Cosimo Damiano Fonseca, Accademico dei Lincei Hubert Houben - Università del Salento, Lecce Discorso di chiusura

Ore 17,00 Luigi Russo - Università Europea, Roma Boemondo e la Crociata

Via Kennedy, 68 Canosa di Puglia

Ore 17,30 Intervallo Ore 18,00 Giancarlo Andenna - Università Cattolica di S. Cuore, Milano Boemondo e il Papato Ore 18,30 Fulvio delle Donne - Università della Basilicata, Potenza Le fonti letterarie su Boemondo

di Del Vento Maria Antonietta Via Sconcordia Canosa di Puglia

Ore 19,00 Discussione anno due numero nove aprile duemilaundici

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LETTERE AL DIRETTORE

Il non-Castel del Monte? Ricordi di un passato cui nessuno ha nostalgia

di Giuseppe Losapio*

Ho potuto leggere la lettera pubblicata nel numero 8 della rivista “Tu in Daunios” a firma del sig. Giuseppe Sciannamea, che, prendendo spunto dalla presentazione del libro “Castelli medievali” avvenuta il 12 novembre 2010 a Canosa, dove peraltro ero presente, ha sviluppato alcune osservazioni su Castel del Monte. Alcune di queste mi sono rimaste impresse per un sorriso bonario che mi hanno procurato, come quelli che si fanno verso certe manifestazioni nostalgiche di un “bel tempo che fu” che per Castel del Monte, per fortuna, non lo è più! Entro nel merito. Il redattore si sofferma sulle misurazioni della parete del portale monumentale, perché come tutti sanno il castello ha due ingressi e quello monumentale non era il principale, è chiara a tutti la teoria dello gnomone delineata da Aldo Tavolaro per la prima volta nel 1974 con una sua prima pubblicazione e poi ripresa e corretta nel 1991. Ebbene sì, ripresa e corretta, perché nella prima i minuziosi calcoli sulla teoria delle ombre non coincidevano con le misure reali del castello, quindi bisognava modificare per quadrare la teoria. Risultato un castello mobile dove le misure di mura e cortile variano a seconda delle esigeze ideologiche dell’autore. Nel 2001 uno studio di Massimiliano Ambruoso raccolto nel libro “Castel del Monte e il sistema castellare nella Puglia di Federico II” a cura del prof. Raffaele Licinio, dove peraltro è presente un saggio sul castello di Canosa di Maria Afronio, confuta queste teorie dimostrandone l’infondatezza. Eppure nella lettera si trova un’affermazione del genere “Ma va detto che nulla cambia sul principio della proiezione solare, se l’altezza varia di qualche centimetro”. E no! Le teorie di Tavolaro si fondavano proprio su questa precisione e proprio perché c’era un “variare di centimetri” che è stato ripubblicato il libro nel ‘91. Se vi era il principio vitruviano dell’ombra solare insito nel progetto del castello, sicuramente non avviene nella maniera spiegata nello studio citato. Un altro motivo è il seguente: “La funzione di Castel del Monte, il suo utilizzo è importante quando ci si riferisce a quella originale che discende dalla volontà di Federico II, che non conosciamo e perciò brancoliamo nel buio delle ipotesi. Di come è stato usato il castello dopo la morte del committente, non riveste molto interesse e sono tutte legittime le attribuzione che lo vedono: carcere, fortezza, rifugio per pastori, chiesa per celebrare matrimoni, d’altronde allestire l’altare in una sala del castello non è esercizio complicato”. Primo punto, il meno grave, l’utilizzo del castrum Sancta Maria de Monte sotto Federico II è risaputo e a dirlo è proprio lo stesso sovrano con i suoi documenti. Nel documento più importante sui castelli di proprietà regia lo Statutum de reparatione castrorum, fatto redigere nei primi anni degli anni ‘40 del XIII secolo, il castello è chiamato castrum e non domus. Le parole sono importanti, avrebbe detto Nanni Moretti in “Palombella rossa”, specialmente se sono parole latine usate in documenti pubblici, non si può sbagliare! L’uso del termine castrum indica una struttura con funzioni prettamente militari, quindi Castel del Monte è stato costruito per svolgerle, infatti nel 1246, Federico II vivente, Manfredi farà imprigionare il conte Marino da Eboli e la figlia Zaffredina. Quindi Castel del Monte è usato come prigione per nobili già sotto Federico! Il secondo punto, per me più grave, è il minore interesse per gli anni e secoli seguenti a quello federiciano, quando il castello è oggetto di numerosi lavori e soprattutto continua ad avere un ruolo importante per il territorio circostante. Questa pessima mentalità, questo disinteresse per ciò che non è federiciano,

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specialmente sul maniero ha sortito effetti nefasti. Epigrafi e strutture murarie a ridosso del castello sono state o distrutte o male interpretate dando vita ad una fiera dell’irrazionalità, quella più becera e ignorante, vedi l’interpretazione che si è fatta delle epigrafi nel cortile. Il castello è come un essere vivente: ha una sua vita, non posso interessarmi solo un momento di questa è una dichiarazione d’intenti a non volerlo comprendere! Terzo punto la questione della cava per l’estrazione e poi la produzione della cosiddetta “breccia corallina”. Gli studi del 2005 del geologo Fulvio Zezza nel volume “Castel del Monte, la pietra e i marmi” ripresi da Ambruoso nel suo saggio “Castel del Monte: stereotipi e dati storici” presente nel volume “Castelli medievali”, si riferiscono alle cave in uso nel XIII secolo e non a quelle contemporanee. Quindi quella della Valle dello Stigliano sul Gargano è, molto probabilmente, la cava usata dal sovrano per la costruzione del maniero, anche perché la “breccia corallina” è presente in chiese e palazzi, in funzione decorativa, proprio sul Gargano settentrionale. Ad avvalorare questa ipotesi è la famosa missiva del 29 gennaio del 1240 dove da Gubbio, l’imperatore chiedeva al giustiziere di Capitanata di approntare il materiale edile per la costruzione del castello. Per anni gli storici si sono chiesti per quale motivo il sovrano inviasse un ordine ad un giustiziere differente al territorio di costruzione del castello, gli studi di Zezza ci aiutano in tal senso. L’ordine è impartito al giustiziere di Capitanata perché sotto la sua giurisdizione ci sono le cave dove è prelevato il materiale edilizio! L’ultimo quesito è legato al documento pocanzi accennato. In questo vi è un termine che da due secoli è al centro di numerose dispute a cui, per fortuna, si è arrivati ad una possibile lettura univoca. Il termine in esame è quello di actractum riportato nell’Ottocento dall’archivista francese Jean Luis Alphonse Huillard-Bréholles nella sua Historia diplomatica Friderici Secundi. Scrive Sciannamea: “Il Prof. Giuseppe Di Nunno appassionato latinista, interpellato dal sottoscritto sul termine “actractum” mi rispose per iscritto: Tractus = Tratturo dal verbo Trahere, condurre via, trascinare, trasportare. La radice “ad-ac – tractus” vuole anche significare la dinamicità del “condurre a”, nel guidare gli armenti verso la destinazione. Pertanto è plausibile che con “actractus” si voleva indicare la strada che portava a Castel del Monte”. Con tutto il rispetto per il docente interpellato, ma c’è stata una lettura filologica preventiva della copia riportata dallo studioso francese? Sono stati letti i preventivi studi di Böhmer e Ficker, Dankwart Leistikow, Franco Cardini, Licinio e Hubert Houben? Solo dopo una lettura di questa letteratura si può capire che l’interpretazione proposta nella lettera è errata. E per l’actractum si intende il materiale edile per il completamento del castello o il contratto per l’acquisto o la requisizione di questo. Insomma come si può notare, lo studio di un monumento/ documento come Castel del Monte è complesso e necessita di strumenti approfonditi per la ricerca e di studi pluridisciplinari, non si può liquidare il tutto a semplici frasi o battute, anche quando queste sono vecchie come gli orologi dal display al quarzo. Forse qualcuno li utilizzerà ancora o saranno inseriti nella moda vintage, ma tali resteranno: un ricordo di un passato, per fortuna superato. *DOCENTE DI STORIA E MEMBRO DELL’ASSOCIAZIONE DEL CENTRO STUDI NORMANNO-SVEVI.

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archeo informazione

Dal territorio CANOSA DI PUGLIA

MANFREDONIA

Si aprono alla fruizione pubblica, grazie all’impegno della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia, del Comune di Canosa di Puglia, della Fondazione Archeologica Canosina e dei privati cittadini, due importanti aree archeologiche, negli itinerari della città romana di Canusium: la Domus di età municipale, sita in Via Colletta (ex cinema Mancini), importante modello residenziale rispondente alla tipologie delle case a atrio e il complesso termale cosiddetto Ferrara nella piazza omonima.

Museo Archeologico Nazionele

PUGLIA

TARANTO

Nominato il nuovo Soprintendente Regionale, la Dott.ssa Isabella Lapi Ballerini, in carica dal mese di dicembre 2010, ed il nuovo Soprintendente presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia di Taranto, Dott. Antonio De Siena.

Museo Archeologico Nazionale

11 aprile 2011 - Inaugurazione della nuova mostra permanente delle Stele Danie “Pagine di pietra” i Dauni tra VII e VI sec. a.C.

Ciclo di conferenze sul teatro greco nei giorni 15 aprile e 6 maggio 2011 alle ore 17.00.

GIOIA DEL COLLE Museo Nazionale Archeologico presso il Castello Normanno Svevo dal 3 al 30 Aprile 2011 - Mostra “Agamennone e gli altri. Gli eroi di Omero nella cultura figurativa della Puglia antica”.

VISITE GUIDATE ITINERARI TEMATICI VISITE ANIMATE TEATRO DELLE MARIONETTE Le marionette, il gioco prospettico di fondali e controfondali ed espedienti tecnici sonori e visivi contribuiscono a creare sul palco suggestivi e magici effetti scenici. È rivolto da un lato a bambini e ragazzi e, dall’altro, ad adulti memori di una forma di spettacolo ormai quasi del tutto scomparsa, in un ponte ideale tra vecchie e nuove generazioni.

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ATTIVITÀ DIDATTICHE

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L’ANGOLO

Non tutti sanno....

L’IPOGEO MONTERISI ROSSIGNOLI DI CANOSA Da una ricerca della compianta Dott.ssa Marina Mazzei della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia

di Antonio Capacchione ...che nel 1816 quando fu pubblicato il volume di Millin (Archivio di Stato di Bari) “Description de tombeaux de Canosa”, non si poteva immaginare il grado di depauperamento che, nel corso dei duecento anni successivi, avrebbe raggiunto il patrimonio archeologico canosino. Ma è in quel tempo, a seguito del clamoroso interesse suscitato dai materiali dell’ipogeo Monterisi Rossignoli del Lagrasta e di altri ipogei, che si vennero a porre le basi dello scavo e del commercio clandestino, di materiale archeologico pugliese; un fenomeno che oggi come avvenne nella prima metà dell’ottocento continua a ripetersi. Tre anni dopo la scoperta il Millin pubblicò l’ipogeo dando rilievo alle ceramiche a figure rosse e alle scene poi attribuite al pittore dell’oltretomba. La scoperta Verso la fine dell’anno 1813 Sabino Monterisi d’Alesio, proprietario di un terreno nella zona del cimitero di Canosa, scavando con l’intento di ricavare una cantina, ma si ha l’impressione che lo scavo fosse stato praticato con l’intenzione di saccheggiare il sepolcro. Peraltro, l’intervento del Direttore degli scavi antichi della Provincia di Bari, Abate Giuseppe Pilsi, affiancato dal Capitano Mezzuccelli della Compagnia Provinciale incaricato del Ministero dell’Interno, fu successivo alla dispersione dei materiali. Infatti, secondo quanto poi denunciarono il Monterisi e il figlio Donato, subito dopo la scoperta della tomba alcuni notabili di Canosa avrebbero scelto e portato via alcuni vasi. In particolare il Giudice di pace, D. Vincenzo Lagrasta, il Secondo Eletto, lo speziale D. Giuseppe Conte e il sacerdote Michele Caracciolo, avrebbero preso i tre grandi vasi figurati, ma è probabile che il Caracciolo, che era legato al Monterisi da legami di parentela, avesse ricevuto il vaso del Monterisi per estinguere un debito, secondo le dichiarazioni poi lasciate da entrambi. Dopo i primi sopralluoghi, i vasi rimasero in possesso di costoro, ma con l’obbligo scritto di custodirli sino all’arrivo delle disposizioni del Sovrano. La ricerca del materiale trafugato fu immediata e capillare: il Monterisi stesso fu messo sotto inchiesta per non aver denunciato il ritrovamento e per aver donato i materiali, nonostante egli sostenesse che i reperti gli erano stati tolti dal Lagrasta e dal Conte con la forza. E’ evidente che molti altri reperti rinvenuti nell’ipogeo divennero oggetto di un vero e proprio commercio. Secondo il Millin il Monterisi nascose altro materiale, giacché non aveva mostrato al Commissario che una trentina di vasi insignificanti. All’incontro dicesi pubblicamente che il Monterisi trasportò in sua casa tre some di vasi, molti dei quali bellissimi ed istoriati ed ho inteso dire dai canosini stessi che li abbia nascosti in campagna. Documenti di archivio attestano che i vasi furono trasportati da Canosa a Bari, presso l’Intendenza, e ppoi spediti a Napoli. Il 19 ottobre 1813 furono inviati a Napoli due vasi a figure rosse, una patera, la parte anteriore della corazza, due elmi, lo schiniere e il frontale di cavallo. Il giorno 1 novembre 1813 furono spedite a Napoli due casse, ciascuna contenente un vaso antico. Nel febbraio 1814 fu inviata anche la parte posteriore della corazza e un grande vaso con dieci figure. Nel corso del mese di ottobre, fu eseguito lo scavo del vestibolo, con il fine di individuare l’accesso alla tomba. Il trafugamento e la dispersione dei materiali nella Puglia settentrionale dell’800, aveva un principale luogo di traffico che era Ruvo, per averne prova basta scorrere alcune annate di “notizie degli scavi” per comprendere quale ruolo, quello di ricettatori, avessero personaggi ruvestini come i Fatelli. E non si può trascurare a questo punto il significativo e conseguente particolare (che riguarda anche alcuni vasi dell’ipogeo Monterisi) che molti vasi pervenuti per lo smercio da Canosa a Ruvo abbiano mutato la loro provenienza. L’ipogeo e la collezione di Carolina Bonaparte Napoli i materiali provenienti dall’ipogeo Monterisi Rossignoli occuparono un posto di riguardo nella collezione di Carolina Murat. Il 10 novembre 1813 il Ministro dell’Interno di Napoli, facendo vedere i reperti ai sovrani, ne restaroni Sorpresi per la loro bellezza. In un’altra nota del 1820 la stessa Carolina scrivendo al Principe Metternich afferma:” i tre famosi vasi di Canosa sono stati trovati da un contadino che, ignaro del valore, li vendette per pochi soldi ad un farmacista, il quale, li impiegava appesi alla

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volta per metterci dentro le droghe. Da lui li feci comprare, intercettando tutti gli altri oggetti provenienti dalla tomba”. I reperti furono collocati in un aricostruzione a grandezza naturale della tomba. La caduta del Regno di Gioacchino Murat nel 1816, costrinse Carolina a partire in esilio e con se portò, tra le altre cose, i tre grandi vasi canosini e altri reperti della tomba, tra cui la corona d’armento, che in seguito furono venduti a Ludwing di Baviera. L’atto di vendita fu sancito a Troschdorf in Baviera e fu sottoscritto dal Barone von Gayl per conto di carolina e da Leo von Klenze per conto di Ludwing. Vi è una descrizione essenziale degli reperti, tra cui: un vaso di Canosa alto circa cinque piedi; un vaso di Canosa alto quattro piedi e nove pollici; un vaso slanciato con ornamento figurato alto due piedi e nove pollici; tutto questo materiale trovò una prima collocazione a Monaco nel Museo Alte Pinakothek, poi furono trasferiti al Museo Antikeusammlungen, dove sono tutt’oggi in esposizione. Il monumento L’ipogeo M.R. sorge in un’area vasta, destinata a necropoli, vicino al cimitero e in prossimità della proprietà di Sabino Monterisi d’Alesio agli inizi dell’800, divenuta ai primi del ‘900 di Riccardo Rossignoli. Scavata nel banco tufaceo, la tomba aveva un dromos a gradini e l’unica cella preceduta dal vestibolo. Il vano di accesso aveva pianta rettangolare e la volta con due cavalli marini scolpiti nel tufo. La cella di forma rettangolare ( m.6,20 x 3,80 ), aveva il soffitto a doppio spiovente, con una trave centrale e travicelli ad essa perpendicolari e fra loro paralleli, scavati nel tufo. Lungo la parete di sinistra era collocato il letto funebre ( m.0,85 x 2 ), già distrutto ai tempi di Nachod. Ricavato nel tufo aveva una forma rettangolare, decorato con rilievi di un ippocampo e di una volpe ( forse segati e trasferiti a Napoli ). Tra il letto e il pilastro di fondo era scolpito un altro animale, un leone secondo il Nachod, una pantera secondo Macchione, un cane secondo l’interpretazione di Millin. Sulk lato opposto, rivolto verso uil fondo dell’ipogeo, un cinghiale a rilievo scolpito nel tufo a grandezza naturale. Il cinghiale poggiava su una base rettangolare, decorata sul lato anteriore con un essere fantastico contesta di cane, muso di maiale e corpo serpentiforme. Nella decorazione pittorica si conosce poco, tracce di colore rosso scuro sullo zoccolo della cella e due fasce orizzontali che dividono la parete in due campi. L’identificazione più valida dell’animale sulla parete sinistra è quella di un cane, soggetto legato al mondo funerario, come prova l’ampia documentazione nella scultura attica, mentre il cinghiale ci riporta alla sfera della caccia. Deposizione L’ipogeo aveva una sola deposizione maschile, in posizione supina, indossava una corazza in bronzo, un elmo e uno schiniere, mentre un’altro elmo gli era accanto sul letto funebre. Il corredo è formato da due nuclei principali, cioè dai vasi monumentale e dalla panoplia. Corredo Il corredo dell’ipogeo era molto ricco e tra i tanti reperti si distinguono un Kratere a volute, alto m. 1,17, con scena di battaglia di tre gruppi di combattenti, con personaggio femminile “Medea” sorretta da Creonte acorso in suo aiuto, con un carro trainato da due serpenti, con figura di Oistros dai lunghi capelli e una torcia nella mano, con le figure delle divinità Ercole e Atena; un Kratere a volute, apulo, a figure rosse, su viene rappresentato un palazzo, con scene di Ades, Persefone, Orfeo e svariati personaggi maschili e femminili; un Loutrophoros apulo a figure rosse, con decorazioni vegetali, figure femminili, Hermes. La scena principale rappresenta Licurgo nell’atto di uccidere la regina e ai suoi lati Dionisio e Lyssa, i tre vasi sono attribuiti al pittore dell’Oltretomba, un ceramografo vicino al Pittore di Dario; una corazza anatomica ( Napoli Museo Nazionale ), di sicura produzione pugliese, simile a quella dell’ipogeo Varrese, Scocchera e forse anche alla tomba del vaso dei Persiani; due elmi in bronzo ( Napoli Museo Nazionale ), detti Lucani, con alette, piume e corna metalliche; un cinturone in bronzo ( Napoli Museo Nazionale ); schiniere ( disperso ) in bronzo; un frontale in bronzo (Napoli); anelli d’oro; corniole; pugnale e una spada decorata di pietre, oltre a patere, lucerne, tazze e collane. Da un verbale dell’epoca: “oggi che si contano li sedici del mese di ottobre, ed anno milleottocentotredici, e dell’anno quinto del felicissimo Regno di Gioacchino Napoleone nostro Augusto Sovrano. Noi Vincenzo Lagrasta Giudice di pace, del Circondario di Canosa, distretto di Barletta, Provincia di Bari, abbiamo fatto il seguente processo verbale sulla continuazione dello scavo fatto discovrire l’entrata del sepolcro antico, rinvenuto nel giorno quindici dello scorso settembre, nel luogo detto Piano S. Giovanni, nel territorio Seminatoriale di questo Savino Monteriso, e cioè a ordine del Sig. Intendente di questa Provincia Commendatore del Real ordine delle due Sicilie Dumas.” L’ipogeo Monterisi Rossignoli di Canosa con gli splendidi vasi delle Antikensammlungen di Munchen, la panoplia del Museo Nazionale di Napoli, si offrono come simbolo di una storia perduta.

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NEL CUORE DELLA CITTÀ

L’Egitto a Canosa di Luisa Bonadias Nel corso degli scavi condotti dalla Soprintendenza Archeologica della Puglia tra il giugno 1991 e il maggio 1992 nell’area di Via Federico II a Canosa (M. Corrente, “Scavi e scoperte. Canosa di Puglia”, Taras XII (1992), pp. 245-247), fu rinvenuta, incastrata in un muro divisorio di una residenza privata, una straordinaria lucerna in bronzo, conservata nel Museo di Palazzo Sinesi e attualmente in restauro. L’importante reperto rappresenta un personaggio avvolto in un abito caratterizzato da una quadrettatura, da identificare, probabilmente, con quella spesso presente sulle figure mummiformi, e dovuta o alla lavorazione delle bende che ricoprivano i corpi dei defunti, o alla presenza di una reticella posta sul bendaggio stesso. A differenza delle numerose mummie conservate in vari musei, il personaggio della lucerna canosina ha le braccia distese lungo i fianchi, anziché piegate sul petto, e gli occhi chiusi. Il bendaggio che ricopre il corpo e che presenta sul petto uno scollo a V, lascia fuoriuscire sulla fronte dei capelli, secondo un uso che non deriva dalla tradizione egizia, ma che si afferma a partire dalla statuaria regale del periodo tolemaico (332-30 a.C. circa). Sulla parte anteriore della figura sono presenti tre fasce iscritte con caratteri greci, di difficile comprensione: tra la prima e la seconda, all’altezza dell’addome, è presente il primo foro funzionale alla lucerna, mentre il secondo si trova al di sotto della terza iscrizione, immediatamente al di sopra dei piedi che spuntano dalle bende. Ulteriori iscrizioni, sempre in caratteri greci, sono incise sul dorso della figura, in uno spazio di forma arcuata e appiattito in modo da offrire stabilità alla lampada. Le lettere greche presenti sulla lucerna permettono di chiarire l’uso del reperto canosino, inserendolo nell’ambito dei rituali magici. A tal proposito, va ricordato che in Egitto la magia non era assolutamente separata dall’ambito religioso, come testimoniato, ad esempio, dai miti cosmogonici, in cui si racconta che il dio creatore chiama in esistenza il mondo attraverso la parola magica, o dalla cerimonia dell’apertura della bocca, per mezzo della quale si riteneva possibile conferire un’anima a statuette, utilizzate come “controfigure” dei defunti. Gli egizi, infatti, credevano che, tramite formule e parole magiche, fosse possibile rendere viva qualsiasi immagine. La magia, quindi, era una modalità di rapporto tra l’uomo e la realtà, molto utilizzata spesso anche per esprimere una religiosità personale. Diverse sono le fonti che attestano la diffusione di testi sacri egizi nel mondo romano: Apuleio nell’XI libro delle sue Metamorfosi, ad esempio, descrive i rotoli sacri utilizzati dal sacerdote isiaco, alcuni con figure di animali, altri con una scrittura fitta e complicata. Un dipinto del tempio di Iside a Pompei, inoltre, mostra sacerdoti isiaci nell’atto di leggere da rotoli di papiro. Frequenti sono, inoltre, i testi magici scritti per lo più in lingua greca, che riportano trascrizioni di espressioni di origine egizia, la cui difficoltà di comprensione è dovuta al fatto che si tratta di formulazioni ripetute infinite volte, spesso anche senza essere comprese, e, quindi, modifi-� cate dall’uso. Questo tipo di testi, a volte incisi anche su

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supporti come gemme e lastre metalliche, era piuttosto diffuso nella religiosità popolare, spesso molto lontana dalla cosiddetta religione di stato e caratterizzata dalla ricerca di una magia che potesse offrire una risposta ai problemi di carattere quotidiano. La lucerna pugliese, pur essendo un reperto unico, si ricollega ai testi magici in cui viene presentato un incantesimo realizzato per mezzo di una lampada, di cui esistono diversi esempi nell’ambito della magia egizia: in un papiro demotico, ad esempio, si prescrive di recarsi in una stanza buia, scavare una nicchia nel muro orientale e collocarvi la lampada, grazie alla quale, nel corso del rito, un giovane vedrà l’ombra del dio (G. Capriotti Vitozzi, “Una enigmatica figura nel codice Ferratoli 513 e una lampada da Canosa: aspetti della magia di origine egizia”, Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae XV, pp. 101-127); nello stesso papiro, oltre a chiari richiami alla luce, la lampada viene invocata come Osiride, dio egizio, signore dell’oltretomba. Secondo il mito egiziano Osiride, Re d’Egitto e sposo di Iside, aveva donato agli uomini la civiltà, insegnando loro come coltivare la terra e produrre il vino. Il fratello Seth, invidioso dell’amore che il popolo provava per il dio, organizzò un banchetto alla fine del quale fece portare una cassa riccamente ornata, annunciando che ne avrebbe fatto dono a chi fosse riuscito ad entrarvi perfettamente. Appena Osiride si stese nella cassa, Seth e i suoi complici sigillarono il coperchio e buttarono il corpo nel Nilo. Iside e la sorella Nefti riuscirono a ritrovare il corpo del defunto nel delta del fiume, ma una sera Seth, approfittando del fatto che il cadavere non era vegliato, lo tagliò in quattordici pezzi (secondo altre fonti tredici o quindici) e lo disperse in tutta la zona. Iside recuperò i pezzi ricomponendo il corpo e Anubi, dio-scacallo, riuscì a dare nuova vita a Osiride, non sulla terra, ma nel Regno dei Morti. Il dio Osiride generò Horus, allevato di nascosto dalla dea Iside, che, una volta adulto, sconfisse e cacciò Seth, fondando il regno dei faraoni. La resurrezione del corpo del dio Osiride era evocata nella cerimonia dell’Inventio Osiridis, durante la quale, secondo recenti studi (P. Gallo, “Gli Aegyptiaca della colonia romana di Luni”, Archeologia dei territori apuo-versiliese e modenese-reggiano. Atti Giornata di studi, Massa 3 ottobre 1993, pp. 67-87), potevano essere utilizzate lampade mummiformi, simili a quella scoperta a Canosa. In realtà, è spesso attestato il legame tra la figura del dio egiziano dell’oltretomba e la luce: nelle sepolture del Nuovo Regno, ad esempio, è descritta l’unione del dio mummiforme con la divinità solare, unione che porta al risveglio del mondo naturale. In epoca romana, lo stesso tipo di rito era celebrato in un chiosco collocato sul tetto del tempio di Dendera, in occasione della Festa del nuovo anno. In una tomba tebana, infine, è presente un inno alla luce da recitare come rituale con finalità di protezione per il nuovo anno, nel quale si fa ripetutamente riferimento alla “perfetta luce di Osiride”. La lampada canosina, quindi, va ricollegata ai culti isia-

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ci, basati essenzialmente sul rito osiriaco di morte e resurrezione dell’individuo, avvenuta grazie a certe pratiche di carattere magico- religioso. Il culto della dea Iside, sorella e sposa del dio Osiride, che con i suoi poteri di maga riporta in vita il corpo del defunto, si diffonde in età romana in tutto il bacino del Mediterraneo, portando alla costruzione di diversi isei nelle più importanti città dell’epoca, come nel caso del famoso Iseo Campense di Roma. La scoperta di due sculture originali egizie in granito grigio, databili all’epoca tolemaica e raffiguranti due sfingi acefale, conservate rispettivamente al Museo Civico di Canosa e al Museo Pinacoteca di Barletta, ha fatto supporre che anche a Canosa dovesse essere esistito un santuario dedicato alla dea Iside, di cui però, al momento, non esistono evidenze archeologiche. La presenza di una coppia di sfingi nel territorio canosino, più che testimonianza dell’esistenza di una struttura monumentale del tipo frequente nei santuari isiaci, deve essere considerata risultato del fenomeno di sistematica importazione di opere d’arte egizia, destinate non solo agli isea e ai serapea (santuari dedicati al dio Serapide) del territorio italico, ma anche a svolgere funzioni decorative in ville e sacelli privati. Allo stesso modo, al culto privato di Iside, va attribuito anche il busto marmoreo della stessa dea presente nel Museo Civico di Canosa, oltre ad altre statuette fittili egittizzanti che riproducono personaggi con barba posticcia, e a lucerne con simboli isiaci. La lucerna mummiforme, le sfingi e gli altri oggetti relativi ai riti isiaci testimoniano la presenza anche a Canusium del culto egiziano, che si diffonde a livello popolare soprattutto per il suo carattere di religione di salvezza e forse anche per la necessità di un contatto diretto con la divinità che la religione tradizionale romana non offriva più.

ORGANIGRAMMA FONDAZIONE ARCHOLOGICA CANOSINA Consiglio di Amministrazione

Collegio Sindacale Membri effettivi: 1 Favore Antonio (Presidente) 2 Fortunato Giuseppe 3 Iacobone Antonia

Membri supplenti: 1 Luongo Nicola 2 Pistilli Nunzio

1 Ventola Francesco (Sindaco del Comune di Canosa di Puglia) 2 Silvestri Sabino (Presidente) 3 D’Ambra Francesco (Vice Presidente) 4 Fiore Anna Maria (Tesoriere)

Collegio dei Probiviri Membri effettivi: 1 Pavone Agostino (Presidente) 2 D’Ambra Leonardo 3 Palmieri Sabino

Membri supplenti: 1 Fontana Michele 2 Petroni Agostino

Consiglieri: Capacchione Antonio - Caporale Sabino - Destino Giovanni - Di Nunno Rosanna - Facciolongo Francesco - Fasano Giorgio - Giuliani Cosimo - Ieva Pasquale - Luisi Nicola - Pinnelli Paolo - Specchio Francesco. Don Felice Bacco (Basilica Cattedrale di San Sabino) - Di Gioia Luigi (Segretario Generale), esterni al CDA

Comitato Scientifico 1 Marisa Corrente - Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia 2 Giuliano Volpe - Università degli Studi di Foggia 3 Giuseppe Andreassi - già Soprintendente per la Puglia

ETICHETTE AUTOADESIVE IN BOBINA Str. Vic. del Pozzillo Tel. 0883.617551

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