Terre di Confine Magazine #5

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DEL FANTASTICO

CINEMA • TV • CARTONI • FUMETTI • RACCONTI • ARTE • CULTURA • LETTERATURA

LA RIVISTA

TERRE DI

2016

MAGGIO

www.terrediconfine.eu • aperiodico di cultura fantastica

CONFINE

PLESIO EDITORE

in collaborazione con

5 TDC MAGAZINE


Disclaimer e Diritti delle Immagini Le copertine dei libri, le locandine e le immagini relative a film, serie tv e cartoni animati sono utilizzate in base ai criteri del fair use, a solo scopo esemplificativo, divulgativo e di recensione; tutti i diritti sono riservati ai rispettivi proprietari. La foto di Stanisław Lem è tratta da Wikimedia Commons, dove appare per gentile concessione di Wojciecha Zemka. La foto di J. S. VANDERMEER, scattata da Kyle Cassidy, è tratta dal sito personale dell’autore; tutti i diritti riservati. La foto dei coniugi Joan e Daryl Lindsay è conservata nella State Library of Victoria di Melbourne. Le tavole a fumetti sono state concesse e autorizzate alla Redazione di Terre di Confine dalle case editrici aventi diritti; tutte le altre illustrazioni e foto sono state concesse alla Redazione di Terre di Confine direttamente dagli autori e dai proprietari (che ne hanno inoltre personalmente visionato e approvato lo specifico utilizzo), in forma scritta ed esplicita, per l’uso in questo singolo numero della rivista. Tutti i diritti riservati.

Immagine di copertina:

HEADHUNTER - FEMALE DRAGOON

di WENJUINN PNG www.wenjuinn.com per Downward (2014) www.imdb.com/title/tt3919268/ ©DRAGOON ONLINE www.dragoononline.com in pre-produzione: Ascendance (2017) www.imdb.com/title/tt5533556/


TERRE DI

CONFINE Aperiodico di cultura fantastica

MAGAZINE

a cura di

MASSIMO DE FAVERI •

Associazione Culturale

TERRE DI CONFINE in collaborazione con

PLESIO Editore Terre di Confine n. 5 - Maggio 2016 Prima pubblicazione: 2 maggio 2016 ISBN 9788898585380 ©2016 A.C. TERRE DI CONFINE PLESIO EDITORE Largo S. Carlo, 3/13 Via Plutarco, 38 33085 MANIAGO (PN) 47121 Forlì (FC) Cod. Fisc. 90012230935 P.IVA: 03966240404 tdc.terrediconfine@gmail.com info@plesioeditore.it www.terrediconfine.eu www.plesioeditore.it • Tutti i diritti riservati •

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l’EDITORIALE

ONIRICALIENAmente di MASSIMO DE FAVERI

C

ARI LETTORI, ce l’abbiamo fatta anche stavolta! Contro ogni pronostico e avversità, eccoci a presentarVi un nuovo numero del Vostro affezionatissimo TdC Mag! Come sempre gratuito, come sempre coloratissimo, come sempre ricco di stimoli, immagini e opinioni. Ci siamo riavvalsi del prezioso supporto de La Bottega del Barbieri. È proprio l’ampia retrospettiva di Daniele Barbieri sulla figura dell’alieno nella Fantascienza a caratterizzare TdCM #5, insieme a una suggestiva riflessione di Ivano Landi sul mistero di Picnic a Hanging Rock, un’analisi che accarezza l’anima dell’Australia aborigena, quel suo cuore metafisico conosciuto come il Tempo del Sogno. Fabrizio Melodia ci ripropone il suo appuntamento con i fanta-temi, parlandoci di Psicostoria. A completare la sezione Letteratura: Marco Pulitanò ben descrive quanto profonda e meschina possa rivelarsi la Cecità umana; con la nostra Cuccu’ssette c’immergiamo tra le onde e le perturbanti manifestazioni di Solaris; Elisa Giudici, nostra ospite gradita, ci illustra pregi, difetti e attitudini epigonogeniche di Ender’s Game; nuovo anche l’arrivo di Glinda Izabel, che con Rebel accompagna TdC nei territori finora inesplorati degli young adults e dei romance; e infine, restando in tema di lande da esplorare, Luca Germano ci guida tra

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gli inquietanti meandri dell’Area X. La parte antologica propone racconti di Clelia Farris, Fabio Lastrucci e Vincent Spasaro, Riccardo Dal Ferro e Francesco Pomponio, per chi ama il fantastico con punte di surreale, horror e distopia. Nella sezione Cinema e TV, l’inObsidiabile Severino Forini affronta la leggenda di Onibaba; mentre Andrea Carta s’inoltra in terra teutonica per commentarci Le Fantastiche Avventure dell’Astronave Orion (con le immancabili sinossi di SerieTV.net). Alla coppia Mistè-Corà è affidato il gustoso buffet anime, con un piatto per ognuna delle tre più rinomate portate nipponiche: film (Le Ali di Honneamise), OVA (Bubblegum Crisis) e serie TV (l’inedito Dougram). Nello spazio Fumetti, ecco il saggio di Marco Pellitteri sul mitico Astroboy; e Orlando Furioso di nuovo alle prese con un supereroe che alla Casa delle Idee scippa addirittura il nome: Capitan Marvel. Per l’angolo foto-cosplay, Davide Longoni e Leonardo Colombi intervistano Monica Pachetti e Roberto Giancaterina. Aprono e chiudono il numero due photodream d’annata: la meravigliosa Skin Diamond, ritratta da Scott Pierre Price, posa in atmosfera a metà tra glamour e postapocalittico. Insomma, è primavera: sedetevi, rilassatevi e gustatevi TdC Magazine #5! <


i CREDITI Redazione e Links Redazionali Andrea Carta Claudio Piovesan Cuccu’ssétte Daniele Barbieri Davide Longoni Elisa Favi Fabrizio Melodia Gianni Falconieri Giordana Gradara Glinda Izabel

Jacopo Mistè Leonardo Colombi Luca Germano Marco Pulitanò Massimo De Faveri Orlando Furioso Severino Forini Simone Corà Stefano Baccolini Stefano Moscatelli

Impaginazione Massimo De Faveri

Anime Asteroid • anime-asteroid.blogspot.it Atelier dei Libri • www.atelierdeilibri.com Bravi Autori • www.braviautori.it Colonia Lunare • www.colonialunare.it Fumetti di Carta • www.fumettidicarta.it Gerundiopresente • gerundiopresente.wordpress.com La Bottega del Barbieri • www.labottegadelbarbieri.org La Foresta dei Sussurri • fantasy-italiano.com La Zona Morta • www.lazonamorta.it Leonardo Colombi Blog • leonardocolombi.blogspot.it Oracolo dei Venti • mentore.wordpress.com Plesio Editore • www.plesioeditore.it Sat’Rain •satrain.altervista.org SerieTV.net • www.serietv.net Stefano Marinetti DA • stefanomarinetti.deviantart.com The Obsidian Mirror • insidetheobsidianmirror.blogspot.it Work On Color • www.workoncolor.com

Ringraziamenti (in ordine di impaginazione) Wenjuinn Png • malesia Michael Ortiz (Dragoon Online) • usa Raylin Christensen (aka Skin Diamond) • usa Scott Pierre Price (aka Blacque Magic) • usa Fiammetta Giorgi (Giunti Editore) • italia Elisa Giudici • italia Ric Damm (Ripon College) • usa Bob Hartmann • usa Juan Mar • spagna Ville Assinen • finlandia Ivano Landi • italia Zina Sofer • australia Garth Smith • australia Stine Fossheim • norvegia Christoph Behrends • germania Craig Banks • australia Kenneth Spencer • usa Dorin Popa • germania

Renata Bertola • italia Claudio Secco • italia Giovanni Panzeri (The Crows ITA Fansub) • italia Monica Pachetti • italia Marco Pellitteri • italia Andrea Sartori (AnimeClick) • italia Giacomo Schiantarelli (AnimeClick) • italia Leonello Di Fava (PANINI Comics) • italia Roberto Giancatarina • italia Clelia Farris • italia Meyrem Bulucek • romania - usa Fabio Lastrucci • italia Vincent Spasaro • italia Willem Lombard • nuova zelanda Riccardo Dal Ferro • italia Chris Drysdale • canada Francesco Pomponio • italia Sonja Valdes • italia

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SOMMARIO

PICNIC A HANGING ROCK Percorrendo i Sentieri del Sogno

4O

LETTERATURA 10

L’IMPETUOSA RAGAZZA DELLE DUNE Rebel

4

Editoriale

ONIRICALIENAMENTE

5

Redazionale

8

Photo Dream

CREDITI

BARBARIC

Photo Dream

234 BARBARIC 2

14 DISTOPICAMENTE

BAMBINO E STRATEGA Ender's Game

20 L’OCEANO CHE

PREVEDE IL FUTURO

Fabbricanti di Universi

40 PERCORRENDO

I SENTIERI DEL SOGNO

Picnic a Hanging Rock

62 INFINITI MODI

DI ESSERE ALIENO

Fabbricanti di Universi

MATERIALIZZAVA RICORDI Solaris

24 GLI ESPLORATORI DEL

TERRITORIO ‘MUTANTE’ Trilogia dell'Area X

30 SE L’OSCURITÀ

SI COLORA DI BIANCO... Cecità

6

34 LA SCIENZA CHE

62


112

158

CINEMA E TV 104 LA SPAVENTOSA

MASCHERA OMICIDA

Onibaba - Le Assassine

112 LÀ DOVE NESSUNO

HA MAI OSATO TORNARE Astronave Orion

124 IL PIONIERE CHE

CONQUISTÒ LO SPAZIO

Le Ali di Honneamise

128 LE AVVENTURE POP DELLE ROBOTICHE QUATTRO Bubblegum Crisis

136 IL MOBILE SUIT

VENUTO DA DELOYER Dougram

104

143 SARABA YASASHIKI HIBI YO

124

KAZE NO YUKUE Dougram

ARTE E COMICS 148 INDOSSANDO

MAGHETTE E SUPER IDOL

Intervista a M. Pacchini

158 IL ROBOTTINO

DAL CUORE ATOMICO Astroboy

172 IL SUPER KREE CHE DIFENDEVA LA TERRA Capitan Marvel

184 FOTO, EMOZIONI

E MISTERI DA INDAGARE

Intervista a R. Giancaterina

ANTOLOGIA 204 L’ARCANO SENZA NOME Racconto

208 L’ODORE DELL’OMBRA Racconto

216 NEL VENTRE Racconto

225 IL SILENZIO È D’ORO Racconto

136

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BARBARIC

©SCOTT PIERRE PRICE

www.pierreprice.com

modella: RAYLIN CHRISTENSEN (bka SKIN DIAMOND)

twitter.com/skin_diamond latex shirt: HMS LATEX

Photo DREAM 8


TERRE DI

CONFINE MAGAZINE

Stimatissimo Fan, siamo lieti di darti il benvenuto in questo quinto umero del tuo affezionato TdC Mag. Fiduciosi di poterti ancora una volta sorprendere, ti auguriamo buon divertimento. E, per ogni contatto, puoi trovarci on-line! www.terrediconfine.eu 9


Reading TIME

L’impetuosa

RAGAZZA

DELLE DUNE di GLINDA IZABEL

Atmosfere dal sapore mediorientale, protagonista una giovane indomita pistolera, e tanta avventura nel romanzo d’esordio di Alwyn Hamilton.

A

MANI È UNA RAGAZZA del deserto, il suo mondo è arido, governato da un terribile sovrano, e pullula di creature incredibili e storie eccezionali. Cresciuta con la speranza di poter scappare dal luogo in cui è nata e cresciuta, dagli stenti, dalle tirannie da parte degli zii, la giovane decide di recarsi a Deadshot, la città proibita in cui tutto è in vendita. Lì, travestendosi da uomo, intende mettere a frutto le proprie abilità con la pistola partecipando a un torneo di tiro

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che pone in palio un ricco premio. Ma, la notte in cui il suo piano di fuga sembra prossimo a concretizzarsi, il suo destino s’incrocia con quello di Jin, un temibile fuorilegge ricercato per alto tradimento. Proprio come Amani, Jin non è chi dice di essere; il loro incontro li spingerà in un’avventura mozzafiato che potrebbe determinare le sorti del mondo intero. Nel deserto fiammeggiante di magia che Amani ama, c’è aria di rivoluzione e nessuno è al sicuro.


REBEL IL DESERTO IN FIAMME

(Rebel of the Sands, 2015) di Alwyn Hamilton GIUNTI (2015) traduzione di Sara Reggiani pagine 272 ISBN-13: 9788809810747

COMMENTO Quando ho deciso di intraprendere la lettura di Rebel - Il Deserto in Fiamme (Rebel of the Sands, 2015) non sapevo davvero cosa aspettarmi. Certo, ero conscia di avere tra le mani un fantasy per young adults fuori dagli schemi e con grandi potenzialità, ma non ero preparata alla straordinaria avventura in cui poi sono stata catapultata. Pensavo sì a una storia interessante, ma sospettavo che, essendo il primo di una serie, questo libro si sarebbe rivelato nient’altro che introduttivo. Ebbene, miei cari, posso dire a gran voce che mi sbagliavo. E di grosso. Atmosfere trascinanti che ti entrano nel cuore, personaggi adorabili e sfaccettati a cui è impossibile non affezionarsi, e una trama densa e imprevedibile sono gli elementi che mi hanno fatto innamorare di questo potentissimo romanzo. Per me è stato una vera rivelazione. Una lettura perfetta per chi sia alla ricerca di una storia avventurosa, giovane ma non troppo, ricca di

miti e leggende e con un pizzichino di romance (per niente soffocante). Rebel non è la classica storia per giovani adulti a cui siamo abituati, e lo si capisce dalla primissima pagina. L’autrice, Alwyn Hamilton, ha evitato tutti quei luoghi comuni tipici dei romanzi simili: niente protagoniste sprovvedute, niente damigelle in difficoltà, niente amori struggenti che tolgono spazio a ogni altra cosa. Niente di tutto ciò, ma una trama ricca e avvincente. Ad accompagnarci in questa avventura è Amani. Attraverso i suoi oc-

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ALWYN HAMILTON

foto di rappresentanza fornita da GIUNTI EDITORE www.giunti.it

chi scopriremo che essere una diciassettenne nel mondo in cui lei vive, un mondo dominato da un deserto implacabile e da creature soprannaturali imprevedibili, comporta rischi e obblighi. Orfana e senza pretendenti, la giovane ha infatti

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molto di cui preoccuparsi: il suo futuro rischia d’essere deciso da persone che non hanno affatto a cuore la sua felicità. Ma lei non è il genere di persona il cui spirito possa essere facilmente domato. E così eccola a Deadshot, luogo di perdizione e gioco d’azzardo, a sfidare a duello pericolosi ceffi per guadagnarsi i soldi necessari a cambiarle il destino. “Dicevano che Deadshot dopo il tramonto appartenesse solo a chi aveva cattive intenzioni. Io, di cattive, non ne avevo. Ma nemmeno di buone, se è per questo.” E il suo destino, dopo quella notte di follie e incontri clandestini, cambia davvero, anche se in modo del tutto inaspettato. In un deserto abitato da creature magiche che non conoscono pietà, con al fianco un fuorilegge affascinante quanto imprevedibile e nel bel mezzo di una rivoluzione civile, Amani affronta un viaggio epico dalla destinazione sorprendente, vivendo le più incredibili avventure. “Partimmo all’alba con la carovana del Ginocchio del Cammello, come previsto. Credevo di conoscere bene il deserto, anche se, mentre guardavo il sole levarsi in un cielo azzurro terso sopra una sconfinata distesa dorata, capii di essere in presenza di qualcosa di diverso. Il Mare di Sabbia era enorme e pieno di pericoli. La carovana lo trattava come un incrocio


fra una bestia da domare e un tiranno davanti al quale inchinarsi. Mi sentii immediatamente a casa.” Con le sue atmosfere da mille e una notte, il suggestivo world building, la narrazione fluida e incisiva, Rebel incanta, lasciando con il fiato sospeso dalla prima all’ultima pagina. È raro trovarsi tra le mani un romanzo fantasy tanto diretto e facile da approcciare, e queste qualità non lasciano indifferenti. Ho adorato la naturalezza con cui sono stati introdotti nella trama sia gli elementi paranormali che quelli inerenti agli usi e costumi del mondo in cui il libro è ambientato. Un mondo d’ispirazione mediorientale, aspro e flagellato dalla tirannia di un dittatore, oltre che dai capricci di imprevedibili e feroci creature magiche la cui esistenza si rivela ai lettori come accadrebbe in una fiaba: lentamente e in modo molto suggestivo. “Ho sempre pensato che fosse stata la Terra stessa a creare i Primi Esseri e i mortali. Nelle foreste lussureggianti e nei campi dell’Ovest gli immortali traggono la loro magia dalle profondità del terreno. Nelle terre gelate del Nord la ottengono dai ghiacci. E qui, invece, brucia nella sabbia. Ogni posto dà vita alle sue creature. I pesci vengono dal mare, i Roc dai cieli di montagna, e le ragazze col sole sulla pelle e una mira perfetta dal deserto che non perdona nessuna debolezza.” Tutto in questo libro lascia stupefatti, la cura nella costruzione della storia trapela da ogni dettaglio. Colori, profumi e ambientazioni prendono vita come per magia, trascinando il lettore in un viaggio travolgente. Ed è molto ben orchestrata anche la lotta che infuria tra i sostenitori del Sultano e la resistenza: “La notte, i co-

lori, le risate, quella sensazione di potere e la certezza di essere nel giusto mi stavano entrando nel sangue. La rivoluzione era una leggenda che stava prendendo corpo davanti ai miei occhi. Un racconto che superava i confini della mia immaginazione. Un’epopea che sarebbe stata narrata dalle generazioni a venire, per spiegare come mai il mondo non era più lo stesso dopo che quelle genti erano vissute, avevano combattuto e vinto o erano morte provandoci”. La voce della protagonista è decisa e cattura in modo immediato: sferzante e sarcastica, Amani è una di quelle eroine che si amano o si amano. La forza d’animo con cui affronta ogni situazione difficile, il suo coraggio, la volontà di ferro… sono tutto ciò che un lettore possa desiderare. La crescita personale di questa determinata ragazza mi ha davvero stupita: raramente ho assistito a un’evoluzione così convincente in un romanzo di questo genere. Anche Jin, il protagonista maschile e suo compagno di viaggio, ha una precisa importanza, e riserva non poche sorprese e batticuori! Il romanticismo tra i due è appena accennato ma delizioso, ve lo assicuro: “Inavvertitamente sfiorai appena il tatuaggio del sole sul suo petto e quella fu l’ultima cosa che vidi prima di baciarlo. La sua mascella si irrigidì per la sorpresa, la mano mi strinse forte il braccio, quasi fino a farmi male. Poi il suo corpo si avvicinò al mio, spingendomi contro la parete del vagone. Ero una ragazza del deserto, credevo di sapere cosa fosse il calore. Bene, mi sbagliavo”. Insomma, Rebel è un libro che vi consiglio caldamente, e dai cui seguiti mi aspetto grandi cose! <

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Reading TIME

Distopicamente BAMBINOe

STRATEGA di ELISA GIUDICI

Il primo capitolo di una saga ‘esemplare’, saccheggiata da molti dei moderni autori di young adults.

N

ATO COME RACCONTO breve nel 1977 rielaborato e ampliato in forma di romanzo prima e saga a puntate poi, vincitore della doppietta Hugo e Nebula Award per due anni consecutivi, il Ciclo di Ender di Orson Scott Card – vagamente conosciuto nello Stivale – è ormai considerato nel mondo anglosassone un classico della letteratura per ragazzi (e non solo), tanto da rientrare in numerose liste dei migliori libri del Novecento e nelle letture scolastiche estive. Letto oggi, però, Il Gioco di Ender (Ender’s Game, 1985), primo libro di questa serie

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formata da cinque romanzi e svariati racconti, dimostra di essere invecchiati precocemente, per motivi esterni al testo. Provo invidia per chi lo lesse al momento della prima pubblicazione, ma anche per la me stessa che ne scorreva le pagine in un’edizione tradotta circa un decennio fa. Nel frattempo la storia crudele dei fratelli Wiggin è stata sottoposta più o meno intenzionalmente a quanto già capitato in ambito cinematografico a un’altra grande saga, quella di John Carter. Un passo indietro: se a Orson Scott Card è stato riconosciuto di aver creato una


ENDER’S GAME IL GIOCO DI ENDER

(Ender’s Game, 1985) di Orson Scott Card EDITRICE NORD (2013) traduzione di Gianluigi Zuddas 392 pagine ISBN-13: 9788842923343

storia avvincente e dirompente, è anche vero che gli è stato sempre rinfacciato di averla scritta in maniera tremenda. Il cuore narrativo nella sua essenza è di altissimo livello: è la narrazione di una società adulta votata all’educazione di uno stratega assoluto, pronto ad attuare lo xenocidio più micidiale, l’eliminazione della razza aliena dei Buggers, dall’intera galassia, mondo dopo mondo. Il lettore assiste alla creazione del killer perfetto, il killer innocente, ma anche alla delineazione della più marcata differenza tra gli adulti e i soggetti potenziali su cui avviene l’addestramento, ossia i bambini: capacità manipolatoria spinta fino alle estreme conseguenze, stress psicologico, distorcimento emotivo e dei rapporti interpersonali più intimi… ogni cosa pur di mantenere il promettente candidato Andrew ‘Ender’ Wiggin in un costante stato d’isolamento e imminente pericolo, affinché sviluppi al massimo grado le sue abilità. La parte migliore del libro è senza dubbio quella derivata direttamente dal racconto breve, integrato

con un veloce incipit. Il vero merito di Card è di aver creato una miscela di addestramenti militari, prove al limite dell’umanamente sopportabile, deliri onirici e crudeli realtà virtuali, tutto per documentare minuziosamente il contraccolpo di ogni tattica dei generali sulla psiche di Ender. La descrizione del continuo oscillare tra bisogno di affetto e terrore della debolezza, tra speranza in un’autentica sponda nel mondo adulto e inarrestabile diffidenza verso chiunque, fino all’ossessione (più che giustificata) per ogni minima forma di manipolazione, è così cristallina e veritiera

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che il libro è diventato una delle letture consigliate per l’addestramento dei futuri Marine. Il Gioco di Ender è un racconto di guerra tanto più realistico quanto più viene data importanza alla vittoria, in quella che è una simulazione per istruire le giovani reclute. Un gioco che Ender comincia a giocare ben prima dei sei anni (età in cui approda alla Battle School orbitante). E, quando completa l’addestramento, poco più che undicenne, ha già compreso l’insensatezza di questa ossessione per la vittoria; ma sa di essere condannato a vincere, pena la vita. Sulla Terra invece, in un mondo ancora diviso tra Alleati e Patto di Varsavia, si consuma un gioco perfino più sottile, quello dei due blocchi mondiali, uniti nel combattere l’improvvisa minaccia aliena ma pronti a scannarsi a vicenda non appena questa dovesse scomparire. Qui si muovono nell’ombra gli altrettanto geniali fratelli di Ender, il sadico Peter e la

dolce Valentine, che attuano un progressivo condizionamento dell’opinione pubblica. Un gioco più ampio che configura i Wiggin come una sorta di trinità. Se i ruoli inizialmente sono ben definiti, più il libro avanza più le parti di vittima, persecutore, complice e protettore sfumano tra i tre, rendendone sempre più ambigua la relazione. Purtroppo però, sia le premesse sulla guerra aliena sia questo mondo distopico – in cui sono bandite le religioni, e il controllo sulle nascite è talmente stretto da creare coercizione e derisione sociale sui ‘Terzi’ nati, come Ender – non occupano che un ruolo marginale, quasi una cornice appena abbozzata, come nel più trito dei libracci con cui molti identificano la fantascienza tutta. Questo il limite di Card, insieme a uno stile di scrittura semplice se non semplicista, asciutto, persino affrettato. Lo stesso cuore narrativo, nelle mani di una penna più abile, ci avrebbe consegnato un capolavoro immortale,

immagine dal film Ender's Game (2013)

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immagine dal film Ender's Game (2013)

anziché ‘solo’ un ottimo libro dirompente nel suo periodo, con un finale poco coeso ma forse necessario a rendere ancora più amaro il game over di Ender, ‘colui che porta a termine’, appunto. L’invecchiamento precoce del libro è dovuto maggiormente al suo ruolo di padre putativo degli ‘young adult’, o meglio, della letteratura giovanile come genere nettamente ed economicamente recintato rispetto al resto della produzione letteraria. In modo più o meno consapevole (e se chiedete a me, più), con l’avvento di questa nicchia editoriale i suoi autori sono andati a pescare a grandi mani in questo che ora è considerato un classico per ragazzi, sia nello stile di scrittura che nelle tematiche. Impossibile non notare il filone distopico di giovani adolescenti chiusi da qualche parte e costretti a fare qualcosa contro la loro volontà, uniti e divisi dai giochi di potere degli adulti. Ciò che rende Il Gioco di Ender distinta-

mente superiore ai suoi epigoni è l’approccio. Ingiustamente, l’intreccio del libro di Card è andato via via logorandosi a mano a mano che veniva preso in prestito da altri, incapaci di crearne uno proprio. Così le vicende di Ender oggi risultano quasi familiari, quasi ovvie, prive della crudezza che potevano avere anche solo un decennio fa. Tuttavia questo romanzo a mio parere risulta superiore ai suoi successori, anche ai più celebri e blasonati, per lo stesso motivo per cui ritengo che incentivare la divisione in adult e young adult sia un errore. Orson Scott Card ha come protagonisti degli adolescenti per uno scopo ben preciso legato alla storia, ma non li identifica e non li insegue come pubblico. Ender funziona come funziona L’Isola del Tesoro, altro classico per ragazzi che però contiene uno dei personaggi moralmente più ambigui della letteratura moderna. Non sono libri tagliati suoi giovani, bensì

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libri dalla voce così limpida e potente da saper muovere anche i sentimenti dei giovani. A differenza dei lettori di primissima età, non ritengo che i giovani abbiano bisogno di essere particolarmente guidati; sono loro stessi, coi loro gusti e la loro soglia d’interesse, a selezionare le loro letture. Un bell’esempio di questa teoria è Among Others di Jo Walton (2011), dove la protagonista legge fin al più ‘scabroso’ libro a portata di mano, ricavandone le sue personalissime riflessioni. Nella quasi totalità degli young adult più celebri invece si decide di affrontare di petto temi ‘alti’ o difficili, come la morte, la malattia, la guerra, la sofferenza (vedi tutte le distopie), ma l’approccio spesso non è sincero fino in fondo e raramente viene portato alle sue naturali conseguenze. Letti con gli occhi di un adulto, molti si rivelano essere libri quasi monchi, restii a tirare le fila del discorso, a volte forzatamente ottimisti. Non credo che i lettori meritino questo, né da adulti né da giovani. Orson Scott Card è stato più volte accusato da critici e saggisti di descrivere un novello Hitler, di essere costantemente impegnato ad assolvere Ender dal peso morale di quanto compie. Il punto a mio parere è proprio questo: viene sfruttata la giovane età e l’empatia di Ender per crearne il killer perfetto, che nel contesto del gioco risulta il più spietato di tutti, libero come può essere un undicenne dalle implicazioni morali e dai rimorsi che uno stratega veterano non può non affrontare. Ender è un innocente nelle intenzioni, ma paga amaramente per ogni vittoria conseguita. Come osservano i suoi compa-

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gni Alai e Dick, loro non sono veramente bambini, sono anziani veterani di guerra innestati troppo precocemente in corpi che cominciano da poco a fare i conti col ‘dopopartita’. Il libro è costruito per creare un innocente colpevole, per mostrarcene il contraccolpo. Al contrario, nella maggior parte delle distopie giovanili contemporanee, i protagonisti sono costantemente trattenuti dal compiere un atto di vera violenza (di cui è costellata la vita di Ender) o, se lo compiono, sono più che giustificati dall’autore stesso e non ne pagano le conseguenze se non in minima parte. Katniss quanto uccide nell’arena degli Hunger Games? Mai, ogni sua azione criminale è dettata dall’assoluta necessità. Pur trovandosi in situazione di vita o di morte, l’autrice Suzanne Collins trova sempre il modo di non farle sporcare troppo le mani. La giovane assiste a morti terribili di innocenti (molte delle peggiori sono però riservate a personaggi moralmente compromessi), ma le viene consentito di scardinare il sistema, di uscirne abbastanza bene, di vincerlo riportando un numero di perdite accettabile, almeno nelle prime fasi della trilogia. Orson Scott Card non concede questo lusso a Ender, a cui non è mai permesso di fuggire davvero dal gioco, anzi, più viene a conoscenza degli antefatti più se ne scopre colpevole. Non che Card sia un faro luminoso di coerenza intellettuale. Difficile però non aspettarsi le sue sparate omofobe, data la sua stretta aderenza alla chiesa mormone (e molti suoi ragionamenti scorrono a basso voltaggio anche in Ender, di pari passo a uscite sorprendentemente liberali). <


ORSON SCOTT CARD

31 marzo 2015: l’autore firma un volume alla ‘Great Hall’ del Ripon College (Ripon, Wisconsin, Stati Uniti), dove ha partecipato a una conferenza parlando dell’argomento “The World-Nation: Fantasy, Goal or Nightmare?” Foto: ©RIPON COLLEGE

www.ripon.edu

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Cult BOOK

L’oceano che

MATERIALIZZAVA

RICORDI di CUCCU’SSETTE

In un romanzo cardine della fantascienza filosofica, una delle forme di vita aliena più strane mai concepite.

T

RE SCIENZIATI chiusi in una stazione spaziale cercano di svelare l’enigma del pianeta Solaris e del suo unico abitante, un oceano sconfinato. La massa liquida è viva, interagisce con gli studiosi modificando gli impulsi degli strumenti con cui viene esaminata. Dimostra una forma di intelligenza completamente diversa rispetto a quella dell’uomo. È un’entità capace di sondare l’animo umano raggiungendone le pieghe più remote. Indifferente alle possibili conseguenze, si insinua nei ricordi più intimi degli astronauti, li turba al punto da condurli ver-

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so la follia. Concretizza immagini, archetipi e memorie strappate al subconscio, elabora copie quasi perfette di luoghi e persone familiari, tanto che la stazione spaziale finisce infestata da presenze più o meno inquietanti; un esploratore addirittura avvista un neonato gigantesco tra le onde dell’oceano alieno. Il protagonista, Chris Kelvin, ritrova su Solaris la compagna morta suicida dopo un violento litigio. Ma la sua Harey non è risorta per un miracolo divino, né per un prodigio della scienza: la donna che ha davanti è solo un fantasma in carne e


SOLARIS

(Solaris, 1961) di Stanisław Lem SELLERIO EDITORE (2013) traduzione di Vera Verdiani 316 pagine ISBN-13: 9788838929106

ossa, materializzato sulla matrice dei suoi ricordi; una Harey idealizzata, e quindi falsa. È una creazione dell’oceano, o un ‘fenomeno F’, come direbbero i razionali colleghi. Inizialmente in Chris il senso di colpa convive con il ribrezzo. Cerca di sbarazzarsi della ‘creatura’, ma la replica pare indistruttibile: è fortissima, rigenera qualsiasi danno e riappare comunque la si elimini. Poco a poco l’uomo desiste e comincia ad accettare la presenza, fino ad amarla, ad abbandonarsi alla consapevole illusione. Quando Harey prenderà piena coscienza della propria natura, chiederà lei stessa ai compagni del marito di venire distrutta. E sarà accontentata. A Chris non resterà che attendere e sperare che il pianeta gli doni nuovi crudeli miracoli. COMMENTO Era il 1961 quando lo scrittore, filosofo e scienziato Stanisław Lem pubblicò Solaris. La vasta cultura dell’autore, candidato al premio Nobel, traspare in ogni riga, e il romanzo rimane attuale come ogni classico che si rispetti. La solida preparazione scientifica rende credibili le dispute accademiche, le rappresentazioni degli am-

bienti, delle apparecchiature e delle strumentazioni. Gli eventi sono narrati con toni minimalisti, senza indugiare su dettagli superflui che oggi, a distanza di anni, avrebbero potuto apparire sorpassati o involontariamente comici. Le previsioni sul futuro della conquista dello spazio sono verosimili; addirittura si prefigurano stazioni spaziali, videotelefoni, elenchi telematici simili a pagine di internet. I dibattiti accademici, i problemi tecnici, le aspettative della gente riguardo la colonizzazione di Solaris sono analoghi a quelli che oggi interessano Marte.

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STANISナ、W LEM

di WOJCIECHA ZEMKA fonte: Wikimedia Commons

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Le vicende che si svolgono sul pianeta alieno sono tuttavia un pretesto o un mezzo per far riflettere su temi filosofici. Il lettore viene immerso in un’atmosfera opprimente e cupa; razzi e astronavi attraversano lo spazio, si accenna alla colonizzazione della galassia eppure la mente umana e le sue imprevedibili reazioni rimangono un mistero insondabile. I resoconti delle esplorazioni e delle teorie sviluppate nel corso dei decenni possono apparire lenti, forse noiosi, ma sono necessari per fornire verosimiglianza e sottolineare il clima buio che grava sugli astronauti. Stupefacente, a dir poco, è la descrizione della superficie fluida e delle formazioni di plasma pulsante che animano l’oceano vivente. Ogni dettaglio mostra quanto esso sia estraneo e incomprensibile; Lem dà vita all’entità più aliena mai creata. La scienza sembra impotente davanti al suo mistero, priva come è di mezzi idonei a stabilire un contatto. Il liquido comunica usando un linguaggio differente da quello della razionalità; è al di sopra del bene e del male e della morale così come è concepita dall’uomo. Come si può interagire con una simile creatura? I tentativi falliscono: gli scienziati che studiano la creatura sono incatenati da categorie conoscitive antropocentriche, e non riescono neppure a unire i loro sforzi per cercare di affrontare insieme il problema, gravati come sono dall’ombra della follia, dal sospetto, dalla paura dell’ignoto. A loro volta i fantasmi sono come specchi, riflettono solo ciò che già è noto, anche se a volte rimosso dalle coscienze. L’autore a suo tempo descrisse il romanzo come un dramma gnoseologico, e ave-

va ragione. Siamo lontani anni luce dalla fantascienza piena di ingenuo stupore; e la lettura è destinata agli adulti, in particolare a quanti amino l’introspezione e la filosofia. Con ovvi intenti commerciali, alcuni editori hanno cercato di ristampare Solaris e venderlo agli ignari lettori spacciandolo per una love story d’ambientazione futuristica. Diamo pure parte della colpa a Steven Soderbergh e alla sua trasposizione cinematografica (2002), meno riuscita della precedente versione (1972) di Andrej Tarkovskij. Hollywood si è illusa di incassare più dollari esasperando gli aspetti sentimentali a scapito di quelli riflessivi e mistici. Purtroppo per le fan attratte dal faccione di George Clooney, i temi filosofici dominano le pagine. Il romanzo annoierà e deluderà quanti si attendano romanticismo o parentesi piccanti. Per Chris, non c’è mai stata una seconda possibilità: l’Oceano gli ha offerto solamente l’abbandono a una pietosa bugia. Non una love story, ma una dolorosa meditazione sull’impossibilità di cambiare il passato, sul valore del ricordo, sull’inadeguatezza della ragione. Si discute della mai compiuta conoscenza di sé stessi e degli altri, e sulle difficoltà della comunicazione. Si esamina l’inconscio individuale e collettivo, e non a caso il protagonista è uno psicologo. Si mettono in evidenza i limiti della ragione umana, e della scienza, incapace quest’ultima di fornire risposte esaurienti al mistero della vita. Per tutti, sapienti o ignoranti, il bisogno di credere, anche di illudersi, è un’esigenza innata e irrinunciabile. Argomenti poco commerciali ma che rendono Solaris un classico. <

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Reading TIME

Gli esploratori

TERRITORIO

del

‘MUTANTE’ di LUCA GERMANO

La trilogia di Jeff VanderMeer introduce in una zona ignota dove tutto è mistero e trasformazione.

U

NA FORESTA di pini neri, poi pianure salmastre e canali naturali; infine un faro spento in riva all’oceano. È quanto racchiude la misteriosa Area X, un territorio degli Stati Uniti oramai disabitato e tagliato fuori dal resto del mondo, in cui gli esseri viventi e le stesse leggi naturali paiono aver subito una radicale trasformazione. Il suo confine è sorvegliato da trent’anni dall’agenzia governativa Southern Reach, incaricata di celarne l’esistenza e al contempo indagarne i più reconditi segreti, a iniziare dall’origine. Ora, due anni dopo

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l’ultima spedizione, quattro donne, che non conoscono nulla l’una dell’altra se non le aree scientifiche di competenza (antropologia, topografia, biologia e psicologia), vengono inviate oltre quel confine. Non portano con sé bussole, né orologi, né apparecchiature sofisticate come dispositivi di rilevamento, computer, videocamere, telefoni cellulari… Dispongono solo di una strana scatola nera che ciascuna di loro porta appesa alla cintura; se la spia presente in quegli apparecchi dovesse accendersi, l’ordine è di trovare un riparo sicuro, entro trenta minuti. Non


ANNIENTAMENTO

(Annihilation, 2014) di Jeff VanderMeer Southern Reach Trilogy #1 EINAUDI (2015) traduzione di Cristiana Mennella 186 pagine ISBN-13: 9788806218287

è noto tuttavia cosa possano effettivamente rilevare le scatole o quale sia il pericolo dal quale doversi riparare, né tanto meno quali luoghi possano considerarsi sicuri. Poche anche le armi: solo alcune pistole e un fucile da combattimento. Eppure l’Agenzia sa bene che l’Area X tende insidie di ogni tipo. Tanto è vero che tutte le precedenti spedizioni si sono concluse con un fallimento: pochi sono tornati – in circostanze e con modalità non chiare – e anche quei pochi sono presto deceduti. In quanto alle cittadine inghiottite dall’Area X, di esse non rimangono che tracce desolanti: automezzi arrugginiti ed edifici crollati. Le componenti della spedizione sono quindi comprensibilmente preoccupate: più che credere alla possibilità di una qualche soteriologica scoperta, la loro sensazione è quella d’essere destinate a fare la stessa inquietante fine di chi le ha precedute. “Ci chiedevano soltanto di prendere appunti, come questi, su un diario, come questo: leggero ma praticamente indistruttibile, di carta impermeabile, copertina flessibile bianca e nera, righe blu orizzontali per scrivere e riga rossa a sinistra a segnare il margine. I diari avrebbero fatto ritorno con noi o sarebbero stati recuperati dalla spedizione seguente”. Tra meraviglia e straniamento, il lettore viene condotto per la prima volta nell’inquietante Area X proprio attraverso le pagine di uno di questi diari, quello della

biologa (della quale non viene mai svelato il nome). È lei l’unica voce narrante in Annientamento (Annihilation), primo volume di questa Trilogia dell’Area X (Southern Reach Trilogy, 2014), scritta da Jeff VanderMeer. L’autore trasfigura e sublima gli ambienti naturali che ha visitato e che più lo hanno colpito in gioventù: la Georgia rurale, l’Isola di Vancouver, ma soprattutto i boschi di conifere che digradano nelle paludi e nelle spiagge del St. Marks National Wildlife Refuge, un’area di circa 280 km2 in Florida, a mezz’ora d’auto da Tallahassee dove VandeerMeer risiede. Lì è situato un antico faro, in cui l’autore s’imbatté per la prima volta nel corso di una delle sue frequenti escursioni nella regione, e

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accadde per puro caso durante una tempesta: dello stupore e del timore che allora lo sopraffecero rimane ben più che una semplice traccia nelle pagine della trilogia. Non si tratta all’evidenza soltanto del riconoscere nell’antefatto del romanzo non pochi elementi caratterizzanti la storia di quel faro (dall’amore contrastato consumato tra le sue mura, alla solitudine appartata eppur appagante del più longevo custode), quanto piuttosto della facilità con cui si percepisce la drammaticità esistenziale di quell’incontro. Citando la descrizione che Paolo Rumiz (ne Il Ciclope) fornisce del faro di Pelagosa: vi sono luoghi che ti fanno capire che “oltre al lumino della tua esistenza, c’è l’incommensurabile nulla… Quello stra-

piombo è la rappresentazione del mistero, sei davanti a qualcosa che ridicolizza le miserie degli umani…”. È quanto, seppur con toni e immagini diverse, comunica anche VanderMeer. La realtà viene deformata: l’autore plasma apparizioni bizzarre, trasmuta oggetti noti in inquietanti alieni, soffondendoli di un alone di mistero e alterità, in un’atmosfera di irriducibile decadenza. Annientamento procede in effetti tanto per suggestioni e per immagini evocative quanto per minuziose descrizioni, giustapponendo elementi naturalistici e sovrannaturali. Ma anche quando i limiti dell’oggetto di osservazione sono definiti o comunque definibili, egualmente l’essenza pare estranea. Ogni cosa nell’Area X, vegetale, animale o minerale che fosse in origine, è oramai trasformata in modo irreversibile e partecipa di una diversità che tanto è immanente quanto incomprensibile per l’uomo. Così la biologa, esperta in ambienti di transizione, che da subito sembra avere un modo tutto particolare di rapportarsi con l’Area X, trasmette di pagina in pagina un senso di resa inesorabile innanzi a qualcosa di indefinito, che soverchia la fragilità umana. La metafora ecologista, dove la natura nella sua essenza appare immensa, assoluta e inarrivabile, non è evidentemente estranea al romanzo. Dei dieci libri che hanno giocato un ruolo fondamentale nella stesura, VanderMeer

AUTORITÀ

(Authority, 2014) di Jeff VanderMeer Southern Reach Trilogy #2 EINAUDI (2015) traduzione di Cristiana Mennella 288 pagine ISBN-13: 9788806218294

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ACCETTAZIONE

(Acceptance, 2014) di Jeff VanderMeer Southern Reach Trilogy #3 EINAUDI (2015) traduzione di Cristiana Mennella 280 pagine ISBN-13: 9788806218300

– figlio di attivisti – cita per primo Under the Sea-Wind (1941), della biologa Rachel Carson, un vero e proprio manifesto ambientalista. Non a caso, nel romanzo, la Southern Reach impedisce l’accesso all’Area X ricorrendo all’espediente di un finto e non meglio specificato disastro ecologico. Eppure in Annientamento non si parla di ricomporre un dialogo interrotto tra uomo e ambiente – tema abusato –, o di recuperare un’identità perduta attraverso il contatto con la natura; è anzi l’opposto: incomunicabilità insuperabile e trasformazione irreversibile, icasticamente rappresentate dal ritorno inutile di qualcuno dei precedenti esploratori, identico nell’aspetto ma cambiato in modo radicale, e incapace di trasmettere informazioni utili su quanto vissuto; o dalla biologa stessa (già senza nome), ogni cui passo all’interno dell’Area X l’allontana da ciò che è per condurla a qualcosa di diverso. Nonostante le limpide immagini offerte da albe e tramonti che fanno trasognare nella loro assolutezza, oltre il limite dell’orizzonte non c’è la Natura, tantomeno Dio, quanto piuttosto il Nulla. Il nichilismo del primo romanzo non sembra lasciare spazio a rassicurazioni. L’ineluttabilità della resa innanzi all’ignoto incomprensibile è rimarcata in Autorità (Authority), secondo volume della trilogia. Attraverso gli occhi di un nuovo protagonista, John Rodriguez, il lettore viene ora

rapidamente immerso nelle trame di rivalità, antipatie, avversioni personali, tutte interne alla Southern Reach, in teoria baluardo dell’umanità contro l’ignoto, in realtà rovina inquietante e insidiosa tanto quanto l’attigua Area X. Incaricato di sostituire la precedente direttrice, Rodriguez, soprannominato ‘Controllo’, pare invece non riuscire a ‘controllare’ proprio nulla, a cominciare dalla sua vita. Schiacciato dall’ombra opprimente della madre che da tempo ricopre ruoli di responsabilità nei servizi segreti, e avvilito per una carriera prematuramente compromessa da un imperdonabile errore, vorrebbe trovare nel nuovo incarico l’occasione per riabilitarsi, ma a mancargli sono speranza, obiettivi e per-

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sone di fiducia. In effetti, tutti i ricercatori nella Southern Reach paiono svuotati di ogni energia e si aggirano all’interno dell’istituto come fantasmi in un vascello alla deriva. Abbandonato il ritmo incalzante del primo romanzo, VanderMeer ne mantiene l’atmosfera rarefatta e decadente, non riuscendo tuttavia a rapire il lettore, benché nello sviluppo della storia vengano forniti nuovi indizi su quanto accaduto nell’Area X, si disveli il risultato di inquietanti esperimenti e il destino delle precedenti spedizioni, si pongano nuovi interrogativi e si presentino nuovi misteri. Il colpo di scena improvviso, che sostanzialmente chiude il secondo volume della trilogia – troppo lungo e lento –, riaccende fortunatamente tutto l’interesse che Annientamento aveva saputo destare e amministrare. Lo stile cambia ancora nel terzo volume, Accettazione (Acceptance): frequenti flashback ricostruiscono quanto avvenuto prima e durante la spedizione delle quattro donne narrata in Annientamento. Così viene fatta luce sui reali intenti della direttrice scomparsa, sulla sua vita, sul perché delle sue scelte e delle sue azioni;

si viene coinvolti nelle vicende del guardiano del faro e condotti all’origine dell’Area X. Intanto, con Controllo, si cerca di porre argine a ciò che pare inarrestabile. Come spiega l’autore stesso, se nel primo romanzo viene narrata l’ultima spedizione nell’Area X e l’intero secondo romanzo funge esso stesso da diario di spedizione all’interno della Southern Reach, nel terzo non potevano che porsi a confronto le testimonianze raccolte nelle precedenti esperienze per fornire un quadro complessivo della storia. Alla fine l’impressione è che VanderMeer dia effettivamente spiegazione a tutti i misteri, intessendo trame strutturate e convincenti. La conclusione è logica conseguenza delle premesse, l’accettazione dell’inevitabile, una riformulazione di un corollario del tetrafarmaco epicureo riassumibile nel pensiero di una delle protagoniste: “Non c’era nulla da temere. Perché temere quello che non puoi evitare? Che non vuoi evitare?”. Dalla fantascienza all’horror, dal thriller alla spy story, la Trilogia dell’Area X abbraccia generi molto diversi tra loro, ricombinandone elementi e tratti, e presentandosi, nelle intenzioni dell’autore, quale compiuto esempio di quel particolare genere chiamato new weird, di cui VanderMeer e la moglie Ann (curatrice per anni della nota rivista Weird Tales) hanno cercato di fornire definizione nell’introduzione all’antologia The New Weird (2008). Le caratteristiche principali sono appunto la contaminazione di più generi, la presenza di elementi bizzarri funzionali alla creazione del ‘senso del

JEFFREY SCOTT VANDERMEER

foto: ©KYLE CASSIDY fonte: www.jeffvandermeer.com

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FARO DI ST. MARKS

Uno scatto incantevole del faro al tramonto; ci troviamo nel St. Marks National Wildlife Refuge, in Florida (USA). foto: ©BOB HARTMANN www.bobhartmann.com

meraviglioso’ e, al contempo, la particolare cura della coerenza e verosimiglianza nella struttura della storia. Definizioni a parte, il viaggio nel quale VanderMeer conduce il lettore è totalmente appagante grazie a stili e forme adeguati ai contenuti, a un afflato immaginifico vigoroso, a una capacità evocativa sorprendente. Ci si lascia catturare dal vortice degli enigmi e dalla ricchezza di indizi, tutti indecifrabili, alieni, stranianti; come quella scritta astrusa e contorta che licheni luminosi disegnano sulle pareti di un tunnel (che non è un tunnel). Nel confronto con la scrittura lineare, pulita, essenziale propria della mano dell’autore, pare più aliena delle creature

immonde che popolano la sua immaginazione: “Dove giace il frutto soffocante che giunse dalla mano del pescatore io partorirò i semi dei morti per dividerli con i vermi che si raccolgono nelle tenebre e circondano il mondo col potere delle loro vite mentre dagli antri oscuri di altri luoghi forme che non potrebbero mai essere si contorcono impazienti per i pochi che non hanno mai visto o non sono mai stati visti…” Negli occhi della mente rimangono immagini suggestive che sono tutte metafora dell’esistenza umana, disfatta in una ricerca priva di utilità e annichilita innanzi all’ineluttabile e all’incommensurabile. Nessuno dei protagonisti può uscire vincente, o si tradirebbe il senso stesso della storia. Eppure, in ultimo, una speranza si apre, inaspettata e, sostanzialmente, incomprensibile. Non tanto un cedimento alla necessità aprioristica di un happy end, quanto piuttosto un ultimo interrogativo rivolto al lettore… <

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Reading TIME

Se l’oscurità

SI COLORA

DI BIANCO... di MARCO PULITANÒ

Un José Saramago in vena postapocalittica esplora gli abissi di ferocia e degrado che esplodono nel contesto sociale quando l’unico scopo diventa il sopravvivere.

F

ERMO A UN semaforo, un automobilista si trova a fronteggiare un’improvvisa forma di cecità. Il semaforo passa dal rosso al verde e le macchine in fila dietro lui suonano e protestano perché lo sventurato, in preda al panico, blocca il traffico. Le persone attorno si accorgono che qualcosa non va e lo aiutano a spostarsi dal centro della strada. E mentre il traffico riprende il suo corso normale, uno sconosciuto si offre di mettersi alla guida della vettura per aiutare l’automobilista a raggiungere casa. Una volta là, il dispera-

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to attende il ritorno della moglie per farsi accompagnare dall’oculista ma, proprio mentre si stanno recando dal medico, si trovano a fronteggiare una seconda brutta sorpresa: il ‘buon samaritano’ di prima si rivela un ladro che ha prontamente approfittato dello smarrimento e della confusione per rubargli l’automobile. La visita oculistica non è portatrice di notizie rassicuranti, infatti l’esame del medico non riesce a rilevare alcunché di anomalo. Dal punto di vista fisico, tutto sembra perfettamente a posto: l’improv-


CECITÀ

(Ensaio Sobre a Cegueira, 1995) di José Saramago FELTRINELLI (2013) traduzione di Rita Desti pagine 288 ISBN-13: 9788807881572

visa cecità che ha colpito l’uomo non sembra avere alcuna spiegazione. Come nessuna spiegazione viene trovata per l’epidemia di cecità che, a partire da questo primo caso, sembra espandersi a macchia d’olio in modo tanto veloce quanto incontrollabile. Dopo l’automobilista, toccherà a sua moglie e al ladro diventare ciechi, e dopo di loro all’oculista, poi ai pazienti di quest’ultimo che si trovavano seduti nella sala d’attesa e così via. L’unica persona che per qualche inspiegabile motivo sembra essere immune dal contagio è la moglie del medico, che per rimanere vicina al marito arriverà a fingere di aver perso anche lei la vista, facendosi internare insieme a lui nel manicomio dove il governo rinchiuderà i ciechi e chi è entrato in contatto con loro, nel tentativo di porre un argine al diffondersi del male. Oltre all’aspetto epidemico, una seconda caratteristica risulta peculiare di questa cecità: anziché piombare nell’oscurità, la vista dei ciechi si trova avvolta da un biancore intenso. Mentre quello che viene battezzato ‘mal bianco’ si diffonde inarrestabile, all’interno del manicomio dove sono confinati i protagonisti si consuma una tragedia che intreccia umanità e dinamiche

del potere. Inizialmente sembra che la violenza del potere si esprima attraverso l’azione del governo, che usa un esercito autorizzato a sparare ad alzo zero in caso di minaccia, pur di tenere segregati i malati e tutti quelli che considera potenzialmente contagiati. Ma con il proseguire della storia appare sempre più chiaro che i confini stabiliti dall’esercito non sono altro che l’orizzonte entro il quale si consumano le vere violenze: quelle dei ciechi tra loro. Il progressivo disgregarsi

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di qualsiasi forma di autorità e controllo fa sì che gli egoismi – prima non assenti ma comunque tenuti a bada da una forza cogente – emergano con prepotenza. A partire dallo sfruttamento della difficoltà per ingannare il prossimo e appropriarsi di una quantità maggiore cibo (tutt’altro che abbondante), fino ad arrivare al disinteresse nei confronti dei cadaveri (abbandonati alla decomposizione in quanto esigenza secondaria rispetto al mangiare e al riposare), quella cui si assiste è la parabola non di una disgregazione quanto piuttosto dell’affiorare senza filtri di pulsioni già presenti nei singoli individui. La moglie del medico, unica vedente in mezzo alla moltitudine di ciechi, non solo non gode di alcun privilegio particolare derivante dalla sua condizione, ma al contrario è suo malgrado testimone dell’orrore nel quale lei e le persone a lei vicine si trovano immerse. Ciò che per al-

tri è solo suono, superficie o odore, al suo sguardo si rivela in tutta la sua mostruosità, tanto da farle affermare: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”. Ed è proprio in questo ‘non vedere pur vedendo’ che si radica in profondità l’origine del mal bianco. La condizione di chi ne viene colpito è più simile a quella di chi viene abbagliato da una luce intensa, che non a quella di chi si trova immerso nell’oscurità. Il buio può essere contrastato facendo ricorso ad una fonte di luce, ma non esiste modo di contrastare una luce abbagliante, se non interagendo con la stessa – proteggendo lo sguardo dalla sua forza o allontanandosi dalla sua sfera d’azione. La cecità dovuta al mal bianco non è una forma di ignoranza (storicamente associata perlopiù alle tenebre), quanto piuttosto un’allegoria dell’ideologia (intesa in senso lato). Se le tenebre dell’ignoranza possono essere diradate solo dalla luce del sapere, quando questa diventa talmente forte da non permettere di vedere altro che non sia essa stessa (o comunque attraverso il suo filtro) si ha l’ideologia. La cecità narrata da José Saramago, il mal bianco che si diffonde a macchia d’olio e che fa sì che la moglie del medico arrivi a constatare la realtà di un mondo popolato di ciechi che vedono, è un’epidemia che lascia intatto il corpo perché va a intaccare lo sguardo e la mente. Il mal bianco è la luce che cancella il mon-

JOSÉ SARAMAGO

foto: ©JUAN MAR www.jjuanmar.blogspot.com

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AL CINEMA

Tratto da questo romanzo di Saramago, nel 2008 esce nelle sale Blindness - Cecità (Blindness), diretto da Fernando Meirelles, con Mark Ruffalo e Julianne Moore nei ruoli del dottore e di sua moglie.

do e cancella gli altri, i quali, a loro volta privati di un volto, diventano entità quasi astratte: è l’ideologia che cancella il prossimo riducendolo a un segno distintivo. Non a caso, il romanzo si svolge in un tempo indeterminato in un paese senza nome, e nemmeno i personaggi stessi sono dotati di un’identità. Ogni volta che qualcuno prova a chiedere il nome ad altri, la risposta è che i nomi non hanno più importanza. Dietro il velo del mal bianco, ogni personaggio si riduce a essere catalogato secondo una caratteristica (sia

essa fisica o sociale): il medico, la moglie del medico, il ragazzino strabico, il vecchio con la benda nera su un occhio, la ragazza con gli occhiali scuri… Perché in fondo questo è quello che fa un’ideologia: cancellare il volto e il nome degli altri riducendoli a singole caratteristiche. Visti attraverso il filtro delle ideologie, gli altri perdono il loro volto per essere ridotti a uno schieramento politico, a una scelta religiosa, a uno stile di abbigliamento o a una divisa indossata, al colore della pelle o all’appartenenza a una etnia o nazionalità, a una particolare abitudine alimentare, a un tipo di sessualità… E allora non basta un apparato visivo che funziona: chi così osserva non è altro che un cieco colpito dal mal bianco, il male di chi pur vedendo non riesce a vedere il volto altrui. <

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LA SCIENZA che prevede il

FUTURO

di FABRIZIO MELODIA

Un originale elemento che caratterizza la più nota delle saghe fantascientifiche asimoviane.

U

NA DELLE MIGLIORI opere di Isaac Asimov è il Ciclo della Fondazione, un affresco storico-fantascientifico di portata epocale. Asimov raccontava spesso come tale ciclo avesse avuto origine, in un giorno molto particolare. Era andato a trovare John Wood Campbell (direttore della rivista Astounding Science Fiction), per vedere se fosse possibile realizzare qualche racconto da vendergli. Asimov all’epoca

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– parliamo dei primi Anni ’40, quando il narratore era pressoché debuttante (esordì nel 1939 con il bellissimo racconto Naufragio al Largo di Vesta) – stava leggendo l’opera monumentale di Edward Gibbon, Declino e Caduta dell’Impero Romano. Nella saletta d’aspetto di Campbell ebbe l’illuminazione di proporgli un racconto riguardante gli imperi galattici. L’idea piacque talmente a Campbell che quest’ultimo lo esortò a mettersi subito


FABBRICANTI di Universi

FOUNDATION FACILITY

di: ©VILLE ASSINEN

Una remota struttura di ricerca della Prima Fondazione, in qualche mondo lontano. e-will.deviantart.com

alla macchina da scrivere. Discussero animatamente: l’impero galattico sarebbe dovuto essere in piena fase di decadenza e le vicende avrebbero dovuto mettere in luce un Medioevo della durata di oltre diecimila anni; ma Campbell, che per i suoi autori fungeva da vero e proprio editor, con un carattere spesso decisamente preponderante, fece notare la ben scarsa pregnanza del generico concetto di ‘medioevo galattico’. Riflettendoci su, il giovane Asimov fece allora entrare in scena il matematico eliconiano Hari Seldon, creatore di una nuova scienza, la psicostoria. Sarà questa nuova disciplina a permette-

re all’umanità di sopravvivere alla decadenza, promuovendo la realizzazione ‘ai confini estremi’ dell’Impero di una nuova colonia chiamata Fondazione. Attraverso interventi politici, sociali e commerciali ben pianificati, la psicostoria consentirà alla colonia di prosperare bene, e sarà il motore propulsivo per il concretizzarsi di una nuova unità interplanetaria, accorciando i tempi del Medioevo dagli stimati diecimila anni ad ‘appena’ mille anni. Ovviamente il giovane scrittore – che sarebbe poi diventato il Buon Dottore – non poteva sapere che quella sua creazione avrebbe aggregato tutti i suoi cicli principali, consentendogli di disegnare una

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CRONACHE DELLA GALASSIA

(Foundation, 1951) edizione Oscar Fantascienza MONDADORI, 1974

ESORDIO

Il primo tassello dell’Universo della Fondazione fu il racconto Foundation, apparso nel numero di maggio, 1942, della rivista Astounding Science Fiction.

IL CROLLO DELLA GALASSIA CENTRALE

(Foundation and Empire, 1952) edizione Oscar Fantascienza MONDADORI, 1974

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mappa dell’universo davvero unica nel suo genere: fra l’altro praticamente priva di presenze aliene, cosa assolutamente originale ancora oggi. Un’analogia recente nel genere fantastico si può trovare in ciò che ha fatto George R. R. Martin con il suo ciclo del Trono di Spade, un epico affresco in un mondo fantasy dove la magia non è di casa (o quasi), permeato da un pessimismo

cosmico davvero inusuale per il genere. La psicostoria è dunque la silenziosa protagonista del Ciclo della Fondazione, è la scienza attraverso la quale Hari Seldon è in grado di limitare i danni della decadenza salvando l’universo dal caos e dalle guerre. Il che avrebbe fatto molto piacere al filosofo britannico Thomas Hobbes, che non a caso elaborò la propria pessimi-


stica filosofia politica durante il sanguinoso periodo della cosiddetta Guerra delle Due Rose (momento storico che oggi conosce una ventata di freschezza televisiva grazie al serial The White Queen). Hobbes riteneva che il compito della filosofia fosse trovare una soluzione ai problemi della guerra e del sistema politico: rilevò che per avere efficacia, un governo – fosse monarchia, aristocrazia o democrazia – dovesse essere assoluto, ovvero non soggetto a una lotta di predominio. Il crollo dell’Impero Galattico si spiega proprio con l’implicita decadenza d’efficacia del suo sistema, reso di fatto inconsistente, in virtù di quel contratto sociale tanto caro al filosofo Jean Jacques Rousseau. Hari Seldon, valente matematico, è un filosofo della storia, capace di calcolare con estrema esattezza l’andamento degli avvenimenti e di dirigerli con una attenta pianificazione, all’insaputa però degli agenti stessi nella Storia. Hegel non avrebbe approvato questo modo di agire: per lui la filosofia non deve in alcun modo promuovere andamenti o progresso, bensì limitarsi allo studio del

presente e alla comprensione dell’intrinseca necessità delle cose presenti, con il procedimento della logica dialettica. Come si sa, Marx avrebbe preso il buon Hegel per le orecchie usando le leggi della dialettica storica per cambiare il mondo. “La storia mostra che ogni sistema di idee – sia esso religioso, filosofico, giuridico o politico – per quanto fosse rivoluzionario al momento in cui nacque e intraprese la sua lotta per la supremazia, prima o poi diventa un impedimento e un ostacolo allo sviluppo ulteriore, diventa cioè una forza socialmente reazionaria. Ha potuto sfuggire a questa fatale degenerazione soltanto la teoria che si è elevata al di sopra di essa coscientemente, che ha saputo renderne conto e metterne in luce le cause. Questa teoria è stato il marxismo” scriveva Aleksandr Aleksandrovič Bogdanov. E se, leggendo questo brano, vi viene in mente ‘l’ambigua utopia’ di Ursula Le Guin… Hari Seldon comprende alla perfezione – studiando la storia del pianeta d’origine dell’impero Galattico, cioè la Terra – le leggi che determinano l’andamento delle vicende umane, e ne trae una attenta matematizzazione

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L’ALTRA FACCIA DELLA SPIRALE

(Second Foundation, 1974) edizione Oscar Fantascienza MONDADORI, 1984

L’ORLO DELLA FONDAZIONE

(Foundation’s Edge, 1982) edizione Oscar Fantascienza MONDADORI, 1985

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FONDAZIONE E TERRA

(Foundation and Earth, 1986) edizione Altri Mondi MONDADORI, 1987

CICLO DEI ROBOT POSITRONICI

Un'immagine dal film Io, Robot (I, Robot, 2004). L’intera saga degli androidi dal cervello positronico, con i suoi molteplici eroi e le celebri Tre Leggi della Robotica, fa parte integrante dell’universo narrativo della Fondazione.

PRELUDIO ALLA FONDAZIONE

(Prelude to Foundation, 1988) edizione Altri Mondi MONDADORI, 1989

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tradotta in equazioni. Le linee di tendenza mostrano che l’Impero Galattico – ovvero l’impero Romano in una delle sue molte reincarnazioni – è destinato a crollare perché preda delle sue intrinseche contraddizioni, a cominciare dallo schiavismo, primo ma non unico motore del cedimento. Così il determinismo storico procede spedito, senza per questo vanificare l’ap-

porto dell’essere umano, in realtà esentandolo. Usando la Ragione, in questo caso la matematica e la scienza psicostorica, si possono prevedere e indirizzare adeguatamente le vicende umane, mirando al raggiungimento della libertà e della pace? Sì, per il giovane Asimov. In sostanza l’impero Galattico viene salvato dal ‘marxismo’ di Seldon, messo a punto molti secoli dopo la


devastazione della superficie terrestre e la migrazione degli umani su altri mondi, terraformati per la colonizzazione. Ecco come il processo di autocoscienza dell’umano trova il massimo culmine nel ‘Progetto Seldon’ e, per traslato, la fantascienza assume ancora una volta il ruolo di pratica filosofica per eccellenza: grazie a essa, si diventa consapevoli dei processi che muovono il mondo e si discute del modo corretto per usarli. “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi. Ora si tratta di usare queste interpretazioni per

cambiarlo” avrebbe efficacemente sintetizzato Karl Marx, sicuramente uno dei riferimenti fondamentali di Hari Seldon per formulare i princìpi della psicostoria. “[…] nella natura sono operanti, nell’intrico degli innumerevoli cambiamenti, quelle stesse leggi dialettiche del movimento che anche nella storia dominano l’apparente accidentalità degli avvenimenti; quelle stesse leggi che, costituendo del pari il filo conduttore della storia dello sviluppo del pensiero umano, diventano gradualmente note agli uomini che pensano; leggi che per la prima volta furono sviluppate da Hegel in maniera comprensiva, ma in forma mistificata, e che è stato uno dei nostri intenti liberare da questa forma mistica e rendere chiaramente comprensibili in tutta la loro semplicità e universale validità”: così scriveva Friedrich Engels nella prefazione alla seconda edizione (1885) dell’Anti-Dühring (1878), non pensando minimamente che la fantascienza avrebbe usato tali idee per uno degli affreschi più suggestivi e coinvolgenti partoriti da una delle sue menti più brillanti, quella dell’enciclopedico dottor Isaac Asimov. <

FONDAZIONE ANNO ZERO

(Forward the Foundation, 1993) edizione Altri Mondi MONDADORI, 1993

GLI AMICI DI FONDAZIONE

(Foundation’s Friends, 1989) Autori Vari SPERLING & KUPFER, 1990

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Cult BOOK

HANGING ROCK

Un tratto di sentiero che conduce alla sommità della ‘Roccia’. foto: ©ZINA SOFER

zissimage.com flickr.com/photos/zissimage

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Percorrendo

di IVANO LANDI

I SENTIERI

DEL SOGNO Un finale perduto e ritrovato; un significato riposto nel cuore metafisico dell’Australia.

UN CLUB ESCLUSIVO “...il Mistero del Collegio, come quello del famoso caso della Mary Celeste, rimarrà probabilmente per sempre insoluto”: è con queste parole che si conclude il romanzo Picnic a Hanging Rock (Picnic at Hanging Rock, 1967) di Joan Lindsay, nella versione ufficiale che possiamo acquistare in qualsiasi libreria. Niente da eccepire: è il degno finale di un romanzo che fa del mistero il suo cuore pulsante. La storia, a grandi linee, narra di un evento avvenuto il 14 febbraio 1900 nel Sud dell’Australia, non lontano da Melbourne, ai piedi di una imponente formazione geologica conosciuta con il nome di Hanging Rock, durante una gita organizzata da un prestigioso istituto di istruzione superiore per ragazze altolocate. Nel pomeriggio, tre delle allieve più grandi, Miranda, Irma e Marion, ottengono il permesso di allontanarsi dal gruppo per vedere la ‘Roccia’ da vicino. A loro

“We give our children guns and computer games [...] They gave their children the land.”

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da The Songlines 41


si accoda una quarta allieva più giovane, di nome Edith, che poco dopo torna sola e in preda a un’acuta crisi di nervi, incapace di spiegare cosa sia successo alle sue tre compagne, inoltratesi lungo uno dei sentieri che si inerpicano su Hanging Rock. Come se non bastasse, durante le prime concitate fasi delle ricerche, anche l’insegnante di matematica Greta McCraw svanisce nel nulla. Delle quattro scomparse, solo Irma sarà ritrovata: alcuni giorni dopo, sulla Roccia, da due giovani che si sono improvvisati detective. È viva e tutto sommato in buone condizioni fisiche, ma immemore di quanto accaduto. Resta dunque l’enigma di queste sparizioni, ma le indagini necessarie sono state svolte e non si percepisce in alcun modo

STRANE FORME

Una delle tante, anomale configurazioni rocciose che caratterizzano Hanging Rock. foto: ©ZINA SOFER zissimage.com flickr.com/photos/zissimage

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il libro come mancante di un finale. Eppure nel tempo qualche raro lettore, forse meno frettoloso degli altri, si è accorto che qualcosa nella storia non quadra. Una di queste persone, un professionista dell’editoria di nome John Taylor, divenne in seguito l’agente letterario di Joan Lindsay, nonché l’autore di un breve saggio dedicato proprio al mistero del finale assente: The Invisible Foundation Stone (1987). Ma cominciamo dall’inizio, cioè dagli anni ’70 del secolo scorso, quando Mr Taylor fu incaricato (in qualità di promotion manager della casa editrice che aveva pubblicato il romanzo, la Cheshire di Melbourne) di gestire la questione dei diritti cinematografici. Doveva in pratica incontrare i vari pretendenti alla realizzazione di un film tratto dal libro, e decidere a chi fosse meglio affidare il compito. La sua scelta cadde infine su Patricia Lovell e Peter Weir, rispettivamente produttrice e regista, che egli condusse personalmente a incontrare la scrittrice.


La sua descrizione dell’incontro è così spassosa che merita di essere riportata per esteso: “Come d’abitudine con Joan, lei decise subito che erano loro [Lovell e Weir] le persone giuste e avremmo potuto andarcene già dopo cinque minuti. Passammo però un piacevole pomeriggio a conversare e guardare le sue foto, e a subire il suo fascino – un effetto che lei produceva senza nessuno sforzo o artificio. Io naturalmente, essendo un professionista dell’editoria, non avevo letto il libro. Le persone nel campo dell’editoria raramente hanno tempo di leggere qualcosa – un fatto che dà conto di gran parte delle tensioni che si accumulano tra loro e gli autori. Gli editori identificano i singoli libri con i loro ‘titoli’ e qualificano un insieme di più libri come un ‘elenco’. Gli elenchi di titoli sono tutto ciò con cui ha a che fare l’editoria. Le pagine stampate vere e proprie portano via troppo tempo. Ero di conseguenza disorientato da alcuni punti della conversazione che vertevano su qualcosa tipo un mistero insoluto. Io annuivo con convinzione, mentre dicevo a me stesso che era meglio che mi procurassi una copia del libro da legge-

re nel weekend; cosa che poi feci. La volta successiva che vidi Joan, le dissi che avevo notato alcune cose che non tornavano e avevo tratto delle conclusioni. «Ah», rispose, «sei una delle poche persone che se ne sono accorte». Ero contento di essere entrato a far parte di un club esclusivo”. Ciò di cui si era accorto John Taylor, e con lui le persone che facevano parte del ‘club esclusivo’, era un’incongruenza presente nel terzo capitolo del libro, quello che racconta la sparizione delle ragazze. Prima troviamo scritto: “Le felci lasciarono presto il posto a una fascia di arbusti folti e spinosi che terminava in una sporgenza rocciosa, tanto alta da giungere loro fino alla cintura. Miranda fu la prima a uscire dalla boscaglia [...] Si ritrovarono su una piattaforma quasi circolare racchiusa tra rocce, macigni e pochi alberelli dritti. Irma scoprì subito una specie di feritoia in una delle rocce e contemplava affascinata, laggiù, il campo del picnic”. Poi, solo poche pagine dopo: “Miranda avanzava per prima mentre le altre ragazze si dovevano aprire un varco attraverso i cornioli, ed Edith

Rarità geologica Il Monte Diogene, comune-

mente chiamato Hanging Rock, è una formazione geologica di origine vulcanica, creatasi circa 6 milioni di anni fa e facente parte del complesso di Macedon Ranges, nello Stato del Victoria, Australia Meridionale. È situato a circa 80 km a nord di Melbourne, e si alza di 105 m rispetto alla pianura circostante (718 m s.l.m.). La rilevanza della ‘Roccia’ nella cultura e nella religione dei nativi è sovente esagerata (anche a scopo turistico) rispetto alle reali evidenze storico-sociali, ma il territorio su cui sorge è comunque legato alla popolazione aborigena, che lo abita da almeno 26.000 anni; in particolare, gli storici vi associano i clan Woiwurrung (o Wurundjeri), Dja Dja Wurrung e Taungurung. Consistente in una fuoriuscita magmatica rapidamente raffreddatasi e spaccatasi, composto da un raro tipo di trachite (esistente solo in quella zona e in alcune aree della Scandinavia), poi modellato dall’azione erosiva degli elementi, Hanging Rock affascina per le sue forme bizzarre: un autentico festival di pinnacoli, fratture verticali, crepacci e massi enormi adagiati uno sull’altro. La Roccia, fulcro della Hanging Rock Recreation Reserve, è oggi una delle più frequentate mete turistiche dello Stato del Victoria.

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PICNIC AT HANGING ROCK

prima edizione originale CHESHIRE PUBLISHING, 1967

PICNIC A HANGING ROCK

SELLERIO EDITORE, 1993 ISBN-13: 9788838909177

arrancava dietro a loro. [...] La piattaforma semicircolare sulla quale adesso erano sbucate aveva quasi la medesima configurazione di quella più in basso, circondata di massi e di pietroni sparsi. Cespugli di felci gommose, immobili nella luce diafana, non proiettavano alcuna ombra sul terreno di secco muschio grigio. La pianura sottostante si vedeva appena, infinitamente vaga e lontana. Aguzzando lo sguardo tra i massi, Irma distingueva lo scintillio dell’acqua e minuscole figurine che andavano e venivano tra banchi di fumo rosato, o di nebbia”. L’impressione che ebbe Taylor leggendo fu che la stessa scena, per qualche misterioso motivo, fosse stata descritta due volte in due modi diversi. E poiché finivano così per esserci due salite e due piattaforme semicircolari là dove ne esistono effettivamente solo una e una, la topografia nel romanzo non coincideva più con quella fisica di Hanging Rock – con grave disagio, va aggiunto, per i tanti escursionisti che si proponevano di ripetere sulla Roccia lo stesso percorso descritto nel libro. Ma cos’era successo esatta-

mente? Era successo che alla casa editrice di Melbourne, al momento di pubblicare il libro, avevano richiesto a Joan Lindsay il consenso di omettere il diciottesimo e ultimo capitolo, e lei aveva acconsentito. E per supplire alla carenza di informazioni che derivava dall’eliminazione del finale si era ricorsi all’espediente di prendere una parte di quel capitolo e trasferirla nel capitolo 3. Di qui la ripetizione. Ed è a questo punto che entra in gioco la scoperta di John Taylor: “Cosa avevo scoperto? Niente di più che alcune parole nel capitolo 3 non sembravano starci bene – che i riferimenti a ‘banchi di fumo rosato’ e ‘il battere remoto dei tamburi’ sembravano anticipare eventi successivi e che l’autrice sembrava divertirsi a giocare con il tempo”. Com’è adesso chiaro, alcune parti del capitolo 18 sono state trasferite – senza grande perizia – nel capitolo 3. Il manoscritto usato dall’editore e dal tipografo non è sopravvissuto, così nessuno può esaminare il metodo con cui si è proceduto. A posteriori, sembra più un lavoro di copia-incolla che di riscrittura.

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I CONIUGI LINDSAY

Lady JOAN LINDSAY (Joan a’Beckett Weigall) in una foto del 1925 (ca.) che la ritrae insieme al marito, Sir Daryl. L'immagine è conservata alla State Library of Victoria, Melbourne, Australia.

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Scheda tecnica TITOLO:

Picnic at Hanging Rock

ANNO E PAESE:

1975, Australia

REGIA:

Peter Weir

SCRITTO DA:

Joan Lindsay (romanzo), Cliff Green (sceneggiatura)

FOTOGRAFIA:

Russell Boyd

MONTAGGIO:

Max Lemon SCENOGRAFIE:

David Copping

COSTUMI:

Judith Dorsman

PRODUTTORI:

Hal McElroy, Jim McElroy, A. John Graves (esec.), Patricia Lovell (esec.)

PRODUZIONE:

The Australian Film Commission, BEF Film Distributors, McElroy & McElroy, Picnic Productions Pty. Ltd.

Cast ANNE-LOUISE LAMBERT (Miranda) KAREN ROBSON (Irma) JANE VALLIS (Marion) CHRISTINE SCHULER (Edith) MARGARET NELSON (Sara) VIVEAN GRAY (Miss McCraw) HELEN MORSE (Mlle de Poitiers) DOMINIC GUARD (Michael Fitzhubert) JOHN JARRATT (Albert)

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IL FILM IMPOSSIBILE Evidentemente l’editore, o chi per lui, aveva ritenuto preferibile un finale avvolto nel mistero, che non spiegasse troppe cose. Ma si trattò di una decisione che ebbe ripercussioni importantissime al momento di trasporre l’opera sullo schermo. E anche a questo proposito vale la pena citare John Taylor: “[cancellare il capitolo] fu una decisione pura-

mente letteraria, ma gli storici possono ben affermare che il suo risultato indiretto fu la creazione dell’industria cinematografica australiana così come la conosciamo – perché è molto improbabile che ci sarebbe mai stata, nel 1972, una corsa all’acquisto dei diritti del film se il capitolo 18 non fosse stato cancellato. Come chiunque può vedere, il capitolo è assolutamente non filmabile. I film


possono funzionare solo con ciò che gli ha dato Dio, e Dio non ha loro concesso la stessa flessibilità che ha garantito ai romanzi – sebbene la gente continui a fare tentativi, come i cumuli di scarti di pellicola continuano a testimoniare”. Ora, è quasi superfluo dire che al giorno d’oggi problemi simili non si pongono neppure; ma è facile credere, anche senza voler condividere in toto il pessimismo di Taylor, che prima dell’era digitale la trasposizione filmica del capitolo 18 avrebbe richiesto un notevole dispiego di ingegno e di mezzi, tale forse da spaventare molti registi e produttori. Si trattava in essenza (lo dico senza svelare troppo del testo del capitolo) di trasformazioni di esseri umani in animali molto diversi da loro e tra loro. Cioè non proprio la stessa cosa che trasformare, per esempio, Lon Chaney Jr. in Uomo Lupo, dove per ottenere il risultato desiderato bastava filmare le differenti fasi di make-up e poi collegarle tra loro con un effetto di dissolvenza. Ma a questo punto è anche chiaro, per

chi ha letto Picnic a Hanging Rock nella versione pubblicata, che abbiamo a che fare in questo capitolo scomparso con un tipo o livello di narrazione molto lontano da tutto ciò che lo precede nel libro. Non c’è infatti nulla nei primi diciassette capitoli, come pure nel film, che operi su un piano così totalmente fuori dell’ordinario. Esiste sì una sorta di sottotesto magico che percorre un po’ tutto il romanzo (e il film) e che preme in più punti per affiorare, ma in nessuna pagina ci troviamo davanti a qualcosa di paragonabile a ciò che ci aspetta nel capitolo 18. Al massimo ci viene detto che a mezzogiorno in punto nell’area del picnic ai piedi della Roccia si arrestano le lancette di tutti gli orologi. UN INCIPIT MEMORABILE Fu proprio a John Taylor che Joan Lindsay consegnò, alcuni mesi dopo il loro incontro, il manoscritto del diciottesimo capitolo, e sempre a lui, nel 1980, cedette il copyright sul medesimo testo. Così Taylor riporta l’evento nel suo scritto The invisible Foundation Stone: “Joan mi

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dette il copyright, da usare a mia discrezione dopo la sua morte (aveva 84 anni all’epoca), come parte di una sua più generale reazione di orrore nei confronti del diluvio di richieste di informazioni che le venivano rivolte, soprattutto dopo la realizzazione del film. Ogni volta che una ‘soluzione’ farlocca veniva strombazzata da un quotidiano, il diluvio aumentava di proporzioni. Essendo io diventato all’epoca il suo agente letterario, dovevo far fronte a tutto ciò – semplicemente dicendo che Lady Lindsay non era interessata a discutere la questione. E quantunque lei sapesse molto bene che l’enorme successo sia del libro che del film aveva a che fare con il mistero di ‘cosa fosse veramente accaduto’, in certi momenti desiderava di aver pubblicato il capitolo finale ed essersi risparmiata tutto il fastidio”. Ma, proprio come richiesto dall’autrice, il capitolo 18 vide la luce solo dopo la sua morte – tre anni dopo, per l’esattezza, nel 1987 – come parte centrale di un libricino in tre parti dal titolo The Secret of Hanging Rock, che comprendeva come testo introduttivo il citato The Invisible Foundation Stone e come parte finale un Commentario (A Commentary on Chapter Eighteen) di Yvonne Rousseau. Quest’ultima aveva scritto nel 1980 un libro di duecento pagine intitolato The Murders at Hanging Rock, nel quale proponeva una serie di possibili soluzioni al mistero della scomparsa, ciascuna basata su una diversa visione del mondo. Come spiega lei stessa nel Commentario, ai due estremi di questo spettro di ipotesi c’erano le soluzioni ispirate, rispettivamente, da una visione meccanicista della realtà e dalla visione magica dell’ermetismo oc-

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cidentale. E tutto questo, ricordiamolo, senza che lei avesse avuto modo di disporre del finale del libro, ancora inedito all’epoca. Ma proprio la pubblicazione del capitolo 18 renderà, alla fine, parzialmente vani i suoi sforzi, invalidando proprio quella visione pluralistica della questione su cui lei aveva basato The Murders at Hanging Rock. Il che la spinge a scrivere, nel Commentario: “[…] stavolta non supporterò più in alcun modo l’affermazione di Joan Lindsay che la soluzione del mistero non è importante. Cercherò invece quell’unica visione del mondo che rende il capitolo in sé coerente. E farò questo chiarendo cosa effettivamente succede e come il capitolo si relaziona al resto del libro”. In altre parole: la pubblicazione del capitolo 18 ha finalmente messo fuori gioco tutte le ipotesi (e le relative visioni del mondo) salvo una. Prima di svelare quale, trascriviamo l’incipit – mozzafiato – del capitolo. Un incipit che, per qualcuno, potrebbe perfino rappresentare un indizio sufficiente: “Sta accadendo ades-

so. Come accade da quando Edith Horton corse inciampando e urlando verso la pianura. Come continuerà ad accadere fino alla fine del tempo. La scena non è mai cambiata al di là del cadere di una foglia o del volo di un uccello. Per le quattro persone sulla roccia tutto accade sempre nel tiepido crepuscolo di un presente senza un passato. Le loro gioie e agonie sono nuove ogni volta. Miranda è poco più avanti di Irma e Marion, mentre si apre un varco attraverso i cornioli; i suoi lisci capelli biondi fluttuano liberi come seta di granturco sulle sue spalle che a forza di spinte fendono, come fosse una nuotatrice, un’onda dopo l’altra di verde polveroso. Un’aquila che si libra alta allo zenith, veduto un tremolio insolito di macchie più chiare in basso tra la boscaglia, si allontana verso zone più alte e più pure. Finalmente la macchia comincia a diradarsi, davanti a un breve dirupo che trattiene gli ultimi raggi del sole. E così è per milioni di sere estive, mentre lo schema si forma e si riforma tra gli speroni di roccia e i pinnacoli di Hanging Rock”.

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MITOPOIESI E TEMPO DEL SOGNO Potrà sembrare strano, ma la prima volta che lessi queste righe straordinarie non solo rimasi, come ho detto, senza fiato, ma il mio pensiero andò spontaneamente a una frase che ho sempre conservato gelosamente nella mia memoria fin dalla prima volta che ebbi occasione di leggerla. È in realtà una frase famosissima, inserita anche da Roberto Calasso in epigrafe a Le Nozze di Cadmo e Armonia, ed è tratta da Degli Dei e il Mondo, piccolo catechismo pagano scritto dal filosofo romano Sallustio. Costui visse nel IV secolo d.C. e fu amico di Giuliano, imperatore dell’Impero Romano d’Oriente, detto ‘l’Apostata’ per il suo tentativo (fallito) di reintrodurre il paganesimo come religione ufficiale dell’Impero. Ma ecco la frase: “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”. E poiché queste parole sono riferite al tempo senza tempo in cui si ‘svolgono’ gli eventi del mito, non posso che sottoscrivere in pieno la convinzione di Yvonne Rousseau che sia proprio la visione mitopoietica l’unica in grado di ‘spiegare’ in modo coerente gli eventi di Picnic a Hanging Rock, soprattutto quelli del capitolo 18. Dobbiamo in particolare – e non può essere altrimenti dal momento che è di Australia che stiamo parlando – rivolgere la nostra attenzione al Tempo del Sogno, il sistema religioso, mitico e cultuale su cui si fonda la visione del mondo degli aborigeni australiani. Come scrive Yvonne Rousseau: “La mia personale spiegazione delle anomalie del capitolo 18 invocherà il modello di sovrannaturale degli aborigeni australiani –

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che è tradotto in inglese come Dreaming [e in italiano come ‘Tempo del Sogno’]. Nella visione dell’occultismo occidentale, il corpo di un essere umano può giacere in trance o in stato di sogno mentre la coscienza si muove in forma astrale, invisibile agli altri. Allo stesso modo, possiamo supporre che il paesaggio australiano abbia un corpo astrale per un utilizzo nel Tempo del Sogno, e che le persone e gli Antenati che compaiono nelle leggende del Tempo del Sogno si stiano muovendo nella coscienza astrale del paesaggio, essendo stati rimossi dalla loro consapevolezza fisica. È stato così nel caso delle ragazze e della McCraw. Mentre rimangono nel paesaggio astrale o consapevolezza di sogno, sono solo esseri virtuali; non hanno realtà fisica più di quanta ne abbia lo scenario in cui sono immerse, con la sua strana luce”.

La McCraw menzionata è, come abbiamo visto all’inizio, l’insegnante di matematica. È lei la quarta persona citata nell’incipit di poco fa, dal momento che Edith Norton era fuggita urlando dalla Roccia e aveva fatto ritorno all’area del picnic alla fine del capitolo 3 (senza l’effetto di ripetizione di cui abbiamo parlato, dovuto alla retrocessione di brani del capitolo rimosso, Edith avrebbe abbandonato la Roccia già al termine della prima salita e non dopo la seconda com’è invece nel libro pubblicato). È proprio dopo l’uscita di scena di Edith e il passar oltre il monolite da parte di Miranda, Marion e Irma (Miss McCraw si aggiungerà solo in seguito) che alla realtà familiare del mondo fisico si sostituisce il Tempo del Sogno, e possono aver luogo gli eventi straordinari narrati nel capitolo 18.

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Margaret Nelson

Le giovani attrici JANE VALLIS, che nel film di Weir interpreta Marion, e MARGARET NELSON, la sfortunata orfana Sara, si ritrovarono ancora insieme l’anno successivo (1976) come protagoniste della serie TV fantastico-avventurosa per ragazzi The Lost Islands, nella quale recitarono rispettivamente i ruoli di Anna e Helen. Il telefilm andò in onda in Italia tra marzo e aprile del 1978, e chi in quegli anni era bambino lo ricorda oggi con affetto e nostalgia. Per Jane quella fu la seconda e ultima apparizione cinetelevisiva, prima del suo prematuro ritiro dalle scene, a cui purtroppo il destino fece seguire una ancor più prematura scomparsa, avvenuta nel settembre del 1993; anche Margaret abbandonò la carriera alla fine degli anni ’70, uscendo definitivamente dal mondo dello spettacolo.

Jane Vallis

Le Ragazze delle Isole Perdute


IL MISTERO DEI CORSETTI SOSPESI Yvonne Rousseau ritiene di avere individuato, in base allo svolgimento del capitolo 18, quale sia il Sogno ‘creato’ da Joan Lindsay: “Nella leggenda del Tempo del Sogno che racconta l’avventura del Picnic, possiamo supporre che un’aquila di passaggio lasci cadere un granchio di fiume dove stavano dormendo la lucertola e lo scarabeo”. Nello specifico, è Miranda ad avere come spirito-antenato, o totem personale, lo scarabeo e Marion la lucertola. Irma è un caso a parte, come vedremo più avanti. Mentre il granchio ha a che fare con Miss

McCraw; come forse suggerisce anche il cognome, dal momento che granchio in inglese è crab. Altra prova dell’aggiunta di una nuova dimensione alle tre della realtà ordinaria si ha nel momento in cui le ragazze, dopo essersi già tolte scarpe e calze, decidono di liberarsi anche dei corsetti che le opprimono; quando li gettano dalla Roccia, i corsetti non cadono ma rimangono immobili a mezz’aria. Allora Miss McCraw, che ha acquisito una misteriosa sapienza oracolare, fornisce la sua spiegazione dicendo che, secondo lei, i corsetti sono rimasti impigliati nel tempo.

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DREAM LANDSCAPE

Una suggestiva foto panoramica scattata dall’Hanging Rock. Il complesso roccioso si erge di 105 metri rispetto alla pianura sottostante, e di 718 metri sul livello del mare. foto: ©GARTH SMITH www.facebook.com/GSImagery/

SINGOLARI ANNALI STORICI Il corrispettivo inglese di Tempo del Sogno è Dreaming, o Dreamtime, ed è stato usato all’inizio del XX secolo da Baldwin Spencer e Francis Gillen come traduzione del termine australiano alcheringa nei loro studi antropologici e

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sociologici – studi che hanno influenzato, tra gli altri, James Frazer, l’autore de Il Ramo d’Oro (The Golden Bough, 1890) e Freud. Ma è l’antropologo e sociologo, oltre che prete anglicano, Adolphus Peter Elkin a delineare con maggior precisione i termini del concetto e a diffonderlo negli anni ’30 e ’40 del Novecento, soprattutto attraverso i suoi saggi più noti: The Australian Aborigines (1938) e Aboriginal Men of High Degree (1946). Nel primo, pur puntualizzando che la visione aborigena della vita non è solo animista e totemica ma anche storica, Elkin chiarisce che lo è però in termini molto lontani dai no-


stri; senza tuttavia voler significare, con questo, che il passato “sia un prodotto di fantasia o di un’immaginazione a briglia sciolta... I miti del Tempo del Sogno sono annali storici… Ma il tempo a cui si riferiscono partecipa della natura dei sogni perché, come nel caso di questi, passato, presente e futuro sono in un certo senso coesistenti”. E appare adesso molto chiaro di cosa stia parlando Joan Lindsay quando scrive nel già citato incipit del capitolo 18: “Sta accadendo adesso. Come accade da quando Edith Horton corse inciampando e urlando verso la pianura. Come continuerà ad accadere fino alla fine del tempo”.

TERRA NULLIUS Cioè disabitata e pronta a diventare proprietà di chi vi si stabilisca. Così i primi europei che vi approdarono dichiararono essere l’Australia. Eppure, da un certo punto di vista, non c’era forse terra più ‘abitata’ di quella, sull’intero globo terracqueo. Per comprendere questo punto, proviamo adesso a immaginare il continente australiano dell’epoca come un gigantesco tappeto formato da una trama fitta e intricata – e anche molto colorata. Ed ecco che ci troviamo a contemplare le famose Songlines (Vie dei Canti), nelle quali lo scrittore Bruce Chatwin ravvisò il

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principio essenziale alla base della condizione nomade e che dettero anche il titolo al suo capolavoro. Le Vie dei Canti sono gli itinerari seguiti, sul suolo australiano, da determinati Antenati o eroi (che hanno per lo più natura totemica e sono perciò spesso raffigurati in veste di animali), nel tempo mitico della creazione o Tempo del Sogno. Essi, emersi in superficie dalle loro dimore ancestrali, cantavano le cose lungo questi itinerari e così facendo creavano il mondo. Per gli aborigeni ‘cantare’ a loro volta le gesta compiute dall’eroe, o dai gruppi di eroi, lungo questi stessi itinerari significa riattualizzarle e mettere in comunicazione il tempo presente con l’era del mito. Non tutta la superficie del continente australiano ha però un significato mitologico, ed esistono anche delle effettive ‘terre di nessuno’. In genere, a rendere sacra una determinata porzione di paesaggio sono particolari eventi geologici o elementi naturali significativi (Hanging Rock, per esempio), che testimoniano l’atto creativo di cui è stata sede. Le località sacre possono essere raggiunte solo ripercorrendo ritualmente lo stesso itinerario seguito in origine dall’eroe o dal gruppo di eroi, e accade pure che in uno stesso luogo (ma non necessariamente nello stesso tempo) possano incrociarsi i sentieri di due o più eroi o gruppi di eroi. Lungo questi sentieri che collegano tra loro i siti sacri sono situati i centri vitali e spirituali delle varie specie naturali, così come gli spiriti dei nascituri che esistono fin dall’età mitica della creazione e si reincarnano a varie riprese nei membri dell’una o dell’altra tribù locale. In modo

analogo, dopo la morte lo spirito del defunto ritorna alla sua sede spirituale. Sono le stesse tribù locali a essere custodi del mito di un particolare itinerario, e dei riti e del luogo che vi sono collegati. Ma si tratta in genere solo di un capitolo, cioè di un particolare tratto della Songline. Nessuna singola tribù possiede infatti un canto dei maggiori miti nella sua integrità, dato che l’itinerario di ciascuno di questi può attraversare il suolo australiano per lunghezze di molte centinaia di miglia. Possedere solo una parte di un mito – si può dire che sia proprio questa conoscenza ripartita a rendere una tribù diversa dall’altra – implica l’inevitabile interdipendenza tra tutte le tribù dislocate su uno stesso sentiero mitologico. Soltanto la cognizione di un mito nella sua integrità e l’esecuzione di tutti i riti collegati possono infatti garantire la continuità con il passato e il benessere della natura e dell’essere umano. IL SOGNO DEL PICNIC Facciamo ora ritorno al nostro capitolo 18 e consideriamo ciò che accade a Miranda e Marion a Hanging Rock, in questi termini: diventano, entrambe loro, incarnazioni di spiriti-antenati che hanno nella Roccia il loro centro vitale e spirituale. Per quanto riguarda invece la McCraw è lecito supporre, come fa Yvonne Rousseau, che il suo antenato totemico, il granchio che abita i billabong, sia stato portato in volo e lasciato cadere su Hanging Rock dalla stessa aquila che volteggia in alto a più riprese sopra la Roccia. Irma non sembra avere, dal canto suo, nessun corrispettivo totemico in quel luo-

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AYERS ROCK

Nome originale: Uluru. È un altro celebre complesso roccioso australiano. Il luogo è sacro per gli aborigeni, vi convergono varie songline. Foto: ©STINE FOSSHEIM

instagram.com/stine.fossheim/ stinebamse.deviantart.com facebook.com/stine.fossheim.9

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go e non è quindi soggetta a una trasformazione ‘fisica’, né riesce a completare il viaggio e accedere, come fanno invece le sue tre compagne di avventura, a una dimensione ulteriore, quella che Miranda definisce semplicemente come ‘luce’. Alla fine Irma viene ‘espulsa’ dal Tempo del Sogno e fa ritorno alla realtà fisica ordinaria. In termini fisici: a differenza delle altre, viene ritrovata e soccorsa sulla roccia. Ma l’incipit del capitolo 18 indica anche, allo stesso tempo e in modo inequivocabile, la fondazione di una nuova mitologia connessa alla Roccia, in cui sono coinvolte indelebilmente tutte e quattro le donne. In ultima analisi, forse, è proprio questo il vero mistero di Hanging Rock: su quale base Joan Lindsay ha creato questo mito, che potremmo chiamare ‘Il Sogno del Picnic a Hanging Rock’? Il suo è stato solo un gioco letterario o era venuta a cono-

VIOLAZIONE DEL SUOLO SACRO

Scena dal film Dove Sognano le Formiche Verdi (Wo die Grünen Ameisen Träumen, 1984), di Werner Herzog.

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scenza di qualcosa? Sono domande che resteranno probabilmente per sempre senza risposta; tuttavia almeno una fonte di ispirazione diretta e accertata esiste, ed è la stessa Lindsay a nominarla nel capitolo 3, per bocca di Miranda: “«Ho l’impressione che debba esserci un sentiero da qualche parte, quassù» disse Miranda. «Mi ricordo che mio padre mi fece vedere un quadro con della gente vestita all’antica in un picnic alla Roccia. Mi piacerebbe sapere dove era stato dipinto»”. Il quadro in questione è At the Hanging Rock (1875) di William Ford. Ma è tutt’altro che rivelatore e anticipa ben poco delle tematiche e dell’atmosfera del romanzo. Ci resta allora un ultimo indizio a cui aggrapparci, e si trova nella parte conclusiva di The Invisible Foundation Stone: “Un giorno lei [Joan Lindsay] mi mostrò altre lettere di persone che avevano condotto ricerche infruttuose in vecchi quotidiani, sperando di rintracciare gli eventi ‘reali’. Accennai al fatto che era un peccato che perdessero così tanto tempo. «Sì» disse Joan – e poi, in modo assente: «Ma qualcosa accadde». Se quel qualcosa accadde nei quotidiani, in qualche


SOVRANITÀ TERRITORIALE

Canberra, 26 gennaio 2012: raduno degli attivisti per i diritti aborigeni, in occasione dell’Australia Day. foto: ©CHRISTOPH BEHRENDS www.flickr.com/photos/69722073@N06

aneddoto che aveva ascoltato, o nelle interconnessioni della sua immaginazione con altri mondi o altri tempi, non avevo idea – e non ci tenevo a saperlo”. È meglio che niente, ma difficilmente sarà possibile spingersi oltre. PER CHI VUOLE SAPERNE DI PIÙ In chiusura, voglio consigliare almeno un libro e un film dedicati all’argomento Tempo del Sogno e Songlines. Il libro è il già citato Le Vie dei Canti (The Songlines, 1987) di Bruce Chatwin, pubblicato in Italia da Adelphi. Che è, come

dice la nota in quarta di copertina, “Il libro che Chatwin inseguì per anni e che fece appena in tempo a scrivere”. Stilato con profondità di intenti e di pensiero, ma anche con la fluidità e la leggerezza di un romanzo, è la lettura ideale per chi voglia comprendere l’essenziale del Tempo del Sogno in modo piacevole e a tratti divertente. Tutt’altra cosa, cioè, dai libri di A.P. Elkin, che raccomando sicuramente ma che, essendo testi di natura scientifica, possono rappresentare per molti una lettura non abbastanza comoda. Mi sento invece di sconsigliare un altro libro ‘facile’, a suo modo anche blasonato: E Venne Chiamata Due Cuori (Mutant Message Down Under, 1990) di Marlo Morgan; a mio avviso offre una visione distorta della materia, alla maniera tipica della New Age. Un discorso analogo si può fare per il cine-

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BRUCE CHATWIN

nella copertina del volume Anywhere Out of the World di Jonathan Chatwin MANCHESTER UNIVERSITY PRESS, 2012 ISBN-13: 9780719084263

LE VIE DEI CANTI

(The Songlines, 1987) di Bruce Chatwin ADELPHI, 1988 ISBN-13: 9788845903069

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ma: suggerisco vivamente la visione del bellissimo Dove Sognano le Formiche Verdi (Wo die Grünen Ameisen Träumen, 1984) di Werner Herzog; mentre sconsiglio, spiace dirlo, L’Ultima Onda (The Last Wave, 1977) di Peter Weir (lo stesso regista di Picnic a Hanging Rock) che, pur affrontando stavolta in modo scoperto la tematica del Tempo del Sogno, lo fa spettacolarizzando troppo. Il film di Herzog è costruito in modo intelligente; anche se è fondamentalmente basato sul tema dello scontro di civiltà, riesce ad aprire almeno una fessura attraverso la quale sbirciare nelle tematiche di cui abbiamo parlato. La storia che racconta è inoltre ispirata a un evento reale: la prima causa intentata dagli aborigeni australiani contro una compagnia mineraria per violazione di un loro luogo sacro. La persero ma, proprio come Herzog ci mostra, dopo il verdetto il giudice espresse il proprio rammarico per essere stato costretto ad applicare la Legge in contrasto a quello che lui personalmente riteneva giusto. Dove Sognano le Formiche Verdi ha molti retroscena interessanti, a cominciare dalla mitologia che dà il tito-

lo al film, creata dallo stesso Herzog, che si era consultato con i membri di una tribù aborigena per vedere fin dove gli era consentito spingersi nella sua creazione. Gli stessi attori aborigeni facevano parte di questa tribù, che viveva in realtà presso il golfo di Carpentaria, cioè oltre 2000 chilometri più a nord rispetto all’insediamento minerario di Coober Pedy dove è stato effettivamente girato il film. Una scelta all’apparenza strana, ma dettata dal fatto che, a differenza degli aborigeni dell’outback australiano, costoro mantenevano ancora intatta la loro struttura sociale. Un altro aneddoto interessante è che durante le riprese Herzog ebbe l’occasione di incontrare proprio Bruce Chatwin, che si trovava in Australia per le sue ricerche sul nomadismo poi sfociate appunto ne Le Vie dei Canti. Chatwin era solito viaggiare con una borsa apposita per i libri (ne conteneva cinque o sei, fra cui le immancabili Metamorfosi di Ovidio), e pare che in quel viaggio avesse con sé un libro scritto da Herzog. Fu proprio al regista tedesco che Chatwin lasciò infine in dono, prima di morire, quella borsa. <


MODERNITÀ E TRADIZIONE

Scatto ritraente Jowi e sua figlia Alinta; ci troviamo a Collingwood, sobborgo di Melbourne, stato del Victoria. foto: ©CRAIG BANKS

bankc.deviantart.com craigbanksphoto.com

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Infinite maniere

DI ESSERE

ALIENO

di DANIELE BARBIERI

La figura dell’alieno nella fantascienza è spesso usata come metafora del diverso: specchio o denuncia di situazioni sociali e convinzioni morali.

N

ELLA FANTASCIENZA il ‘primo contatto’ con gli alieni (nel senso di extraterrestri) si traduce spesso in guerra. I Sapiens sapiens delegati allo storico incontro o che casualmente s’imbattono in ‘creature pensanti dello spazio esterno’ di solito sono stupidi, spaventati e magari anche militaristi ed espansionisti. A mio avviso le parole ‘stupidi’ e ‘spaventati’ si possono sintetizzare in una sola: razzisti. Nella fantascienza reazionaria invece è ovvio, e soprattutto giusto, che si spari subito; non esistono alternative: l’unico

alieno buono è quello morto. Se qualcuno si stupisce, non ha ben presente la storia del nostro pianetucolo, i cui dominatori godono già di un lungo tirocinio con gli alieni di casa. Ecco in ordine alfabetico un elenco neppure completo: albini, ebrei, gay, handicappati, musi gialli, pazzi, pellerossa, sporchi negri, streghe, zingari… C’è chi, con purtroppo documentate ragioni storiche, propone di sostituire a streghe la parola donne. Vi sono poi sempre nuovi razzismi: grazie alla dittatura di Pol Spot (non è un Cam-

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FABBRICANTI di Universi

SCI-FI VS DISCRIMINAZIONE

Chicago, Illinois (USA), 2009: cartello promozionale del film District 9. foto: ŠKENNETH SPENCER flickr.com/photos/kendo26/

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COMUNQUE UMANI

di Guido Ferraro e Isabella Brugo MELTEMI EDITORE, 2008 ISBN-13: 9788883536274

bogiano ma l’abbreviazione di Polimorfo Spot, ovvero la pubblicità dai mille volti e dai centomila martelli), rischia discriminazioni pesanti chiunque sia brutto/a o grasso/a – secondo i canoni dettati appunto da persuasori occulti e palesi – o perfino non abbastanza ‘alla moda’. Cosa intendiamo per alieni? Per iniziare vediamo qualche definizione. I vocabolari, per esempio Il Grande Dizio-

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nario Garzanti, di solito la mettono così: “Aggettivo: 1) contrario, avverso; 2) (di registro letterario) che appartiene ad altri, estraneo. Sostantivo: nel linguaggio della fantascienza chi appartiene ad altri mondi, extraterrestre”. Tutto qui. Invece su Wikipedia si legge: “La parola alieno (dal latino alienus col vario significato di: ‘appartenente ad altri, altrui; straniero; estraneo; avverso’) assume diversi significati in funzione del contesto di riferimento. In generale indica una qualunque cosa o soggetto estraneo all’ambiente di riferimento”. Rimanda poi a varie voci: “Alieno (biologia), una specie alloctona ovvero che abita o colonizza un habitat diverso da quello originario. Forma di vita extraterrestre, una forma di vita non originaria del pianeta Terra. Extraterrestri nella fantascienza, personaggi delle opere di fantasia e della cultura popolare. Alienazione, espropriazione di un bene”. Se preferite possiamo fare un bel salto nel tempo, dalle parti del 165 avanti Cristo, e ragionarne con Publio Terenzio Afro: “Sono un uomo: nulla di umano può essermi alieno”. Che molti citino Terenzio o Publio Terenzio omettendo Afro è un caso? A ogni modo “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (Heautontimorùmenos [Il Punitore di Sé stesso], v. 77) è esattamente l’opposto della scritta che campeggia sulle t-shirt degli attivisti di Forza Nuova (gruppo neonazista, per chi non lo sapesse): “Difendi il tuo simile, distruggi il diverso”. Anche nella fantascienza le definizioni sono assai varie. In un libro italiano per la scuola, La Musa Stupefatta o della Fantascienza (1974), Franco Ferrini azzardava


questa: “Alien è l’extraterrestre spesso ostile agli umani. L’idea di ostilità era già implicita nell’aggettivo latino alienus”. Diverso, nemico, perciò mostro: deduzioni rapide e conclusive. Elementare Watson. Anticipiamo un più complesso punto di vista esaminando il ragionare di Guido Ferraro e di Isabella Brugo nel loro Comunque Umani (2008, sottotitolo: “Dietro le figure di mostri, alieni, orchi e vampiri”), in particolare nel capitolo quarto centrato proprio sugli alieni nel cinema e, in misura minore, nella letteratura fantastica: “L’alieno vale, dunque, come un modo tra gli altri – ma forse più forte ed estremo degli altri – per rappresentare il Male. Gli storici della cultura potranno notare che la tematica degli alieni si è sviluppata in concomitanza con il venir meno di altre figure di ‘estranei totali’, che si trattasse di figure metafisiche (i demoni), leggendarie (orchi, vampiri…) o razziali (i ‘selvaggi’). Se in tale prospettiva ‘malvagio’ risulta essere chi è diverso da noi, l’alieno può ben rappresentare il diverso totale, interamente e incondizionatamente negativo dal punto di vista morale, con un grado di assolutezza che in effetti difficilmente può essere riconosciuto ad altri protagonisti negativi. Se si può sempre entrare nel modo di pensare di un gangster o di un terrorista, la costruzione della figura standard dell’alieno implica proprio questa impossibilità; la definizione stessa del concetto di ‘alieno’ poggia sul fatto che esso non è semplicemente diverso e non umano, ma è del tutto estraneo e illeggibile”. Verso la fine del libro Ferrario e Brugo ci ricorderanno che “la questione centrale dunque non riguarda

GLI ALIENI

di Tommaso Pincio FAZI EDITORE, 2006 ISBN-13: 9788881127368

più ‘che cosa sono’ i mostri, ma ‘come li creiamo’ e come gestiamo il nostro rapporto con loro”. Sostituite pure alieni a mostri, almeno in questo contesto sono intercambiabili. Un ragionare analogo si trova verso la fine del saggio Mostri di Fabio Giovannini (1999), dove si esamina “l’inversione di rotta” al cinema: dall’alieno cattivo a quello buono sino “all’alieno dentro di noi”. D’altro canto il filosofo Adorno ci aveva già messo in guardia scrivendo: “la cosa

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TRANSFIGURATIONS

(it: Il Segreto degli Asadi ) di Michaei Bishop prima edizione originale BERKLEY/PUTNAM, 1979

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più inquietante è scoprire quanto i mostri ci assomiglino”. Per molte persone gli alieni restano però gli UFO (i non anglomani preferiscono OVNI, oggetti volanti non identificati). Per capire “come e perché sono giunti tra noi” e dilagati nell’immaginario collettivo proprio in quel particolare periodo storico (gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso) consiglio il piacevole quanto dotto Gli Alieni di Tommaso Pincio (2006), che incrocia Enrico ed Elvis (ovvero Fermi e Presley), l’hula hop e l’atomica, la lascivia e Von Braun, il nazismo ed Epicuro, Voltaire e il complottismo, strane cose che si vedono nel cielo e Jung, Giordano Bruno e i dischi volanti. È bravo Pincio ad allargare un ben ristretto orizzonte – gli USA della guerra fredda –, e qui si tenterà di fare lo stesso con tutti gli altri alieni raccontati dalla fantascienza, che è letteratura inquietante (o non compresa), dunque rimossa dalla ‘gente seria’. ALIENI FUORI E DENTRO Nel presentare il romanzo Il Segreto degli Asadi (Transfigurations, 1979) di Michael Bishop, osserva giustamente Piergiorgio Nicolazzini che “ciò che ci appare ‘alieno’ è forse il riflesso di qualcosa che è anche nostro, ma ormai dimenticato e sepolto”. Alieni dentro di noi? “Eliminato l’impossibile, qualunque cosa rimanga, per improbabile che sia deve essere la verità” raccomandava Sherlock Holmes; ma gli si oppone Anthony Boucher, buono scrittore di fantascienza (e altro), con puntate sull’ottimo “Eliminato l’impossibile, se non rimane nulla, una parte dell’impossibile deve essere la verità”. In questo caso l’impossibile, per molte persone, è che gli

alieni sono da sempre fra noi, anzi possiamo cercarli – avremmo sempre potuto cercarli – anche dentro di noi. Forse crescono dentro di noi, e in questo caso nella fantascienza vengono indicati come ‘mutanti’; se ne accennerà più avanti. TIRAR SASSATE AGLI SCONOSCIUTI Negli ultimi tempi quasi nessuno in Italia si dice razzista, salvo poi precisare: però sugli ebrei (o sugli zingari) Hitler non aveva del tutto torto. Già negli anni ’90 il ‘non sono razzista ma…’ imperversava, e su Cuore, una rivista satirica ma spesso serissima, Enzo Costa riassumeva così questa visione del mondo: “Non sono un razzista ma quando sull’autobus un negro mi siede accanto io cambio posto. Non sono un razzista, sono un bianco”. Unendo ironia a rigore, il genetista Guido Barbujani e il giornalista Pietro Cheli hanno scritto, nel 2008, Sono Razzista ma Sto Cercando di Smettere, mentre nel 2001 l’antropologa Geneviève Makaping aveva proposto in Traiettorie di Sguardi l’istruttivo gioco del ‘io guardo come voi (bianchi) guardate me (nera)’. Solo due libri recenti sull’Italia d’oggi – che è multietnica ma fa finta di non saperlo – per pensarci su. E torniamo subito alla fantascienza e al suo modo di vedere gli stranieri. La dice lunga che perfino questa letteratura all’incrocio fra desideri e paure abbia di solito invitato a tirar sassate agli sconosciuti senza neppure chiedere ‘chi va là’. Lo ha fatto perché storicamente in molte persone a livello inconscio prevaleva il timore sul desiderio, e ne derivava una precisa scelta di campo, culturale e politica: in particolare gli autori (maschi,

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con qualche femmina di puro complemento e perlopiù celata da pseudonimi) della prima science fiction erano wasp – cioè bianchi, anglosassoni, protestanti –, perciò gli alieni venuti dallo spazio non potevano che essere bem (bug eyed monster, cioè mostri dagli occhi d’insetto), dunque peggio delle ‘scimmie’ negre e simili che circolano sulla Terra.

L’UOMO INVISIBILE

(The Invisible Man, 1897) di Herbert George Wells seconda edizione italiana SOZOGNO, 1924

LA GUERRA DEI MONDI

(The War of the Worlds, 1897) di Herbert George Wells edizione ridotta conenuta in Urania (Rivista) n. 14 MONDADORI, 1953

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1818, L’ANNO ZERO Bianchi, anglosassoni, protestanti… In realtà la fantascienza moderna, pur anglo, non era stata concepita maschia, visto che il suo atto di nascita coincide con la pubblicazione nel 1818 del Frankenstein di Mary Shelley. Ma è nel passaggio fra ’800 e ’900 prima (con Verne, Wells, più qualche comprimario), e poi nel pieno del XX Secolo che, soprattutto grazie alle pubblicazioni popolari, diviene una letteratura di massa; in questo passaggio a scriverla – e a leggerla – sono inizialmente ometti del tipo babbuino aggressivo. Con qualche interessante eccezione. Per fare qualche esempio della ‘regola’ ecco uno dei padri, H.G. Wells, che per instillarci antipatia verso il cattivo di turno (l’Uomo In-

visibile) ce lo descrive come albino. Presentando i marziani, ne La Guerra dei Mondi (The War of the Worlds), ne dà una visione talmente terrificante da concludere: “Sin da quel primo incontro fui sopraffatto dal disgusto e dall’orrore”. Combinazione: La Guerra dei Mondi è del 1897, stesso anno dell’inquietante Dracula. Torniamo a Wells: quando un normale finisce Nel Paese dei Ciechi (dal racconto The Country of the Blind, 1904) constata che quei diversi sono stupidi e cattivi. E ancora lui nel suo libro più famoso, La Macchina del Tempo (The Time Machine, 1895), prevede che i proletari si abbrutiranno, un’evoluzione alla rovescia. Era un uomo del suo tempo: pur dicendosi sostenitore del pacifismo e del socialismo era al fondo piuttosto reazionario. Se vi interessano altri esempi di fantascienza razzista consiglio Sei Morto! (Nu Dog Du: Bombernas Århundrade, 1999) di Sven Lindqvist, che racconta benissimo i legami fra guerre vere e immaginarie. A parte le solite interessanti eccezioni (quasi invisibili nel diffuso andazzo) occorrono decenni perché nella sci-fi inizi distinguersi l’i-


dea di un alieno che non è ostile o una concezione del mondo (meglio: mondi) non bipedo-centrica. Esempi di quelle eccezioni sono Un’Odissea Marziana (A Martian Odyssey, 1934) di Stanley Weinbaum e Il Costruttore di Stelle (Star Maker, 1937) di Olaf Stapledon; ma la regola appunto è l’altra, ovvero l’alieno inevitabilmente resta il nemico nella science fiction di massa, quella cioè che conquista il pubblico poco dopo il 100 d.F. (dopo Frankenstein). Prendiamo John Campbell, uno dei padri della fantascienza moderna. Secondo lo scrittore Philip José Farmer: “Alcuni suoi difensori sostengono oggi che Campbell non era razzista e che non considerava i neri africani come esseri umani inferiori; purtroppo i suoi scritti e le conversazioni private che ho avuto con lui dimostrano il contrario”. A conferma anche un suo editoriale sulla rivista Analog nell’agosto 1968, dopo l’assassinio di Martin Luther King; da un lato Campbell esalta la figura di King come apostolo della non-violenza ma dall’altro offre una conclusione in linea con il dominio dei bianchi: “Naturalmente il Nero vuole risul-

tati definitivi oggi, e magari ieri. Quest’impazienza è vecchia come l’uomo… e come i bambini. Purtroppo, non è possibile che le cose vadano così. Non si può fare così”. Siete troppo alieni, la colpa è vostra. Anche altri scrittori che hanno giocato un ruolo importante nell’evoluzione della fantascienza – in particolare Robert A. Heinlein – hanno esaltato la superiorità del terrestre wasp su chiunque altro. Lentamente alcuni scrittori (e, solo dopo, scrittrici, perché all’epoca erano emarginate) pongono il dubbio: se sotto quella pelle strana – azzurra o verde, i colori che sulla Terra mancano nella gamma delle epidermidi umane – vi fosse un’intelligenza, persino un’anima? All’inizio vengono accettati alcuni hilf (humanoid intelligent life forms) talmente simili a noi da suggerire che lo sforzo di approvazione sia misurabile in decimi di millimetro. Poi ci si fa più audaci. E SE IO FOSSI LUI O LEI? Ovviamente assumere il punto di vista dello straniero (dell’alieno totale) fra noi può essere interessante, come già avevano dimostrato Lettere Persiane di Mon-

A MARTIAN ODYSSEY

(it: Un’Odissea Marziana, 1934) di Stanley G. Weinbaum collezione contenente il racconto omonimo LANCER BOOKS, 1962

STAR MAKER

(it: Il Costruttore di Stelle, 1937) di Olaf Stapledon prima edizione originale METHUEN, 1937

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SENTRY

(Sentinella, 1954) di Fredric Brown prima edizione originale, in Galaxy Science Fiction GALAXY PUBLISHING CORPORATION, febbr. 1954

MARTIANS, GO HOME

(Marziani, Andate a Casa, 1955) di Fredric Brown prima edizione originale E. P. DUTTON, 1955

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tesquieu (Lettres Persanes, 1721) e Micromégas (1752, con gli extraterrestri al posto dei persiani) di Voltaire, e nel secolo scorso (1920) Papalagi di Tuiavii di Tiavea. Prima che Fredric Brown re-inventasse questo genere per la fantascienza – lo vedremo fra poco – qualcuno (per citarne uno solo, l’allora quasi esordiente Isaac Asimov nel racconto Homo Sol del 1940) aveva già assunto il punto di vista degli E.T. invece che dei terrestri; ma erano le classiche mosche bianche. Nel 1954 arriva Fredric Brown con il breve, squassante racconto Sentinella (Sentry). Brown è tornato spesso sul tema, in forma più ironica. Uno dei suoi racconti più famosi è Il Vecchio, il Mostro Spaziale e l’Asino (Puppet Show) del 1962. In uno sperduto paesino arriva un allampanato extraterrestre a dorso di un asino. Vagamente umanoide, è alto quasi 3 metri, sottilissimo, e ha la pelle che sembra scuoiata. Dichiara di essere andato lì per verificare se i terrestri sono maturi abbastanza per entrare nella Confederazione Galattica. C’è un doppio colpo di scena che sarebbe però un delitto rivelare. Brown fa intravede-

re come questa ‘maturità’ sia ancora tutta da verificare, visto che i terrestri giudicano in base alle apparenze fisiche. Decisamente umoristico il suo romanzo Marziani, Andate a Casa (Martians, Go Home) del 1955. La storia concerne un’invasione pacifica ma assai seccante. Infatti gli alieni, più che cattivi o incomprensibili, sono… no, lasciamolo dire all’autore con tutte le precisazioni necessarie: “erano tutti insultanti, esasperanti, fastidiosi, sfacciati, brutali, insopportabili, caustici, sfrontati, odiosi, scortesi, esecrabili, diabolici, spudorati, irritanti, ostili, dispettosi, bruschi, insolenti, impudenti, ciarlieri, irridenti, guastafeste, maligni, pestiferi, malevoli, perfidi, nauseanti, perversi, stizzosi, litigiosi, sgarbati, maleducati, sarcastici, biliosi, bisbetici, infidi, truculenti, incivili, pungenti, xenofobi, sbraitanti e zelantissimi nel rendersi insopportabili e nel causare guai a tutti coloro con cui venivano a contatto”. E non si può far nulla contro di loro, perché in un batter d’occhio spariscono (in gergo: si teletrasportano altrove). Anche in questa geniale presa in giro Brown infila discorsi seri. E comun-


que trasformare i ‘mostri’ in discoli è già una bella provocazione. Pure chi è digiuno di fantascienza ma ama il cinema (o il rock) avrà forse incrociato il film L’uomo Che Cadde sulla Terra di Nicholas Roeg, del 1976, con un bravo David Bowie, tratto dal romanzo omonimo (The Man Who Fell to Earth) – ancor più inquietante e struggente della riduzione cinematografica – scritto nel 1963 da Walter Tevis. Come in Sentinella, il narratore assume il punto di vista dell’alieno, che è sulla Terra per cercare un aiuto da parte dell’umanità per la sua razza morente. L’alieno rimarrà bloccato fra indifferenza e sospetti. Impietrito nella sua maschera umana, incapace di staccarsi dalla Terra per lui aliena, morirà per alcolismo. La scena finale mostra il suo pianeta ridotto a un cumulo di asteroidi vaganti. Qualche esperto di cinema ha notato che il punto di vista dell’alieno è rappresentato in uno stile e in un montaggio di tipo surrealista; per quanto sia strano, alcuni passaggi del film ricordano L’Uomo con la Macchina da Presa di Dziga Vertov, uno dei padri del cinema. FUTURO, FILOSOFIA E SENSI DI COLPA Visti i precedenti storici, qualche senso di colpa inevitabilmente affiora anche nella science fiction. Significativa la quarta di copertina Urania del romanzo Chi è Intelligente? (Conscience Interplanetary, 1972) di Joseph Green: “Il Corpo dei Filosofi Ambientali deve proteggere i mondi abitabili della Galassia dall’ingordigia umana e impedire che si ripetano a danno delle razze extraterrestri le violenze e le stragi patite dagli indios, dai pellirosse, dai negri”. Perfetto sin qui, ecco però

L'UOMO CHE CADDE SULLA TERRA

(The Man Who Fell to Earth, 1963) di Walter Tevis prima edizione italiana Urania n. 357 MONDADORI, 1964

la trappola: “Ma ci sono moltissimi casi dubbi: certe strane foche tirano sassi contro gli scienziati di un osservatorio, certe farfalle di 40 chili sembrano telepatiche, certe piante di cristallo emettono voci nella notte, certe scimmiesche creature hanno forse modellato un dio di argilla. Come decidere dove finisce l’istinto e dove comincia l’intelligenza?”. La domanda può essere dunque riformu-

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CONSCIENCE INTERPLANETARY

(it: Chi è Intelligente?, 1972) di Joseph Green terza edizione originale DOUBLEDAY, 1973

ENDER’S GAME

(it: Il Gioco di Ender, 1985) di Orson Scott Card prima odizione originale TOR, 1985

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lata così: chi sono gli alieni e agli occhi di chi? Rischiamo però di entrare in un corto circuito logico e filosofico. Possiamo capire un pensiero alieno? L’amico, Fabrizio Melodia, grande studioso di filosofia, leggendo la prima versione di questo saggio mi ha suggerito qualche dotta citazione ad hoc. Per esempio questa: “La logica riempie il mondo; i limiti del mondo sono anche i suoi limiti. Non possiamo dunque dire nella logica: ‘Questo e quest’altro v’è nel mondo, quello no’. Ciò parrebbe infatti presupporre che noi escludiamo certe possibilità, e questo non può essere, poiché altrimenti la logica dovrebbe trascendere i limiti del mondo; solo così potrebbe considerare questi limiti anche dall’altro lato. Ciò, che non possiamo pensare, non possiamo pensare; né dunque possiamo dire ciò che non possiamo pensare”. È il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein. Al quale però provo – timidamente e con qualche consapevole forzatura – a contrapporre Eraclito: “Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché l’avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa

che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada”. Nel senso che se tentiamo di capire l’incomprensibile forse ce la faremo. Qualche annetto dopo Eraclito, irrompe sulla scena Albert Einstein e, dandoci speranze almeno sul versante più scientifico, aggiunge: “Tutti sanno che quella cosa è impossibile, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa”. Con queste citazioni nel bagaglio proviamo a vedere se la fantascienza e il desiderio riescono a forzare la logica wittgensteiniana secondo la quale non arriveremo mai al ‘non pensabile’. Tenendo anche conto che nel nostro immaginario lavorano – o meglio si confrontano e scontrano incessantemente – paure e desideri ben più profondi che nel conscio. Così non è indifferente che la fiction di massa oggi proponga in bella vista uno Spock (sto parlando ovviamente della serie di Star Trek), cioè un alieno ben accetto piuttosto che i perfidi carciofoni marziani, i quali, grazie allo strano duo Welles-Wells, in passato terrorizzarono lettori e soprattutto ingenui radioascoltatori.


Sulla strada della progressiva presa di coscienza della fantascienza si potrebbero riportare molti esempi. Nessuno forse è letterariamente efficace come il brevissimo Sentinella, ma molti – e alcuni li vedremo nelle varie sezioni – restano efficaci o inquietanti ancor oggi. Ovviamente ci sono almeno altrettanti romanzi o racconti che continuano a immaginare lo scontro fra i terrestri e ‘gli altri’. Vediamo brevemente uno dei più interessanti, Il Gioco di Ender (Ender’s Game) scritto nel 1985 da Orson Scott Card. È la storia di un ragazzino ‘speciale’ arruolato in una scuola militare e lì addestrato a verificare strategie contro gli Scorpioni, cioè i nemici spaziali, che sono una sorta di entità unica con un cervello collettivo. Ender va in crisi perché, per vincere le battaglie simulate, deve identificarsi con l’avversario al punto da amarlo; sull’altro piatto della bilancia (o della schizofrenia) c’è l’obiettivo del suo addestramento: salvare la razza umana da un nemico che sembra molto più potente. Alla fine del romanzo, mentre gli viene fatto credere di giocare l’ennesima simulazione, Ender viene posto a comandare

la battaglia decisiva, che si concluderà col definitivo sterminio degli Scorpioni. Fra i tanti temi sollevati da questo romanzo c’è anche quello del nemico invisibile; uccidere in un videogame (o nella sua versione montata a bordo di un aereo) crea una rassicurante distanza ‘psicologica’. Niente fastidiosi schizzi di sangue, niente volti delle vittime (soldati ma anche civili inermi, o bambini) dunque nessun dubbio. Per evitare che il soldato moderno cada nel vecchio difetto – così Brecht nella celebre poesia –, ovvero pensare, oggi il nemico (o l’alieno) va reso immateriale. Anche se la guerra con gli alieni ne Il Gioco di Ender si trasforma addirittura in xenocidio, comunque il romanzo di Card è tutt’altro che manicheo, non ci racconta di ‘tutti noi buoni’ contro i cattivi: i tempi sono cambiati. Anche se gli assassini di massa coprono d’oro i cantori delle ‘guerre umanitarie’, ben pochi credono alle loro ragioni. UN ROMPICAPO Gli alieni potrebbero anche essere un rompicapo biologico, cioè forme di vita e di intelligenza del tutto differenti da come noi le abbia-

THE BLACK COUD

(it: La Nuvola Nera, 1957) di Fred Hoyle prima edizione originale WILLIAM HEINEMANN, 1957

SOLARIS

(1961) di Stanisław Lem prima edizione originale WYDAWNICTWO MON, 1961

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OCEANIC

(1998) di Greg Egan prima edizione originale, in Asimov’s Science Fiction, ago. 1998 DELL MAGAZINES, 1998

DAWN

(it: Ultima Genesi, 1987) di Octavia E. Butler prima edizione originale WARNER BOOKS, 1987

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mo sinora concepite, tanto che potremmo pure non accorgerci della loro esistenza. C’è persino un’apposita disciplina – la xenologia – che studia queste ‘complicazioni’ e ipotizza il modo migliore per comunicare con creature diverse dall’uomo. La complicazione risulta evidente sapendo che il termine xenologia è variamente usato: a proposito di extraterrestri ma anche di migranti e persino di parassiti; una triade curiosa vero? Chi volesse approfondire nella fantascienza l’intrigante tema di questi alieni del tutto incomprensibili potrebbe utilmente partire da La Nuvola Nera di Fred Hoyle (The Black Cloud, 1957), dai romanzi di Stanislaw Lem, in particolare Solaris (1961) e L’Invincibile (Niezwyciężony, 1964), da Hal Clement (uno specialista di questo sottogenere), dall’immaginario pianeta Covenant proposto da Greg Egan in Oceanic (1998), oppure da Nemesis (1990) di Asimov. Fra i libri più appassionanti sull’alienità totale c’è Ultima Genesi (Dawn, 1987) di Octavia Butler, per inciso una delle rare afroamericane che abbia avuto spazio nella fantascienza. Il tema del romanzo è la xenogenesi, cioè

la nascita di una nuova razza derivante dalla fusione dei terrestri con gli alieni Oankali che li hanno strappati – ormai pochi e moribondi – all’inverno nucleare dopo l’ultima, demenziale guerra fratricida. Protagonista è una donna, Lilith Iyapo, che un tempo – quando cioè esisteva la Terra – era stata una Statunitense di colore. Lilith viene ‘svegliata’ per l’ennesima volta (sono passati 250 anni ma lei al momento lo ignora) da invisibili e soprattutto incomprensibili carcerieri. Quando decide di collaborare, costoro si mostrano: vagamente umanoidi, coperti ovunque di ‘peli’ che a distanza ravvicinata si rivelano ‘organi sensori’ e che sembrano ‘tentacoli’… E Lilith rabbrividisce. Gli alieni spiegano di essere affascinati dai terrestri ma turbati da “due caratteristiche incompatibili” della nostra razza: la prima è l’intelligenza, “Questa è la caratteristica più recente delle due, e quella che avreste potuto usare per salvarvi”; la seconda è “una struttura gerarchica”, primitiva e pericolosa. Per capire come si colloca Ultima Genesi in questo quadro occorre svelare alcuni colpi di scena. Gli Oankali


non sono astratti studiosi, tantomeno benefattori: ciò che chiedono ai terrestri sopravvissuti è di prestarsi a uno scambio genetico, in sostanza un incrocio razziale. Gli umani ne ricaveranno indubbi vantaggi (niente più tumori, per esempio), ma le loro caratteristiche di specie spariranno nel tempo. Per Lilith – un nome simbolico che rimanda al mito della donna che precedette Eva – gli Oankali sono, di volta in volta, ammirevoli, incomprensibili, rigidi e poi flessibili, impauriti, straordinari per intuito e anche capaci di imparare da lei e dal suo bisogno di conservare la dignità. È giusto “spartire il sesso” con questi alieni sensibili quasi fino alla telepatia, come viene chiesto (anzi ‘dolcemente’ imposto) a Lilith? Alla fine tutti, in qualche modo, sbaglieranno, e Ultima Genesi si conclude con un nuovo splendido inizio… che rimanda a due seguiti: lo sconvolgente Ritorno alla Terra (Adulthood Rites, 1988) e Imago (1989, purtroppo mai tradotto in italiano). Lasciando (a malincuore) la xenogenesi della Butler, torniamo rapidamente al ‘rompicapo biologico’ solo per

ricordare che uno scrittore irlandese, James White, sulle biologie aliene ha costruito un’intera serie di romanzi e racconti, ambientandola in una ‘Stazione ospedale’ (nell’originale ‘Settore generale’) nello spazio: il taglio è dialogante e pacifista. White è ottimista: non nasconde i problemi ma pensa che… insomma ce la faremo. Eppure ci possono essere minime differenze fisiche che risultano intollerabili a noi umani: le ali per esempio non dovrebbero impensierirci ma le corna e la coda sì; rimando soprattutto a Le Guide del Tramonto (Childhood’s End), scritto nel 1953 da Arthur C. Clarke. Altra gran bella – o brutta? – diversità potrebbe essere la telepatia: che sia un’evoluzione degli umani o la caratteristica di una razza aliena. Ma sarebbe lungo vedere come la fantascienza ha affrontato la telepatia e, più in generale, il rompicapo biologico (o linguistico): il tema, pur interessantissimo, ruberebbe spazio e ci porterebbe lontano da quelle altre alienità che sono vicine al nostro modo di vivere. URSULA SUGGERISCE Dismessi i panni della famosa romanziera, Ursula K. Le

ADULTHOOD RITES

(it: Ritorno alla Terra, 1988) di Octavia E. Butler prima edizione originale WARNER BOOKS, 1988

IMAGO

(1989) di Octavia E. Butler prima edizione originale WARNER BOOKS, 1989

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IL LINGUAGGIO DELLA NOTTE

(The Language of the Night, 1979) di Ursula K. Le Guin EDITORI RIUNITI, 1986 ISBN-13: 9788835929758

Guin ha indossato quelli della saggista per ragionare di science fiction. Alcuni suoi scritti (The Language of the Night, 1979) sono stati tradotti in italiano sotto il titolo Il Linguaggio della Notte; c’è un passaggio, La Fantascienza Americana e l’Altro, che ci interessa particolarmente. Parlando di socialismo e femminismo e “dell’infima condizione delle donne nella

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fantascienza” (almeno sino agli anni ’60 del secolo scorso) Le Guin scrive: “Il problema qui sollevato è il problema dell’Altro, dell’essere che è diverso da te stesso. Tale essere può differire da te nel sesso; o nel suo reddito annuale; o nel modo di parlare, di vestire o di agire; o nel colore della pelle; o nella quantità di gambe o di teste che ha. In altre parole esiste l’Alieno sessuale, l’Alieno sociale, l’Alieno culturale e infine l’Alieno razziale”. Poco più avanti aggiunge: “Se uno nega qualsiasi affinità con un’altra persona o genere di persona, se afferma che è completamente diversa da sé stesso, come gli uomini hanno fatto con le donne, e le classi hanno fatto con le classi, e le nazioni hanno fatto con le nazioni, può odiare l’altra persona o deificarla; ma in ogni caso ha negato la sua eguaglianza spirituale e la sua realtà umana. L’ha trasformata in un oggetto con il quale un solo rapporto è possibile: un rapporto di potere. E così ha fatalmente impoverito la sua stessa realtà. Ha in effetti alienato sé stesso”. Ed è questo schema, un po’ ampliato, che ci servirà per andare avanti nell’esame della fantascienza alle prese con vari tipi di alieno. L’ALIENITÀ RAZZIALE E LE SUE METAFORE Perché razziale, qui sopra, è indicato fra virgolette? Perché se ci riferiamo ai terrestri il termine è insensato, visto che le razze non esistono. Ma come il venerdì 17 (o 13 nei Paesi anglosassoni) porta sfortuna a chi ci crede, così la diffusa convinzione che sulla Terra si trovino differenti razze causa guai. Non esiste insomma – come spesso si ripete – l’odio o il pregiudizio


razziale ma l’odio razzista, cioè un’ideologia, una bugia che immagina alcune razze migliori (più ‘umane’) di altre. Ciò chiarito torniamo alla fantascienza. Il periodo d’oro (almeno dal punto di vista della diffusione popolare) della science fiction coincide in gran parte con quello storico nel quale negli USA erano negati i diritti agli afro-americani, dunque sino alla metà degli anni ’60. Non c’è da stupirsi che alcuni scrittori e scrittrici abbiano usato la metafora di ‘razze extraterrestri’ per parlare – più o meno apertamente – dei pregiudizi e della segregazione allora dominanti negli Stati Uniti (e, più a lungo, nel Sudafrica dell’apartheid). Qualche esempio fra i tanti. Nel romanzo breve Benedizione Oscura (Dark Benediction, 1951) di Walter Miller Jr., un morbo spaziale contamina gran parte dell’umanità. È un’affezione benigna, anzi accresce i poteri sensoriali delle persone colpite. Ma… rende nero il colore della pelle, e questo effetto collaterale scatena la violenza degli immuni, che vedono concretizzarsi il loro peggiore incubo: i neri sono migliori di loro e dunque,

a maggior ragione, vanno sterminati. Ray Bradbury ambienta nel ‘profondo sud’ degli USA Su negli Azzurri Spazi (Way in the Middle of the Air, 1950) un racconto che fa parte delle sue celebri Cronache Marziane. Quando la colonizzazione terrestre di Marte è consolidata, tutti i ‘negri’ si organizzano segretamente per andarsene, e si avviano in un’immensa fiumana verso le astronavi comperate coi loro risparmi. Qualcuno, lì intorno, commenta così: “Non capisco perché siano partiti proprio adesso. Ora che le cose si stavano aggiustando. Ogni giorno si faceva loro una nuova concessione, voglio dire. Insomma che volevano di più? Gli abbiamo appena tolto la tassa sul voto e parecchi Stati hanno votato leggi contro il linciaggio e hanno accordato loro parità di diritti. Che cosa vogliono di più? Guadagnano quasi come noi bianchi e se ne vanno…”. Sembra di sentire il Campbell citato sopra. Qualche anno dopo, nel 1964, nella finzione narrativa capita il contrario di quanto immaginato da Bradbury. Nel racconto Gli Emigranti dal Volto Azzurro (Beside the Golden Door) di Henry

DARK BENEDICTION

(it: Benedizione Oscura, 1951) di Walter M. Miller prima edizione originale, in Fantastic Adventures, set. 1951 ZIFF-DAVIS PUBLISHING CO.

THE MARTIAN CHRONICLES

(it: Cronache Marziane, 1950) di Ray Bradbury prima edizione originale DOUBLEDAY, 1950

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THE CRACK IN SPACE

(it: Altro Orizzonte, 1973) di Philip K. Dick prima edizione originale ACE BOOKS, 1973

HOMINIDS

(it: La Genesi della Specie, 2002) di Robert J. Sawyer prima edizione originale TOR, 2002

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Slesar, pochi e pacifici extraterrestri (identici a noi ma con l’epidermide tendente al celeste) chiedono di essere accolti: il loro pianeta sta morendo e non sanno dove andare. Ufficialmente l’accettazione è buona, ma poi cominciano gli alienicidi… Alla fine le organizzazioni terroristiche costringono gli Azzurri a un nuovo, difficile esodo. Chi racconta questa storia è un loro discendente: sono passati ormai millenni e le guerre interne hanno distrutto la Terra. “Ho appreso – dice il narratore – che quel mondo meritava di morire”. Nel 1957 anche una scrittrice, Leigh Brackett, aveva toccato la metafora del colore con il racconto I Negri Verdi (era migliore il titolo originale, All the Colors of the Rainbow): la guerra spaziale nascerà dalle discriminazioni alle quali i razzisti del Sud degli USA sottopongono una coppia di turisti extraterrestri, giunti in crociera sulla Terra da un pianeta alleato, e colpevoli solamente di avere la pelle verdina. INCONTRANDO I FRATELLI PERDUTI Del 1966 è un bellissimo romanzo di Philip K. Dick, The Crack in Space (1973), che in italiano è apparso sia con il

titolo Vedere un Altro Orizzonte che come Svegliatevi, Dormienti. Ci sono gli ibernati, cioè i disoccupati che si sono fatti congelare per attendere che passi la crisi economica; c’è il primo afroamericano alla presidenza USA; e c’è la scoperta di Terre parallele. Nella porta che d’improvviso si apre su un’altra Terra l’evoluzione ha preso uno sviluppo ben diverso: qui i Sinantropi “sono diventati la specie dominante” e “l’Homo sapiens non è apparso o per qualche motivo non ha vinto la lotta per la sopravvivenza”. Noi, eredi dei Cro-magnon, e questi altri più vicini ai pitecantropi riusciremo a comunicare? Ovviamente, per molti, gli inquilini di questa porta accanto sono solo scimmie. E uno dei protagonisti del romanzo pensa: “Ora sì che il Ku Klux Klan ha veramente un lavoro fatto su misura”. Alieni che vengono dal nostro stesso ceppo. Questo tema dei nostri fratelli (così simili eppure così alieni) perduti in una delle svolte dell’evoluzione torna nella trilogia Neanderthal Parallax di Robert Sawyer, uno dei più interessanti scrittori di oggi. I titoli: La Genesi della Specie (Hominids,


2002), Fuga dal Pianeta degli Umani (Humans, 2003) e Origine dell’Ibrido (Hybrids, 2003). Tre lunghi, avventurosi romanzi con delitti sulla Terra e in qualche Altrove; sono ambientati infatti in due universi paralleli, che imprevedibilmente entrano in contatto e si confrontano lungo diversi assi evolutivi… dato che in uno hanno prevalso i barast (ovvero la specie Homo neanderthalensis) mentre nell’altro noi gliksin (Homo sapiens, come presuntuosamente ci definiamo). Appare evidente che il canadese Sawyer, oltre ad avere parecchie critiche da fare al suo vicino di casa (lo zio Sam), è dubbioso sul fatto che l’evoluzione su questa Terra sia andata nel modo migliore possibile. Eppure anche i cugini neanderthaliani – come ce li racconta – non sono ‘perfetti’. Così, al termine della trilogia, si è aperto un dibattito (su Internet e fra gli appassionati di fantascienza): potendo scegliere, cosa terremmo del mondo gliksin e cosa invece dovremmo imitare dai barast? Il filone dei Neandhartal e delle scimmie evolute si è intrecciato spesso con la science fiction. Dall’ingenuo romanzo Gorilla Sa-

piens (Genus Homo, 1941) di L. Sprague de Camp e Peter Schuyler Miller sino alla celebre serie de Il Pianeta delle Scimmie, all’origine un romanzo di Pierre Boulle (La Planète des Singes, 1963) poi una serie di film e telefilm, apertamente – seppure superficialmente – antirazzisti e simpatizzanti verso i fratelli scimmioni. Un accenno al film, fra i più amari e tormentati di una certa produzione fantastica impegnata: dopo un esperimento di viaggio a velocità iperluce, durante il quale l’equipaggio è ibernato, l’astronave atterra su un pianeta presunto alieno per scoprire che lì le scimmie si sono evolute e tengono gli uomini in stato di schiavitù e semi animalità, perfino incapaci di parlare. Il potere scimmiesco presenta alcune caratteristiche del peggior medioevo oscurantista. I sommi sacerdoti detengono i segreti della zona proibita, dove sarebbe nata la loro stirpe, ed è in quell’area che il ‘peloso’ scienziato dissidente Cornelius (Roddy McDowall) conduce l’astronauta Taylor (un Charlton Heston in gran forma). Finale scioccante: Taylor s’imbatte nei resti della Statua della Libertà, semisommersa dal

HUMANS

(it: Fuga dal Pianeta degli Umani, 2003) di Robert J. Sawyer prima edizione originale TOR, 2003

HYBRIDS

(it: Origine dell’Ibrido, 2003) di Robert J. Sawyer prima edizione originale TOR, 2003

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i ‘negri’ o altri non bianchicci, compresa – è triste ma doveroso ricordarlo – anche certa fantascienza e fantasy con evidenti simpatie naziste che gira in circuiti semiclandestini.

IL PIANETA DELLE SCIMMIE

(La Planète des Singes, 1963) di Pierre Boulle seconda edizione italiana Oscar Fantascienza MONDADORI, 1975

mare. Gli uomini hanno distrutto la Terra in un conflitto atomico e le scimmie si adoperano – con qualche ragione? – affinché quella ‘civiltà’ venga dimenticata. ‘Sono simili a scimpanzè e gorilla’ è la sprezzante accusa che si legge tuttora – in purtroppo tanti libri e siti razzisti – verso

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L’ALIENITÀ SESSUALE E I SUOI TABÙ “Tol studiò la faccia allegra dell’Allegon cercando di conciliarla con il concetto umano di mascolinità. Ma su quel pianeta, si disse, i ruoli sessuali come tali erano in gran parte inesistenti. Il desiderio sessuale, secondo il testo di antropologia, era quasi interamente sotto controllo razionale. Il ‘matrimonio a tre’ era asessuale per natura e sanciva l’unione di un Allegon, un Gonnegon e un Berregon. Dopo la formazione della triade, ciascun adulto si accordava fuori dal matrimonio con qualcuno della sua specie per la concezione e la nascita di un figlio. Alla nascita, il figlio veniva affidato al genitore con cui ci si era accordati e l’altro, fosse padre o madre, rinunciava a ogni diritto su di lui. Successivamente, il piccolo Allegon, fosse maschio o femmina, cresceva educato a servire; il Gonnegon a comandare; il Berregon a produrre…”: ecco lo scenario – un po’ complicato per i nostri standard – proposto nel romanzo Un Mondo da Salvare (Assignment Nor’Dyren, 1973) di Sydney Van Scyoc. Del resto il sesso – ci avevate fatto caso? – è argomento assai complicato. Combattuti fra una rilassante normalità (non meglio precisata) e il fascino indiscreto della diversità (l’esotico è erotico?) la nostra buffa razza continua da millenni a vivere in termini schizofrenici il rapporto con le differenze, oscillando fra attrazione e


ripugnanza senza trovare punti di equilibrio. Particolarmente vero dalle parti dell’amore e del sesso. C’è naturalmente chi la vede semplice; tanto per fare un esempio: l’uomo domina, la donna ubbidisce e via così. C’è chi vede (si ostina?) un solo modo, un’immutabile realtà. Ma c’è anche chi – guardando meglio – scopre complessità, e ne prende atto. Una battuta, vecchia forse come il mondo, proclama “una piccola differenza, viva la differenza”. Ma uno sguardo sul mondo e sulla storia dice invece che questa diversità inquieta, al punto che nel pensiero religioso, filosofico, politico – come in quello da bar – uno dei due sessi (sapete bene quale) viene considerato inferiore e/o pericoloso. E poi davvero sono solamente due, maschile e femminile, le caratterizzazioni? Non stiamo facendo confusione fra genere e sessualità? E le caratteristiche fisiche, mentali, psicologiche di M e F dipendono (come i ruoli) dalla genetica o anche dalla determinazione storica? Oppure: quanto dall’una e quanto dall’altra? Per capire le incomprensioni ma ancor più le falsifica-

zioni intorno alla sessualità, bisognerebbe ripartire da Il Secondo Sesso (Le Deuxième Sexe, 1949) e da altri scritti di Simone de Beauvoir, ma anche dalla convinzione di Carl Gustav Jung secondo cui i maschi cercano dentro sé stessi un archetipo femminile (in certo senso il mito platonico del centauro spezzato in due da un fulmine), appunto l’altro da sé. In questo orizzonte, bisessuali, transessuali o asessuati sono anomalie, mostruosità o solamente opzioni rare? Quanto al numeroso ‘gay people’, insomma all’omosessualità… amare persone dello stesso sesso è – ancora lo proclamano i più accreditati esponenti delle tre maggiori religioni monoteiste – un’offesa a Dio (o come volete chiamarlo) e alla Natura? O chi lo dice è solo uno spaventato, ignorante razzista? Differenze sessuali: in definitiva chi invidia chi? E chi ha paura di chi? Dobbiamo accettare o rifiutare che in differenti periodi storici e sociali, sotto altre latitudini o magari solo per libera scelta vi siano modi assai variegati per esprimere amore e per cercare una felicità sessuale? O è roba da alieni? Domande difficili. La fanta-

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GENUS HOMO

(it: Gorilla Sapiens, 1941) di L. Sprague de Camp e P. Schuyler Miller prima edizione originale, in Super Science Novels Magazine, mar. 1941 FICTIONEERS, INC.

ASSIGNMENT NOR’ DYREN

(it: Un Mondo da Salvare, 1973) di Sydney Van Scyoc prima edizione originale AVON, 1973

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THE LOVERS

(it: Un Amore a Siddo, 1952) di Philip José Farmer prima edizione originale, in Startling Stories, ago. 1952 BETTER PUBLICATIONS

UMANO È

(it: Human Is, 1955) di Philip José Farmer prima edizione originale, in Startling Stories, gen. 1955 BETTER PUBLICATIONS

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scienza forse ci può aiutare, mettendo a fuoco – come in un certo senso prevede il suo statuto – la ricerca di un punto di vista insolito o il semplice ‘e se invece accadesse…’. Proviamo a vedere se ci è riuscita, almeno un poco. L’esordiente Philip Josè Farmer nel 1952 suscitò tanto reazioni scandalizzate e boicottaggi quanto contrapposte grida di giubilo. Accadde con il racconto The Lovers, in seguito allungato a romanzo e noto in Italia come Un Amore a Siddo. Lo struggente rapporto, anche erotico, fra un umano (bianco e anglosassone) e un’aliena veramente diversa, per di più immaginato in uno scenario controllato da rigide strutture para-religiose, non poteva che scatenare – nel mondo detto reale – le ire di razzisti e bigotti, amplificate dalla vittoria di Farmer come ‘autore dell’anno’ nel premio Hugo, il riconoscimento più importante della fantascienza. Altro che sesso interrazziale, qui siamo all’accoppiamento fra specie biologicamente mooolto diverse. Signora mia dove andremo a finire? Non sembri una battuta: posso testimoniare per conoscenza diretta che pochi anni fa in un pa-

esino del Veneto un padre picchiò la figlia (maggiorenne oltretutto) perché usciva con ‘il figlio della zoppa’; a gettare benzina sul rogo… il fatto che buona parte dei vicini si schierasse con il padre della ragazza. Signora mia, si comincia a uscire con il figlio della zoppa e si finisce con gli E.T. Negli anni ’50 esordisce anche Dick, autore importante e assai contraddittorio, con punte di forte misoginia altalenate a un’insolita sensibilità che forse potremmo definire femminile. Uno dei suoi racconti più delicati è senza dubbio Umano È (Human Is) del 1955; vale la pena ricordarlo perché ci parla di amore con alieni ma soprattutto ci ricorda che il concetto di umanità non è definito una volta per sempre. Lester Merrick è un umano quanto meno odioso, indisponente e violento nei rapporti con la moglie, la mite Gil. Al ritorno da un viaggio spaziale, Gil scopre che il marito è profondamente mutato: attento, disponibile, tenero. Non ha quasi il tempo di felicitarsene che piombano da lei due agenti dell’onnipotente Sicurezza federale: sono certi che Merrick sia stato ‘invaso’ da un parassita; sapremo più tardi


che si tratta dell’esponente di una razza antichissima in via di estinzione, e che ‘l’impossessamento’ è avvenuto solo perché Lester era già morente. I super-sbirri chiedono alla donna di aiutarli a neutralizzare il ‘mostro’. La donna esita ma alla fine tradisce i suoi simili, preferendo l’alieno, infinitamente migliore dell’arrogante, crudele maschio terrestre che prima aveva occupato quel corpo ora capace di dolcezza. Nell’antologia Il meglio di Philip K. Dick (The Best of Philip K. Dick, 1977), l’autore ha così commentato: “Per me questa storia simboleggia ciò che un essere umano è. Non si tratta di avere un certo aspetto o di provenire da un certo pianeta ma di vedere sino a che punto si è gentili. La gentilezza ci differenzia dai sassi, dai pezzi di legno, dal metallo e così sarà sempre, qualsiasi forma assumiamo, dovunque andiamo, qualunque cosa diventiamo. ‘Umano È’ è il mio credo e mi auguro che possa essere il vostro”. Questo concetto era per lui così importante che Dick lo ha ripetuto spesso; per esempio nel romanzo I Nostri Amici di Frolix 8 (Our Friends from Frolix 8, 1970). Leggete: “La misura dell’uo-

mo non è la sua intelligenza. Non consiste nell’altezza che può raggiungere in un sistema sbagliato. La misura dell’uomo è questa: con quale rapidità sa reagire ai bisogni di un’altra persona? E quanto può dare di sé?”. Gentilezza, amore, empatia: passa da queste parti la strada giusta per uscire dalla terribile triade di violenza, potere, paura. E se non parliamo anche di questo allora ogni discorso sulla sessualità rimanda solo a una ginnastica vagamente solipsista. O almeno chi scrive la pensa così. L’INCERTA DEFINIZIONE DI UMANITÀ Eppure definire un essere umano non è semplice. Lo stesso Dick in altre sue storie offre tutt’altri parametri. Per esempio nel racconto Le Pre-Persone (The Pre-persons, 1974) la definizione legislativa di umanità è stringente: solo chi è in grado di risolvere un’equazione di secondo grado è un umano ‘completo’. A una certa età chi non supera quest’esame può (in quanto umano non completo) essere eliminato; o meglio “abortito” nella provocazione di Dick. Questa rigidissima definizione non vi sembri assurda. I

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OUR FRIENDS FROM FROLIX 8

(it: I Nostri Amici di Frolix 8, 1970) di Philip K. Dick prima edizione originale ACE BOOKS, 1970

THE PRE-PERSONS

(it: Le Pre-Persone, 1974) di Philip K. Dick prima edizione originale, in The Magazine of Fantasy and Science Fiction, ott. 1974 MERCURY PRESS

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THE WORLD WELL LOST

(it: Un Mondo Davvero Perduto, 1953) di Theodore Sturgeon prima edizione originale, in Universe, giu. 1953 BELL PUBLICATIONS

VENUS PLUS X

(it: Venere Più X, 1960) di Theodore Sturgeon prima edizione originale PYRAMID BOOKS, 1960

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nazisti hanno legiferato, in nome della scienza, contro le ‘razze inferiori’. Tanto per fare un solo esempio che ci chiama in causa, un recente governo italiano ha chiesto ai medici – che in massa si sono rifiutati, per fortuna – di non riconoscere il diritto universale alle cure mediche per quelle persone che una apposita definizione di ‘non umanità’ (la clandestinità è il suo ridicolo nome) aveva escluso dai diritti fondamentali. STURGEON Torniamo all’alieno sessuale. In questo segmento l’uragano si chiama Sturgeon. E occorre dedicagli un ampio spazio perché anche oggi – dopo 60/70 anni – le sue opere dividono, inquietano, suscitano resistenze, aprono orizzonti. Edward Hamilton Waldo, più noto come Theodore Sturgeon, a suo tempo venne presentato dagli editori italiani come “portatore di scandalo”, quando andava bene, o più spesso come “sgradevole, che fa nascere la sua poesia in mezzo ai rifiuti”. Ciò è lontano dalla verità: Sturgeon non vuole scandalizzare; con il suo inimitabile stile esplora alcuni mondi possibili di altre sessualità

e affettività dove talora incontra storie che ad alcuni possono risultare sgradevoli o impossibili a capire. Se per “svegliare il mondo sull’orlo del possibile” Sturgeon ha dovuto pagare un alto prezzo di censure, insulti, mancate pubblicazioni, ghettizzazione ciò conferma solo la forza, la persistenza di intolleranze e pregiudizi che ha cercato di smontare. Di sicuro il racconto che costò a Sturgeon il massimo di insulti e minacce fu Un Mondo Davvero Perduto (The World Well Lost) del 1953. Da Dirbanu, pianeta lontano e rinchiuso in uno splendido isolamento, giungono “due bipedi implumi, abbastanza simili a noi”; di essi ben poco si sa, ma sono disarmati e non rappresentano una minaccia. I due sono inseparabili e questo grande amore commuove i terrestri, anche quelli che di solito hanno il cuore di pietra. Poi arriva da Dirbanu un laconico messaggio: sono criminali, restituiteceli subito. La ragion di Stato – cioè i buoni rapporti con un vicino che si sa essere potente – prevale e la Terra decide di rimpatriare gli inseparabili. A riportarli sul loro mondo è l’astronave Stramite-439 con i due piloti Rootes e Grunty. Nella ten-


sione del lungo viaggio, Grunty trova un sistema per comunicare con i due alieni, e scopre così in cosa consista il loro ‘crimine’. Decide allora di farli fuggire, all’insaputa di Rootes che, quando lo scopre, esige un chiarimento. A fatica Grunty gli fa capire qual è il problema: i due inseparabili sono dello stesso sesso. “Vuoi dire che abbiamo viaggiato per tutto questo tempo con una maledetta coppia di invertiti? Oh, se l’avessi saputo li avrei ammazzati” urla Rootes. Ma Sturgeon ha in serbo una sorpresa che dà un’ulteriore chiave di lettura a un racconto già eccellente. Dopo il litigio, Rootes si addormenta. Grunty lo guarda “con grande tenerezza e assoluta attenzione, come una madre farebbe con il suo bambino”; poi, senza svegliarlo, tende la sua mano gigantesca e “con un tocco di piuma accarezza le labbra addormentate”. Dove nasce questa paura della diversità? Sturgeon, in Venere Più X (Venus Plus X, 1960), risponde così: “L’Homo sapiens crede, nella parte più buia del suo cuore, che tutto ciò che è diverso è pericoloso per definizione e che per questo deve essere sterminato”. In questo caso gli alieni ‘sessuali’ sono già fra noi e si nascondono; sono un sentiero parallelo dell’evoluzione oppure – il romanzo lascia un margine di dubbio – sono il nostro futuro? Vale la pena accennare la trama. Charlie Johns, un uomo qualsiasi, si trova scaraventato nella civiltà dei Ledom. Umani. Eppure incomprensibili: religione, bambini, valori, scienza… tutto è diverso da quel che Charlie conosce. Gli indecifrabili Ledom possono servirgli per una riflessione critica sul suo mondo. Scoprire

che i Ledom sono ermafroditi impaurisce Charlie, eppure egli prova ugualmente a rivolgersi le domande proibite, a capire dove sia nato l’orrore per il diverso: “Quando gli uomini hanno cominciato a dichiarare impuri i flussi mensili e a praticare il rito noto come la vecchia purificazione post-parto? E chi ha iniziato a dire che le differenze fra uomo e donna erano maggiori delle somiglianze?”. Una prima provvisoria risposta è: “Perché, dicono, l’uomo è superiore […] e non sei buono a far niente, allora l’unico modo per dimostrare che tu sei superiore è rendere inferiore qualcun altro”. Ma i Ledom non hanno ancora rivelato tutto… Come dicono essi stessi: “Di tanto in tanto dobbiamo incontrarci con l’Homo sapiens per vedere se è pronto a vivere, ad amare, ad adorare senza la gruccia di una bi-sessualità imposta […] Noi non siamo una utopia. Un’utopia è qualcosa di finito, di completo; noi siamo transienti: custodi […] o un ponte. Transienza è passaggio, è dinamismo, è movimento, è evoluzione, è mutamento, è vita”. Le inquietudini sessuali – qui solo accennate – narrate da Sturgeon rappresentano un punto di vista insolito nella fantascienza maschile. Ma c’è anche (ed esplode in sincronia con il femminismo degli anni ’70) una science fiction femminile. NAOMI, ALICE, URSULA E LE ALTRE Le donne hanno maggiore predisposizione a capire le psicologie aliene? È uno dei quesiti che serpeggia nel romanzo Diario di una Astronauta (Memoirs of a Spacewoman) scritto nel 1962 dalla scozzese Naomi Mitchison, attivista politica

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MEMOIRS OF A SPACEWOMAN

(it: Diario di una Astronauta, 1962) di Naomi Mitchison quinta edizione originale NEW ENGLISH LIBRARY, 1977

THE WOMEN MEN DON’T SEE

(it: Le Donne Invisibili, 1973) di James Tiptree Jr. prima edizione originale, in The Magazine of Fantasy and Science Fiction, dic. 1973 MERCURY PRESS

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per i diritti umani e occasionalmente (ma con eccellenti risultati) scrittrice. Qui gli alieni non sono creature artificiali ma animali che divengono alieni per come sono osservati; Mary – la protagonista – è un’esperta in ‘eso-comunicazioni’. Mitchison spalanca un impressionante numero di porte sul fatto che la scienza è fallibile, sulle complicazioni della ‘civiltà’ ma soprattutto sul meticciato, su maternità e maternage, sul sesso (varie razze aliene non posseggono generi sessuali), in definitiva sulla alienità dell’essere donne. Come notava Nicoletta Vallorani nella prefazione dell’edizione Urania del romanzo (col titolo Memorie di una Astronauta), c’è una “oscillazione costante di Mary dal suo ruolo privato di madre a quello pubblico di esperta in linguaggi alieni”. Ne Le Donne Invisibili (The Women Men don’t See, 1973) di Alice Sheldon, un gruppo di scienziati terrestri, uomini e donne, è al lavoro in un luogo sperduto quando incontra alieni tanto superiori quanto sprezzanti, i quali li stupiscono con l’offerta di un viaggio con loro fra le galassie. Non è chiaro se gli alieni li vogliano come

animali da compagnia, allievi da educare o cosa. Si discute. Il sospetto e il fastidio (per l’arroganza dimostrata) sono tali che tutti i maschi declinano l’invito. Le donne invece accettano; e spiegano agli stupefatti colleghi una verità nascosta (o rimossa, fate voi): male che vada, le donne non potranno essere trattate dagli alieni peggio di come già accade sulla Terra. Come sa chi ha frequentato la fantascienza, lo scandalo di Alice Sheldon è doppio: perché questo racconto (e molti altri simili per provocazione) erano firmati James Tiptree Jr., e solo all’ennesimo premio il celebre autore si rivelò… un’aliena dello ‘spazio interno’. Chi ama Star Trek - The Next Generation ricorderà uno degli episodi più riusciti: l’equipaggio dell’Enterprise D entra in contatto diplomatico con un pianeta alieno i cui abitanti sono obbligati alla più completa asessualità, e ogni sbilanciamento verso l’uno o l’altro sesso viene punito con la rieducazione coatta; ma uno di loro, dopo aver conosciuto il primo ufficiale Ryker, sente il bisogno di cambiare e sceglie di diventare donna. L’amore fra i due dura il tempo di un battito di ciglia, poiché


l’aliena viene prelevata dalla sua gente che procede seduta stante a sopprimerle le nuove inclinazioni. Ed eccoci a Ursula K. Le Guin, che è oggi un’arzilla vecchietta: ha abbandonato quasi del tutto i territori della fantascienza in senso stretto ma continua a muoversi, con gran bravura, dalle parti della letteratura fantastica. Quando vinse i premi Hugo e Nebula con La Mano Sinistra delle Tenebre (The Left Hand of Darkness, 1969) Le Guin non ebbe che plausi, nonostante il tema fosse considerato scabroso. Per la prima volta una donna otteneva quei riconoscimenti, i più importanti della fantascienza, e per di più mettendo sottosopra i tabù sessuali; ma i tempi erano cambiati anche nella science fiction. Il narratore, Genly Ai, viene ufficialmente inviato sul pianeta Inverno, che attraversa una perenne era glaciale. È il primo vero contatto con una razza aliena potente ma sino ad allora chiusa in un indecifrabile isolamento. Gli abitanti di Inverno, i getheniani, sono asessuati con un periodo mensile di fertilità (il kemmer) durante il quale ognuno di loro trova un partner e, a causa delle secrezioni ormonali, può diventare maschio o femmina indifferentemente. Non v’è traccia di rigidi dualismi e incancrenite differenziazioni come sulla Terra. Ecco come un rapporto racconta – a un uditorio eterosessuale – le implicazioni socioculturali di questa sorprendente fisiologia: “Tenere presente: chiunque può dedicarsi a qualunque cosa. Sembra molto semplice, ma i suoi effetti psicologici sono incalcolabili. Il fatto che chiunque fra i diciassette e i trentacinque anni circa sia soggetto a diventare (come dice

LA MANO SINISTRA DELLE TENEBRE

(The Left Hand of Darkness, 1969) di Ursula K. Le Guin ultima edizione italiana TEA, 2003 ISBN-13: 9788850204465

Nim) ‘vincolato alla gravidanza’ implica che qui nessuno è ‘vincolato’ come, in qualunque altro posto, lo sono le donne – psicologicamente o fisicamente. Responsabilità e privilegi vengono condivisi equamente: ognuno ha in egual misura rischi da correre o scelte da fare. Perciò

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DI FUTURI CE N’È TANTI

ciò che fa di solito un individuo etero-sessuale, cioè costringerlo nel ruolo di Uomo o di Donna, adottando perciò verso di lui un atteggiamento che si basi su quelle che si prevede siano le interazioni prestabilite o possibili fra persone dello stesso sesso o del sesso opposto. Un individuo qui viene rispettato e giudicato soltanto come essere umano. È una esperienza fantastica”. L’incomprensione è reciproca. L’inviato eterosessuale non riesce a capire, ma dall’altra parte incontra un’analoga chiusura. Per ulteriori approfondimenti sul segmento dell’alienità sessuale rimando al capitolo ‘Sesso, Amore e X’ nel libro Di Futuri ce n’è Tanti, che ho scritto, nel 2006, con Riccardo Mancini, e anche alla home page di Giovanni Dell’Orto con uno specifico approfondimento sulla ‘fantascienza con personaggi glbt’, dove la sigla sta a indicare persone Gay, Lesbiche, Bisessuali e Transgender.

qui nessuno è tanto libero quanto lo è un maschio libero in qualunque altro posto. Tenere presente: l’umanità non è divisa in una metà forte e in una metà debole, in protettori e protetti, in dominatori e sottoposti, in proprietari e nullatenenti, in attivi e passivi. Infatti la tendenza al dualismo, che pervade il modo di pensare degli esseri umani, è qui mitigata o mutata. Quanto segue deve essere riportato nelle mie ‘Istruzioni’: allorché si incontra un getheniano, non si può e non si deve fare

ALIENITÀ DEI CORPI Sull’handicap e dintorni nella fantascienza devo necessariamente rimandare al mio dossier ‘Umano è’ che fu pubblicato nel 2001 e che si può leggere anche nel sito del Centro Documentazione Handicap. C’è chi allora si è stupito che la science fiction abbia dedicato tanta attenzione – e consapevolezza – a questo tema. Per me la ricerca fu solo una conferma di quanto questo ‘magazzino’ sia vitale e spesso possa dire quello che censuriamo o auto-censuriamo nel nostro mondo reale – il quale era stato ribattezzato, con sarcasmo, da Isaac Asimov il “cosiddetto mondo reale”, a significare che forse ne-

(2006) di Daniele Barbieri e Riccardo Mancini AVVERBI, 2006 ISBN-13: 9788887328554

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gli altri mondi, quelli della fantascienza, c’era più verità. Dunque al riguardo farò solo un brevissimo accenno. Il ribaltamento iniziato da Brown con Sentinella tocca forse il suo apice con due romanzi di Theodore Sturgeon: Cristalli Sognanti (The Dreaming Jewels, 1950) e Nascita del Superuomo (More than Human, 1953), che non a caso hanno diviso – e tuttora dividono – gli appassionati di fantascienza in due schiere non riconciliate. Solo scavando dove gli uomini impauriti vedono qualcosa di incomprensibile e quindi orribile possiamo scoprire una nuova, diversa umanità. Se ci sentiamo una super-razza (o l’unica razza pensante o il ‘popolo eletto’) risulta impossibile accettare la sfida che Sturgeon ci propone. Se il preteso super-uomo possiede una super-scienza o super-armi, in qualche modo possiamo fare i conti con lui (magari per arrenderci), ma se invece qualcosa di sovra-umano, magari qualche umano mutante, avesse una super-empatia, una super-solitudine o magari una superiore capacità di amare, allora scatterebbe un antico meccanismo: la paura che prevale

sul desiderio e dunque… io devo sopprimere quel che non capisco. È curioso che anche un filosofo letto e osannato come Friedrich Nietzsche, quando ha affrontato il tema del superuomo, sia stato frainteso, se non addirittura arruolato (del tutto a torto) fra i precursori del nazismo. Invece basterebbe questa frase in Ecce Homo per farci riflettere: “L’uomo è una corda tesa fra l’animale e l’oltre-uomo, una corda sopra l’abisso”. E altrove – mi ricorda sempre il mio amico Fabrizio, nicciano doc – ha scritto: “Anche l’anima deve avere le sue determinate cloache nelle quali far defluire la sua immondizia; a ciò servono persone, relazioni, classi, o la patria oppure il mondo oppure infine – per quelli molto boriosi (voglio dire i nostri cari ‘pessimisti’ moderni) – il buon Dio”. Il superuomo nietzschiano è un ‘sentito dire’ o un fraintendimento che venne incoraggiato dalla sorella Elisabeth, antisemita e sostenitrice del nazismo, nel risistemare gli scritti del fratello. ALIENITÀ SOCIALE. Partiamo da un racconto di Leó Szilárd, uno dei padri (involontari) della bomba

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THE DREAMING JEWELS

(it: Cristalli Sognanti, 1950) di Theodore Sturgeon prima edizione originale, in Fantastic Adventures, feb. 1950 ZIFF-DAVIS PUBLISHING CO.

MORE THAN HUMAN

(it: Nascita del Superuomo, 1953) di Theodore Sturgeon prima edizione originale FARRAR, STRAUS AND YOUNG, BALLANTINE BOOKS, 1953

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UNTOUCHED BY HUMAN HANDS

(it: Mai Toccato da Mani Umane, collezione 1954) di Robert Sheckley prima edizione originale BALLANTINE BOOKS, 1954

RENDEZVOUS WITH RAMA

(it: Incontro con Rama, 1973) di Arthur C. Clarke prima edizione originale GOLLANCZ, 1973

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atomica. Nel racconto Rapporto sulla Stazione Centrale di New York (Grand Central Terminal, 1952), ci provoca così: “Immaginate che colpo fu per noi atterrare in quella grande città e trovarla deserta. Da dieci anni viaggiavamo attraverso lo spazio. […] Quando finalmente atterrammo scoprimmo che su quel pianeta la vita si era estinta. […] A quel punto Xram si ricordò che circa 5 anni prima erano stati osservati misteriosi bagliori, tutti nella stessa settimana. Gli venne in mente che quei bagliori potevano essere stati prodotti da esplosioni di uranio. […] Ritenevamo che chi aveva costruito una città così grande fosse dotato di razionalità per cui ci sembrava difficile che si fosse impegnato a trattare l’uranio per tanto tempo. […] Non sapendo da dove iniziare le ricerche, scegliemmo come primo oggetto di indagine uno degli edifici più grandi della città. Anche se non sapevamo cosa significasse Grand Central Terminal, non avevamo dubbi su quale fosse il suo utilizzo. Era parte di un primitivo sistema di trasporto basato su rozze macchine che correvano su rotaie tirandosi dietro vetture a ruote. Per più di 10

giorni studiammo quell’edificio e scoprimmo dettagli interessanti e sconcertanti”. Quel che qui ci interessa è la difficoltà a decifrare un mondo alieno. Le scritte ‘fumatori’ e ‘non fumatori’ restano inspiegabili per gli scienziati alieni, e certi dipinti che mostrano esseri con le ali confondono ancor più le idee. Szilárd si diverte… Cosa significa la scritta ‘libero’ all’ingresso di cabine chiamate ‘uomini’ e ‘donne’? Perché si aprono solo con un gettone? E perché stanze con analoghi congegni nelle case non hanno il meccanismo apribile con un dischetto e la scritta ‘libero’? Cos’abbia a vedere la libertà con gli escrementi è un quesito che appassiona questi scienziati alieni. Così ‘saggi’ da non credere che i terrestri possano essersi auto-distrutti con l’uranio. Di paradossi e provocazioni simili (magari a ruoli rovesciati, cioè con i terrestri nella parte degli alieni che indagano) è piena la fantascienza. Chi è appassionato del genere ricorderà quantomeno l’antologia Mai Toccato da Mani Umane (Untouched by Human Hands, 1953), del caustico Robert Sheckley, il romanzo Picnic sul Ciglio


della Strada (Pikník na obóčine, 1972) dei fratelli Strugackij (trasposto al cinema da Andrej Tarkovskij come Stalker) o lo sconcertante (soprattutto nel finale) Incontro con Rama (Rendezvous with Rama, 1973) dell’altro scienziato-scrittore Arthur C. Clarke. Qui ci interessa la fantascienza che ha al suo centro l’alieno sociale dunque diverso, incomprensibile, ‘non umano’ per ragioni di classe o per un particolare lavoro. Chi si rifà in qualche modo al pensiero di Marx già saprà che, per i borghesi, alieni sono i proletari e viceversa. E, per quanto i rapporti (di potere) fra le classi cambino, il capitalismo inevitabilmente fabbrica alieni. Nel 1982 André Gorz ricorda in Addio al Proletariato che già Adam Smith annotava “molti padroni di fabbriche preferiscono impiegare operai ‘mezzi idioti’”, e che poi Marx “descriverà il lavoro operaio, sia nelle manifatturiere che nelle cosiddette fabbriche automatiche, come una mutilazione delle facoltà intellettuali e corporali degli operai”. E Gorz riassume: “La fabbrica produce ‘mostri’”. Alieni. O umani mutanti, direbbe qualche scrittore/scrittrice di science fiction. Un buon esempio è il racconto Crumiro (Strikebreaker, 1957) di Isaac Asimov. Steven Lamorak è un sociologo terrestre che visita Altrovia, un planetoide fuori dal sistema solare, con un diametro di un centinaio di miglia, patria di una colonia umana formata da trentamila persone. Capiremo che qui si è sviluppato un rigido sistema di caste dove ogni lavoro è limitato a un particolare insieme di famiglie. Il consigliere Blei spiega a Lamorak: “Dobbiamo rimettere tutto in circolo […] i rifiuti di ogni genere devono essere ritra-

PICNIC SUL CIGLIO DELLA STRADA

(Pikník na obóčine, 1972) di Arkadij e Boris Strugackij ultima edizione italiana MARCOS Y MARCOS, 2003 ISBN-13: 9788871683553

sformati in materia prima”. Blei sembra imbarazzato e reticente, però accetta di parlare del sistema di caste: “ogni uomo, donna o bambino sa qual è il suo posto”. Nei giorni successivi Blei ammetta l’esistenza di un problema: “Igor Ragusnik è l’uomo che si occupa dei processi industriali direttamente connessi ai rifiuti

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STRIKEBREAKER

(it: Crumiro, 1957) di Isaac Asimov prima edizione originale, in Science Fiction Stories, gen. 1957 COLUMBIA PUBLICATIONS

SCHULE DER ARBEITSLOSEN

(La Scuola dei Disoccupati, 2006) di Joachim Zelter prima edizione originale KLÖPFER & MEYER, 2006

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[…] ma noi non possiamo parlare con lui”. E ora Ragusnik “pretende uguaglianza sociale. Vuole che i suoi figli si mescolino ai nostri”, e minaccia di scioperare. Blei dice a Lamorak: “come terrestre immagino che lei non possa capire”. E lui risponde: “come sociologo penso di sì” e “pensa agli intoccabili dell’antica India, a coloro che maneggiavano i cadaveri, ai guardiani di porci nell’antica Giudea”; ma anche ai tabù terrestri, altrettanto forti: “il cannibalismo, l’incesto, la bestemmia sulle labbra di un uomo devoto”. Lo stesso Ragusnik così esprime la propria disperazione: “perché dobbiamo vivere in isolamento come se fossimo mostri? […] Non mi arrenderò. Muoia pure d’infezione tutta Altrovia, compresi me e i miei figli ma non cederò”. Nell’introdurre Crumiro, Asimov scrive: “Credo che questo sia un racconto importante […] invece precipitò nella più totale indifferenza”. Beata ingenuità: il pur saggissimo Isaac sembra incapace di vedere che si tratta non solo di una metafora della condizione dei ‘negri’ negli Stati Uniti di allora ma più in generale di una denuncia della rigida divisione

in classi della società. Il tedesco Joachim Zelter ne La Scuola dei Disoccupati (Schule der Arbeitslosen, 2006) ha immaginato una società-incubo che abbia come suo faro la costruzione del curriculum. Molte altre suggestioni, visioni e metafore sociali dell’alienità sociale percorrono la fantascienza: chi deciderà di proseguire questo cammino si confronti soprattutto con James Ballard, John Brunner, Damon Knight, di nuovo Le Guin e Sheckley, e Italiani come i due Vittorio (Catani e Curtoni), Valerio Evangelisti e magari Primo Levi che scrisse alcune storie inizialmente pubblicate con uno pseudonimo per volere dell’editore, con la curiosa giustificazione che uno scrittore così legato alla tragica realtà dei lager non avrebbe dovuto, con lo stesso nome, pubblicare storie di fantascienza. La buona sci-fi ha raccontato molto anche sulle oppressioni presenti e future, aiutandoci a capire dove si annidano nuovi pericoli. Potremmo essere tutti alieni (alienati) in un certo tipo di mondo che si va costruendo. Ad affrontare questo tema – anzi a scardinarlo – è Frederik Pohl, uno degli au-


tori fantascientifici più importanti, sin dagli anni ’50. Vediamo, in estrema sintesi, Il Tunnel Sotto il Mondo (The Tunnel Under the World) lungo racconto che Pohl pubblicò nel 1955. “La mattina del 15 giugno, Guy Burckhardt si svegliò da un sogno. Gridava”; Poco dopo Guy si rassicura: tutto è a posto, era solo un incubo. Per strada nota qualcosa di strano: una pubblicità più aggressiva del solito. Poca roba in fondo. È strano che il suo capo non sia in ufficio visto che il 15 giugno “è il giorno della denuncia fiscale per il trimestre”. Guy potrebbe andare a cercarlo in fabbrica ma non gli garba perché in una precedente visita era rimasto abbastanza scosso: “non c’era un’anima, soltanto le macchine”. Quel giorno continua ad andare in modo sbagliato: piccole cose fuori posto e, sulla strada del ritorno, altoparlanti minacciosi che urlano ossessivamente frasi del tipo: “Hai già un frigorifero. Puzza! Se non è un frigorifero Feckle, puzza. […] Sai chi ha i frigoriferi Ajax? Gli invertiti hanno i frigoriferi Ajax. Sai chi ha i frigoriferi Triplecod? I comunisti hanno i frigoriferi Triplecod. […] Vuoi mangiare cibo andato

a male? O vuoi farti furbo e comperare un Feckle, Feckle, Feckle”. Anche a casa sua Guy troverà stranezze, illogicità. Va a dormire perplesso. La mattina dopo apprende – dal giornale e dalla radio – con stupore che non è il previsto 16 giugno ma sempre il 15. Guy sta impazzendo? Il racconto ha una svolta quando, con l’aiuto di un certo Swanson, il protagonista scopre che sotto la città corre un tunnel. Qualcuno sembra seguirli: “Russi? Marziani? Qualunque cosa fossero che cosa potevano sperare di guadagnare da quella pazzesca carnevalata?”. La verità è a un passo: “Non sono russi e non sono marziani. Quella gente sono uomini della pubblicità. In qualche modo si sono impadroniti della città […] ci hanno catturato tutti, 20 o 30mila persone e ci tengono sotto il loro controllo”. L’eterno 15 giugno è un grande esperimento sociale per testare nuovi prodotti. La dittatura di Pol Spot nel 1955 era di là da venire ma oggi è nelle pieghe del mondo reale. Guy è un uomo qualunque che si crede strano o impazzito (due varianti dell’alieno): in realtà è una marionetta. Non c’è forse

THE TUNNEL UNDER THE WORLD

(it: Il Tunnel Sotto il Mondo, 1955) di Frederik Pohl prima edizione originale, in Galaxy Science Fiction, gen. 1955 GALAXY PUBLISHING CO.

TIME AND AGAIN

(it: Oltre l'Invisibile, 1950) di Clifford D. Simak prima edizione originale in romanzo signolo SIMON & SCHUSTER, 1951

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peggiore alienità della impossibilità di gestire la propria vita.

HOW-2

(it: Ora Tocca a Noi, 1954) di Clifford D. Simak prima edizione originale, in Galaxy Science Fiction, nov. 1954 GALAXY PUBLISHING CO.

HORRIBLE EXAMPLE

(it: Il Peggior Esempio, 1961) di Clifford D. Simak prima edizione originale, in Analog Science Fact -> Fiction, mar. 1961 STREET & SMITH PUBLICATIONS

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E SE SOTTO QUEI CIRCUITI… Anche i robot e gli androidi in molte storie fantascientifiche sono, con ogni evidenza, metafora del diverso – razziale o sociale – in cerca di integrazione. Qualche esempio di alieno ‘social-robotico’ può aiutarci. Uno dei romanzi più espliciti dove gli androidi sono a caccia dei diritti civili è il complesso romanzo Oltre l’Invisibile (Time and Again, 1950/51) di Clifford Simak. Lo stesso Simak scava sul tema in alcuni racconti. Ora Tocca a Noi (How-2, 1954) per esempio è la minuziosa cronaca del procedimento giudiziario nel quale i robot ottengono il diritto a “non essere più servi di nessuno”. Con Il Peggior Esempio (Horrible Example, 1961) Simak azzarda un’amara riflessione. Incontriamo Tobias, la disgrazia della città, vergogna pubblica, appunto “il peggior esempio, da non imitare mai”. Un giorno però Tobias dimentica di barcollare e sta per tradirsi: “Lui doveva essere accettato come un umano […] Come vagabondo, ubriacone umano lui era

uno scudo. Come robot, uno sporco robot ubriacone buono a nulla, non sarebbe contato nulla. Così nessuno sapeva”. A sostenere l’inganno esiste persino una tassa (della quale tutti ignorano la vera destinazione) pagata alla Samru, cioè Società per l’Avanzamento e il Miglioramento della Razza Umana. Il nome è con ogni evidenza simile a quello della Naacp (cioè National Association for the Advancement of Colored People) che nell’epoca in cui il racconto fu scritto si batteva per i diritti civili degli afroamericani. Sarà poi Isaac Asimov a completare il discorso dei robot in cerca dei diritti civili nel famoso romanzo breve L’uomo Bicentenario (The Bicentennial Man, 1976). A dar man forte all’ala più iconoclasta della fantascienza in quel periodo arriva, come si è già detto, Philip Dick. A proposito di creature artificiali e di metafore, nel racconto Impostore (Impostor, 1953) il protagonista viene accusato d’essere un robot del nemico con una potente bomba incorporata. Lui fugge perché sa di essere innocente, ed è con stupore pari al suo che, al termine del racconto, chi legge assisterà all’esplosione. Un


tipico esempio del modo in cui Dick affronta la confusione fra vivente e meccanico, fra realtà e illusione, temi al centro di tutta la sua opera. QUALCHE CENNO SU ALIENITÀ RELIGIOSA Dallo spazio arrivano i protagonisti di Alieno in Croce (Weeping May Tarry, 1978), scritto a quattro mani da Lester Del Rey e Raymond Jones. Il ‘prete’ ufficiale della spedizione è Toreg. In apparenza è feroce oppositore di ogni eresia ma dentro aveva: “come una ferita sanguinante […] la portava con sé, la nutriva, la combatteva e ne sopportava il dolore, perfino nelle lunghe preghiere che dedicava al Keelong a cui non credeva. Il peso restava; e cresceva la sua ferocia contro l’eresia. Nessuno sapeva che quella ferocia era diretta più contro sé stesso che contro gli altri”. I personaggi di questo bel romanzo sono di color verde pallido a scaglie sottili, ma quando arrivano sulla Terra nessuno s’impressiona: infatti il pianeta è stato distrutto da un’ultima, terribile guerra. Nessun superstite. Pochi resti e difficilmente decifrabili. Però sotto le macerie Toreg trova “due pezzi di legno uniti fra loro a for-

ma di croce […] Non riuscì a trattenere un grido. Era la cosa più orribile che avesse visto in tutta la sua vita”. Il sacerdote alieno s’interroga sulla misteriosa figura “torturata”. Dopo lunghe ricerche, Toreg può dare un nome – Gesù di Nazareth – al crocefisso, ma senza scoprire altro. Nel martirio di quell’alieno in croce sembra esserci più forza che nelle credenze keelong. Potrebbe trattarsi solamente del fascino di una religione nuova e densa di misteri… o forse no. Il romanzo preferisce lasciarci nel dubbio. È un diverso – alieno appunto – sguardo sulla religione, sulla forza che potrebbe avere per diverse specie. Si può provare a immaginare il rovescio di Toreg: come accoglieranno i non-umani il messaggio di redenzione dei terrestri? Ne ha ragionato, fra gli altri, lo scrittore irlandese Clive Staples Lewis. Chiedendosi: “I nostri futuri missionari se incontrassero una razza senza peccato sarebbero in grado di comprenderla? […] Non potrebbero giudicare peccato quelle differenze di comportamento che la storia biologica e spirituale di creature diverse giustificherebbe pienamente? […] Dobbiamo

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THE BICENTENNIAL MAN

(it: L'Uomo Bicentenario, 1976) di Isaac Asimov prima edizione originale, in Stellar #2, 1976 BALLANTINE BOOKS

IMPOSTOR

(it: Impostore, 1953) di Isaac Asimov prima edizione originale, in Astounding Science Fiction, giu. 1953 STREET & SMITH PUBLICATIONS

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WEEPING MAY TERRY

(it: Alieno in Croce, 1978) di Raymond F. Jones e Lester del Rey prima edizione originale PINNACLE BOOKS, 1978

THE CHRYSALIDS aka RE-BIRTH

(I Trasfigurati, 1955) di John Wyndham prima edizione originale BALLANTINE BOOKS, 1955

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fermamente opporci a ogni sfruttamento teologico”. Tradizionale nello schema post catastrofe ma straordinario per invenzioni, ritmo, scrittura – e anche per offrirci un po’ di speranza rispetto agli alieni fra noi – è il romanzo I Trasfigurati (The Chrysalids, 1955) di John Wyndham. Siamo subito proiettati in una società post catastrofe atomica, succube del fanatismo religioso e che riconosce nei mutanti i segni della persistente collera divina. Le parole para-bibliche “solo l’immagine di Dio è il vero uomo” servono a giustificare persino il rogo, o l’esilio perpetuo di una bimba colpevole di avere 6 dita in un piede. Gli squarci di intolleranza descritti da Wyndham si mescolano alla fiducia nell’umanità, all’idea che essa possa rinascere come una farfalla dal bruco, che le mutazioni possano rivelarsi uno sviluppo positivo o il disvelamento di potenzialità latenti. Forse ci sono alieni che stanno nascendo dietro di noi (non necessariamente a seguito di catastrofi o radiazioni). Comunque è difficile credere a un Dio che misura l’umanità come avrebbe potuto fare un Cesare Lombroso. L’intreccio fra alienità e re-

ligione trova uno dei suoi apici in un romanzo che resta alla memoria: Guerra al Grande Nulla (A Case of Conscience, 1953/1958) di James Blish. Quattro scienziati terrestri, fra cui un gesuita peruviano, arrivano sul pianeta Lithia dove gli abitanti ignorano cosa sia il male. Se i lithiani non conoscono peccato e dunque mancano di Dio – si chiede il tormentato gesuita – essi sono forse un’utopia di Satana? L’intreccio, anche teologico, si complica assai con l’entrata in scena di Egtverchi, “l’unico rettile dell’universo con genitori mammiferi”, che arrivato sulla Terra mostra grande abilità nell’usare e scombussolare i mass media: “Commentatore ormai di notizie alla tv, Egtverchi era il primo oratore televisivo che avesse un pubblico composto per metà di intellettuali disingannati e per metà di bambini entusiasti. Era un fenomeno senza precedenti”. Il successo di Egtverchi è tale che può persino invitare il pubblico a “inviare lettere anonime ingiuriose alla ditta che paga le sue trasmissioni”. Forse accadrà il peggio se il gesuita non fermerà questo demonio/non demonio…


Altri alieni religiosamente inquietanti sono quelli presenti nel già menzionato Le Guide del Tramonto di Clarke, che hanno una… piccola differenza biologica. Il libro risente dell’età, soprattutto nella seconda parte, ma l’inizio e la studiata preparazione al colpo di scena alien-teologico restano godibilissimi. In sintesi: stavolta i potentissimi alieni sono venuti in pace, portando una fruttuosa collaborazione. Ma allora perché trattano solo con le Nazioni Unite, perché non si mostrano? Passano gli anni: finiti i sospetti e le congiure, i terrestri appariranno rassicurati, e così i ‘buoni alieni’ potranno comparire in pubblico… con due corna sulla testa e la coda! Ma senza impressionare più di tanto. Tutte le calunnie venivano da una precedente visita troppo prematura, sostiene Clarke. L’ALIENITÀ TOTALE (OVVERO DEL PENSARE NON ACCETTATO) Come abbiamo visto la parola alienità si riferisce anche alle (vere o presunte) alterazioni della salute mentale. Dunque questo percorso si avventura in una doppia direzione: come la letteratura di fantascienza ha affronta-

to i nostri ‘matti’, ma anche come noi terrestri potremmo essere ‘folli’ per chi ha una logica davvero altra. Per entrare in argomento tuffiamoci direttamente dentro una storia. In ogni posto di lavoro, per strada o a casa, incontrate i sanity-meters ovvero gli ‘alienometri’ prodotti dalla Cahill Thomas Manufacturing: li vedete intorno a voi, non troppo dissimili dai parchimetri, ma funzionano senza monete o tessere. Misurano il disadattamento – la pazzia – di ogni cittadino. Se si supera la norma, fra 0 e 3, si è sottoposti a sorveglianza; quando si arriva al livello 10, obbligatoriamente si deve sottostare alla ‘correzione chirurgica’ oppure entrare (per sempre o fino a guarigione?) nella misteriosa Accademia. E per l’appunto L’Accademia (The Academy) s’intitola un racconto-profezia scritto nel 1954 da Robert Sheckley. Mi è capitato – nelle vesti di attore che ogni tanto, con sfacciataggine, indosso – di leggerne alcuni brani in una sede particolare come è quella dell’associazione dei familiari di degenti negli (ex, dopo la legge che tutti conoscono come ‘Basaglia’) ospedali psichiatrici, e mi ha

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A CASE OF CONSCIENCE

(it: Guerra al Grande Nulla, 1953/1958) di James Blish prima edizione originale, in If, set. 1953 QUINN PUBLISHING CO.

CHILDHOOD’S END

(Le Guide del Tramonto, 1953) di Arthur C. Clarke prima edizione originale BALLANTINE BOOKS, 1953

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THE ACADEMY

(it: L’Accademia, 1954) di Robert Sheckley prima edizione originale, in If, ago. 1954 QUINN PUBLISHING CO.

CLANS OF THE ALPHANE MOON

(it: Follia per Sette Clan, 1964) di Philip K. Dick prima edizione originale ACE BOOKS, 1964

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molto colpito il commento di alcune persone che più o meno suonava così: è fantascienza sino a un certo punto, perché anche senza alienometri in questa società c’è chi (più o meno ‘autorizzato’) misura il nostro livello – da 1 a 10 – di ‘normalità’. Ovviamente lo spunto iniziale di Sheckley è la tipica ossessione statunitense per l’igiene mentale e la conseguente diffidenza verso tutto ciò che si discosta da una presunta norma. Non abbiamo gli alienometri fra noi, però negli ultimi anni il tentativo di psichiatrizzare tutto si è allargato dagli USA al resto del mondo, trovando ostacoli ma anche vincendo battaglie importanti. Come sempre la buona sci-fi ci può aiutare a muoverci nei sentieri del presente e dei possibili futuri prossimi. Proviamo allora tuffarci in uno dei mondi inventati da Dick. Nel complesso ed efficacissimo Follia per Sette Clan (Clans of the Alphane Moon, 1964) l’autore ha addirittura disegnato un intero sistema sociale basato su diversi tipi di malattie mentali in ‘guerra’ fra loro. C’è forse un solo Norm in mezzo ai Mani (la loro capitale è definita – notate la perfidia – Grande Da Vinci), ai Para

(nella città di Adolf-ville), agli Schizo, ai Poli maniaci, agli Eb (i troppo buoni e dunque ebeti che si ritrovano – questa è ancora più provocatoria – in un luogo chiamato Gandhitown), ai Dep (depressi, con ogni evidenza) e infine agli Os-com cioè gli ossessivi-compulsivi. Come sempre accade con Dick, anche qui ci sono paraventi che nascondono altre verità. Questa provocazione definitoria in Dick ha evidenti radici nel nostro mondo. La mania di classificare ogni minima ‘deviazione’ continua a tradursi in statistiche che urlano vertiginosi aumenti di vecchie/nuove forme di malessere psichico. Di continuo i mass-media rilanciano allarmi su ‘epidemie’ che, lungi dall’essere indagate o verificate, servono invece a lanciare altri farmaci, cure, psicoterapie ma anche ad allargare il controllo sulla vita privata. Bambini compresi, che vengono curati in sostanza perché ‘troppo vivaci’. Istituti definiti autorevoli – e magari lo sono, ma godendo di finanziamenti da parte di chi poi venderà i rimedi contro le presunte sindromi – possono periodicamente e tranquillamente sostenere che in Occidente un


bimbo su quattro si può classificare ‘malato di mente’. Persino l’Oms, cioè l’Organizzazione Mondiale della Sanità delle Nazioni Unite, aveva annunciato – per il 2005 – mezzo miliardo di ‘picchiatelli’ in circolazione sul pianeta: per la precisione (ma chi fa i conti?) 413 milioni nelle società sviluppate e 122 nei Paesi pezzenti. E se vivere in effetti è sempre più difficile appare improbabile che l’abuso di farmaci risolva tutte le difficoltà esistenziali. Ancora Dick ha previsto l’arrivo degli ‘psichiatri portatili’ (ben prima di programmi computerizzati come ELIZA). Vale aggiungere per coloro che hanno visto il (bruttino) Minority Report di Steven Spieberg – tratto dall’omonimo racconto di Philip Dick, sempre lui – che nel sistema giuridico statunitense esiste già la possibilità che sulla base di una ‘precognizione’ (di uno psichiatra, guarda un po’) scatti una condanna, persino la pena di morte. Si può continuare ritornando a Sturgeon. Nel lontano 1956, Ultime Notizie (And Now the News...), un altro suo racconto, da una parte conduceva in un labirinto psichiatrico che (almeno per l’epoca) era dotto quanto sconvolgente ma dall’altra poneva una questione che sempre più risulta attuale e angosciosa: di fronte alla quantità di dolore, impotenza e rabbia che i mass-media ci riversano addosso cosa possiamo fare per non soffrire? E se quando decidiamo di nasconderci (di ‘rimuovere’ o ‘regredire’, per usare termini tecnici) qualcuno ci viene a snidare, ma senza offrire alcuna soluzione per quelle sofferenze, cosa potrebbe accaderci? Due vicende esemplari hanno al centro delle donne. La prima è la protagonista di Synthajoy (1968) dell’inglese David

ULTIME NOTIZIE

(And Now the News..., 1956) di Theodore Sturgeon prima edizione italiana Urania n. 1071 MONDADORI, 1988

G. Compton, sospesa tra le false vite dei ‘nastri’ che le scorrono nel cervello e il puzzolente mondo reale dove scopre che “solo adesso che sono ‘ufficialmente’ psicotica posso fissare la gente senza provare imbarazzo”. L’altra donna è invece una chicana – cioè un’immigrata latina negli USA – di mezza età, Connie Ramos, che viene classificata folle ma in realtà è solo un’emarginata: dalla sua

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SYNTHAJOY

(1968) di David Guy Compton prima edizione italiana Galassia n. 180 CASA EDITRICE LA TRIBUNA, 1972

‘gabbia’, Connie può però sintonizzarsi su un futuro (ahi-noi lontano) comunitario, ecologista, non sessista e libertario. C’è in questo romanzo di Marge Piercy, Sul Filo del Tempo (Woman on the Edge of Time, 1976), una frase-chiave che, mi scuserete la digressione personale, ho scelto come

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sottotitolo del mio blog: “Per conquistare il futuro bisogna prima sognarlo”. Bisogna sognare anche un’altra psichiatria (meglio: una non psichiatria) che neghi l’esistenza di due diversi universi per i ‘folli’ e per i ‘sani’. La ricorrente idea di un controllo sociale totale ha già storicamente prodotto l’internamento psichiatrico dei dissidenti nell’URSS e la lobotomia di massa negli USA. Altre tragedie porterà se dimenticheremo quel che aveva urlato Erasmo: “non è vero che ogni illusione o vaneggiamento debba chiamarsi follia”. Anzi. Sempre più, in una società di orrenda e socialmente iniqua ‘normalità’, di pensiero unico e di guerra preventiva/ permanente, chi vaneggia può essere saggio più di coloro che ritengono questo il migliore dei mondi possibili. Forse la nostra follia è più saggia della nostra saggezza, ci hanno ammonito Erasmo e Michel de Montaigne. Accenniamo a un altro paio di storie. La prima è Arrivano i Mostri in Via degli Aceri (The Monsters Are Due on Maple Street), vale a dire l’episodio n. 22 (in onda il 4 marzo 1960) del celebre telefilm Ai Confini della Realtà (The Twilight Zone). È un esemplare racconto di paranoia collettiva scritto da Rod Sterling, e sono significative le frasi di chiusura: “I pensieri, le opinioni, i pregiudizi possono essere armi, armi che esistono solo nella mente degli uomini […] I pregiudizi possono uccidere e il sospetto può distruggere, la ricerca di un capro espiatorio contamina, come l’Atomica, i figli già nati e i nascituri”. Gli alieni – di loro si parla nel telefilm – spingono gli umani a farsi guerra fra di loro. La seconda storia è Cephes 5, un raccon-


to del 1973 di Howard Fast. A bordo della “grande nave interstellare” un ufficiale sente crescere il malessere mentale. Ne parla con il Consigliere dell’equipaggio, che gli domanda se ha sentito parlare di “delitto”, cioè di una “azione che sopprime una vita umana e che come idea ha origine in sentimenti anormali di odio e di aggressione”. Lo stupefatto ufficiale quasi non capisce di cosa parli il Consigliere: “Volete dire che c’è gente che ammazza altra gente?”. Purtroppo sì, spiega il Consigliere, anche se accade in pochissimi dei “33.472 pianeti abitati della galassia”. Cosa si fa con gli assassini? Li si isola sul pianeta Cephes 5. La nave interstellare è diretta lì: quel senso di malessere avvertito dall’ufficiale nasce dalle “cattive vibrazioni” dei 500 assassini “di tutte le razze della galassia”. Il racconto è pieno di interrogativi ma uno – il più scioccante – si scioglie nelle ultime righe: “Noi chiamiamo questo pianeta Cephes 5 – disse l’ufficiale – ma tutti i pianeti hanno un loro nome, dato dagli abitanti. Come chiama quella gente il suo pianeta? – Lo chiama Terra – rispose il vecchio Consigliere”.

In sintonia con la provocazione di Fast, per questo segmento l’ultima parola si può dare a un esponente del ‘realismo magico’ latino-americano, quel Manuel Scorza che nel romanzo La Danza Immobile (La Danza Inmóvil, 1983) ci illuminò: “Lenin aveva torto… non è l’imperialismo la fase suprema del capitalismo, è la schizofrenia di massa”. Di alieni mentali ce ne sono parecchi in giro, anzi come diceva quella vecchia frase di Franco Basaglia: “visto da vicino nessuno è normale”. Che poi siano tutti pericolosi è da dimostrare. Dipende, al solito, da chi ha il potere di guardare e decidere. UN DISCORSO NON CONCLUSO “Abbiamo incontrato gli alieni e gli alieni siamo noi” suggerisce Paul Preuss nel romanzo Le Porte dei Cieli (The Gates of Heaven, 1980) sulla scia di Fredric Brown. Ma questa consapevolezza purtroppo non appartiene a tutti, neppure nei mondi delle fanta-scienze. Restano aperte grandi questioni, soprattutto a partire dalla stessa definizione di essere umano, rispetto alla quale confrontare l’alieno che a sua volta è difficile da

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WOMAN ON THE EDGE OF TIME

(it: Sul Filo del Tempo, 1976) di Marge Piercy prima edizione originale ALFRED A. KNOPF, 1976

CEPHES 5

(1973) di Howard Fast contenuto nella collezione A Touch of Infinity seconda edizione originale DAW BOOKS, 1974

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THE GATES OF HEAVEN

(it: Le Porte dei Cieli, 1980) di Paul Preuss prima edizione originale BANTAM BOOKS, 1980

SIGHT OF PROTEUS

(it: Progetto Proteus, 1978) di Charles Sheffield prima edizione originale in romanzo signolo ACE BOOKS, 1978

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definire. Accenniamo ad alcuni fra i dubbi possibili filosofico-etici. In primo luogo l’intreccio fra biologico e artificiale. Confrontiamoci per esempio con il concetto di ‘formutazione’ elaborato da Charles Sheffield nel romanzo Progetto Proteo (Sight of Proteus, 1978). Così all’inizio del libro: “Erano entrambi troppo giovani per ricordare i dibattiti sull’umanità. Che cos’è un essere umano? […] Un’entità può dirsi umana se, e solo se, è in grado di realizzare formutazioni intenzionali usando i sistemi di biorigenerazione”. E poi, poco prima della fine: “Se il confine tra mondo animato e inanimato è puramente teorico, la formutazione non ha limiti. Si può cominciare a concepire un essere pensante e cosciente grande quanto un pianeta o una stella […] Se i nostri test di umanità sono validi, ogni combinazione tra essere umano, o alieno, e macchina che coinvolga formutazioni intenzionali apparterrebbe di diritto al genere umano. Secondo me la questione è filosofica e non è così facile dare una risposta”. Fu soprattutto lo sfrenato talento di Philip Dick a spalancare porte – dietro ognu-

na c’erano problemi in serie, come fossero scatole cinesi – sull’incerto confine fra naturale e artificiale, fra vita e non-vita. Siamo alla difficile – sempre più? – attribuzione di un senso alla nostra umanità. Da romanziere, Dick si muoveva nei territori della letteratura di genere (disprezzati da certe élite); eppure l’impressione per quel che scriveva fu tale che gli venne chiesto di tenere conferenze per approfondire la sua filosofia. Lasciamogli dunque la parola in questa veste insolita dove non perde in efficacia: “Il più grande cambiamento al quale assistiamo nel nostro mondo è probabilmente la quantità di moto del vivente verso la reificazione e allo stesso tempo del meccanico nell’animazione. […] Un giorno forse vedremo un uomo sparare a un androide appena uscito da una fabbrica di creature artificiali della General Electrics: l’androide, con grande sorpresa dell’uomo, prenderà a sanguinare. L’androide sparerà, di rimando, e con grande sorpresa vedrà una voluta di fumo levarsi dalla pompa elettrica che si trova al posto del cuore dell’uomo. Sarà un grande momento di verità per entrambi”, dall’an-


e Robot nella Narrativa di Fantascienza (The Cybernetic Imagination in Science Fiction, 1980).

IL ROMANZO DEL FUTURO

(The Cybernetic Imagination in Science Fiction, 1980) di Patricia S. Warrick prima edizione italiana EDIZIONI DEDALO, 1984 ISBN: 9788822060334

tologia Mutazioni (The Shifting Realities of Philip K. Dick: Selected Literary and Philosophical Writings, 1995). Siamo ben oltre la metafora, anche perché dagli anni ’70 a oggi la commistione/ confusione fra artificiale e biologico ha continuato a camminare. Come commenta Patricia Warrick: “L’analogia fra uomo e macchina è stata sfruttata sino in fondo. L’uomo è programmato dalla società perché funzioni come una macchina; l’uomo è un robot dall’aspetto umano che però si comporta come una macchina”, da Il Romanzo del Futuro - Computer

SOLO PER CASO Con ogni evidenza una conclusione è impossibile. Accettare l’alieno, quale che sia, venuto dall’esterno o scoperto dentro di noi, è per molti un tradimento. Del resto una definizione ristretta del concetto di umanità significa già, per molti, che riconoscere eguali diritti a ‘negri, froci e giudei’ (tanto per citare il provocatorio titolo di un recente libro di Gian Antonio Stella), sorridere a chi viene definito turco, gay, islamico, handicappato… è tradire. Ma per altri il vero pericolo – se si vuole, l’unico mostro – è uccidere gli alieni, le diversità fra noi e gli extraterrestri, se mai li incontreremo. Così il mio piccolo suggerimento è guardare a qualsiasi alieno (presente e futuro, terrestre o extra) ripensando alla canzone There but for Fortune (1963), di Phil Ochs. Molte persone sono sconvolte dall’idea che “solo per caso” siamo ciò che siamo e non ciò che magari detestiamo… Ma invece c’è chi la sente vera, chi vorrebbe che quello cantato da Ochs (e da Joan Baez, e poi da altri ancora) fosse l’atteggiamento per guardare il mondo, anzi i mondi. Philip Dick, nel presentare alcuni suoi racconti, scriveva così: “La premessa fondamentale di tutte le mie storie è che se dovessi incontrare un essere intelligente extraterrestre (più comunemente definito ‘una creatura dello spazio esterno’) mi accorgerei di avere più cose da dire a lui che al mio vicino di casa”. Solo per caso non siamo alieni. O più probabilmente in qualche modo lo siamo. <

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Cinema ASIAN

La spaventosa

MASCHERA

OMICIDA

di SEVERINO FORINI

Dramma, povertà e torbide passioni si intrecciano in un film d’autore che attinge i suoi elementi fantastici dall’affascinante mitologia giapponese.

E

SISTE NEL FOLCLORE buddista un racconto noto come Yome Odoshi no Oni no Men (la maschera demoniaca spaventa nuora), narrata ai tempi di Rennyo Shonin (XV Secolo), ottavo Monshu della scuola Honganji, per diffondere gli insegnamenti dello Jōdo Shinshū, il Buddismo Shin giapponese. La parabola è citata nel volume The Social Dimension of Shin Buddhism (2010), a cura di Ugo Dessi, e così viene descritta: “È una sorta di storia di ‘conversione’ riguardante un’anziana donna la quale, allo scopo di impedire alla nuora di recarsi ad assistere

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ai sermoni di Rennyo a Yoshizaki, la spaventava indossando la maschera di un demone. A un certo punto, la vecchia non fu più capace di rimuovere la maschera dal viso; solo dopo che la nuora l’ebbe persuasa a pagare una visita a Yoshizaki e a recitare il nenbutsu, la maschera finalmente si staccò”. La storia è contenuta anche nel Manga Go Eden Rennyo San, realizzato nel 1997 in occasione del (quasi) 500simo anniversario della morte del Maestro, e basato sulla biografia illustrata di Rennyo nella versione preservata al Mikawa Betsuin, a Okazaki.


Scheda tecnica TITOLO:

Onibaba ANNO E PAESE:

1964, Giappone REGIA:

Kaneto Shindō STORIA:

Kaneto Shindō FOTOGRAFIA:

Kiyomi Kuroda MONTAGGIO:

Toshio Enoki MUSICHE:

Hikaru Hayashi SCENOGRAFIA:

Kaneto Shindō PRODUTTORI:

Hisao Itoya, Tamotsu Minato, Setsuo Noto, Kazuo Kuwahara (delegato) PRODUZIONE:

Kindai Eiga Kyokai, Tokyo Eiga Co Ltd

Cast NOBUKO OTOWA (Madre di Kichi)

Una variante ‘laica’ della storia vuole che a indossare la maschera demoniaca sia una donna consumata dalla gelosia, allo scopo di spaventare sua nuora e trattenerla dall’incontrare l’amante. Stavolta per punizione la maschera le resta attaccata al volto permanentemente. Nel 1964 lo sceneggiatore e regista Kaneto Shindō diresse Onibaba (Onibaba Le Assassine, nella versione

italiana), riuscendo con pochissime variazioni a trarre da questa favoletta morale un film visivamente poetico, affascinante e inquietante, ispirato dal teatro nō e kabuki; un’opera che dal punto di vista tematico è allo stesso tempo classica nell’argomento e rivoluzionaria per il realismo con cui riesce a inquadrare – anche, ma non solo, tramite le implicazioni erotiche del racconto – l’e-

JITSUKO YOSHIMURA (Moglie) KEI SATŌ (Hachi ) JŪKICHI UNO (Generale) TAIJI TONOYAMA (Ushi) SOMESHŌ MATSUMOTO, KENTARŌ KAJI (Guerrieri) HOSUI ARAYA (Seguace di Ushi) FUDEKO TANAKA (Anziana)

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voluzione della figura femminile nella società giapponese, che così profondamente era mutata e continuava a mutare in quegli anni. Onibaba - Le assassine è la dimostrazione di come sia possibile trasportare un soggetto dalla dimensione leggendaria a quella cinematografica in maniera realistica e drammatica. Le atmosfere del film e alcune sequenze realmente angoscianti fanno sì che alcuni critici considerino quest’opera un horror a tutti gli effetti, mentre altri parlano di dramma, dramma ad ambientazione storica oppure di ibrido horror-erotico. Shindō scelse di girare in bianco e nero in un momento in cui si stava già facendo largo il cinema a colori, e come sfondo della vicenda optò per la campagna giapponese del XIV secolo. A quel tempo infuriavano le battaglie tra clan rivali, e gli uomini che venivano precettati per combattere dovevano abbandonare il lavoro dei campi, la propria casa e la propria famiglia; la conseguenza era una situazione di estrema povertà nella quale le persone dovevano fare letteralmente di tutto per sopravvivere, incluso rubare e, all’occorrenza, uccidere. È proprio quello che fanno le protagoniste del film, una donna e sua nuora, che vivono assieme in una misera capanna aspettando ansiosamente il ritorno di Kichi, figlio dell’una e marito dell’altra. Le due donne campano uccidendo soldati e samurai di passaggio e depredando i loro cadaveri delle armature e delle armi, che poi rivendono per qualche ciotola di riso. Un giorno questo ‘monotono’ ménage viene turbato dall’arrivo di Hachi, un individuo squallido e sgradevole, probabilmente un disertore. Il sesso sembra

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l’unica distrazione possibile da una vita di stenti, e ben presto Hachi diventa l’amante della più giovane delle due. La suocera si rode di gelosia – quella di una donna alla quale le attenzioni maschili sono ormai precluse – e cerca di troncare la relazione spaventando la nuora con storie dell’Inferno buddista, dove orribili demoni tormentano coloro che commettono dei peccati, per esempio cedendo alla lussuria. Ma la tattica è fallimentare, perché il desiderio si dimostra più forte della paura. A ossessionare la suocera non è solo la gelosia ma anche la paura che l’altra l’abbandoni: il lavoro dei campi è troppo pesante per una donna anziana, e lei da sola non sarebbe in grado di assalire i samurai; sa bene che senza la nuora al suo fianco stenterebbe a sopravvivere. E così, quando viene in possesso di una strana maschera appartenuta a un generale uc-

ciso a tradimento, l’anziana donna si ritrova tra le mani lo strumento adatto per la sua vendetta… Il paesaggio campestre, esaltato dal bianco e nero, serve a un duplice scopo: costituire una metafora delle più torride passioni umane, così sanguigne e primitive, e riportare alla Natura, cui appartiene, l’elemento di mistero e paura ancestrale della maschera-fantasma. È per questo che tutta l’azione si svolge nei campi di susuki, la pampa giapponese, un claustrofobico dedalo di canne altissime. A questo ambiente essenziale e spirituale, ma anche inospitale, il regista dedica molta attenzione. Visivamente i momenti più belli sono proprio quelli in cui le inquadrature indugiano sulle canne scosse dal vento e sull’ampio cielo ora placido ora gravido di pioggia, oltre che sui corpi seminudi e sudati delle due donne. La musica, che comincia con un ritmo osses-

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sivo e tribale e incalza con fiati stridenti, contribuisce all’atmosfera di malcelata tensione emotiva. Questo racconto, i cui personaggi sono tutti amorali, egoisti, manipolatori e sottilmente violenti, è un’amara riflessione sulla solitudine esistenziale e sulle bassezze di cui l’uomo è capace in situazioni estreme; in questo caso la necessità di sopravvivere in un ambiente degradato e ostile riporta in primo piano bisogni primari come il cibo e il sesso a discapito di qualsiasi convenzione sociale o morale. Ma è anche, e prima di tutto, un film erotico, carnale, in cui le canne scosse dal vento sono l’immagine di un inferno di passioni che intrappola i tre personaggi principali. Tra l’erba la nuora corre di notte per raggiungere il suo amante; tra l’erba la suocera le tende i suoi agguati. Sempre tra l’erba si trova ‘il pozzo’, un’apertura naturale nel terreno che le due donne utilizzano per far sparire i cadaveri dei samurai uccisi. Il pozzo è un luogo del mistero, e il luogo dove il fato si compirà, non scevro da sottintesi freudiani. Ma il fulcro del film, proprio come nella leggenda da cui è ispirato, è la maschera. Kaneto Shindō affermò che gli effetti della maschera su chi la indossa sono il simbolo della deturpazione delle vittime dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, mentre il suo film mostra la conseguenza traumatica di quegli avvenimenti sulla società giapponese del dopoguerra. I due personaggi femminili sono entrambi straordinari; di certo non incarnano lo stereotipo della donna devota, dell’angelo del focolare che tanta cinematografia (e letteratura) dell’epoca ci descrive, tipi-

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co di una società nata dalle ceneri di un feudalesimo ancora non del tutto scomparso nella forma e nella sostanza. Non solo la nuora, che si concede a un amore clandestino contro il parere della suocera (in teoria, scomparso il marito, nuovo capofamiglia); anche la suocera, che non accetta di essere messa da parte per il bene dei più giovani, con il suo comportamento spregevole ma profondamente umano rappresenta un elemento di rottura col passato. Per capire quanto è rivoluzionario lo sguardo di Kaneto Shindō si pensi a come, più o meno nello stesso periodo, il cinema giapponese mostrasse immagini molto più tradizionali(ste): il film del 1958 La Leggenda di Narayama (Narayama Bushiko), di Keisuke Kinoshita, è incentrato su un’anziana donna che, in conformità a logiche sociali spietate diffuse nell’antico Giappone, per non far cadere la propria famiglia in disgrazia,

nell’inverno dei suoi 70 anni si reca a morire da sola sulla cima di un monte, e lo fa serena, sicura di aver adempiuto fino all’ultimo al suo dovere di madre. Questa visione della donna come di un essere fisico, carnale e non del tutto ‘addomesticabile’, così nuova per l’epoca, spesso non viene riconosciuta, anche perché questo film purtroppo non ha mai avuto la notorietà che meriterebbe, nemmeno tra gli estimatori di Shindō. Tornando all’origine del mito, va ricordato che Onibaba, oltre che leggenda buddista, è anche una figura molto famosa del folclore giapponese. Il prefisso oni indica un mostro che corrisponde all’incirca al nostro orco; e gli orchi, si sa, in genere si cibano di carne umana: è proprio questa l’occupazione preferita di questo yokai che, però, ha le fattezze di una donna vecchia e raggrinzita. Spesso la si raffigura come un essere dall’aspet-

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to disordinato, i capelli scarmigliati e una grande bocca, provvista di un coltello da cucina oppure seduta con un rocchetto di filo tra le mani. Una creatura che ha l’abitudine di nascondere il suo aspetto demoniaco per poter cogliere di sorpresa le sue vittime. Altri nomi che le si attribuiscono sono Strega Demone, Vecchia Strega, Donna delle Montagne, Folletto di Adachigahara… una località, quest’ultima, legata alla storia più diffusa – e forse la più agghiacciante – dell’Onibaba. Il racconto, ambientato nel passato, inizia narrando di una bambina, nata presso una ricca famiglia di Kyoto, cresciuta apparentemente serena e in buona salute ma ancora incapace di parlare all’età di cinque anni; preoccupati, i genitori consultano un medico dopo l’altro, senza risultati, finché un giorno un famoso indovino dice loro che l’unica possibilità per curare la bimba è nutrirla con il fegato fresco di un feto. L’ingrato compito di reperirne uno viene affidato alla balia: la donna saluta la propria figlioletta, coetanea dell’altra, le regala un omamori (un amuleto), e si mette in viaggio. Mesi dopo, stanca e affaticata, giunge ad Adachigahara. Lì decide di sistemarsi temporaneamente in una grotta, sperando d’incontrare prima o poi tra i viandanti una donna gravida. Passano gli anni, la balia ormai anziana quasi si rassegna al fallimento della missione, quando finalmente passa di là una donna incinta; senza alcuna esitazione la vecchia le salta addosso e la colpisce con il suo coltello. Solo dopo essersi impossessata del suo raccapricciante trofeo, si sofferma a osservare la vittima, e si accorge che indossa l’omamori. Senza vo-

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lerlo ha dunque ucciso la sua stessa figlia e il suo nipotino non ancora nato! Resa folle dal dolore, la balia si trasforma in uno yokai che assale i passanti e si nutre della loro carne. Si dice che proprio in una caverna o in un’abitazione nei pressi di Adachigahara sia vissuta la donna che ispirò questa leggenda, e che in un piccolo museo locale siano conservati i suoi resti, la pentola di cottura e il coltello utilizzati per uccidere e cucinare le sue vittime. Questa donna sarebbe morta nella vicina località di Kurozuka. In effetti, in Giappone esiste una località turistica che si chiama Adachigahara Furusatomura Village, una replica di un villaggio tradizionale giapponese. La mascotte del villaggio è Bappy-chan, un mostriciattolo con corna e zanne e con un’espressione accigliata, reso però tenero e amabile, totalmente in contrasto

con la terribile genesi dell’Onibaba e con l’immagine proposta dall’arte tradizionale. Inutile dirlo, su Bappy-chan è nata una fiorente attività di merchandising. L’Onibaba è un esempio della eccezionale varietà del folclore giapponese, che anche per questo risulta per noi incredibilmente alieno – e pauroso, visto che per la maggior parte questi mostri hanno una natura dispettosa e non esitano a spiare o terrorizzare gli esseri umani, spesso mimetizzandosi tra loro e rivelandosi solo in determinate circostanze Molte di queste storie ce le ha raccontate proprio il maestro Kaneto Shindō, il regista senza dubbio più strettamente affascinato dal lato oscuro del folclore giapponese. A tal proposito basti pensare a Kuroneko, un’opera incentrata sulla sinistra leggenda della donna-gatto, realizzata dal regista quattro anni più tardi, e di cui abbiamo parlato in Terre di Confine n. 2. <

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CULT Serie

Là dove nessuno

HA MAI OSATO

TORNARE di ANDREA CARTA

Negli stessi giorni in cui l’America scopriva Star Trek, nella TV tedesca salpava l’Enterprise made in Europe...

G

UARDARE UNA puntata, una sola, de Le Fantastiche Avventure dell’Astronave Orion (Raumpatrouille - Die Phantastischen Abenteuer des Raumschiffes Orion), serie di fantascienza tedesca che nel 2016 celebra il 50° anniversario della messa in onda, non è solo un tuffo nelle origini di questo genere (quantomeno nelle serie televisive), ma una vera e propria esperienza surreale, che assomiglia più a un sogno indotto da certe droghe allora molto di moda o – volendo restare in tema – a un viaggio in qualche universo parallelo, dove l’evoluzione ha preso strade diverse e fanta-

siose, ma comunque sempre in grado di farci sorridere. Si dirà: ma allora, Star Trek? Star Trek è un’altra cosa, e non solo per i mezzi impiegati. Aveva alle spalle un’industria cinematografica e televisiva che masticava fantascienza da una ventina d’anni – e saltuariamente da prima ancora. Per quanto a molti la serie classica appaia oggi irrimediabilmente datata, la cura mostrata nei dialoghi, nello svolgersi dell’azione, nella caratterizzazione dei personaggi, nelle soluzioni escogitate per fare avanzare la trama, nel linguaggio utilizzato… tutto questo, ancora oggi, è ‘moderno’.

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Le immagini a colori sono gentilmente fornite da DORIN POPA

dorinpopa.de

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Ed è questa modernità ad aver permesso, anno dopo anno, decennio dopo decennio, la produzione di nuove serie e di un cospicuo numero di film, e soprattutto la nascita di un fandom con pochi eguali nella storia della fantascienza. La stessa cosa, ahimè, non si può dire della più modesta astronave Orion, che tanto sembrerebbe l’Enterprise europea, ma la cui fama resta confinata all’interno dei paesi di lingua tedesca, tutt’oggi praticamente ignota negli Stati Uniti – che non amano troppo le produzioni estere (se non per farci dei remake) e meno che mai il loro doppiaggio. A ben vedere, non è del tutto vero che l’Orion sia una versione europea dell’Enterprise: per quanto simili, le due serie sono nate in modo indipendente l’una dall’altra e sono andate in onda contem-

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poraneamente! L’una all’insaputa dell’altra, per quanto possa sembrare strano. Come è possibile? Trasmissione del pensiero? Telenosi, per citare uno degli innumerevoli neologismi della serie europea? In realtà i due telefilm si assomigliano perché identiche sono le premesse culturali e scientifiche dalle quali nascono: sino agli inizi dell’astronautica, nel 1961, la fantascienza guarda allo spazio come luogo dal quale potrebbero provenire esseri alieni, più o meno ostili. Ancora nel 1963, con Doctor Who, l’approccio non è diverso: la leggendaria serie inglese racconta le avventure di un alieno in viaggio sulla Terra, che si mostra superiore, intellettualmente e tecnologicamente, a noi terrestri (per fortuna non ha cattive intenzioni). Ma nei tre anni che trascorrono tra la messa in onda di Doctor Who


e quella di Raumpatrouille cambiano molte cose. Il programma spaziale americano, fermo nel 1963 alla serie Mercury, è passato attraverso una decina di voli della Gemini e sta preparandosi per l’Apollo; Leonov ha ‘passeggiato’ nello spazio; due diverse astronavi (americane) hanno ‘attraccato’ in orbita; da Marte arrivano le prime immagini; sonde hanno già toccato il suolo lunare e persino quello di Venere. L’ottimismo dilaga: la conquista della Luna sembra (ed è) imminente; quella di Marte pure (ma non lo è). La ‘conquista dello spazio’ in generale sembra ormai una certezza, così come lo sono state tante altre conquiste ‘terrene’. Nel clima di euforia – tutto sembrava possibile, in quegli anni! – è naturale che la fantascienza lasciasse il nostro pianeta e, senza più timore di invasioni aliene, si lanciasse a sua volta nello spazio, anticipando quello che allora sembrava inevitabile; l’Enterprise e l’Orion sono entrambe figlie di quell’epoca, vicina nel tempo ma ormai lontanissima nello spirito. Di Star Trek si sa tutto; ma come è nata l’astronave Orion? E perché proprio in Germania? Vale la pena ricordare che nel 1966, in Europa, nessuno aveva ancora prodotto una serie di fantascienza, BBC a parte; la mitica Belfagor - Il Fantasma del Louvre (Belphégor ou le Fantôme du Louvre, Francia, 1965) e Historias para no Dormir (Spagna, febbraio del 1966) ne avevano pochi accenni, ma entrambe erano essenzialmente di genere horror. La Germania, tuttavia, reduce dalla spaventosa crisi seguita alla guerra, si stava avviando più di altri paesi sulla strada della ripresa culturale ed economica. Nel 1962, col Manifesto di Oberhausen,

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nasceva quello che oggi viene chiamato Nuovo Cinema Tedesco, movimento che guadagnò i primi riconoscimenti nel 1966, a Cannes (con Der Junge Törless, di Volker Schlöndorff). La spinta innovatrice della Germania arrivò sino alla televisione, e lo sconosciuto Rolf Honold, ex ufficiale della Wehrmacht, ex attore di teatro, si mise in testa di realizzare una serie di fantascienza. I finanziamenti giunsero nel 1965, anche grazie all’aiuto dell’emittente francese ORTF, e nell’autunno 1966 andarono in onda sulla rete pubblica ARD i 7 episodi di Raumpatrouille, con indici di ascolto che oggi farebbero crepare d’invidia qualsiasi network televisivo: dal 37% al 56%. Erano altri tempi: niente emittenti private a contendersi l’audience, e di fronte a una serie così innovativa resistance was futile (tanto per citare proprio Star Trek). Ma, rivista oggi, l’astronave Orion fa sorridere. L’impostazione, in effetti, ricorda quella di Star Trek: il coraggioso capitano (anzi, maggiore) Cliff McLane, al comando dell’astronave Orion, come il suo omologo James T. Kirk percorre gli spazi interstellari vivendo avventure di ogni genere e salvando spesso e volentieri la Terra da gravissimi pericoli; il più grave di questi, senza ombra di dubbio, è rappresentato dai Frogs (‘rane’), una razza aliena (unica conosciuta, nella serie) che mostra grande ostilità nei confronti dei terrestri e non esita di fronte a nulla pur di invadere o, in alternativa, distruggere il nostro pianeta. Telenosi (ipnosi telepatica), lavaggio del cervello, lancio di planetoidi contro la Terra: le rane le provano tutte, e ogni volta sarebbe finita, per noi, se non ci fossero McLane e il suo indomito equipaggio a salvarci (aiuta anche il

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fatto che l’Orion è l’astronave più veloce della flotta terrestre). Altri pericoli derivano dall’uso eccessivo dei robot, sempre pronti a ribellarsi agli esseri umani, e dalle colonie terrestri più o meno ostili nei confronti del pianeta madre. Allo spettatore bastano i primi minuti, dopo l’introduzione dell’indomito McLane (assegnato per indisciplina alle ‘pattuglie spaziali’ e non più ai ‘reparti spaziali’), per notare come gli effetti speciali lascino molto a desiderare, anche per l’epoca. L’Orion altro non è che un piatto agitato da fili davanti a qualche schermo nero o qualche sfondo di cartapesta pseudorocciosa, con una plancia fatta di sagome di legno, ferri da stiro, temperamatite, bicchieri di plastica e altri oggetti di uso comune; le armi laser sembrano dei cacciaviti dall’aria innocua… e così

via. I numerosi ‘planetoidi’ di cui pullula la galassia hanno tutti l’atmosfera respirabile, la stessa gravità della Terra e persino la pioggia e un po’ di vegetazione (ma, in barba ad ogni logica, un cielo perennemente buio); mentre i terribili alieni sono solo delle figure avvolte da tutine sbrilluccicanti, e le astronavi nemiche si riducono a delle frecce bianche che si muovono a scatti. E pensare che Kubrick stava già lavorando a 2001! I ritmi, visti con l’occhio odierno, stancano invece di appassionare, con dialoghi interminabili e poveri di contenuti, spesso ridotti a una serie di battibecchi che si ripetono a ogni episodio (soprattutto fra i superiori di McLane, in perenne disaccordo sulle misure da prendere per fronteggiare le varie crisi). Ogni operazione richiede un conto alla rovescia, da -10

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se non da -20 (in quell’epoca di frequenti missioni spaziali la cosa doveva affascinare l’immaginario collettivo); decolli e atterraggi sono mostrati dall’inizio alla fine, con sequenze replicate, sempre uguali; non c’è azione, neanche il minimo indispensabile, e, nelle pochissime sequenze in cui ci si agita un po’, gli attori non riescono in modo convincente nemmeno a tirare un pugno o puntare un’arma. I buchi nelle sceneggiature non si contano, la regia è mediocre (i movimenti di macchina sembrano sconosciuti), le scenografie povere e ulteriormente penalizzate dalla mancanza del colore. Il technobabble raggiunge punte di comicità involontaria: tra le espressioni più memorabili, i robot che funzionano al contrario (aggrediscono gli uomini invece di obbedirgli) perché “i gruppi numerici possono essersi mescola-

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ti”, a cui segue il surreale commento del più stupido dei membri dell’equipaggio, che esclama “sono invertiti!” (magistrale doppio senso!). O anche “hanno i congegni sovraccarichi”. E che dire dei “campi di alterazione vaganti” che disturbano le comunicazioni radio (sempre istantanee, qualunque sia la distanza fra la Terra e l’astronave)? O delle “onde gravitazionali divergenti a rapida alternanza”, micidiale arma usata dalle rane contro i terrestri? O dei ‘planetoidi’ che vengono chiamati indifferentemente ‘stelle’ e persino ‘supernove’, anche all’interno dello stesso episodio? Dulcis in fundo, il sessismo di questa serie supera persino quello americano, all’epoca ancora molto evidente, e non solo in Star Trek: le due donne che fanno parte dell’equipaggio dell’Orion passano il tempo punzecchiandosi a vi-


cenda per amore del comandante o enunciando qualcosa di ovvio, del tipo “se restiamo qui a lungo il calore ci ucciderà”. Una delle due, oltretutto, ha il compito di fare da ‘governante’ all’indisciplinato McLane, contestando ogni ordine del suddetto e facendo così apparire sé stessa come una perfetta idiota e lui come un genio incompreso; naturalmente alla fine i due si innamoreranno e vivranno felici e contenti, dopo l’ultima memorabile battuta della fanciulla: “nella vita privata non ti serve una governante?”. A ribadire la loro totale mancanza di personalità, le due donne neanche si distinguono fra loro, identiche nell’abbigliamento, nel trucco, nell’acconciatura (tutto in pieno stile anni ’60). Per fortuna una è bionda, l’altra bruna. E che dire della proposta di sostituire l’intero personale femminile (peraltro quasi esclusivamente composto da addette alle comunicazioni) con dei robot? O della sprezzante osservazione di McLane, quando, capitato su una colonia terrestre governata da sole donne (gli uomini vengono ritenuti – giustamente – troppo aggressivi per occuparsi di politica), se ne esce con un “questo circo di amazzoni” dopo avere più volte chiesto, incredulo, di parlare col vero capo del governo locale. Pare impossibile, ma negli stessi giorni, sulla inglese ABC, vanno in onda The Avengers (Agente Speciale in Italia), dove brilla fulgida la stella di Mrs Peel, prototipo di una lunga serie di autentiche eroine che arriva sino ai nostri giorni, alla Vedova Nera della Marvel. Del resto, l’intuito anglosassone nel capire da che parte tira il vento è ben altra cosa rispetto alle solide, ma in genere antiquate, tradizioni tedesche.

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Eppure, nonostante tutto, malgrado le risate e anche il fastidio che può generare la visione di una serie così datata, bisogna pur sempre ricordare che cinquant’anni fa la fantascienza, specialmente quella televisiva, era solo agli inizi. E in Europa, come già ricordato, praticamente sconosciuta. Se ci si sforza di immergersi nel contesto degli anni ’60, l’astronave Orion diventa una serie almeno discreta, e si comincia a notare che gli episodi migliorano progressivamente mentre il sessismo si attenua, con le donne dell’equipaggio capaci di risolvere, da sole, situazioni difficili, e con McLane che finisce per apprezzare il circo di amazzoni; il ritmo si fa più serrato, le situazioni meno prevedibili, i conflitti più drammatici. Un po’ di suspense, negli ultimi due episodi, inizia a farsi vedere. E, anche se occasionali, non mancano spunti brillanti, spesso inaspettati: come la citazione delle ‘tre leggi della robotica’ nel terzo episodio (il cervello dei robot vi è ‘ancorato’), gli accenni alle guerre contro le colonie terrestri e alla repressione delle loro rivolte (tema molto di moda nella fantascienza attuale, basti pensare a Firefly o al recentissimo Killjoys), un equipaggio internazionale (nonostante l’aspetto assolutamente teutonico di tutti gli attori), l’uso dell’iperspazio sia pure ancora in forma rudimentale, e di armi laser (novità assoluta al di fuori degli USA). Anche il modo di ballare, tocco davvero originale nella generale povertà delle scenografie (si balla spesso e volentieri nel ritrovo frequentato dall’equipaggio prima e dopo ogni missione), è eccentrico persino per il 1966. Gli attori, inoltre, si mostrano all’altezza (scene d’azione a parte), probabilmen-

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te consci della novità di quanto stavano realizzando (non a caso hanno spesso un’aria divertita e rilassata), primo fra tutti Dietmar Schönherr (Cliff McLane); al suo fianco Eva Pflug (Tamara Jagellovsk, la ‘governante’), Wolfgang Völz (l’addetto alle armi Mario de Monti), Claus Holm (il ‘macchinista’ Hasso Sigbjörnson), Friedrich Beckhaus (il navigatore Atan Shubashi), che più che un pilota giapponese sembra un bancario tedesco, Ursula Lillig (l’addetta alle comunicazioni Helga Legrelle), Benno Sterzenbach e Charlotte Kerr (i generali Wamsler e van Dyke, superiori di McLane), Friedrich Joloff (il colonnello Villa, superiore della ‘governante’). Tutti volti noti della TV tedesca, per quanto ignoti all’estero. Menzione particolare alla sigla del compositore Peter Thomas, il Morricone tedesco: ac-

cattivante e molto moderna per l’epoca, viene tuttora suonata in pubblico, anche sotto la direzione del suo autore. Morale? La serie è godibile, a condizione di cancellare dalla memoria ogni altro telefilm di fantascienza visto dopo il 1966 e rivivere così le emozioni dell’epoca, ben sapendo che non torneranno più. Così come non tornò l’astronave Orion: un misto di problemi, dai costi elevati alla mancanza di una vera programmazione, alle striscianti accuse di militarismo rivolte alla serie (i militari vi appaiono come l’élite dominante), determinarono la chiusura del progetto. Eppure, come dimostrò poco tempo dopo la mitica UFO, si poteva osare ancora. Almeno, in Germania, l’astronave Orion è oggi un piccolo cult, col suo fandom e i suoi siti. L’Italia, invece, ancora aspetta e ancora aspetterà. <

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Lista EPISODI Testi di RENATA BERTOLA • www.serietv.net

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ANGRIFF AUS DEM ALL (Aggressione dal cosmo) Il maggiore McLane ha disobbedito agli ordini una volta di troppo, perciò la Orion VII, l’astronave al suo comando, viene declassata per 3 anni alla pattuglia spaziale. Inoltre, per questo periodo, a bordo ci sarà una rappresentante del Servizio di Sicurezza Galattico, il tenente Tamara Jagellovsk. Durante il suo primo pattugliamento, la Orion s’imbatte in una bellicosa razza aliena...

1.2

PLANET AUSSER KURS (Il pianeta fuori rotta) L’astronave Hydra comunica al Servizio di Sicurezza Galattico che un pianeta è uscito inspiegabilmente dalla propria orbita e si dirige ora verso la Terra. McLane, giunto nei pressi con la Orion, vorrebbe prestare soccorso alla Hydra, ma il tenente Jagellovsk gli fa presente che la loro priorità è eliminare, costi quel che costi, la grave minaccia che sta per distruggere la Terra.

1.3

HÜTER DES GESETZES (I guardiani della legge) A McLane viene assegnato un incarico banale: recuperare la memoria di alcune sonde. Ben più stimolante è la chiamata del commodoro Ruyther, che approfitta della missione della Orion per chiedere a McLane di controllare cosa succeda sul pianeta Pallas. Ultimamente, infatti, anziché i soliti carichi di germanicum, dalle miniere di Pallas giungono solo razzi pieni di detriti.

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1.4

DESERTEURE (I disertori)

Il comandante Alonzo è accusato di diserzione per avere inspiegabilmente diretto la sua nave verso una base dei Frogs. L’equipaggio della Orion, intanto, ha incarico di installare su alcune stazioni spaziali gli overkill, delle nuove armi per la difesa della Terra. Al rientro a bordo, McLane e compagni si accorgono che la rotta impostata nella Orion punta dritta verso lo spazio dei Frogs.

1.5

DER KAMPF UM DIE SONNE (Battaglia per il sole)

L’attività del Sole aumenta pericolosamente, a causa di una sperimentazione condotta dalla colonia del pianeta Chroma, a sua volta alle prese con il proprio sole, morente. Giunto sul posto con la Orion, McLane scopre che il pianeta è un luogo idilliaco, retto da un matriarcato. La donna al comando è ora di fronte a un dilemma: salvare Chroma a spese della Terra, o viceversa?

1.6

DIE RAUMFALLE (La trappola spaziale)

McLane è costretto a ospitare a bordo della Orion il famoso scrittore Pieter-Paul Ibsen, che deve svolgere delle ricerche per il suo ultimo romanzo. Mentre compie un giro solitario a bordo di un lancet, Ibsen viene portato fuori rotta e costretto a un atterraggio di emergenza su Mura, un asteroide dove è stato esiliato un gruppo di coloni capeggiati dallo scienziato Tourenne.

1.7

INVASION (Invasione)

L’astronave che trasporta il colonnello Villa viene sorpresa da una violenta tempesta spaziale. I passeggeri riescono a trovare rifugio sul pianeta Gordon, e poi a tornare sulla Terra. Il rapporto del colonnello sull’episodio, però, non convince affatto McLane, il quale decide di recarsi su Gordon con la Orion per indagare su cosa sia realmente accaduto.

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Anime MOVIE

Il pioniere che

CONQUISTÒ lo

SPAZIO di SIMONE CORÀ

Il primo film realizzato dalla Gainax è una sofisticata storia fantascientifica, che già anticipa le ambizioni e lo spirito innovativo del celebre studio giapponese.

I

N UNA TERRA alternativa, la corsa allo spazio è al suo passo cruciale: la costruzione di un razzo capace di oltrepassare l’atmosfera e raggiungere le immensità del cosmo. Tuttavia, di fronte al rischio che la missione si riveli un pericoloso fallimento, nessuno sembra intenzionato a pilotare il mezzo che lo consegnerebbe alla Storia. L’unico a farsi avanti è Shirotsugh Lhadatt, che presto diventa l’idolo delle folle. Ma il clima di festa rischia di tramutarsi in tragedia poiché le rivalità politiche, sempre più aspre, potrebbero

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compromettere il lancio… Opera d’esordio destinata a far Storia nonostante il pesante flop commerciale, s’intuiva già da questo Le Ali di Honneamise (Ōritsu Uchū-gun - Oneamisu no Tsubasa), del 1987, come in casa Gainax si covassero ambizioni destinate a rivoluzionare modi di fare e di intendere l’animazione. L’avanguardia nella costruzione della storia e dei personaggi, oltre all’estrema personalità nel frullare generi e tematiche – una filosofia attraverso la quale è stato sovvertito per ben due vol-


te il genere robotico con Neon Genesis Evangelion (Shin Seiki Evangelion, 1995) prima e Sfondamento dei Cieli Gurren Lagann (Tengen Toppa Guren Ragan, 2007) poi –, rendevano sul finire degli anni Ottanta assai pericolosa – come lo è d’altronde la ricerca dell’originalità – la realizzazione di questo lungometraggio. Troppo sofisticato per il 1987, Le Ali di Honneamise è un progetto affascinante ma così anomalo che avrebbe necessitato di una maggior rifinitura per poter essere davvero apprezzato da un pubblico di certo non preparato. Eccessivi gli elementi intrappolati in una trama originale, tanto nel suo sviluppo indecifrabile quanto nella commistione di generi: si va infatti dalla fantascienza al thriller, dai dilemmi spirituali alla love story, dall’avidità umana alla guerra, dalla politica all’intro-

spezione psicologica. Pur bilanciando la mole di argomenti, puntando ora sull’ironia ora su un approccio serioso, non si è evitato il rischio di sballottare il pubblico per quasi due ore con una visione pesante e poco fruibile. La pellicola resta comunque sbalorditiva. C’è infatti così tanta meraviglia nel seguire la stralunata vicenda dell’astronauta Lhadatt che la complessità dell’opera, concettuale e strutturale, passa in secondo piano, per lasciar posto all’analisi commovente del protagonista mentre insegue una meta di una semplicità (ma soprattutto di un valore) devastante, di fronte alle avversità di un mondo folle ma credibile, esagerato eppure simbolicamente veritiero. Si viene scossi, proprio come Lhadatt, ogniqualvolta il film cambia pelle mutando con sobbalzi rumorosi,

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che alterano continuamente l’atmosfera pur senza mai dimenticarne l’aspetto sognante, vero e proprio traino. Il sottofondo umoristico tiene legati come può i tanti aspetti dell’opera, funzionando egregiamente nelle sequenze più solari e offrendo il giusto spiazzamento quando la componente seriosa emerge con omicidi e spietate macchinazioni politiche. Ma, anche se troppo lungo, anche se non sempre lineare, anche se disorientante nella sua labirintica messinscena, in questo caos voluto e perfettamente controllato Lhadatt – esaltato, umiliato, applaudito, disilluso ma sempre fiducioso in sé stesso – matura e diventa uomo, spinto da quella coraggiosa ingenuità che ne forgia il carattere trasmettendo bonario carisma e sincera simpatia.

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La narrazione è lenta e studiata, ma la ricchezza dei dettagli (tanto nella creazione degli scenari quanto nella finezza psicologica) e la bellezza delle animazioni (dirette da un Hideaki Anno al suo primo incarico importante) grondano fascino, soprattutto per uno spettatore più esigente. Al resto pensano le finezze registiche di Hiroyuki Yamaga, anche sceneggiatore, e lo splendore dei disegni, appartenenti a quell’epoca in cui i film si ‘facevano a mano’ strabiliando in ogni fotogramma. Il character design di Yoshiyuki Sadamoto è particolare e può piacere oppure no: il suo è uno stile figlio di un altro tempo ma è comunque ideale per il tenore strampalato dell’opera, così difficile da inquadrare. Con la sopracitata mole di argomenti, non

tutto poteva essere approfondito adeguatamente; se il carattere politico è ben esposto, appare invece poco sviluppata la riflessione religiosa che Yamaga vorrebbe offrire, lasciata a sé stessa in una visione bidimensionale e sostanzialmente banale, che intrappola un personaggio potenzialmente interessante come Riquinni (la giovane di cui Lhadatt si è invaghito, quasi per caso) in uno semplice passo che il protagonista deve compiere per capire ciò che realmente vuole fare. Avanti anni luce rispetto alla produzione dell’epoca, Le Ali di Honneamise è indubbiamente un film imperfetto ma incredibile, in particolar modo se visto oggigiorno, capace com’è di stupire ancora, a quasi venticinque anni dalla sua uscita. <

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Anime OVA

Le avventure pop

ROBOTICHE

delle

QUATTRO

di SIMONE CORÀ

Combattimenti a tempo di musica contro gli spietati cyborg della megacorporazione Genom.

T

RA I MAGGIORI esponenti ottantini della ‘dottrina Macross’, Bubblegum Crisis è, a partire dal titolo, una predisposizione a una massimizzazione visiva e danzereccia che nel suo tempo ha filosoficamente tiranneggiato, spargendo semi pop in un’intera generazione. Distribuito nelle videoteche giapponesi dal 1987 al 1991 con ottimi incassi, dei tredici episodi inizialmente previsti solo otto vedono la luce (a causa di dispute legali tra i due produttori Artmic e Youmex), ma ciò non impedisce alla miniserie di diventare in pochi anni una ramificazione di trasposizioni, seguiti, prequel, spin-off e

rifacimenti, firmandosi come opera fondamentale per il suo approccio stilistico e musicale, accanto ai vari Dancouga (1985), Megazone 23 (1985) ecc. Non si tratta naturalmente solo di sfarzo visivo; o meglio, non è questo l’unico elemento a risaltare e dare sostanza storica a Bubblegum Crisis: per quanto la fisicità robotica, l’assurda ricchezza di dettagli e la potenza delle animazioni siano necessari a sostenere il progetto di Toshimichi Suzuki, creatore e sceneggiatore (nonché presidente della stessa Artmic), è paradossalmente nel suo insieme che l’opera funziona e dà soddisfazione, crescendo

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di puntata in puntata in una trasformazione tecnica raramente così esemplare. Ambientato in un futuro non troppo lontano, dove la corporazione Genom domina invisibile la politica e lo scenario producendo i granitici ‘boomer’ (cyborg utilizzati tanto nella quotidianità quanto nei progetti militari), un gruppo di giustizieri femminili, le Knight Sabers, protegge il popolo dalle sperimentazioni belliche a cui è continuamente sottoposto. Difficile immaginare qualcosa di più semplice e spartano per una serie OVA: appena uno spunto per ‘episodicizzare’ di volta in volta un antagonista diverso che, con meccaniche collaudate, viene puntualmente sconfitto dalle nostre eroine in uno splendore di animazioni e di particolari, di esplosioni e di cazzute scene d’azione. Eppure Bubblegum Crisis acquisisce con il passare del tempo una maturità e una completezza che gli permette di sfoggiare avventure sì molto elementari, ma scritte e dirette con una mano professionale, che bilancia miracolosamente spettacolarità e attenzione per i personaggi, tanto da raggiungere proprio nell’ottavo OVA una sorta di perfezione in cui ogni elemento, dal ritmo all’ironia, dalle mazzate robotiche all’espressione musicale, sostiene indissolubilmente l’altro. Certo, non abbiamo mai a che fare con grandi intrecci; Suzuki preferisce volare sempre basso e fare ogni cosa a modo, senza ambire ad argomentazioni più complesse o che stravolgerebbero un progetto in realtà sempre straight in your face. Non c’è la voglia né la necessità di travestimenti intellettuali per aggiornare e rafforzare il cyberpunk su cui il progetto si basa: è proprio nella schiettezza che l’autore dà

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il suo meglio. E se, negli episodi iniziali, è soddisfacente saziarsi dei bellissimi disegni di Kenichi Sonoda, dell’intricatissimo mecha design in cui compaiono nomi importanti come Masami Obari e Shinji Aramaki, e delle tentacolari animazioni (che deflagrano tra sparatorie che sbriciolano e spargono in giro sangue e bulloni), è da metà in avanti che Bubblegum Crisis conquista una sorta di maturità nel tratteggio di personaggi ed eventi, tale da fortificare un’esperienza visiva già sostenuta dalle regie solide e magniloquenti di Katsuhito Akiyama, Masami Obari, Fumihiko Takayama e Hiroaki Gohda. Le quattro Knight Sabers si spogliano progressivamente delle vesti semplici e simpaticamente superficiali della prima manche di episodi, e accanto all’appeal bishōjo a uso e consumo del pubblico, fatto di sfoggi di bellezza fisica, moto lanciate a gran velocità, velate malizie durante la svestizione e lunghe esibizioni live su palchi colorati e colmi di synth, si aggiungono storie personali, motivazioni più profonde, legami d’affetto e un’ironia più radicata nei caratteri, non dettata da una demenzialità slapstick. Quattro personaggi per quattro approcci molto pratici alla caratterizzazione: abbiamo una leader silenziosa e intelligente (Sylia Stingray) che, come una madre, guida tre amiche, una ribelle (Priscilla ‘Priss’ Asagiri), una ingenua (Nene Romanova) e una sensuale (Linna Yamazaki). Ma, nonostante la forte schematicità di base, si spendono molti minuti a spiegare e ad approfondire, impedendo alle armature e ai combattimenti di prevalere e far sbrodolare tutto l’impianto. Anche un personaggio secondario come l’agente Leon passa da un’innocua

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comparsata sbavante sul corpo di Priss a uomo d’azione e di gran coraggio, tanto che la stessa sciocca spalla comica che gli viene affibbiata si guadagna uno spessore altrimenti insperato. Ciò che resta grossomodo sullo stesso livello sono le intenzioni criminali della Genom: la multinazionale semina dirigenti anziani e avvoltoi arrivisti senza differenziarne troppo motivazioni e risate infernali; Suzuki però è bravo a dare continuità, non spezzando sistematicamente gli episodi in avventure autoconclusive ma creando uno scenario vivo e dotato di memoria, dove ogni evento possiede una certa importanza e ricade inevitabilmente su ciò che succede in seguito, annodando ogni elemento con quel minimo di serialità che alza l’OVA un gradino sopra la media, già altissima, dei vari colleghi del periodo. Bubblegum Crisis rimane in fondo uno dei prototipi della visione disimpegnata, apparentemente dedicata a pallottole e calci sui denti, ma la sua visione richiede attenzione e questo rende l’opera ben più piacevole, nonostante si tratti di un prodotto in qualche modo tronco, privo di un reale inizio e soprattutto di una fine (nonostante si vociferi – senza reali conferme ufficiali – che il successivo Bubblegum Crash, 1991, basi le sue vicende sugli ultimi cinque episodi mai prodotti). La miniserie pare più che altro fotografare una porzione della storia di una Tokyo futuristica. Ma il gioco vale la candela: è raro incontrare opere che sappiano resistere al trascorrere del tempo con questa energia, mostrando difetti e ingenuità che esse stesse hanno però saputo correggere in corsa. <

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Cult ANIME

Il mobile suit

VENUTO DA

DELOYER

di JACOPO MISTÈ

Sulle orme di Gundam, un anime robotico figlio degli anni della Guerra Fredda, che fa del realistico background bellico il suo vero punto di forza.

S

PACE CENTURY, anno 153: il pianeta Deloyer, da sempre colonia della Federazione Terrestre con aspirazioni di indipendenza, è retto con pugno di ferro dal suo ultimo governo, fortemente sostenuto dai federali. I moti sono pronti a esplodere in una guerra civile. Crin, figlio di Denon Cashim, governatore federale, sposa la causa dei suoi amici deloyerani e, abbandonata la facoltosa famiglia, si unisce all’insurrezione entrando nel gruppo partigiano Zanna del Sole, diventando presto pilota del potentissimo

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robot Dougram. Il conflitto sarà lungo e terribile, e in esso si intrecceranno molteplici interessi politici ed economici. Prodotto dalla Sunrise nel 1981 sulla scia del successo tardivo di Gundam, Taiyō no Kiba Daguramu (lett: ‘Dougram Zanna del Sole’, inedito in Italia) è il primo, vero figlio della concezione robotica realistica/matura inaugurata dal celebre Mobile Suit nel 1979. È anche il primo grande capolavoro nel genere realizzato da Ryousuke Takahashi, già regista per la Sunrise di Zero Tester, (1973) e del popolare


Cyborg, i Nove Supermagnifici (1979); è una Prova, la sua, con la P maiuscola, una visione di culto che oggi, riscoperta dopo decenni di oblio, si aggiunge a quella decina di opere robotiche davvero fondamentali. Per convincere a guardare una serie animata così vecchia, dai disegni funzionali e poco attraenti (prima, unica prova di character design dello sceneggiatore Soji Yoshikawa, con l’aiuto del veterano Norio Shioyama) e composta da ben 75 episodi, dirò che Dougram trascende la sua età. Takahashi racconta il primo, storico, dramma di guerra, analizzando un

conflitto nel modo più pragmatico possibile, in tutte le sue sfaccettature politiche, economiche, sociali e militari: è con Dougram che il regista diventa uno degli uomini più importanti della Sunrise, costruendosi nell’ambiente un nome che è sinonimo di racconti dal background politico/militare curatissimo. L’incipit è essenzialmente un riciclo di quello di Gundam a parti invertite (gli eroi stanno questa volta col fronte degli indipendentisti), ma è il modo di narrare che è antitetico: mentre Tomino racconta la guerra calandola in una storia di formazione dai toni epici e avventurosi, Ta-

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kahashi lo fa in un modo così distaccato da farle perdere ogni residuo eroico, con una regia così arida da rasentare il reportage documentaristico – tanto che il film riassuntivo che esce un paio di anni dopo, Document Taiyō no Kiba Daguramu, seguendo questa dichiarazione d’intenti si presenta addirittura come tale. L’attenzione è focalizzata soprattutto sui giochi politici ed economici dei pezzi grossi che decidono le sorti del conflitto, più che sugli eroi che combattono in prima linea e che spesso sono spettatori passivi della Storia. Il regista dirà successivamente, in una sola frase, di aver voluto raccontare come si comportava la società in un mondo le cui guerre si basavano sull’uso di robot. Estremamente realistico in queste dinamiche – memorabili le critiche rimediate all’epoca sulla rivista Animekku, secondo cui simili tematiche non potevano funzionare in una serie robotica –, Dougram si configura subito come una metafora della Guerra Fredda: un Paese dell’America Latina (il pianeta Deloyer) tenta di liberarsi dalle odiose interferenze degli USA (l’immaginario Stato di Medoul, ovviamente uno dei principali Paesi che reggono la Federazione Terrestre), che vi hanno instaurato un governo fantoccio sottomesso alle loro direttive; durante il conflitto i ribelli sono militarmente supportati, per ragioni ideologiche, da URSS e Cina (Kohod e Rodia), e la loro lotta ha quindi ripercussioni sulla politica, sull’economia e sull’opinione pubblica mondiali. Quest’intuizione segna quello che sarà il tratto fondamentale di tutte le future opere mecha di Ryousuke Takahashi: il setting ispirato o basato su vicen-

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de politiche contemporanee; e Dougram più di qualsiasi altro suo lavoro trasmette l’impressione di assistere a un vero scorcio di Storia: più e più volte la guerra d’indipendenza dei deloyerani, per effetto di ambientazioni, abbigliamenti e dettagli minori (per esempio la canzonetta rivoluzionaria spesso cantata dai componen-

ti di Zanna del Sole, sorta di Bella Ciao fantascientifica) fa rivivere echi di guerra civile spagnola e/o cubana. Lo stesso protagonista, Crin, che abbandona la vita agiata in favore della guerriglia, ricorda Ernesto Guevara – e il rivoluzionario argentino viene anche citato esplicitamente.

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Dougram pone in primissimo piano, con rigore ed esemplare cura dialogica, relazioni interpersonali, tattiche militari e macchinazioni politiche: ne sono prova le numerose discussioni della famiglia di Crin sugli esiti e le conseguenze del conflitto (la vendite di armi, il consumo di materie prime, le opinioni politiche dei vari Stati), o le strategie con cui Zanna del Sole e i suoi avversari portano avanti le loro battaglie, pensando a mille variabili come l’umore delle truppe, le munizioni rimaste, le implicazioni morali di una sconfitta, la conformazione geografica del terreno, le spese militari, lo stress del pilota Crin… addirittura lo stato del carburante del gigantesco Dougram. In questo senso, per l’appassionato di Storia robotica, Dougram segna un altro passo in avanti verso la creazione del Robot Realistico teorizzato da Yoshiyuki Tomino: come in Gundam, anche in questo caso il robottone protagonista è invincibile e palesemente superiore ai suoi avversari come potenza bellica (qui i veri robot realistici continuano a essere le unità prodotte in serie, i Combat Armor Soltic), ma è sempre più smitizzato nel suo ruolo, sempre più vulnerabile, più dipendente dalle debolezze psicologiche del suo pilota, tanto che in più di un’occasione è costretto a ritirarsi o addirittura a fuggire dai campi di battaglia perché rimasto disarmato, o senza carburante. Sul piano estetico, poi, il robottone è tutt’altro che attraente: un design appena appena funzionale, che più sobrio, misurato e insignificante di così si muore, bene in linea con i dettami di credibilità perseguiti dal regista. Il forte realismo di fondo è ricorrente in

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ogni aspetto della trama, toccando caratterizzazioni psicologiche complesse, analisi dei rapporti familiari e delle visioni della politica, riflessioni filosofiche sul ruolo delle idee, delle rivoluzioni e della mentalità degli individui nella Storia, rapporti interpersonali di qualsiasi tipo lontani da artifizi da romanzo d’appendi-

ce, tragiche e inaspettate morti dovute a pura sfortuna e non a immolazioni eroiche, crudo realismo degli scenari di guerra (ospedali militari, campi minati, soldati impazziti per lo stress), e cosĂŹ via. Interessante poi il ruolo dei componenti di Zanna del Sole, non passivi spettatori delle battaglie del Dougram ma alleati

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importanti che, con le loro armi (solitamente fucili o bazooka), intervengono attivamente aiutando Crin a sopravvivere agli scontri più duri. Quello che però veramente stupisce dell’opera è come Takahashi imbastisca una storia lunga, minuziosa e dai tempi narrativi pachidermici (il soggetto principale procede con una lentezza esasperante, salvo poi esplodere nelle ultime quindici puntate) senza annoiare mai. Rispetto ai lavori successivi, maniacali a livelli tanto estremi da risultare gelidi, il regista trova in Dougram il perfetto equilibrio tra intermezzi action e didascalici, presentando un coinvolgente dramma che, nonostante la densità di contenuti, non tedia, anche a dispetto di una veste grafica vintage (ma non per questo inespressiva), di protagonisti non irresistibili e di una colonna sonora dimenticabile e ripetitiva. L’ottimo indice di ascolto ottenuto all’epoca testimonia l’apprezzamento del pubblico, che evidentemente ha percepito la novità rispetto ai soliti rituali del genere robotico. Dougram è una cronaca appassionante di una immaginaria guerra civile; seria e attenta ai personaggi anziché persa in infinite battaglie tra robot – quasi sempre relegate, invece, agli ultimi tre minuti di episodio, tanto per fornire a Sunrise e al produttore, la catena di giocattoli Takara, il contentino. Chiude poi la vicenda un finale amaro e disilluso, in piena linea con le premesse di realismo politico. Decisamente, si tratta di una serie indimenticabile, che rimane tra quelle imprescindibili del genere robotico, fosse anche solo per la sua estrema unicità. <

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Sigle MANIA

Zanna del Sole

DOUGRAM traduzione di The Crows ITA Fansub www.facebook.com/TheCrowsItaFansub/

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Sigla originale di apertura

Saraba Yasashiki Hibi Yo

Interprete: MAMORU ASADA Testo: RYOSUKE TAKAHASHI Musica: TORU FUYUKI Arrangiamento: MASAHISA TAKEICHI

Itsu no hi ka to osorete ita Itsu no hi ka to yumemite ita Kokoro mezame tsubasa hirogete Tabitatsu hi Dougram

Temendo che questo sia il giorno Sognando che questo sia il giorno Risveglia il tuo cuore, spiega tue ali È ora di andare, Dougram

Onore tsunagu kusari tachikiri Kokoro shibaru yami wo kirisaku Hikari no senshi Dougram Mezase harukana chihei

Tagliando le catene che ci imprigionano Squarciando le tenebre che ci legano i cuori Dougram guerriero di luce Punta un lontano orizzonte

Saraba yasashiki hibi yo Mou modorenai mou kaerenai Taiyou no kiba Dougram

Addio dolci giornate Non torneranno più, io non tornerò più Dougram, la Zanna del Sole

Itsu no hi ni ka inori todoki Itsu no hi ni ka nozomi kanai Futari musubu kizuna futatabi Yumemiru hi Dougram

Ci sarà un giorno in cui le preghiere verranno ascoltate? Sarà un giorno in cui non vorremmo ciò accada? Vincoli ci legano ancora Dougram, il giorno che abbiamo sognato

Afururu namida sadame dakara to Furui okosu araburu tamashii Hikari no senshi Dougram Mezase harukana chihei

Le lacrime scorrono perché è il nostro destino Chiama a raccolta le anime Dougram, guerriero di luce Punta un lontano orizzonte

Saraba yasashiki hibi yo Mou modorenai mou kaerenai Taiyou no kiba Dougram (x2)

Addio dolci giornate Non torneranno più, io non tornerò più Dougram, la Zanna del Sole (x2) 145


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Sigla originale di chiusura

Kaze no Yukue

Interprete: MAMORU ASADA Testo: RYOSUKE TAKAHASHI Musica: TORU FUYUKI Arrangiamento: MASAHISA TAKEICHI

Ru-ru-ru... ru-ru-ru... Hoshi ga nagarete negai wo kakete Futatsu kazoete yume kudake Koishisa kakera no flashback Kokoro bososa ni ato furimukeba Osanai natsu no hi slow motion

Cadono le stelle volano i desideri Conto fino a due e il sogno è già infranto Un flashback con frammenti di nostalgia Se mi allontanerò dalla disperazione Potrò vedere in slow motion i giorni estivi della mia gioventù

Uwasa tazunete katamichi kippu

Un biglietto a senso unico per la strada della gloria Attraverso il crepuscolo rabbioso Un flashback con frammenti di nostalgia Se mi allontanerò dalla disperazione Potrò vedere in slow motion i giorni estivi della mia gioventù

Chizu ni nai machi higuredoki Koishisa kakera no flashback Kokoro bososa ni ato furimukeba Osanai natsu no hi slow motion Ru-ru-ru... ru-ru-ru... Tsunoru omoi ga guruguru mawaru Aware kokoro no rashinban Koishisa kakera no flashback Kokoro bososa ni ato furimukeba Osanai natsu no hi slow motion

Invitanti emozioni che girano in tondo nel cuore Da felicità a dolore come una bussola Un flashback con frammenti di nostalgia Se mi allontanerò dalla disperazione Potrò vedere in slow motion i giorni estivi della mia gioventù

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Cosplay CORNER

‘Indossando’

MAGHETTE e

SUPER IDOL di DAVIDE LONGONI

Cosplay al femminile con Monica, collezionatrice di cantanti magiche ed eroine alla marinaretta.

C

HI MASTICA il gergo delle nuvole parlanti nipponiche conosce bene il genere shōjo (ragazza), cioè quella categoria di manga/anime realizzati per un pubblico femminile di età compresa tra la tarda infanzia e il termine dell’adolescenza. Tipico shōjo è il sottogenere majokko (streghetta), altrimenti detto mahō shōjo (ragazza magica), che aggiunge elementi fantasy e fantascientifici alle classiche situazioni da commedia sentimentale. OnlyShojo è un sito dedicato appunto al variopinto panorama di maghette, streghette ed eroine che popolano le serie giapponesi per ragazze. La curatrice, Mo-

nica, è grande appassionata di cosplay, non potevamo quindi perdere l’occasione d’intervistarla nel nostro cos-corner. Nel suo sito, così si presenta: “ho sempre adorato i cartoni, fin da quando ero piccola. Non ricordo, davvero, neppure un momento della mia vita in cui i cartoni non fossero con me nel mio cuore [...] penso che mi abbiano aiutato a diventare una persona migliore. Probabilmente senza di loro non avrei avuto la stessa fantasia, immaginazione e forza di volontà. E mi hanno aiutato a rialzarmi in tanti momenti difficili della mia vita”. Conosciamola meglio…

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CHII

da Chobits

SERENITY da Sailor Moon

CREAMY da L’Incantevole Creamy

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Intervista a

Monica Pachetti Ciao Monica, entriamo subito in argomento: che significato ha per te, a livello personale, l’hobby del cosplay? È una grande passione, che mi impegna e mi diverte molto. Devo dire che la vita un po’ me l’ha cambiata, e sicuramente in meglio! Adoro condividerla con i miei amici e molto spesso infatti faccio cosplay di coppia. Come e quando hai cominciato a occuparti di questa attività? Ho esordito a Lucca Comics 2005, con le mie amiche, dopo anni che ne parlavamo, portando i costumi di Creamy e Yu. Risultato orrendo visto con gli occhi di oggi! Ma gli inizi sono duri per tutti, e da qualche parte uno deve pur cominciare, no? Comunque è stata un’esperienza spassosa; ogni volta che ne parliamo, a distanza di ormai 10 anni, ancora piangiamo dalle risate. Un ricordo bellissimo. Quanto tempo ti ci vuole per confezionare un personaggio, partendo dall’idea e arrivando al prodotto finito? Decido il personaggio parecchi mesi prima dell’esibizione, direi almeno 4 mesi. Inizio a cercare gli accessori, le scarpe, le eventuali parrucche e tutto quello che serve. Per gli abiti io non sono bravissima a cucire e ho per fortuna mia mamma e mia zia che mi aiutano molto, ma anche alcuni sarti di fiducia a cui mi rivolgo per costumi eccessivamente complessi. Non ritengo infatti il cosplay una gara di sar-

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MEGALOMAN E MEGUMI AYASE

Alessandro Antoniello da Megaloman e Monica da il Ritorno

di Creamy

SUPER SAILOR MOON

da Sailor Moon


toria, e trovo giusto che tutti possano praticarlo e divertirsi, anche se non sono appunto dei sarti – cosa che lo farebbe allora diventare un hobby davvero molto di nicchia. Una volta creato il personaggio, come ti muovi per presentarlo? Io presento i miei cosplay soprattutto a Lucca o in altre fiere toscane. E quando li indosso mi comporto e mi muovo come farebbe il personaggio in questione. Sono davvero molto pignola, soprattutto per le foto: voglio che le pose siano il più possibile fedeli all’originale.

FAIRY da Evelyn e la Magia di un Sogno d’Amore

Il sogno di ogni cosplayer è partecipare al WCS: vuoi spiegarci di cosa si tratta e come ti stai muovendo per potervi prendere parte? Il World Cosplay Summit è il ‘mondiale’ del cosplay. È un meeting internazionale che si tiene ogni anno a Nagoya, in Giappone, sponsorizzato dalla Tv Aichi. Cosplayer provenienti da varie nazioni si sfidano per ottenere il titolo di ‘Miglior Cosplayer Mondiale’! Inutile dire che prendere parte a questa manifestazione è il sogno di tutti i cosplayer. Io ho provato 2 volte a partecipare alle selezioni, ma poi sinceramente mi sono fermata lì. Non è questo che mi spinge a fare cosplay, e ho capito che anzi neppure mi diverte; si finisce per non godersi minimamente la fiera: stare ore e ore ad attendere, e vivere la giornata con un’ansia che personalmente mi rovina il tutto. In Giappone ci sono stata per conto mio nel 2009 e senz’altro mi sono divertita di più. Non amo la competizione nel cosplay, preferisco di gran lunga girare

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BELLDANDY

da Oh, Mia Dea!

JEM da Jem

SABRINA (ERIKO TAMURA) da Ciao, Sabrina

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CREAMY da Majocco Club


serenamente per le fiere con i miei amici, divertirmi e fare foto. Quale tipologia di personaggi t’ispira di più? Scelgo soprattutto personaggi shojo e majokko, quasi esclusivamente di anime anni ’80. Personaggi che porto nel cuore dall’infanzia. Ovviamente cerco anche una minima somiglianza… ma non penso sia determinante. Non ci dimentichiamo che cosplay non vuol dire diventare un sosia ma impegnarsi per rendere il più possibile reale e somigliante un personaggio, magari avendo una cura maniacale per i dettagli. Qual è stato il costume che ti ha dato più soddisfazioni? Soprattutto quelli di Creamy Mami: ormai sono alcuni anni che mi sono specializzata in questo personaggio, con ben 17 suoi abiti realizzati. Più uno di Duenote, la sua rivale. Gli abiti che mi hanno dato più soddisfazioni sono la coppia Creamy-Yadir dall’OAV Il Lungo Addio (ndr: Mahō no tenshi Creamy Mami: Long Goodbye, 1985), che a Romics 2006 ci fecero vincere – con la mia amica Nicoletta – il premio per il costume più originale e innovativo. E il più difficile da realizzare? È stato senz’altro Belldandy di Oh, Mia Dea! (ndr: Ah! Megami-sama, manga del 1988 e versione anime del 1993), portato a Romics 2007. Un abito davvero ultra complesso, e un martirio da indossare. Le ali erano pesantissime e per ricoprirle tutte passai mesi a cucire una a una le centinaia di piume bianche arrivate dall’America.

ETERNAL SAILOR PLUTO

da Sailor Moon

YOKO TANAKA

da Diventeremo Famose

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YU E CREAMY

Nicoletta e Monica da L’Incantevole Creamy

All’interno del tuo sito esiste anche una sezione personale in cui ti presenti in abiti normali: come mai? Sì, nel sito c’è anche una piccola sezione con abiti normali e una versione natalizia. Niente di particolare, la ritengo una cosa simpatica che quasi tutti i siti cosplay hanno. Purtroppo poi non più avuto il tempo di aggiornarla con altre foto. Si denota dalle tue interpretazioni una predilezione per il fantastico. Che significato ha per te questa tematica? Il fantastico e la fantasia in generale fanno da sempre parte di me, e credo non si possa vivere senza. Che mondo sarebbe senza sogni e senza fantasia?

CREAMY da L’Incantevole Creamy

Qual è stato l’anime o manga che più ti è piaciuto? Il mio cartone preferito è senza dubbio L’Incantevole Creamy (ndr: Mahō no tenshi Creamy Mami, 1983). Manco a dirlo! Tant’è che nel 2013, insieme ad alcuni

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CREAMY (OVA #1 E OVA #2) da sinistra Monica da Il Ritorno di Creamy e Yukari Iitsuka da Lovely Serenade

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STELLA BELIEVIX da Winx Club

CREAMY

da L’Incantevole Creamy

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amici, abbiamo realizzato un evento per il trentennale di questo cartone. E poi Ciao Sabrina (ndr: Idol Densetsu Eriko, 1989), di cui ho già realizzato due cosplay! A farmi amare particolarmente questi titoli contribuisce la mia passione per il canto (che ho studiato per tre anni, partecipando anche a molti spettacoli e a vari concorsi). Eppoi ne adoro i disegni, e il favoloso character design. Possiedo una miriade di giocattoli e gadget di queste due serie, una collezione che continuo a far crescere giorno dopo giorno.

SAINT TAIL

da Lisa e Seya un Solo Cuore

per lo Stesso Segreto

Esulando invece dal contesto giapponese? Per i cartoni non giapponesi… direi allora gli americani Jem (ndr: Jem & The Holograms, 1985) e Lady Lovely (ndr: Lady Lovely Locks and the Pixietails, 1987). Ho collezioni sconfinate anche su di loro e le ho interpretate in cosplay – di Jem ben tre, e con uno di essi ho cantato insieme a Cristina D’Avena. Ultima domanda, poi ti lasciamo al tuo lavoro. Quali progetti hai per il futuro e qual è il tuo sogno nel cassetto? Sogni? Soprattutto tornare in Giappone il prima possibile, è il mio sogno più grande. Ma direi viaggiare in generale e vedere più possibile il mondo. Non sono fatta per stare ferma troppo a lungo nello stesso posto. Dal Kyūshū all’Hokkaidō, noi ti auguriamo allora di girare tutti gli angoli più suggestivi dell’arcipelago nipponico, magari per farne un bel reportage per i nostri lettori! E non dimenticare di mandarci una cartolina! <

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Cult MANGA

Il robottino

DAL CUORE

ATOMICO di MARCO PELLITTERI

A

Portavoce di un ideale pacifista, dal dopobomba a oggi ha educato e divertito generazioni di lettori: il personaggio divenuto icona del Giappone nel mondo.

STROBOY (in originale Tetsuwan Atom, ‘Il potente Atom’ o, lett., ‘Atom braccio di ferro’) è una serie basata sul personaggio eponimo ideato dal maestro Osamu Tezuka (19281989), che fece la sua prima apparizione sul settimanale Shōnen dall’aprile del 1951 al marzo del 1952 nel manga Atom Taishi (lett. ‘Atom l’ambasciatore’). Astroboy derivava in buona parte dall’automa androgino Michi protagonista del precedente Metropolis (1947) dello stesso autore, ed entrambi furono ispirati a Perī, il

bambino robot del manga Fushigi no Kuni no Putchā (1946) disegnato da Fukujiro Yokoi. Un anno dopo il suo esordio, sempre su Shōnen, Astroboy assumeva per l’appunto la sua fisionomia definitiva come Tetsuwan Atom. Destinato a un pubblico di bambini, principalmente maschietti, Tetsuwan Atom costituisce un ideale prototipo di quella categoria di fumetti giapponesi conosciuta come shōnen. Adotta il concetto e la struttura di story manga, cioè fumetto a puntate con una storia continuativa, in-

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Una precedente diversa versione di questo articolo è stata pubblicata in lingua inglese nel volume Critical Survey of Graphic Novels: Manga, a cura di Bart H. Beaty e Stephen Weiner, SALEM PRESS, Ipswich MA, USA, 2012, ISBN 9781587659553.

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VOLUME #1

edizione Planet Manga PANINI, gennaio 2010

VOLUME #2

edizione Planet Manga PANINI, marzo 2010

trodotto in Giappone proprio da Tezuka: un fumetto seriale formato da episodi che vanno a comporre vari archi narrativi. In quest’opera i cicli sono 73, costituiti da avventure di varia lunghezza nelle quali Astroboy combatte robot malvagi, risolve crimini e aiuta gli esseri umani. Si tratta di uno dei primi esempi di manga di fantascienza del dopoguerra, in questo caso permeato da una visione ottimistica del futuro. La trama è basata su un antefatto che racconta la genesi del piccolo eroe, prologo a cui i lettori si affideranno per comprendere psicologia e comportamento del protagonista e dei personaggi che ruotano attorno ad esso. Siamo in Giappone, primi anni del XXI Secolo; il dottor Umatarō Tenma, direttore generale del Ministero della Scienza, perde in un incidente stradale l’amato figlioletto Tobio. Sopraffatto dal dolore, lo scienziato decide di costruire un robot intelligente con le sembianze del bimbo scomparso; ma, dopo averla attivata (esattamente il 7 aprile del 2003), non tarda a rendersi conto che questa creatura artificiale, per quanto sofisticata, non è in grado di sostituire Tobio né

potrà mai crescere come un normale bambino. Decide allora di sbarazzarsene vendendola a un circo. A salvare il piccolo automa, dopo qualche tempo, è il nuovo direttore generale, il dottor Ochanomizu, convinto difensore dei diritti civili dei robot. Lo scienziato crea per Astroboy due robot come genitori e altri due, Cobalt e Uran, a fargli rispettivamente da fratello e sorella. Per il piccolo androide è l’inizio di una nuova vita: frequenterà la scuola, giocherà con i compagni come un bambino comune, e al contempo… inizierà a combattere il crimine e le ingiustizie nel mondo! Astroboy infatti è assai più che un tenero bimbo meccanico: alimentato da un reattore nucleare da 100.000 cavalli, è dotato di razzi propulsori ai piedi, mitragliatrici posteriori che fuoriescono dal fondoschiena e dita capaci di sparare raggi laser; comprende inoltre 60 lingue e possiede tutta una serie di altri poteri e funzionalità. Ma, soprattutto, è animato da una grande sensibilità e da un profondo senso di giustizia. Il suo impegno nel comportarsi come un retto essere umano e la sua dedizione nella lotta contro ogni

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ordine di lettura da destra a sinistra

ASTROBOY cap. LA NASCITA DI ATOM - PANINI COMICS | ©OSAMU TEZUKA PRODUCTION

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ordine di lettura da destra a sinistra

ASTROBOY cap. LA NASCITA DI ATOM - PANINI COMICS | ©OSAMU TEZUKA PRODUCTION

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discriminazione fanno di lui il perfetto ‘ambasciatore’ di una pacifica e armoniosa convivenza tra robot e uomini. Nelle sue missioni contro i cattivi è spesso coadiuvato da Higeoyaji, un sedicente detective, basso e calvo, rappresentazione tezukiana dell’uomo qualunque giapponese, pieno di buon senso. Edito su Shōnen per sedici anni, dall’aprile del 1952 al marzo del 1968 (per proseguire poi su altre pubblicazioni), Tetsuwan Atom è stato oggetto di moltissime ristampe e riedizioni, spesso con cambiamenti: la più importante è la raccolta completa pubblicata nel 1981 dalla casa editrice Akita Shoten, contenente molte pagine nuove (disegnate da Tezuka come commentario introduttivo alle varie storie) e usata per tutte le edizioni estere tradotte, compresa quella italiana – antologica – pubblicata da Panini Comics nel 2010. Considerandola da un punto di vista filologico, questa cosiddetta edizione definitiva in realtà è differente dall’originale, oggi difficilissima da reperire perfino in Giappone. L’autore è intervenuto ritoccando le pagine, ridisegnando numerosi dettagli

e concordando con la Akita Shoten un diverso ordine di pubblicazione; pertanto capita di trovare storie degli anni Sessanta mescolate ad altre degli anni Cinquanta. Varie vicende hanno subìto inoltre dei rilevanti cambiamenti. Citiamo di seguito alcuni tra i cicli più coinvolgenti. In Atlas (storia #17, pubblicata da maggio a giugno del 1956) compare per la prima volta l’omonimo personaggio, uno degli androidi più potenti del mondo; esso contiene un dispositivo chiamato Fattore Omega che permette ai robot di ignorare la legge fondamentale che impedisce loro di nuocere o addirittura uccidere gli esseri umani: quest’elemento è uno dei più importanti nell’universo narrativo di Tetsuwan Atom. Ne La Macchina Impazzita (#27, da agosto a settembre del 1958) viene affrontato il tema della ‘giornata di riposo’ per i robot, con i malumori che ne conseguono tra gli esseri umani; la storia costituisce una pregevole allegoria sulla schiavitù e sui diritti dei lavoratori. Ne Il Robot più Forte della Terra (#54, da giugno del 1964 ad agosto del 1965) un potente androide di nome Pluto,

VOLUME #3

edizione Planet Manga PANINI, maggio 2010

VOLUME #4

edizione Planet Manga PANINI, luglio 2010

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VOLUME #5

edizione Planet Manga PANINI, settembre 2010

VERSIONE HIMEKAWA VOLUME #1

edizione Planet Manga PANINI, marzo 2005

programmato per distruggere i sette robot più forti della Terra, annienta i primi sei e infine affronta Astroboy; una rivisitazione di quest’arco narrativo è stata trasposta nel manga Pluto, di Naoki Urasawa, pubblicato in 8 volumi dal 2003 al 2009. Il Cavaliere Azzurro (#63, da ottobre del 1965 a marzo del 1966) introduce un robot considerato un eroe dai suoi simili perché levatosi in loro difesa contro i maltrattamenti da parte degli umani: la vicenda è una significativa parabola contro il razzismo e la discriminazione. STILE Lo stile usato in Tetsuwan Atom è diventato rappresentativo dei manga per bambini negli anni Cinquanta e Sessanta. Le figure sono soavemente rotondeggianti, ispirate all’animazione commerciale americana del ventennio precedente (in particolare quella di autori come Walt Disney e Max Fleischer); caratteristiche anatomiche come gli occhi, i volti, i corpi e le mani derivano direttamente da quell’impronta. Questa tipologia di figure è visivamente piacevole e di facile gradimento per i bambini, adatta a suscitare empatia

e affetto. L’innovazione portata da Tezuka è evidente tuttavia sul piano narrativo più che su quello illustrativo, e consiste nell’aver reso vulnerabili i personaggi dei fumetti per bambini: persone e robot possono ferirsi e morire, con la conseguente possibilità di introdurre toni drammatici nelle storie. Anche la messa in scena tezukiana fu innovativa per l’epoca; la composizione delle vignette all’interno delle pagine è dinamica: ognuna ha forma e dimensioni diverse, per offrire l’impressione del movimento e suggerire il ritmo di lettura. In Tetsuwan Atom è inoltre fondamentale la sintesi: i fondali vengono disegnati solo quando necessari alla narrazione, e le figure dei personaggi sono sempre ordinatamente posizionate al centro della scena. Lo stile di Tezuka naturalmente evolve dal 1951 al 1968, ma in Tetsuwan Atom i cambiamenti non sono così evidenti, proprio per la già accennata opera di revisione intrapresa nella versione della Akita Shoten: in quell’occasione Tezuka stesso si adoperò per rendere più omogenei i disegni, revisionando le storie e cambiando come detto le

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ordine di lettura da destra a sinistra

ASTROBOY cap. L’UOMO ELETTRICO - PANINI COMICS | ©OSAMU TEZUKA PRODUCTION

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ordine di lettura da destra a sinistra

ASTROBOY cap. IL GATTO ROSSO - PANINI COMICS | ©OSAMU TEZUKA PRODUCTION

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sue preferenze nell’ordine di pubblicazione, fattori che rendono più difficile per i lettori notare modifiche significative. TEMI Astroboy presenta almeno tre principali livelli di lettura. Al primo livello, l’opera appare sostanzialmente come un’avventura fantascientifica a episodi, per bambini, nella quale ogni vicenda nasconde una morale, un significato che – grazie all’abilità di Tezuka nell’orchestrare insegnamenti che non risultino pedanti – i giovani lettori riescono ad apprendere senza nemmeno accorgersene. Lo stesso autore appare spesso nelle storie come commentatore, attraverso un metapersonaggio che porta il suo nome. Al livello successivo, la chiave di lettura è una visione antirazzista, pacifista e ottimistica del Giappone. Molti personaggi dimostrano un’evidente ‘diversità’ e lottano per farsi accettare dalle cosiddette persone normali, laddove per ‘normalità’ s’intende di volta in volta, in termini esclusivi, l’essere umani, l’essere giapponesi o l’essere terrestri. Questo tipo di messaggio morale era centrale già in Atom Taishi.

Il terzo livello di interpretazione aggiunge una dimensione storica e insieme politica in relazione al ruolo internazionale del Giappone nel dopoguerra, così come lo vedeva Tezuka nei primi anni Cinquanta. Astroboy è, anche lui, “un ragazzino di dodici anni”: è questa la frase con cui il generale Douglas MacArthur, proconsole americano in Giappone, definì metaforicamente il livello di maturità e sviluppo della società giapponese rispetto a quella occidentale. Sulla base di questa importante premessa, si può interpretare l’opera come una parabola della situazione d’emergenza in cui il Giappone versava dopo la terribile sconfitta (con tanto di esposizione alle bombe atomiche) patita nella Seconda Guerra Mondiale. Astroboy/ Atom è un bambino robot nato da questo Giappone collassato ma che guarda avanti, a un futuro di pace e dialogo internazionale. In questo senso, Tetsuwan Atom rappresenta una lunga serie di apologhi morali, rivolti sia alla generazione di Tezuka sia soprattutto a quella dei bambini nati nel dopoguerra, che dovevano imparare – e lo fecero – a vivere secondo un nuovo

VERSIONE HIMEKAWA VOLUME #2

edizione Planet Manga PANINI, aprile 2005

VERSIONE HIMEKAWA VOLUME #1

edizione Planet Manga PANINI, maggio 2005

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insieme di valori pacifisti, in cui le armi nucleari fossero bandite e, anzi, l’energia atomica fosse foriera di sviluppo pacifico. Per il paese che aveva visto scoppiare sul proprio territorio due bombe atomiche, il fatto che Atom si chiamasse proprio così e fosse alimentato proprio da quell’energia non fu una coincidenza. Laddove invece negli Stati Uniti, quando, nel 1963, arrivò la serie animata basata sul fumetto, il personaggio, probabilmente per pudore, da Atom fu ribattezzato, appunto, Astro. IMPATTO Astroboy è uno dei personaggi a fumetti più famosi del mondo. In Giappone, la pubblicazione di Tetsuwan Atom ha avuto un effetto profondo e duraturo sulla cultura popolare. Le sue storie e il suo simbolismo hanno stimolato alla riflessione milioni di giovani lettori: la costanza delle vendite da decenni a questa parte fa di questo manga uno dei più ristampati di ogni tempo. La società e la cultura giapponesi ne hanno così profondamente assorbito i valori che quest’opera è considerata un autentico tesoro nazionale. Dal punto di vista narrativo e grafico, Tetsuwan Atom rappresenta un capitolo importante nella lunga carriera di Tezuka. Il suo impatto come serie singola è notevole, ma le innovazioni che contiene, nello stile e nei temi, sono fondamentali nell’intera produzione artistica di Tezuka. Elementi narrativi come lo star system (personaggi ricorrenti da una manga all’altro) e l’utilizzo di vignette dinamiche, insieme alla coraggiosa sensibilità nel parlare di valori importanti, hanno avuto forti influenze su intere generazioni di lettori e di fumettisti.


CINEMA E TELEVISIONE Astroboy è stato protagonista di varie trasposizioni per lo schermo. La prima fu il telefilm Tetsuwan Atom, produzione in bianco e nero di 65 episodi realizzata e trasmessa da MBS, in onda dal 7 marzo 1959 al 28 maggio 1960, con l’attore Masato Segawa nel ruolo di Atom. Nel 1962 una selezione di queste puntate fu adattata per comporre un lungometraggio. Seguì la celebre versione animata, omonima, realizzata in bianco e nero dalla Mushi Production e diretta da Tezuka stesso. Messa in onda dall’emittente Fuji TV dal 1° gennaio del 1963 al 31 dicembre del 1966, per un totale di 193 episodi, si trattò della seconda serie animata televisiva mai prodotta in Giappone (preceduta solo dai corti di Instant History / Otogi Manga Calendar), e la prima giapponese a essere trasmessa negli Stati Uniti, dove Astroboy è tuttora uno dei personaggi fumettistici stranieri più ricordati di sempre. Il 26 luglio del 1964 uscì nelle sale il lungometraggio Tetsuwan Atom: Uchū no Yūsha, per la regia e sceneggiatura di Rintarō, Yoshitake Suzuki, Atsushi Takagi ed Eiichi Yamamoto. Una coproduzione Mushi e Fuji TV che assemblava in versione parzialmente a colori spezzoni della serie animata del 1963, in particolare gli episodi 46, 56 e 71, e alcune scene di raccordo realizzate appositamente. Il 6 settembre del 1969 il varietà Maeda Takehiko no Tenka no Rival, in onda su Nippon TV, ospitò lo special Kyōjin no Hoshi tai Tetsuwan Atom, diretto da Yoshiyuki Tomino: una sorta di immaginario incontro tra i due personaggi animati più popolari della Mushi e della Tokyo Movie,

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vale a dire Astroboy e Hyuma, dal celebre manga e anime sul baseball, conosciuto in Italia come Tommy, la Stella dei Giants. Insieme a molti altri personaggi tezukiani, Astroboy compare con il nome di Adam anche nel film televisivo d’animazione L’Espresso Sottomarino (Kaitei Chō Tokkyū Marine Express), trasmesso dalla Nippon TV il 26 agosto del 1979. La serie animata del 1963 godette di due rifacimenti televisivi, a colori. Il primo, omonimo (conosciuto anche come Shin Testuwan Atom), conta 52 episodi, diretti da Noboru Ishiguro per Mushi, Tezuka Production e Nippon TV e trasmessi da quest’ultima dal 1° ottobre del 1980 al 23 dicembre del 1981; fu questa la versione che, giunta in Italia col titolo Astroboy, fece conoscere il piccolo robot anche nel nostro Paese. Il secondo rifacimento, intitolato Astro Boy - Tetsuwan Atom, realizzato da Tezuka Production, Dentsu Inc. e Sony Pictures Entertainment con la regia di Kazuya Konaka, è formato da 50 episodi messi in onda su Animax e Fuji TV dal 6 aprile 2003 al 28 marzo 2004. Da questa trasposizione è stata adattata una nuova versione a fumetti disegnata da Akira Himekawa, pubblicata in Italia da Panini Comics nel 2005. Tra il 1999 e il 2005 la Tezuka Production ha realizzato vari corti, proiettati al Tezuka Osamu Animation Theater di Kyoto. Il primo, lungo circa 11 minuti, s’intitola Tetsuwan Atom - Shinsen-gumi (noto anche come Tetsuwan Atom - Aokishi no Maki) uscito il 20 luglio del 1999. Due anni più tardi, il 20 luglio del 2001, è stato proiettato Tetsuwan Atomu - Chikyūsaigonohi, circa 15 minuti di durata. Il 6 aprile del 2003 (la vigilia dell’attivazione di


2 0 0 9 Astroboy, nella finzione scenica) è stata la volta di [ASTRO BOY] Tetsuwan Atom Tokubetsu-hen: Atomu Tanjō no Himitsu, che racconta in circa 20 minuti e 30 secondi il segreto della nascita del piccolo robot. Stessa durata per i due successivi: [ASTRO BOY] Tetsuwan Atom - Tokubetsu-hen: Ivan no Wakusei - Robot to Ningen no Yūjō, del 13 settembre 2003, e [ASTRO BOY] Tetsuwan Atom - Kagayakeru Hoshi - Anata wa Aoku, Utsukushī… del 7 febbraio 2004. Nel 2005 è stato realizzato il maggiore, [ASTRO BOY] Tetsuwan Atom - 10 Man-kōnen no Raihōsha: IGZA,

di circa 41 minuti. Del 2009 è Astro Boy, il film in animazione digitale diretto da David Bowers (seguito da un corto di circa 3 minuti e mezzo uscito nel 2010 col titolo Astro Boy vs. the Junkyard Pirates), una coproduzione Imagi Animation Studios, Imagi Crystal e Tezuka Productions. Infine, una miniserie televisiva di 8 episodi dal titolo Robot Atom è stata realizzata dalla Tezuka Production in collaborazione con l’emittente nigeriana Channels TV, e trasmessa in Nigeria dal 22 marzo al 26 aprile del 2014. <

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Cult COMICS

Il super Kree

CHE DIFENDEVA

LA TERRA di ORLANDO FURIOSO

Alla scoperta del primo Capitan Marvel, il Kree lanciato dalla Casa delle Idee nel 1967 e presentato come ‘il più grande dei nuovi supereroi’.

“D

AI LONTANI recessi dello spazio è giunta un’astronave con il compito di studiare il pianeta Terra in segreto! Un membro del suo equipaggio alieno travestito da terrestre deve testare le difese del nostro mondo… da solo!” Ho conosciuto Capitan Marvel moltissimi anni fa, precisamente alla fine di ottobre del 1971: il capitano della flotta interstellare Kree divenne il comprimario della testata de I Fantastici Quattro, con il numero 15. L’albo, così come tutti gli altri fumetti della Marvel, erano editi in Italia

dalla mitica Editoriale Corno, direzione editoriale di Luciano Secchi e con la cura editoriale e le traduzioni affidate per la maggior parte a Grazia Perini. Non mi piaceva Capitan Marvel, non mi piacevano quei disegni di Gene Colan, così pieni di ombre, scuri, cupi, disegni nei quali in molti volti non si vedevano gli occhi; tutto quel nero… e viso e corpo dei personaggi erano così diversi dallo stile di Jack Kirby! Le linee erano meno definite, più sfumate di quelle del Re, i volti dei protagonisti e delle protagoniste erano

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PRESENTA:

NUOVO!

Mai visto prima!

E inoltre: cinque classici della Golden Age!

ILCAVALIERE NERO!

“L’ARRIVO DI

IL DISTRUTTORE!

CAPITAN AMERICA!

LA TORCIA UMANA!

IL SUBMARINER!

Ammettilo, tigrotto! Questo è il miglior albo mai pubblicato finora dalla Casa delle idee!

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OUT OF THE HOLOCAUST… A HERO!

albo #1, maggio 1968 MARVEL COMICS

THE SPACEMAN AND THE SUPER SKRULL!

albo #2, giugno 1968 MARVEL COMICS

così… adulti! Il salto dalle – da un certo punto di vista – ‘scanzonate’ avventure dei Fantastici Quattro a quelle così ‘serie’ di Capitan Marvel non era indolore: per me era come passare da un fumetto (i FQ) pensato e creato per me e per i ragazzini come me, ad uno (Cap Marvel) creato e pensato per gli adulti e dunque di più difficile comprensione. Ok, lo ammetto: spesso l’ultima parte dell’albo, quella con Cap Marvel, non la leggevo proprio… Le mie impressioni di ragazzino erano ingenue, ma avevano un fondo di verità: nello stesso albo venivano infatti proposte due tipi di storie un po’ differenti tra loro e temporalmente ‘distanti’ (nei fumetti, quattro anni possono essere un’eternità…); le storie di Capitan Marvel erano realmente un po’ più cupe e adulte e i disegni del decano Colan – che di lì a pochissimo tempo sarebbe diventato uno dei miei disegnatori preferiti (e lo è tutt’ora) – erano davvero diversi rispetto a quelli del Re Kirby. Ci volle quindi qualche anno perché potessi apprezzare in pieno le storie di Capitan Marvel, personaggio dalla vita editoriale frammenta-

ria, ma non per questo meno ricca, ed estremamente variegata, che ha avuto molte incarnazioni e del quale si sono occupati molti autori. Nel 2014 Panini Comics ha finalmente stampato l’Omnibus delle sue prime avventure… La base di partenza della storia, cominciata da Stan Lee e affidata già dal secondo numero a un giovane Roy Thomas – figura destinata a diventare di primissimo piano all’interno della Marvel – forse non è il massimo dell’originalità, ma è drammatica e coinvolgente. Mar-Vell (questo il vero nome del protagonista) è l’aitante capitano di una delle flotte imperiali Kree, popolo imperialista altamente tecnologizzato che domina su un’immensa galassia. L’incarico di Mar-Vell è pericoloso: deve verificare come una razza debole come quella terrestre sia riuscita a sconfiggere la potente Sentinella Galattica 459 (gigantesco robot semi-senziente che i Kree avevano piazzato sulla Terra secoli addietro), ed eventualmente punirla. In realtà, questa missione è manipolata dal perfido colonnello Yon-Rogg, il quale, ‘innamorato’ della bellissima dottoressa Una, fidanza-

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LA MARVEL COMICS GROUP PRESENTA... "L'ARRIVO DI

FASE UNO!!

QUESTO È L’iNiZiO...! il più grande dei nuovi supereroi… presentato con comprensibile orgoglio da:

STAN (l’uomo) LEE e GENE (il decano) COLAN

Chine di FRANK GiACOiA

lettering di alessandro benedetti

CAPITAN MARVEL OMNIBUS: pagina 9 | ©PANINI COMICS

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Allo spuntare dell’alba, una potente astronave si avvicina al piccolo pianeta Terra… una nave che ha attraversato metà dell’universo per raggiungere il nostro ignaro mondo dalla galassia governata dai misteriosi Kree! Solo al capitano Mar-Vell, signore?? indossi la tuta da La dottoressa Una le combattimento, somministrerà la poziocapitano! Non ci sarà nessuna E il resto della squadra ne respiratoria! squadra di sbarco! di sbarco? Prepararsi per l’atterraggio! il colonnello mi ha ordinato di compiere questa missione da solo!

Ma… è contrario a tutte le normali procedure!

Silenzio, mia amata! Conosci le vere motivazioni del colonnello!

Ma inviarti da solo… in una missione come questa… può significare solo una cosa!

È innamorato di te… ma sa che il tuo cuore appartiene a me… e quindi farà di tutto per separarci!

il vero obiettivo del colonnello Yon-Rogg è assicurarsi che tu non torni vivo!

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CAPITAN MARVEL OMNIBUS: pagina 10 | ©PANINI COMICS

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ta di Mar-Vell, spera di provocare la morte di quest’ultimo senza risultarne ufficialmente il colpevole. Sia Mar-Vell che Una sono però al corrente del malvagio piano… Le prime avventure del “più grande dei nuovi supereroi” (così lo strillo di copertina del numero di Marvel Super-Heroes n. 12 del dicembre 1967 su cui compare la prima storia di Capitan Marvel) sono quindi incentrati, oltre che sulle violentissime battaglie di Mar-Vell – ribattezzatosi nel frattempo Capitan Marvel e diventato subito un eroe per i terrestri –, su questa drammatica contraddizione tra il vero scopo dell’alieno (punire i terrestri) e la sua sempre maggiore affezione al nostro pianeta con la conseguente, tragica solitudine dell’eroe. Senza dimenticare la tragedia degli amanti crudelmente separati dalle macchinazioni di Yon-Rogg. Ci sono cioè tutte le premesse per la costruzione di avventure appassionanti e ricche, per l’epoca, di sfumature psicologiche. L’assioma di base della Marvel di Lee e Kirby è rispettato: supereroi con superproblemi; una crescente potenza ostacolata dai problemi che il mondo e la propria

interiorità pongono di fronte ai supereroi, definiti non solo come ‘superumani’, ma anche come ‘più umani degli umani stessi’. Sentire di poter dominare il mondo, ma non riuscire a ottenere quanto si ha di più caro o più si vorrebbe. Ossia… la metafora dell’adolescenza! “Per gli abitanti della Terra – pensa un disperato MarVell nella prima vignetta della sua sesta avventura (pag. 110 dell’Omnibus) – il nome di Capitan Marvel è quello di un eroe! Ma solo io […] conosco la sconvolgente verità… che un giorno potrebbe essere mia la mano a dare il segnale d’attacco contro questo mondo ignaro… che potrebbe essere la mia voce a decretare la sua totale distruzione!” Come ogni supereroe che si rispetti, a maggior ragione se alieno, anche Mar-Vell si premunisce di fornirsi di un’identità fittizia ed ecco che, senza il suo elmetto e il costume bianco e verde, diventa il dottor Walter Lawson, esperto in missilistica e reclutato alle dipendenze del bonario generale Bridges nella base del Capo, nella quale lavora come responsabile della sicurezza Carol Danvers (quest’ultima rivestirà una certa impor-

FROM THE ASHES OF DEFEAT!

albo #3, luglio 1968 MARVEL COMICS

ENTER: THE SUB-MARINER!

albo #4, agosto 1968 MARVEL COMICS

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THE MARK OF THE METAZOID!

albo #5, settembre 1968 MARVEL COMICS

IN THE PATH OF SOLAM!

albo #6, ottobre 1968 MARVEL COMICS

tanza nel Marvel Universe negli anni a venire…). A proposito di Carol Danvers: è l’unica persona ad avere fortissimi sospetti sulla segreta identità terrestre di Mar-Vell, quel dottor Lawson che il suo intuito le dice non essere chi dichiara di essere. Il ‘triangolo’ che si viene a formare tra MarVell, Una e l’intraprendente Carol permette agli autori di sfruttare un altro cliché abusato, ma evidentemente irrinunciabile e gradito a lettori e lettrici dell’epoca, ossia quello della ragazza che s’innamora dell’eroe in maschera ignorando che sotto quella stessa maschera si trova la persona che ella più detesta al mondo, proprio come Peter Parker/ Spider-Man e Gwen Stacy, Hal Jordan/Lanterna Verde e Carol Ferris e i precursori di tutto ciò: Clark Kent/Superman e Lois Lane. L’introspezione psicologica cui accennavo è differente da quella che possiamo trovare nei fumetti moderni: in Capitan Marvel si tratta di un sottotesto usato per aumentare parossisticamente la drammaticità, ma che è presente in misura molto minore delle violente e onnipresenti scazzottate. Nei primi numeri del fumet-

to assistiamo a una formula ripetitiva, per quanto efficacissima all’epoca: il combattimento tra il Capitano e il nemico di turno, e meglio ancora se tra i due, oltre alle botte, si frappongono dei fraintendimenti, vedi ad esempio la battaglia con Sub-Mariner o con l’orrendo e tragico Metazoide di ‘oltrecortina’ (cortina di ferro: siamo pur sempre in piena Guerra Fredda). Interessante, e un po’ inquietante, l’incontro col primo super-villain già noto, Quasimodo (un computer vivente creato dal Pensatore Pazzo, un abituale nemico dei Fantastici Quattro), perché nella storia – datata novembre 1968 – si parla di un collegamento in rete di più computer, si parla cioè di… Internet! “Aspetta pazzo! Abbiamo usato una rete di computer lontani collegati tra loro! Questa è solo una frazione della rete!” “E tu li collegherai di nuovo… così potrò assorbire tutte le loro emissioni energetiche!” Le prime avventure del Capitano sembrano collocarsi al di fuori o ad un limite estremo dell’Universo Marvel più conosciuto, in quanto, a eccezione del breve e violento incontro con Namor il

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SiLENZiO, voi due!

È… è pronta, colonnello!

Niente mormorii in mia presenza!

Non temere, mia amata! in qualche modo tornerò da te! Te lo giuro!

Allora gliela somministri senza ulteriori ritardi! Stiamo per atterrare! Dottoressa Una! La pozione respiratoria!

Se sarà costretto a togliersi l’elmetto protettivo, quella pozione le consentirà di respirare per sessanta minuti terrestri!

Pregherò perché tu non ne abbia bisogno!

Allacciare le cinture di sicurezza!

il posto è questo!

Attivate l’aura di negazione… così il nostro arrivo sarà invisibile per i terrestri! Aura attivata, signore!

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CAPITAN MARVEL OMNIBUS: pagina 11 | ©PANINI COMICS

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Pochi secondi prima dell’impatto, un raggio di luce altamente concentrato colpisce il suolo sottostante, solidificandosi immediatamente in un cuscino di energia pura, per ammortizzare la discesa sul luogo di atterraggio previsto.

il suo tempo è scaduto, capitano!

Sei convinto di mandarmi verso la morte, Yon-Rogg!

indossi l’elmetto protettivo! Scattare, Mar-Vell!

Ti sarò fedele per sempre, mio amato… per sempre!

Lo so, colonnello!

Capitano, è venuto il momento di partire!

Ma il regolamento spaziale prevede un minimo di 30 secondi per gli addii!

Possa l’intelligenza Suprema vegliare su di te, mio capitano!

Ma niente mi impedirà di tornare da Una… niente!

Basta il tuo amore a proteggermi!

Portello d’uscita

APERTO, signore!

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CAPITAN MARVEL OMNIBUS: pagina 12 | ©PANINI COMICS

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Sub-Mariner, nei primi numeri non s’incontrano altri supereroi della Casa delle Idee. Questa situazione in realtà è una caratteristica comune ai nuovi personaggi che la Marvel lanciava continuamente sul mercato negli Anni ’60 e ’70: lo stesso iniziale ‘distacco’ dal resto del popolatissimo universo Marvel, accadde anche per Thor, Ant-Man, Ghost Rider ecc. Poi, a un certo punto, sempre come capita agli altri personaggi, anche il nostro Capitano comincia a interagire con gli altri character di proprietà dell’editore newyorchese, fino a diventare parte integrante della continuity generale, meccanismo irrinunciabile per ogni universo narrativo supereroistico che si rispetti. Ciò va di pari passo con un frenetico alternarsi di autori che di volta in volta prendono le redini della testata. Le storie di Roy Thomas e Gene Colan durano sei splendidi numeri; quindi il timone passa allo sceneggiatore Arnold Drake e ai disegni di un Don Heck in ottima forma. I due mantengono le storie sul binario originario, con forzutissimi nemici, sempre dalle fattezze mostruose, e con i piani del Colonnello Yon-Rogg sempre

più malvagi, così come viene mantenuta quella leggera e gradevole componente da spy story. Gli autori si susseguono com’è tradizione Marvel, e così per un paio di numeri troviamo alle matite un Dick Ayers un po’ legnoso e non particolarmente ispirato.Anche un Tom Sutton niente male fa parte del club dei disegnatori di Capitan Marvel. Ma è con Gary Friedrich ai testi e Frank Springer ai disegni che il nostro eroe entra in un vero e proprio ‘trip alla Dottor Strange’, con splash-page roboanti zeppe di colori accesi, forme astratte e scenari cosmici e ‘mistici’. Qualche grosso buco di sceneggiatura non impedisce di godere di uno dei cicli più fuori di testa dell’intera produzione Marvel di quegli anni. Ammiriamo Rad-Nam, la città natale del Capitano, raffigurata con una fantasia ingenua e lontana anni luce da quelle che diventeranno in seguito le più seriose e drammatiche rappresentazioni della mitologia e degli scenari Kree. Siamo già nel 1969 e, grazie all’ingresso di Archie Goodwin ai testi e al ritorno di un Don Heck sempre più in

THE COMING OF QUASIMODO!

albo #7, novembre 1968 MARVEL COMICS

AND FEAR SHALL FOLLOW!

albo #8, dicembre 1968 MARVEL COMICS

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forma e a suo agio, assistiamo alla comparsa dell’Intelligenza Suprema, figura che ancor oggi ha un ruolo importante tra le grandi ‘Entità’ Marvel. C’è anche un epocale cambio di costume che dall’originario bianco e verde passa a una bellissima e aderentissima tuta che – con gioia di Roy Thomas che lo dichiara nell’introduzione – contiene i colori primari rosso e blu, con un piccolo tocco di giallo. Proprio Roy Thomas torna a scrivere le gesta di Mar-Vell coadiuvato da un meraviglioso Gil Kane ai disegni. Le storie

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prendono subito un respiro più moderno e dinamico. Dialoghi e didascalie entrano di prepotenza nei Seventies e inizia quel lungo ciclo nel quale Mar-Vell sarà legato al giovane Rick Jones, ex amico di Hulk, ex ‘spalla’ di Capitan America ed ex ‘quasi-Vendicatore’, benché sprovvisto di poteri. Con una trovata narrativa a metà tra il geniale e il… beh, e il meno-geniale, diciamo, Capitan Marvel e Rick Jones si troveranno a dover condividere una sorta di doppia identità. Quando l’uno è sulla Terra, l’altro è confinato in una forma


semi-ectoplasmatica in una Zona Negativa, e viceversa. Per invertire il processo, far cioè riapparire sulla Terra chi è temporaneamente nella Zona Negativa, è necessario sbattere con forza i polsi ai quali sono posti due potentissimi quanto misteriosi braccialetti alieni impossibili da rimuovere, chiamati nega-bande. I due personaggi comunicano tra loro a livello telepatico e possono vedersi reciprocamente come degli ‘spettri’. “È successo qualcosa quando ci siamo… scambiati gli atomi! Una specie di… fusione! E adesso lui è parte di me… come io lo sono di lui!” (Rick Jones) “Rick Jones è un giovane terrestre straordinario! Quanti adulti sarebbero stati in grado di adattarsi alla nostra relazione così… unica? Una relazione che nemmeno io comprendo appieno!” (Cap. Marvel) Questo presupposto un po’ buffo permetterà di concepire una serie di avventure non banali e psicologicamente interessanti. E siamo giunti quasi al termine del poderoso e coloratissimo volumone di oltre cinquecentotrenta (530) pagine, Capitan Marvel Omibus, che si chiude con due storie

del 1972 entrambe con i disegni di Wayne Boring, per i testi di Gerry Conway la prima e di Marv Wolfman la seconda. Due storie non esattamente memorabili (ma con due splendide copertine!). Finisce così il volume e mi lascia una gran voglia di leggere altre avventure del Capitano, storie bellissime come La Vita e La Morte di Capitan Marvel, che credo proprio riprenderò volentieri in mano. Capitan Marvel Omnibus è un fumetto vintage che non nasconde gli anni che ha, ed è proprio questo uno dei motivi principali che me lo fanno amare così visceralmente. La concezione generale – storia, dialoghi, disegni, storytelling… – è molto diversa da quella attuale, né ‘migliore’ né ‘peggiore’, semplicemente diversa, così com’era diverso all’epoca il fumetto supereroistico e direi anzi tutto il fumetto nel suo insieme. Forse a non tutti i giovanissimi lettori e lettrici di oggi questo Capitan Marvel potrà piacere, ma certamente piacerà a chi apprezza il fumetto ‘antico’ e a chi è sufficientemente duttile per immergersi in atmosfere rétro e lasciarsene beatamente conquistare. <

BETWEEN HAMMER AND ANVIL!

albo #9, gennaio 1969 MARVEL COMICS

UNCHAINED!

albo #17, ottobre 1969 MARVEL COMICS

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Art FOLIO

Foto, emozioni e MISTERI da

INDAGARE di LEONARDO COLOMBI

Di professione fotografo, artista per vocazione; e per passione... investigatore del soprannaturale.

N

ATO A ROMA, classe 1977, il suo nome è Roberto e la sua “ossessione” – come racconta egli stesso – “è sempre stata quella di poter fermare il tempo e poter mostrare agli altri cose che a volte le parole non riescono a esprimere”. Assecondare questa attitudine l’ha portato a scoprire il mondo della fotografia, prima da autodidatta, poi frequentando corsi tecnici e di postproduzione, e infine completando la sua formazione professionale attraverso esperienze collaborative con fotografi importanti. Oggi, al suo lavoro di freelance per varie riviste e alle

attività fotografiche più ‘tradizionali’, affianca ricreative incursioni nell’universo della Fantasia, cimentandosi con servizi di cosplay, ritratti di personaggi fantasy, foto in costume d’epoca e in armatura… C’è poi qualcosa di molto particolare che lo avvicina ancor più ai nostri temi, quelli del fantastico e della fantascienza: Roberto è infatti membro attivo degli Hunter Brothers, uno dei gruppi di ricerca e investigazione sul paranormale più conosciuti d’Italia. È con molta curiosità, dunque, che ci accingiamo a intervistarlo…

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modello: Valerio Bertocco

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Intervista a

Roberto Giancaterina Cominciamo con una domanda di rito, ossia una tua presentazione: se dovessi descriverti con un tweet di 140 caratteri, quali parole useresti? Sono Roberto Giancaterina, fotografo, originario di Roma, adoro la fotografia in tutte le sue forme perché aiuta a mantenere vivi i ricordi. Quando e in che modo hai maturato la passione per la fotografia? Quale è stato il percorso formativo che ti ha portato a divenire un professionista del settore e quali sono i tuoi riferimenti in questo campo? Ho maturato questo interesse quasi per gioco: durante le escursioni con gli amici io ero ‘quello con la macchina fotografica’, anche se, in effetti, si trattava di una semplice compatta economica. Poi ho continuato su questo percorso con il gruppo di ricerca sui fenomeni paranormali, gli Hunter Brothers: quando ognuno ha scelto un settore specifico su cui concentrarsi, io ho optato per la fotografia. Così ho iniziato a studiare per migliorare le mie tecniche e la mia attrezzatura – spesso infatti ci ritrovavamo a girovagare di notte, con la necessità di scattare foto in situazioni estreme e con scarsa luminosità. Successivamente mi sono documentato sull’analisi fotografica del materiale ‘particolare’, sia quello da noi reperito durante le nostre indagini sia quello inviatoci dalla gente che richiede nostre consulenze e verifiche.

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Ho poi avuto l’occasione di collaborare con alcuni fotografi professionisti e imparare da loro, molto e velocemente, anche se le ispirazioni maggiori giungono sempre dalle opere dei grandi fotografi del passato e dalla loro capacità di immortalare nei reportage il ‘momento giusto’. Di cosa ti occupi attualmente come fotografo? Oggi lavoro come freelance in collaborazione con alcune riviste di settore, in particolare automobilistico, inoltre mi occupo di fotografia di matrimoni, di book fotografici, reportage e scatti di moda.


E non scordiamoci la mia pagina personale e il mio sito, che utilizzo e tengo aggiornati per promuovere a 360 gradi le mie attività. Hai all’attivo qualche collaborazione con nomi noti? Ho avuto il piacere e l’onore di conoscere vari personaggi pubblici e del mondo dello spettacolo, per lo più scrittori, giornalisti, sportivi, con alcuni dei quali ho instaurato un rapporto di amicizia e collaborazione. Questo è uno degli aspetti migliori della mia professione: permette di viaggiare parecchio e di conoscere tan-

te persone, ognuna con la propria storia. Tra tutti, ricordo con piacere il cantautore Anonimo Italiano, nome d’arte di Roberto Scozzi, con il quale abbiamo collaborato in diverse occasioni, e Claudia D’Amico, modella e attrice di cinema e teatro. Qual è la strumentazione a cui di solito ricorrri, quella indispensabile per svolgere al meglio la tua professione? In effetti, l’attrezzatura necessaria per il mio lavoro è tantissima. Più di ogni altra cosa sono però il colpo d’occhio e la tranquillità a risultare fondamentali, oltre a una buona reflex e, sicuramente, a un

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modella: Ludovica Leone

modella: Ludovica Leone

modella: Claudia Pompili

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buon obiettivo pronto e reattivo, all’altezza nelle peggiori condizioni. Per me scattare foto rappresenta un piacere e, proprio per questo motivo, cerco di svolgere il compito con serietà ma senza rimetterci in serenità e voglia di divertirmi. A livello di software, escludendo effetti e correzioni introdotti dall’elettronica installata nelle fotocamere, utilizzi specifici applicativi per impreziosire le foto scattate e aggiungere effetti particolari? Principalmente, tranne in rari casi, utilizzo il formato RAW che, unito ovviamente all’utilizzo di software appositi, permette di gestire ed eventualmente recuperare le molte informazioni racchiuse nel file. Tuttavia, a parte le correzioni di base, in linea di massima preferisco mantenere le mie foto più naturali possibili. Quali sono gli elementi che determinano la qualità e il valore artistico di una fotografia? Penso che una buona foto sia determinata non è solo dal soggetto, ma anche da una serie di accorgimenti che insieme ne esaltano la bellezza. Il fotografo è un regista, non deve limitarsi a scattare e basta. Avendo la possibilità di farlo, sta a lui curare il set, valorizzare i colori, considerare la luce e l’angolazione da cui arriva, suggerire l’espressione del soggetto, la disposizione di eventuali oggetti e arredi. In generale, quando ci soffermiamo a guardare una foto, ci focalizziamo sugli elementi disposti al centro o in primo piano, ma un occhio più attento sa apprezzare tutto il complesso e il lavoro che precede lo scatto.

C’è qualche soggetto o paesaggio in particolare, anche del passato, che ti piacerebbe ritrarre? Personalmente adoro la fotografia naturalistica e paesaggistica, perché permette di stare all’aria aperta, di visitare luoghi bellissimi e catturarne l’essenza. In fondo, mi piace perdermi in lunghe passeggiate e vagare senza una meta precisa, fotografando qua e là quello che più mi ispira; anche se, va detto, questo tipo di fotografia richiede molta pazienza e capacità tecnica, e non è mai facile riuscire a ottenere ottimi scatti. Per questo, quando vedo le meravigliose foto di alcuni miei colleghi, rimango stupefatto; io, su questo campo, ammetto di avere ancora un po’ di pratica da fare. Quali sono le fotografie a cui sei più affezionato, di cui ricordi qualche aneddoto particolarmente significativo, in positivo o in negativo? Probabilmente le foto che più ho nel cuore sono quelle scattate per un reportage pubblicato in due parti sulla rivista Cronaca Vera, relativo alle manifestazioni del 2013 avvenute davanti Montecitorio sull’onda delle vicende delle cellule staminali. Ero a Roma con un mio amico, ed era molto tardi; casualmente passammo davanti a Montecitorio dove notammo alcune persone accampate vicino a dei cartelli. Alcuni di loro dormivano su brandine da campo ed erano accudite da altri, che le vegliavano. Si potevano notare sedie a rotelle e aste per le flebo. Ho scattato solo un paio di foto, poi siamo andati via; solo in seguito ho scoperto che erano dei manifestanti giunti da tutta Italia per protestare a favore delle cure com-

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modella: Flavia Ranocchia

passionevoli e delle cellule staminali, una vicenda che ha diviso il Paese. Così, appassionato al caso, mi sono fermato con loro per tre giorni, documentando le loro condizioni di vita e conoscendo persone fortissime nonostante la malattia, disposte a sacrificarsi fino a lasciarsi morire per il bene di una causa comune. In un mondo sempre più tecnologico, dove fotocamere alla portata di tutti e smartphone dotati di ogni tecnologia fanno credere a ciascuno di noi d’essere un fotografo provetto, quali sono, in realtà, le caratteristiche che identificano effettivamente un professionista del settore? Vero: la tecnologia ha fatto passi da gigante e si vendono ottimi prodotti capaci

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di produrre altrettanto ottimi risultati… ma sempre in automatico! Anche a me è capitato di usare fotocamere compatte o smartphone, apprezzando la loro qualità e soprattutto la comodità dell’averli sempre a portata di mano. Purtroppo, nonostante si continui ad aggiungere megapixel – che non sono tutto in una fotocamera! –, questi dispositivi scattano bene in situazioni ottimali ma sono carenti in situazioni più difficoltose e meno ordinarie. Inoltre ci si affida interamente al software della macchina al quale non è permesso di tentare approcci estremi o di valutare altre ipotesi, a differenza di una buona reflex che invece consente, tramite le impostazioni manuali, di poter lavorare e ottenere risultati di ben altro livello. Ne approfitto anche per far mio il


pensiero di una collega fotografa: “non è sicuramente la macchina a fare una buona foto, ma l’occhio del fotografo che sta dietro”. Cambiando argomento, tra i soggetti da te immortalati vi sono anche cosplayer. In quale occasione hai iniziato questo tipo di servizi fotografici? Partecipi spesso a fiere del settore? Quello dei cosplayer lo conoscevo come fenomeno, ma non avevo mai avuto un contatto diretto con qualcuno di loro finché non mi sono recato a un evento presso la fiera di Roma. Questo succedeva circa tre anni fa e, per me, è stato come trovarmi in un mondo parallelo nel quale ‘quello strano’ ero io. L’aspetto che più mi ha colpito è stato notare come i cosplayer fossero disponibili, quasi alla ricerca di chi li immortalasse, e per alcuni c’era anche la fila da fare! Una sorta di paradiso per qualsiasi fotografo. Con alcuni di loro ho mantenuto i contatti, così ho potuto rivederli anche nelle successive edizioni approfondendo la loro conoscenza e scoprendo che, anche al di fuori della fiera, sono fortemente attivi. Ma ti dirò di più: ho intuito che i personaggi da loro interpretati rappresentano proprio una parte di loro, forse quella più vera, quella che possono mostrare solo in certe occasioni. Tutt’oggi, dicevo, sono in contatto con molti di loro e ne approfitto per salutare Valerio Bertocco, alias Capitan America, e Matteo Ruzza, alias Jack Sparrow. Hai mai provato tu stesso a indossare costumi? No: mi piacciono i fumetti, soprattutto i comics americani, ma non ho mai avuto

modello: Valerio Bertocco

modello: Valerio Bertocco

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l’occasione di vestirmi da uno dei miei personaggi preferiti. Dopo le mie esperienze fotografiche con i cosplayer, però, posso dire di essere diventato un appassionato. Qual è l’aspetto che più ti affascina, oppure quello che detesti, del mondo del cosplay? Nei tuoi scatti, quali sono gli elementi che prediligi far risaltare? Penso che ogni fotografia sia diversa dall’altra, soprattutto in questo settore dove ogni personaggio sfoggia caratteristiche e peculiarità proprie. Organizzare un set per una foto ‘action’ è sempre molto difficile, e di solito mi piace confrontarmi con il modello da ritrarre per valutare anche i suoi punti di forza e le idee che vuole proporre. La scelta dell’ambientazione e della scenografia immagino sia fondamentale; effettui tu stesso ricerche sui personaggi o ti basi solo sulle preferenze espresse dai tuoi modelli? Spesso mi metto a sfogliare le pagine dei fumetti o le varie locandine a cui è ispirato il personaggio da ritrarre, così da prendere qualche spunto, e solo in seguito decidiamo la location. Ultimamente, per esempio, abbiamo scattato sulle rive del lago di Nemi e nei boschi del viterbese insieme a Manolo Deiana, fondatore della community Il Mondo Ancestrale e realizzatore materiale di alcune bellissime armature molto richieste nel settore. Alcuni set in studio, vedi quello per Jack Sparrow, sono invece stati possibili grazie alla cooperazione di Ilaria, della B-Mask Costumi & Eventi, la quale ha fornito ve-

stiti e accessori. Il resto lo fanno i cosplayer, visto che del loro personaggio preferito conoscono a memoria ogni posa e vezzo. Ha suscitato molto interesse in noi anche la tua attività di ghost hunter esercitata con il gruppo Hunter Brothers. Come e quando è nato questo progetto e chi sono i membri del team? Questa è una delle esperienze più significative della mia vita. Un giorno, per gioco, insieme ai miei amici fraterni, Sandro e Pasquale Minerva, siamo andati in esplorazione presso le rovine della città abbandonata di Monterano (RM). Ci siamo attrezzati con mezzi di fortuna: una torcia, un paio di coltelli – non si sa mai! –, mentre io, come già accennato, ero quello con la macchina fotografica. Il mese successivo abbiamo deciso di ripetere l’indagine presso un altro posto abbandonato, e poi un altro ancora… Così, col tempo, ognuno di noi si è specializzato in un settore diverso. Ormai sono direttamente le persone a contattarci per chiederci di indagare su casi ‘singolari’, che ad oggi si sono centuplicati. Di pari passo, anche la nostra attrezzatura è notevolmente aumentata in qualità e quantità, così come sono cresciute le nostre capacità collaborando con diversi specialisti del settore. Cos’è il ghost hunting e quanto è diffuso in Italia o in Europa? Il nostro Paese è terreno fertile per questo tipo di indagini? Il ghost hunting è una pratica che richiede scrupolo e criterio, anche se, soprat-

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modello: Matteo Ruzza

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tutto negli USA, è molto facile vedere cacciatori di fantasmi improvvisare situazioni senza un minimo di competenza. Siccome le ricerche sul paranormale tendono a calamitare l’attenzione pubblica, anche in Italia questa attività ha trovato terreno fertile. Sicuramente il nostro è uno dei Paesi più stimolanti da questo punto di vista, poiché ha ospitato molti personaggi particolari ed è ricco di posti affascinanti, per cui è facile imbattersi in storie strane o luoghi misteriosi, magari anche sotto casa. Per ogni fenomeno possono esserci naturalmente mille spiegazioni razionali: noi degli Hunter Brothers amiamo dire che, una volta escluse tutte queste, allora inizia il nostro lavoro. Sono molti i gruppi improvvisati che si ritengono cacciatori di fantasmi, ma io credo che, nonostante si tratti di un’attività avventurosa, resti pur sempre qualcosa da affrontare con metodo e serietà. Per esempio: a volte ci vengono proposti casi di persone che poi risultano essere disturbate o avere problemi, e ci vuole esperienza e capacità per poter gestire e discriminare queste situazioni. Noi puntiamo su qualità e professionalità, motivo per cui le nostre indagini prevedono consulenze e contatti con specialisti, per poter approfondire i casi più difficili e non trascurare argomentazioni scientifiche. Il ghost hunting è spesso percepito con un certo pregiudizio e scetticismo; immagino invece che la vostra attività sia di stampo pazientemente scientifico, un lavoro di indagine finalizzato a produrre evidenze… Sì, in effetti spesso ci cantano la canzon-

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IL TEAM HUNTER BROTHERS da sinistra: Sergio Maggi, Roberto Giancaterina, Sandro Minerva, Simone Andreacchio, Valentina De Rossi, Cristian Di Gennaro e Pasquale Minerva

cina degli Acchiappafantasmi, e spesso anche noi ci prendiamo un po’ in giro. Quando spieghiamo la nostra attività, spesso evitiamo di parlare di fantasmi, ma più semplicemente perché per noi non lo sono. Parliamo piuttosto di anomalie e ‘variazioni’. Come primo passo di solito procediamo con un sopralluogo in cui studiamo l’ambiente per valutare quali e quante strumentazioni possiamo portare, e per discutere con gli interessati, in modo da poter approfondire il caso e riportarlo anche agli altri membri del team o a specialisti esterni. Una volta, per esempio, ci siamo dovuti

calare in una cisterna e siamo stati aiutati da una squadra di speleologi. Prima di tutto, viene la sicurezza! Successivamente effettuiamo più sedute per poter raccogliere il maggior numero di dati: audio, video, rilevazioni fotografiche, ambientali, spettrografi ecc. Non è certo sufficiente riscontrare una piccola variazione in uno di questi elementi per chiudere il caso, è necessaria un’analisi complessa e interattiva per ricavare conclusioni attendibili. Alla fine, dopo aver raccolto informazioni storiche sul luogo ed elaborato i dati, stiliamo una relazione: ovviamente non sempre è possibile giungere a una spie-

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modella: Flavia Ranocchia

gazione esaustiva, ma forse a volte è meglio così! Qual è la reazione da parte di amici e conoscenti riguardo questa tua passione? E quale invece la percezione della vostra attività da parte del pubblico, della Chiesa e delle autorità? La reazione è sempre la stessa: “Io non ci credo, però una volta...”. Questa è la frase-tipo che spesso ci sentiamo dire. E la mia replica è sempre la stessa: “Se dici così vuol dire che in fondo ci credi!”. Affrontare questo argomento è quasi sempre difficile e complicato, soprattutto perché l’ambito del paranormale è molto

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criticato a causa di tantissimi personaggi fanfaroni che puntano alla notorietà manipolando il materiale in loro possesso e speculandoci sopra. Al giorno d’oggi è facile contraffare una foto o un filmato e indurre la gente a credere a cose non vere. Questo, purtroppo, accade anche in alcuni programmi televisivi che puntano solo alla statistica d’ascolto e al ritorno economico. A quali strumentazioni fai ricorso per poter tracciare presenze sovrannaturali nei luoghi interessati dalle vostre indagini? Essendo il mio settore di competenza


all’interno del team quello fotografico (anche se ognuno di noi ha un minimo di cognizioni un po’ in tutti i campi), per cercare di rilevare le anomalie ricorro a filtri IR e UV, che servono per ampliare lo spettro visivo; inoltre utilizzo fotocamere termiche per fotografare le variazioni di temperatura e mi occupo di analizzare fotografie anomale o sospette, su cui prima eseguo una scrematura visiva per poi passare all’esame tramite filtri e software appositi.

modella: Micol Notarianni

Nei video delle vostre indagini siete soliti domandare direttamente alle presunte presenze sovrannaturali di accendere luci della vostra strumentazione in risposta a specifici quesiti: come funziona e su quali presupposti si basa tale metodologia? Si tratta per lo più dei tentativi di metterci in contatto con le anomalie che rileviamo; vengono eseguiti da persone con capacità particolari, cercando di interagire appunto tramite semplici domande. Di norma, prima di iniziare, vengono piazzati tutti gli strumenti utili, fotocamere e videocamere, registratori audio, rilevatori termici, rilevatori di campi elettromagnetici ecc., e viene effettuata prima una misurazione di tutte le strumentazioni e dei parametri ambientali in condizioni normali, per tararle ed escludere le variazioni dovute a cause ‘naturali’. Dopo aver fatto ciò, se un’interferenza viene misurata in contemporanea da più di una strumentazione, allora possiamo dire che il dato è attendibile. Durante le interazioni vengono registrate tutte le variazioni anomale che possono anche essere di temperatura, umidità, pressione, fino

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modelli: Irene Galatolo e Franz De Quattro

a quelle più evidenti del campo elettromagnetico. Il nostro scopo principale è quello di raccogliere il maggior numero di indizi e cercare di analizzarli fino a dove possiamo arrivare con le nostre capacità o con l’aiuto di esperti. Il resto ci piace lasciarlo decidere al lettore, anche per non saltare alle conclusioni in un campo dove non ci sono molte certezze. Da quanto viene presentato sul vostro portale, avete all’attivo diverse indagini. Quali sono stati i risultati principali che avete ottenuto? Effettivamente abbiamo avuto modo di effettuare molte ricerche, che abbiamo

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ritenuto attendibili o comunque rilevanti. Per dovere di cronaca bisogna dire che ogni dieci casi interessanti ce ne vengono segnalati almeno un centinaio che, per vari motivi, non rientrano nella nostra sfera di competenza. La nostra serietà ci ha portato ad essere abbastanza conosciuti nel settore, di conseguenza siamo spesso invitati nei salotti di molte TV nazionali e non solo. Se questa risultato da un lato è positivo, dall’altro presenta inconvenienti spiacevoli, come l’esser contattati da mitomani o da location che cercano notorietà attraverso noi. Insomma avere un fantasma nel proprio castello porta turisti!


Qual è la tua personale idea legata a fantasmi e presenze occulte? Quali sono inoltre gli elementi o le esperienze che hanno maggiormente condizionato questo tuo modo di pensare? Il mio personale pensiero su questi argomenti è un po’ particolare e forse anche un po’ difficile da spiegare, considerando che ho maturato questa teoria col tempo, grazie al confronto con studiosi del settore. Non vedo i fantasmi come nel comune immaginario: credo piuttosto che tutto sia legato a forme di energia che, per qualche inspiegabile motivo, restano intrappolate nei luoghi, e che in qualche modo possono essere rilevate. Magari in un futuro sarà possibile farlo con maggior precisione, e noi cerchiamo di archiviare le nostre esperienze proprio con l’augurio che prima o poi sarà possibile rispolverarle ed elaborare risposte più certe. C’è qualche situazione che ti ha procurato particolare inquietudine? Sospetto infatti che, con le vostre indagini, possiate esporvi anche verso sette e praticanti di rituali occulti, che potrebbero non gradire la vostra curiosità… Ho avuto modo di esplorare posti incredibili e sconosciuti, non accessibili. Abbiamo aperto una cripta nel duomo di Alatri, chiusa da secoli, e siamo scesi attraverso una botola piccolissima dopo averla esplorata con i droni. Con la collaborazione di alcuni speleologi abbiamo effettuato una discesa in una cisterna sotto il castello dei Borgia a Nepi per recuperare i resti di un cavallo forse appartenuto a un cavaliere. Abbiamo trascorso nottate all’aperto in città abbandonate, esplorato le profondità del lago di Scanno e calpe-

modello: Gloria Frustaci

modella: Ludovica Leone

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Roberto Giancaterina

stato il suolo dell’isola di Poveglia che si ritiene la più infestata al mondo. Ma alla fine i due episodi più inquietanti li ho vissuti in un’abitazione privata a Pomezia e nella chiesa di S. Andrea a Viareggio. Siamo andati a Viareggio per un’intuizione, ovvero per raccogliere testimonianze su un caso di cronaca avvenuto all’interno della chiesa durante una celebrazione, quando un uomo con qualche disturbo, a mani nude e senza un apparente motivo, si è strappato via gli occhi dalle orbite. Lui diceva di sentire delle voci nella sua testa. Durante un sopralluogo, in una delle due navate, in una fotografia è

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apparsa una strana forma nera, con tanto di ombra che non rispondeva alle normali leggi fisiche. Siamo quindi stati invitati successivamente a una trasmissione su Italia 1 per esporre la nostra esperienza e mostrare le foto. Il secondo caso in realtà era uno di quelli che mi attirava poco. Si trattava della testimonianza di una persona che diceva di sentire nella propria abitazione, di notte, come se qualcuno si sedesse sul suo letto. Personalmente non amo entrare nella vita privata delle persone, ma dopo un primo sopralluogo a cui io non ero presente ci siamo resi conto che il caso


meritava maggior attenzione. Così, dopo aver piazzato tutte le strumentazioni, abbiamo tentato un’interazione. Non solo le telecamere hanno ripreso il letto che si fletteva senza che nessuno lo toccasse, come se qualcuno si fosse seduto, ma la fotocamera termica ha rilevato l’impronta di una mano dalla forma particolare, sul punto in cui il letto si piegava. È difficile dare delle spiegazioni a questi fenomeni, ma sicuramente lasciano un segno particolare in chi, come me, ha potuto assistervi. Per chiudere, una domanda dai toni più leggeri. Sappiamo che gli Hunter Brothers sono piuttosto attivi tra interviste e pubblicazioni. Cosa puoi segnalarci per i prossimi mesi? Poiché la mole di lavoro era eccessiva e moltissimi casi risultavano non attinenti, abbiamo deciso di ridurre l’attività e ora ci stiamo dedicando solo ai fatti di maggior interesse. Attualmente stiamo preparando un programma per il prossimo anno con temi nuovi e con seminari. Per ora posso solo lasciarvi con un’anticipazione sull’argomento: si parlerà di esorcismi! Per concludere l’intervista non posso che ringraziare la redazione di Terre di Confine Magazine per questa opportunità.

Roberto Giancaterina

Per noi è stato un piacere! Salutando e ringraziando Roberto, ricordiamo che online sono raggiungibili il suo sito personale www.rgphoto.it e il profilo Facebook degli Hunter Brothers www.facebook.com/hunter.brothers.940 dove i lettori interessati potranno trovare gli indirizzi di contatto e rimanere aggiornati sulle varie attività. <

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TERRE DI

CONFINE

SEZIONE ANTOLOGICA

WWW.PLESIOEDITORE.IT

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N. 5 MAGGIO

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HEADHUNTER - FEMALE DRAGOON

di WENJUINN PNG

www.wenjuinn.com

per DOWNWARD (2014) www.imdb.com/title/tt3919268/ ©DRAGOON ONLINE

www.dragoononline.com

in pre-produzione: Ascendance (2017) www.imdb.com/title/tt5533556/

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ROSE BUD

di ©MEYREM BULUCEK www.meyrembulucek.com

L’ARCANO SENZA NOME di CLELIA FARRIS

M

olti anni fa, su un’isola in mezzo all’oceano, c’era una grande ricca casa e nella casa un vecchio che non si decideva a morire. Questo vecchio aveva quattro figli, ansiosi di ereditare, cosicché una volta alla settimana ognuno di loro telefonava per conoscere le condizioni del padre, e ogni volta l’infermiera rispondeva che il poverino si era agitato, durante la notte, scuotendo le gambe e la testa, aveva invocato soccorso, chiamato ora questo ora quel

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nome, ma per fortuna era riuscito a vedere l’alba. «Per fortuna» concludevano i figli dall’altra parte del filo, e chiudevano la conversazione. La donna dava la notizia col più grande sollievo, perché se il suo paziente fosse morto lei non avrebbe saputo dove andare. L’infermiera era stata convocata quando il vecchio si era ammalato e i due anziani servitori non bastavano più per accudirlo. Era una donna di mezza età, né bionda né bruna, indossava sempre un camice turchese e aveva un occhiale diverso per qualunque ora del giorno e della notte, a seconda di ciò che voleva osservare, perciò ne portava diversi appesi al collo, in tasca e sulla testa, ma quando cercava le lenti giuste le trovava al primo colpo. Non c’è molto da fare nella grande casa, perché i domestici provvedono a tutto e il vecchio di giorno sonnecchia quieto. Così l’infermiera trascorre il tempo accoccolata su una sedia, a vegliare il malato, oppure in cucina a sbucciare fagioli per la cuoca, facendosi ipnotizzare con lei dalla serie di Le avventure di Sindbad il seduttore, che la televisione manda in onda ogni pomeriggio. “Non puoi lasciarmi, Harun. Aspetto un figlio. Un figlio tuo.” “Non è possibile. Sai che non è possibile.” La cuoca annuisce, conosce segreti ignorati da Harun. L’infermiera sorride tra sé e si chiede come proseguirà, se l’infida Dalila riuscirà a portar via Harun alla sorella Zainab. Dopo pranzo passeggia nel giardino, fra le ginestre bianche in fiore, i mirti e i melograni. La macchia di rose è in boccio, centinaia di piccole bocche rosa attendono il sole per schiudersi in un fiato odoroso di paradiso. Una mattina, dopo aver lavato il vecchio e avergli dato il latte e miele, che costituisce tutta la sua alimentazione, l’infermiera scende allegramente i gradini che portano al roseto e con grande sorpresa vede che i boccioli sono chiusi. «Forse il tempo è ancora troppo freddo» considera. In cucina la cuoca tira la pasta guardando la tv. “Non puoi lasciarmi, Harun. Aspetto un figlio. Un figlio tuo.” “Non è possibile. Sai che non è possibile.” L’infermiera aggrotta la fronte Sarà una replica, pensa, e si prende dal frigo una crema alla vaniglia. Entra il giardiniere, il marito della cuoca, portando fra le braccia una coperta sporca sulla quale ha adagiato un cucciolo di cane. «Non ho fatto in tempo a frenare» si giustifica, posandolo con

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delicatezza sul pavimento. Il cane ha il bacino e le zampe posteriori insanguinati, respira a fatica. L’infermiera lo esamina e conclude: «Bisogna sopprimerlo.» «Una creatura viva» si scandalizza il giardiniere. «Un cucciolo innocente» gli fa eco la cuoca. «Fate come volete. Non arriverà a domani.» Una settimana dopo, nell’entrare in cucina, l’infermiera sente il battere fiacco della coda del cane sul pavimento. È ancora nel suo angolo, sopra una vecchia giacca, acciambellato, contorto, immobile ma con gli occhi lucenti. “Non puoi lasciarmi, Harun. Aspetto un figlio. Un figlio tuo.” Ancora? pensa la donna. Con i ritmi televisivi, a quest’ora Dalila dovrebbe essere quasi al termine della gravidanza. Il cucciolo le lambisce la mano, riesce a malapena a sollevare la testa, dal collo in giù è nero, marmoreo. Nel sollevare gli occhi l’infermiera ritrova la tazza con la crema di vaniglia che ha dimenticato sulla credenza il giorno dell’arrivo del cane. Lancia un’occhiata alla cuoca, intenta a mescolare una pastella, rapita dal battibecco fra Harun e Dalila, prende la tazza e sta per gettarne il contenuto nella spazzatura quando l’odore intenso della vaniglia la ferma. Ficca il naso dentro la scodella e annusa un buon odore dolce di panna fresca, vi intinge un dito, assaggia: la crema non è acida. Inforca allora gli occhiali per vedere da vicino e scrutando nella crema vede che il grasso è bianco, soffice, non ci sono né batteri né muffe. Con un’alzata di spalle getta via tutto. Un’altra notte accanto al letto del vecchio. Mentre le sue mani sgualciscono il lenzuolo e la bocca sdentata biascica parole incomprensibili, l’infermiera spia il roseto dalla finestra della stanza. Con le lenti per osservare da lontano distingue i boccioli, eretti sugli steli, promessa di rosa che non sorgerà col sole del mattino. «Quest’anno le rose sono pigre» esclama il giardiniere, la mattina seguente, vedendola arrivare. «Forse hanno bisogno di più fertilizzante.» «Metterò altro sangue di bue.» I giorni passano, piogge intense si alternano a cieli limpidi e sole caldo, ma il roseto continua a essere una moltitudine di sepali sigillati, il cagnolino scodinzola, Harun si ritrova padre senza capire come mai.

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Una notte, dopo essere scesa in cucina a farsi un caffè, l’infermiera lascia di proposito un bicchiere di latte fuori dal frigo, nascondendolo dentro la credenza. Trascorsi quindici giorni ne assaggia una goccia e constata che è ancora fresco e bevibile. Allora taglia una fetta di manzo crudo e la getta fra le rose. Dopo tre giorni si china sotto i cespugli e la vede appesa a un ramo spinoso, lucida, sanguigna come se fosse stata appena tagliata, nessuna formica ha tentato di suggerne i liquidi, nessuna vespa le ronza intorno, nessun verme spunta dalle striature di grasso. Con un coltellaccio affilato reseca un pezzetto di zampa posteriore del cucciolo e benda la ferita con molti giri di garza. Il mattino dopo la garza è candida, il cane muove la coda al solito modo. La notte è lunga per chi è sveglio, fatta di molte gradazioni di buio, dal blu scuro alla pece intensa; in quelle ore l’infermiera veglia, sdraiata sulla dormeuse accanto al letto del vecchio, in compagnia di sé stessa, senza un pensiero del passato e del futuro. Il tormento del malato ogni tanto richiama la sua attenzione e, mentre gli tampona la fronte con un panno fresco di lavanda, ha l’impressione di trattare con un assurdo suicida che, gettatosi dalla finestra, si trattenga da sé per il bavero della giacca, penzolando fra il davanzale e il grande nulla. Quando poi il sopore la vince, un colossale toro col volto di Harun entra nella stanza, posa il collo sulle ginocchia di Dalila, che prontamente lo sgozza e dall’incisione sgorgano latte e petali di rosa. Il viola dell’alba schiarisce in un tiepido lilla, l’infermiera sbadiglia, si pettina i capelli con le dita e si alza. Le rose si ostinano sul limitare della fioritura e se mette gli occhiali giusti può vedere la carne cruda ancora sana, sotto le foglie scure dei cespugli. Si volta verso il letto, non ha bisogno di nessuna lente per vedere il vecchio. Lo percepisce distintamente, per intero e in ogni dettaglio, e finalmente sa qual è il suo compito, perché proprio lei, perché proprio quell’isola. Appoggia un cuscino sulla faccia del malato, non c’è bisogno di premere troppo, l’ultimo fiocco di neve cade sull’uomo addormentato nella tundra, ecco, è scivolato giù nell’imbuto, cosa troverà dall’altra parte non è affar suo. L’infermiera raccoglie in una borsa le sue poche cose, infila gli occhiali per guardare lontano e si avvia di buon passo verso la baia; le rose, alle sue spalle, sono una fiammata di rosa acceso, ma lei ha fretta di prendere il traghetto. <

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EXORCISM

di ©WILLEM LOMBARD 500px.com/wwwillem

L’ODORE

DELL’OMBRA di FABIO LASTRUCCI e VINCENT SPASARO

I.

Le smorfie di tua madre, la sua indignazione, le hai ancora stampate nella memoria. «Lavati, santo cielo! Che figura mi fai fare? Vuoi che tutti pensino che tua mamma sia una sudiciona?» Nel ricordo, l’ingiustizia brucia molto più dei suoi ceffoni. «Usalo quel sapone, hai un odore terribile!» Tu come potevi farle capire la verità? Con quali argomenti? La dialettica di un bambino di cinque anni è quello che è. Scarsa. «Non è colpa mia, Mamma, è lei, la Cosa-che-puzza. Lei mi segue sempre. È lei che…» Scrollone. «Sì, è colpa sua! Non mi vuoi credere? Sei cattiva, Mamma!» Schiaffo. Invece era vero. Sacrosantissima verità. Come tutti i bambini, non avevi una grande intesa con l’acqua

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e il sapone. Non ti cambiavi con troppo entusiasmo. Eppure avevi cura di te, anzi, col tempo avevi sviluppato un acuto, direi persino doloroso senso dell’igiene personale. Ti strofinavi la pelle fino a farla diventare rossa, ti riempivi di profumi. Nulla di fatto. Il cattivo odore, quel pestilenziale olezzo di carogna, ti tallonava come un attaccante segue la palla a centrocampo. Il bello è che non eri tu. Non era davvero colpa tua. Era lei, la Cosa-che-puzza.

II.

È difficile poter spiegare un evento tanto elementare quanto assurdo. Sin da quando tu possa ricordare, sei sempre stato accompagnato da qualcosa. Un’entità invisibile, impalpabile, una compagna occulta che ti segue ovunque abbandonandoti solo per intervalli dalla periodicità irregolare. Non l’hai mai vista, nessuno ha mai creduto alla sua esistenza, ma tu sai che c’è. Riesci a percepirla con la pelle della nuca. La senti. E questa presenza invisibile puzza. Puzza in maniera rivoltante. Tu ormai da tempo ci hai fatto l’abitudine e non la senti più, ma chi ti sta vicino ti evita, ti ritiene responsabile dell’odore tremendo che hai attorno. Dati questi presupposti, si può immaginare come sia la vita di un ragazzo maleodorante. Nella migliore delle ipotesi significa rimproveri, insulti, scherzi pesanti, qualche volta botte. Tutta roba facile. Per un adulto maleodorante la faccenda è molto, ma molto più dura. La Cosa-che-puzza ti devasta da anni l’esistenza intromettendosi nella tua vita privata, nei tuoi rapporti umani. Chi vuole essere amico di qualcuno circondato da un fetore pestilenziale? Chi mai lo abbraccerà? I litri di deodorante che hai sempre usato non sono serviti a nulla. Hai provato con tutte le marche, ti sei rivolto a diversi medici perplessi e disgustati. Hai deciso pure di rivolgerti ad uno psichiatra… Ti ha mollato alla seconda seduta. A questo punto l’ultima spiaggia restava il suicidio oppure un esorcista. Ma, proprio quando basta pochissimo perché tu impazzisca, questa presenza scompare. Immotivatamente. Inaspettatamente. Di punto in bianco. Descrivere il tuo stato d’animo è impossibile. Semplicemente non ci credi. Non puoi farlo. Prima ancora di gioire, passi i giorni col terrore di scoprirne un’eventuale presenza.

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Potrebbe esserci una traccia minima di ricomparsa. Un alone, anche solo momentaneo. Niente. Dio solo sa il perché, i mesi scorrono e non succede niente. E allora finalmente vivi, esplodi, ami. È tutto talmente nuovo per te, questo passare inosservato, il poter avere una vita sociale, che recuperi anni d’isolamento sfogando un’esuberanza frenetica. All’Università, la gente si siede accanto a te senza problemi. Puoi prendere pullman semivuoti senza doverti nascondere nella folla. Vai al cinema, frequenti locali. Ti laurei. Così conosci Sonia. Vi piacete. Vi fidanzate. La sposi nel giro di qualche mese. Hai fretta. Istintivamente sai benissimo che la pacchia non può durare in eterno. Per un po’, tutto sembra andare bene. Puoi persino permetterti dei problemi. Roba comune, piccole contrarietà quotidiane. Ogni cosa sembrerebbe perfetta, la vita che avevi sempre desiderato, ma un pensiero nascosto continua a corroderti. Te lo sei già detto: la fortuna non è mai duratura. Hai ragione da vendere.

III.

La Cosa-che-puzza si ripresenta in grande spolvero, più asfissiante di quanto sia mai stata, proprio nel momento meno opportuno della tua relazione. Dopo poco più di un anno e mezzo, tu e Sonia siete giunti a un bivio, quel genere di momenti che distruggono o rinforzano la coppia. Chiamiamola crisi. È ancora l’inizio. La freschezza dei sentimenti, l’educazione, tengono le vostre divergenze su un piano di discussione piuttosto civile. Siete misurati. Onesti. Avete un ragionevole rispetto di voi stessi e dell’altro. L’arrivo del tuo accompagnatore invisibile vira tutto verso il pessimo. Ci sono litigi, squallide confessioni, ancora altri litigi e poi una spirale di cose più deprimenti come autocompassione, alcool e così via. Ti ritrovi solo, buttato fuori di casa. Non avendo nulla di valido da controbattere, senza una buona copertura economica e con la tara di questo coinquilino che mette in fuga qualsiasi interlocutore, diventi barbone. Una fine logica. Anche pratica, se vogliamo. In quanto clochard hai diritto di puzzare quanto vuoi. Quello è,

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anzi, il tuo segno distintivo. Una sorta di status professionale del quale non avresti più dovuto rispondere a nessuno. Senza avere l’impegno di rendere produttivo il tuo tempo, a gambe all’aria sui giardinetti fuori della Stazione Termini, cominci a riflettere sulla natura del tuo problema. Se diamo per assunto che la Cosa-che-puzza esista – e senza dubbio esiste davvero – bisogna farsi un’idea di chi o cosa sia in realtà. Le speculazioni intellettuali, le fantasticherie, ti hanno sempre lasciato indifferente. Un tempo eri ingegnere, la razionalità strutturava i tuoi pensieri. Il meglio che ti riesca di inventare è la somma di alcune ipotesi per arrivare a una conclusione plausibile. Tesi complottistica: per scopi ignoti, l’Esercito ha manipolato geneticamente alcuni neonati della tua generazione. L’esperimento è fallito e ha reso i bambini degli acceleratori viventi dei processi di decomposizione. L’aria che circonda questi infelici si corrompe e marcisce. Debole. Stupida. Da foglio scandalistico. L’altra teoria è che l’invisibile aura Kirlian esista. Di qualunque natura essa sia, nel tuo caso è un’aura energetica che deflette e imprigiona cattivi odori. Una sorta di effetto arbre magique al contrario. Questa ti sembra migliore. Ci ridi su per una notte intera. Poi piangi.

IV.

Trovarlo, un esorcista. Innanzitutto un barbone non può essere indemoniato. A chi è mai saltato in mente che il diavolo riesca a perdere tempo coi suoi fratelli più poveri? Difficile da dimostrare a qualcuno che i tuoi problemi vadano oltre la mancanza di soldi e una buona doccia. E poi c’è da dire che neanche tu ci credi granché, a questa specie di ordalie medievali. Al massimo pensi che l’acquasanta possa avere un buon odore e per una settimana ti possa graziare dallo schifo. Nelle tue condizioni, comunque, c’è poco da scartare e a questo punto cominci a intravedere dietro l’angolo il suicidio. Perciò cerchi un prete. Non è stato facile. I preti sono sempre vicini ai poveri diavoli ma gli esorcisti un po’ meno, forse perché corrono dietro ai diavoli più ricchi. Il miglior espediente che hai trovato è quello di chiedere una doccia a un francescano. È bastato biascicare che non ce la facevi da solo, fingere un tremore che non hai mai provato. Roba da attore consumato. Repertorio da strada.

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Il difficile era stato individuare il più santo, quello che mostrasse maggiori sensi di colpa. Di solito gli altri preti ti evitavano sdegnosi, ma quel ragazzo della mensa pareva davvero un agnellino. La tua disperazione ha fatto il resto. Eri coperto di croste che parevano placche tettoniche, e in quelle docce tristi dell’ostello accanto alla mensa Caritas il giovane francescano iniziava a prenderci gusto a staccartele in un tripudio di parassiti. Forse trovava più semplice mondare i corpi che le anime, e ricordi di aver pensato come fosse difficile dargli torto. Comunque ha fatto un lavoro perfetto, tanto da guadagnarsi un paio di oscenità urlate dalla doccia accanto: l’invidia di un tizio grassissimo che si trascinava maestoso sulla sua stampella e non riusciva a spidocchiarsi senza scivolare. Il francescano. Quel ragazzo aveva occhi azzurri e limpidi, gli occhi di una bestia sacrificale. Non dimenticherai facilmente il momento in cui, convinto di aver finalmente fatto il suo dovere, li ha sollevati dalla tua pelle rossa e congestionata dalle setole di una vecchia spazzola, e li ha piantati felice nei tuoi. Sai perfettamente che ha compreso in un attimo, allora e solo allora, quel che i suoi sensi già protestavano da qualche minuto. E mentre il ciccione ghignava e piagnucolava, hai consolato l’agnello francescano come potevi, sorridendo e chinando il capo, mentre Lei prendeva il sopravvento. Sono occorsi diversi giorni. Il piccolo le ha provate tutte assaporando l’ora del martirio nel tentativo di mondare e mondarsi. Ma alla fine ha ceduto. Vada per l’esorcista.

V.

La notte buia e tempestosa che ti circonda è pura olografia tardo-romantica, non il risultato di un banale meteo. Sei seduto. Dietro di te c’è un cimitero monumentale che incombe. Intorno a te, la cattedrale di San Lorenzo, tenebrosa e opprimente di incenso. Davanti a te, un mostro. Il corpo è informe, o, meglio, ha in sé tutte le forme della notte, ed è nascosto pietosamente dal saio scuro su cui risalta una splendida croce di metallo. Il capo è glabro, ornato di efelidi e dominato da orecchie a sventola, lunghe e spaventose. Un perfetto tributo alla tradizione. Colorato di nere pozze e tenui riflessi di candele, un viso ar-

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cigno si barrica dietro occhiali. Dietro le pozze intuisci due occhi d’incubo. Occhi da esaltato, occhi da guerriero. Sai che andrà fino in fondo, e cominci a pensare che non sarà piacevole. Sussurri cercando di apparire sicuro: «Lasciamo perdere, ora sto bene.» «Dicono tutti così» ti risponde l’esorcista. «Iniziamo.» Tira fuori i suoi arcani arnesi. Tu ti fai piccolo piccolo, ma Lei non soccombe. «Davvero, ora è tutto a posto. Sa, padre, io sono un po’ pazzerello…» E lui non risponde, dipanando aggeggi dalla valigetta che porta con sé. Cerchi di correre ai ripari, dirgli che ti sei inventato tutto. Spiegargli che sei un mitomane. Niente. «Sono schizofrenico!» urli. Niente. Apre un gran libro nero. Fa davvero paura. «La verità è che puzzo dalla nascita, solo questo, mi capisca…» Piangi. «Non c’è bisogno di…» Ecco l’aspersorio. «Non è legale quello che fa!» sbotti. Gli gridi che non è affatto legale. È un sequestro di persona. Si ferma. Grazie al cielo. «Pensi di farmi paura?» chiede. Ti guarda con sorpresa. «Puoi tranquillamente passare alle armi pesanti, essere perduto! Io ti combatterò fino in capo al mondo, bestia immonda!» Continua a guardare fisso e pare lui l’indemoniato. «Lascia questo povero innocente!» Cambia tono, ora, e sembra che parli commiserevole ad un vecchio amico in miseria. «Coi barboni te la prendi, adesso!» Poi, si rivolge a qualcuno dietro di te, lo rassicura che sarà difficile ma che ce la farete. Ti volti. Dietro c’è l’agnello sacrificale e pare davvero poco agnello, duro e freddo come non mai. Lo supplichi di aiutarti. E lui, rivolto all’esorcista: «Vada avanti e non si fermi per nessun motivo.» Allora si comincia. Mentre piangi e strepiti, il mostro parla in latino, declama versi antichi che rimbombano nelle navate, ti cammina intorno e le catene che ti serrano le braccia ti schiacciano sulla sedia. Sudi anche

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se è inverno, le parole prendono forma e il significato, incomprensibile, ti si incolla alla faccia. Qualcosa pare muoversi nelle tenebre, condensando il vapore e l’incenso. Intorno a te tutto turbina e ti ritrovi a perdere bava dalla bocca mentre un urlo strazia la scena. Non lo sai e mai lo saprai, ma ad urlare è il giovane francescano, inorridito da quel che tu non puoi vedere, ormai svenuto e in preda a convulsioni irrefrenabili. «Non si spaventi, padre, stiamo vincendo!» grida feroce l’esorcista. Un vecchio guerriero temprato da mille battaglie, pronto a morire nella lotta e mai disposto a darla vinta al suo nemico. «Sta uscendo! Abbandona il posseduto!» ringhia trionfante. Il trionfo svanisce e lascia il posto a qualcos’altro. Tutto appare confuso. Tu sei vicino all’altro mondo e non te ne accorgi, ma qualcosa fuoriesce dalla tua pancia. L’esorcista, sospettoso, infila dentro una mano e tira. Subito una nuvola di mosche ti si leva dal ventre e sciama irritata per la chiesa. L’odore aumenta fino a divenire insopportabile. Il vecchio prete porta istintivamente l’altra mano alla bocca, eppure non demorde: tira e tira con forza sovrumana, le vene del collo in rilievo e rosso in volto per la fatica. Il francescano continua a urlare, perché l’esorcista sta stringendo una mano bluastra e coperta di vermi bianchi. Uno strattone più forte e il vecchio finisce per terra, due grosse dita in mano. Le guarda sorpreso per un attimo, poi si rialza e le getta lontano. Stavolta è davvero arrabbiato. «È questo che vuoi?» ruggisce. «È questo che vuoi, bestia immonda?» Poi si scaglia contro quel che resta della mano, si puntella sulla sedia e riprende a tirare con forza decuplicata. Ciò che hai in grembo deve essere enorme, e minuto dopo minuto ne è già venuto fuori un braccio purulento, la pelle bucata in più punti ove banchettano cose inimmaginabili. E il francescano dagli occhi azzurri urla e urla, e l’esorcista risponde stizzito stillando sudore: «Mi aiuti, padre! Dio non rende merito ai vigliacchi!» Ma l’altro non fa un passo e piange a dirotto. La notte avanza a passi pesanti e viscidi, e, a un’ora imprecisata di lavoro muscolare e afrori innominabili, una spalla perfora il tuo ventre come quello di una donna incinta. Il francescano sviene

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battendo forte la testa sulle panche più vicine, perché la spalla è coperta da un morbido piumaggio bianco insozzato dai liquidi della decomposizione. E dietro la spalla – scopre l’esorcista inarrestabile – c’è un’ala, e l’ala è ornata da piume che un tempo dovevano essere state meravigliose, imponenti e lucide, mentre ora si perdono tristemente sul pavimento o turbinano lontano nelle navate sulle brezze della notte. Passano ancora minuti che potrebbero essere ore, e sul pavimento della cattedrale, accanto al francescano singhiozzante, sveglio ma prono e con la fronte a terra, giace un corpo grande tre volte quello di un uomo. Le ali distese ronzanti di mosche, i capelli lunghissimi appiccicati al cranio velato di pelle morta, il petto un tempo possente ora coperto di bubboni in rapido movimento. Più in là il vecchio prete, inginocchiato su una panca a pregare, cupo e inconsolabile. La notte si avvia verso un’alba ancora incerta ma incombente. Qualcosa si dovrà pur fare, perché una simile blasfemia non reggerà ai capricci del giorno. E tu dormi sulla tua sedia, sollevato.

VI.

Il vecchio esorcista non l’hai più rivisto. Incontri ancora il giovane francescano ma non vi parlate, vi evitate con gli occhi e passate oltre. Tu sei sempre un barbone anche ora che non puzzi più, e dunque passi dalla mensa, mangi veloce e riprendi le tue strade che portano al nulla. Nessuno ti guarda, nessuno ti vede. Alle volte ti pare d’essere al di là del bene e del male. Sai che qualcosa è accaduto, quella notte, qualcosa di terribile e che deve essere taciuto. Il giorno dopo il francescano ha provato a parlarti serio di angeli custodi e passi biblici, della fede che vince tutto e di immortalità. Tu lo hai ascoltato obbediente ma non hai capito nulla, lui invece ha capito tutto e non è andato avanti nelle spiegazioni. Ora, semplicemente, condividete ai due angoli della strada un segreto di cui non vuoi sapere niente. Hai un sacco di cose da fare nella tua nuova vita, anche se la notte ti svegli senza fiato nel sonno, immerso nelle ombre più nere che rantolano e bestemmiano, e provi la sensazione inconsolabile di non avere alcuna protezione. Ma questo la notte, e la notte è sempre lontana. Di giorno ti senti solo più leggero. <

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SEWER TUNNELS

di ©CHRIS DRYSDALE chrisdrysdale.com spex84.deviantart.com

NEL VENTRE di RICCARDO DAL FERRO

L

a pioggia continuava a riversarsi sulle pozzanghere cittadine già tracimanti d’acqua. Ridondanza del tempo. Ezra Jones era convinto di udire l’eco della tempesta vociare violenta nel ventre di quella città. Immaginava quei cunicoli contorti come fossero l’intestino di un mostro dormiente, la schiena lavata da un cielo devoto a quella mole mostruosa, il cemento a far da pelle alle interiora scavate nella terra. Il suo ruggito quella notte era sopito, ronzava nell’atmosfera permeata di elettricità come il fiato del Moloch in letargo. Sacralità del sottosuolo. Garcia se ne stava nascosto, ombra tra le ombre, il suo profilo si stagliava indistinto accanto alla parete di un palazzo imbambolato. Osservava la strada, attendendo che la sua preda uscisse allo scoperto, ma si era concesso il lascivo piacere di una sigaretta, il

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cui fumo avrebbe potuto tradire quel suo delicato appostamento. La città era silenziosa, una mistica assenza di rumori profanata solo da quel bombardamento incessante. Una goccia cadde sulla punta della sigaretta di Garcia, spegnendola, rendendola inservibile, monito che egli colse in tutta la sua saggezza: gettò a terra il mozzicone fradicio e riportò la sua attenzione all’atrio vuoto della Union Square Bank. La città l’aveva avvertito, quella notte non dovevano esserci errori, nessun passo falso. Il Piano era stato lungamente congegnato, partorito con maniacale precisione. Ogni tassello doveva incastrarsi in maniera perfetta e Garcia, senza saperlo, era l’uomo giusto al momento giusto. Ineluttabilità del Piano. Nel silenzio della notte, ancora poche luci sfidavano l’oscurità. Uffici di manager stacanovisti gettavano il loro bagliore artificiale giù dai palazzi. Stephan rivedeva i conti, immerso tra montagne di carta e neon soffusi, non si capacitava di ciò che era accaduto quel giorno. Aveva ancora nella testa quelle rassegne stampa, voci insistenti che ne occupavano il pensiero. Ciò che leggeva e rileggeva, e poi ancora rivedeva una terza volta, non aveva alcun senso. “Crollo del mercato: USB perde il 15%”: Washington Herald. “Disastro finanziario: Union Square Bank sull’orlo del baratro”: CNN. Quei titoli si susseguivano, prendendo a martellate cuore, fegato, polmoni, cervello, torturando quelle carni sofferenti con crudeltà. La folla di persone che si era accatastata nell’atrio fino a poche ore prima, le grida di disperazione, fatte di mutui insoluti, sfratti improvvisi, pignoramenti di case e fallimenti di aziende, quelle disperazioni rimbombavano ancora tra le mura che lo osservavano e che trasudavano ancora rabbia e angoscia. Risparmi e investimenti, finanziamenti e fondi pensione, tutto era andato a puttane, il tracollo era stato tanto inaspettato quanto spettacolare. “USB a un passo dal fallimento. Miliardi di dollari in fumo”: N.Y. TIMES. Stephan ripensò anche al suo mentore e manager, quell’uomo che, come ebbe a dire più volte, avrebbe seguito in capo al mondo. Pensò a come, in quel funesto giorno, egli avesse perso la testa, in un sorprendente lampo di follia. Continuava a farneticare, diceva cose sconnesse come: «Non vedete? Non vedete dove punta il grafico di bilancio? Al

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sottosuolo!» Ripeteva con fare quasi serafico: «Ora tocca a me.» Diceva che le fogne lo aspettavano, che la città ne avrebbe reclamato le carni. Ma tutti erano troppo occupati a telefonare, rassicurare, vendere, gestire, contrattare, gesticolare, sbraitare… Come se un fulmine avesse colpito la testa di un passante: i conti che fino a ieri tornavano, adesso erano un disastro. Era tutto perduto, e tutto sembrava così insensato. Stephan era invaso da questi pensieri, e fingeva di porre l’attenzione su quelle cifre, su quei geroglifici. In realtà, il suo era un soliloquio di farneticazioni. E il suo cuore, in subbuglio, era già fuori dalla finestra. “-23%: disastro, disastro, disastro alla USB!”: BBC. “-40%, il punto di non ritorno”: Financial Times. Indecifrabilità della tragedia. Quando Ezra Jones si decise a uscire da quel palazzo, portava nel cuore un peso straordinario. Alcuni lampi opachi squarciarono il suo campo visivo, ma nessun tuono si propose al suo orecchio, c’era solo quella musica amara, acqua su acqua, come se l’oceano si fosse accartocciato sopra la terra. Non esisteva alcuna possibilità di salvezza, e la notte stava lì a ricordarglielo. Marciò a lungo, ben sapendo di essere seguito da occhi indiscreti. I suoi passi erano pedinati da qualcuno di cui non conosceva né il volto né il nome, ma non serviva che quell’ombra si palesasse per convincerlo dell’estranea presenza. Lui aveva una mappa nella testa, la stessa che rimuginava da tutto il giorno. La mappa, disegnata a fuoco nella sua mente, partiva dall’ultimo piano del suo splendido palazzo – la cui vista dominava democraticamente ogni singola testa che camminasse ignara nella città –, scendeva quei centododici piani in circa un minuto e mezzo e poi si gettava fuori dalle fauci di cemento della USB. Da lì, la mappa percorreva veloce un tragitto piano, lungo la statale 42, un incrociarsi di marciapiedi e strade deserte, fino a tuffarsi nell’oscurità della metropolitana. La città, paziente, l’avrebbe incontrato lì, negli antri del suo esofago meccanico. L’appuntamento era improrogabile. Quei passi circospetti continuavano a seguirlo, così come doveva essere. Quei passi erano innocui, senza dubbio incaricati da qualche ufficio di polizia, per accertarsi che, dopo il crollo di-

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sastroso di quel giorno, l’amministratore delegato della Union Square Bank non se la desse a gambe. E come poteva? C’era un disegno che tutto aveva previsto, che la città tramava da tempo immemore, fagocitando sofferenza e profitto. C’era un disegno, lui lo conosceva bene, era stato la sua fortuna e il suo terrore, e non poteva sottrarvisi, non dopo il segnale che era stato lanciato. Toccava a lui, stavolta, e le fogne lo attendevano al varco. I suoi passi si confondevano nell’acqua con quelli del suo sorvegliante, a una modesta distanza. Quando si gettò nella scalinata della metropolitana per iniziare la lunga discesa, sempre più in profondità, l’esitazione dell’inseguitore fu palpabile, ma la corsa non poteva arrestarsi. L’incedere del fato. L’oscurità inghiottì preda e predatore. Il lezzo di merda e muffa investì il naso di Garcia mentre scendeva i gradini della metro, cercando di non emettere alcun suono che allarmasse Ezra. Dove cazzo stava andando? La direttiva era chiara, di seguirlo ovunque andasse e accertarsi che non fuggisse dalla città, ma di certo la metro non era il mezzo più adatto all’espatrio. Come in superficie, anche al piano di sotto non c’era anima viva, e l’atmosfera sembrava voler giocare solo con loro due, quella notte. Il tanfo di quel luogo era un respiro affannato, reso difficile dall’obesità esagerata del mostro dentro il quale camminavano. A trenta passi di distanza i contendenti ordivano i loro pensieri, attenti a mantenerli invisibili agli occhi dell’altro. La consapevolezza del proprio destino consumava di terrore Ezra Jones, il suo abito firmato Moschino era pregno di sudore sotto quel cappotto di lana pregiata, e il suo volto, benché nessuno fosse lì a testimoniarlo, era contratto in una smorfia di angoscia. Garcia eseguiva gli ordini, senza dubbi o esitazioni, e soffocò la sorpresa quando vide che il banchiere, saltando giù dalla zona pedonale, raggiungeva i binari abbandonati del tunnel 3, quelli che un tempo portavano nel quartiere di Saint Croix. Guardandosi attorno circospetto, saltò giù a sua volta e continuò il pedinamento, addentrandosi sempre di più nella pancia del Gigante. Il facoltoso banchiere, seguito a ruota dall’investigatore, a passo spedito si dirigeva verso le viscere del sottosuolo, le scarpe in camoscio immerse nella fanghiglia puzzolente che rivestiva come un succo gastrico quelle contorte vie infernali. Sarebbe stata la sua

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ultima passeggiata e la catacomba sembrava richiudersi alle loro spalle. L’umidità intaccò le loro coscienze fiaccandone la volontà, preparandoli al grandioso compimento di quel Piano lungamente ordito. Profondità violate. Duecento metri più su, il contabile e promotore finanziario Stephan si scrollava di dosso le ultime speranze di capirci qualcosa. La stanza era un campo di battaglia, la scrivania sembrava ormai una collina di carta e il computer si era arreso. Stephan ripensava al delirio di Ezra Jones, fino a quel giorno impeccabile in ogni gesto, in ogni parola pronunciata, persino nel modo di mangiare un sandwich al prosciutto. Non c’era mai stato un barlume di follia nei suoi occhi, né nelle sue abitudini, ma evidentemente il crollo disastroso della sua azienda aveva fatto saltare qualche circuito. Che speranza può esserci se persino l’uomo di più granitica costituzione si scioglie come neve al sole? Uno piccolo come me, si disse, uno che rappresenta l’insignificanza stessa del sistema, come potrebbe resistere a un urto così devastante? Stephan si lasciò dominare da queste considerazioni, un realismo talmente concreto da non poter essere neanche comparato alla fiacca solidità del suo corpo. Si scrutò, si guardò, si tastò mani, viso e gambe, come in cerca di un appiglio, ma quel corpo, quel corpo era niente in confronto ai meccanismi che sentiva essersi messi in moto. Si trattava del Potere, della sua stessa essenza, di quel misticismo che fa girare tutto: finanza, politica, società, amore. Probabilmente, per un fugace attimo, per un minuscolo istante, ebbe cognizione di che cosa intendeva dire Ezra quel pomeriggio, parlando di ‘sottosuolo’, di ‘fogne’, di ‘profondità’. Si costrinse a ripetere quelle stesse parole: «Il sottosuolo mi reclama. È me che vogliono, tocca a me.» Percepì chiaramente che quella scrivania, quei quadri ben disposti, quel computer di ultimissima generazione, quella camicia, quei grafici fallimentari, tutto questo era solo la superficie di qualcosa che ribolliva da un’eternità, qualcosa più antico dei numeri stessi che avevano fatto perdere il senno a un uomo come Ezra Jones. Colse per un istante un legame profondo con il suo capo, i cui piedi nel frattempo marciavano spediti nel ventre di quel mostro che ingenuamente aveva sempre chiamato ‘città’. Era una specie

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di solidarietà indecifrabile, un destino comune, una consapevolezza fraterna, quella di chi è avvinghiato a un meccanismo ancestrale. Perduto in questi pensieri, Stephan fu preda della convinzione di essere anch’egli impazzito. Stravaccato sulla poltrona Ikea, la camicia Ralph Lauren scomposta come il suo animo, gettò uno sguardo fuori dalla finestra e la pioggia gli ricordò, senza usare parole, come tutto ciò che sale prima o poi debba inevitabilmente scendere. Ineluttabilità della gravità. Mancavano pochi minuti all’alba, quando Ezra Jones finalmente arrestò il suo cammino nelle viscere della terra. Si trovavano in una camera molto grande, forse antica intersezione di un gran numero di tunnel scavati da chissà quali mani. Garcia si appostò dietro una tubatura arrugginita, appartenuta a un acquedotto in disuso, ma gli fu evidente che Jones si era da tempo accorto della sua presenza. La voce del banchiere risuonò tra fetidi odori: «Venga fuori, chiunque lei sia. Siamo al capolinea, amico mio.» Garcia rimase stupefatto da quel tono suadente, in mezzo alla claustrofobica situazione in cui si erano cacciati. Uscì circospetto dal nascondiglio, le ginocchia immerse nella melma che aveva accolto le sue bestemmie nelle ultime ore di inseguimento. L’enorme bestia respirava, era un respiro faticoso, meditabondo. «Che cosa ci facciamo qui, Jones? Non c’è anima viva.» «Oh, su questo non c’è alcun dubbio. O forse dovremmo ritrattare sul significato di ‘vivo’, non le pare?» Gli occhi di Jones emanavano una luce sinistra, ma erano allo stesso tempo spenti, rassegnati. Gli esseri che d’improvviso comparvero tutt’attorno pietrificarono i muscoli del povero Garcia, l’alito pestilenziale che emanavano non aveva nulla di umano, i loro corpi ricurvi erano coperti da un’epidermide malata, macchiata da ciò che di peggio i secoli avrebbero potuto incidere sulla pelle di un cadavere. Ezra Jones li osservava, mentre essi muovevano i loro arti spastici in maniera insensata, preda di crampi epilettici che li rendevano simili ad automi malformati. Un sibilo infernale accompagnava quel loro terribile strisciare. Garcia non riusciva a muovere un muscolo.

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«Si chiederà che cosa siano queste… cose, signor mio. Ebbene, non hanno nome e anzi hanno dato il nome a tutto quello che la circonda. Hanno eretto la città dove lei vive, sostengono i palazzi radicati nell’asfalto, hanno di fatto inventato il mondo così come lei e io lo conosciamo. Si nutrono delle nostre angosce, forgiano le paure e le incanalano qui dentro, si sfamano con i mille terrori che ci attanagliano. Potrei quasi dire che ci sono intimi, che ci accompagnano da sempre, che ci conoscono per quel che siamo veramente, solo che lei, prima di questa notte, non lo poteva sapere.» Gli abomini sembravano non essere interessati a Garcia, puntarono piuttosto verso Ezra Jones, verso il suo abito firmato Moschino, verso i suoi capelli impomatati da Paul Mitchell, verso la sua brillante carriera da uomo d’affari costantemente citato su Fortune. «Esse rappresentano probabilmente, per farle comprendere meglio dove si trova, ciò che l’uomo è solito chiamare il Potere. Questi esseri lo creano, lo concedono e infine se ne nutrono, attraverso la paura.» Lo accerchiarono, ma lui non mosse un muscolo. Anzi lasciò scivolare nell’acquitrino stagnante il cappotto Armani, fissando con quei suoi occhi glaciali il derelitto Garcia. «Vede, lei è qui perché le regole impongono un tributo di sangue, e poi un conseguente ricambio. Da secoli, generazione dopo generazione, esiste un solo uomo che conosce, un solo uomo che può portare avanti la tradizione e il fardello. Quell’uomo, trent’anni fa, fui io. Ma oggi la città ha di nuovo fame, e io non posso che cedere il testimone.» La scena surreale che si parava di fronte a Garcia sarebbe stata il marchio a fuoco che gli avrebbe impedito di ribellarsi. Gli esseri, contorti e consumati dai secoli, iniziarono a intaccare, mordere, graffiare il corpo di Ezra Jones, ma lui, impassibile, non cacciò nemmeno un urlo. Continuò invece a impartire la sua lezione: «Lei tornerà in superficie, tenendo a mente ciò che ha visto qui stanotte. Non scenderà mai più, se non quando il segnale verrà lanciato di nuovo. Non parlerà a nessuno di ciò che ha visto qui sotto, e d’altronde chi potrebbe crederle? Si ricordi che tutto ciò che sale prima o poi deve scendere nuovamente. Domattina lei prenderà il mio posto alla USB, da amministratore delegato, e tutto tornerà alla normalità.» Uno degli abomini, in un tripudio di respiri asmatici e gorgoglii nauseabondi, staccò di netto il braccio destro di Jones, che

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cominciò a sanguinare copiosamente, tingendo di rosso quella melma prima scura come la pece. Le forze e la voce lo stavano abbandonando, ma la smorfia di dolore che attraversò il suo volto venne sostituita in fretta dalla determinazione di quel consapevole destino: «Tra qualche decennio, essi reclameranno nuovamente il loro tributo di sangue, in cambio del quale lei avrà avuto onore, ricchezza e successo. Ma al loro richiamo lei non dovrà resistere, altrimenti la città intera, e forse il mondo, saranno perduti.» Fece una pausa, preso da quella che Garcia avrebbe giurato essere nostalgia. «È così ironico, non trova? Accumuliamo un quantitativo immane di potere durante la vita, ce ne vantiamo e lo portiamo addosso come un cimelio eterno, lo utilizziamo a nostro vantaggio, quasi lo possedessimo, e poi queste creature, che così facilmente ci hanno concesso la grandezza, ce la sottraggono, se ne nutrono, succhiandoci via la vita come acqua fresca.» Esalata l’ultima parola, artigli feroci e isterici sgozzarono e poi decapitarono Ezra Jones, il cui corpo si afflosciò come un sacco vuoto nelle gelide acque della catacomba. Garcia si sorprese a osservare quel banchetto rivoltante, sasso in mezzo ai sassi, e trovò la forza di voltarsi solo quando uno di quegli spettri, alzando la testa dalle frattaglie dell’ex banchiere, ne squadrò con diffidenza la figura tremante. Quando riuscì a girarsi per tornare sui suoi passi, una voce sibilante raggiunse le sue orecchie: «Ci rivedremo, Garcia Lòpez.» Sussurri del sottosuolo. Gli uffici della Union Square Bank erano ancora quasi deserti, nonostante la Borsa avesse aperto da un paio di minuti. Nessuno desiderava tornare nell’edificio, tutti erano consapevoli del disastro che sarebbe succeduto alla giornata precedente. Stephan era rimasto per tutta la notte sveglio nel suo ufficio, a osservare la finestra. La pioggia si era trasformata da grigia mendicante di luce a festa di riflessi quando il Sole era spuntato tra i grattacieli ancora addormentati. Vide sette o forse otto manager disperati assecondare la forza di gravità e imitare quella miriade di grafici che, dall’alto delle loro quotazioni positive, decidevano di suicidarsi. Guardando giù, l’asfalto era un suadente ospite che avrebbe accolto a braccia aperte la sua delusione.

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Issatosi sul balcone, Stephan chiuse gli occhi e… Alle ore 8.32 la radio diffuse nella stanza la voce dello speaker: “Questa mattina la nomina di uno sconosciuto manager ispanico, un certo Garcia Lòpez, ha fatto tornare positive le azioni della Union Square Bank, salvandola di fatto dal tracollo finanziario. È un incredibile colpo di fortuna, dal momento che…”. Stephan ritornò velocemente dentro il suo ufficio, chiuse la finestra e si scoprì tanto perplesso quanto sollevato. Come poteva essere cambiato tutto di nuovo? Che fine aveva fatto Ezra Jones? Chi aveva nominato questo nuovo manager, questo Lòpez? E perché, perché mai la pioggia, all’arrivo della notizia, aveva cessato di colpo la sua guerra? Stephan percepì nuovamente quella strana sensazione, quella di essere legato a Jones, a quel destino che rimaneva misterioso ai suoi occhi. Sedette di nuovo alla scrivania, il computer si accese e mostrò un grafico verde, positivo. Il mondo era salvo, anche se Stephan non poteva sapere per merito di chi. Nessuno l’avrebbe mai saputo: per alcuni sarebbe stato il ‘mercato’, per altri un semplice colpo di fortuna. Poco importava, tutti erano in errore. Gli stolti camminavano sull’abominio sotterraneo, senza saperlo. Nel profondo della città, ventre molle del mostro che finalmente era tornato a dormire, si banchettava ancora con la vita di Ezra Jones, mentre le angosce delle popolose superfici ponevano le fondamenta per l’insediamento del nuovo luogotenente del Potere. Nessuno avrebbe mai saputo della loro sacra esistenza, e Lòpez, i mostri ne erano certi, sarebbe ritornato nelle viscere quando fosse giunto il momento. Essi rientrarono striscianti nelle loro catacombe, allo stesso modo in cui gli insignificanti esseri umani che camminano sulla dura epidermide della città tornarono alla loro fragile serenità, inconsapevoli che il gigante si era mosso, che aveva rinnovato nuovamente il terribile patto di sangue. Stephan si dedicò a grafici e bilanci, dimenticandosi in fretta di Ezra Jones e iniziando ad ammirare il nuovo eroe del mondo, Garcia Lòpez. Tutti tornarono a dormire, e avrebbero dormito, angosciati e felici, fino al prossimo brusco risveglio. Ridondanza del tempo. La pioggia avrebbe atteso il proprio momento, per ritornare. <

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OLD TIME RADIO

di ©SONJA VALDES www.lightrapsody.com

IL SILENZIO È D’ORO di FRANCESCO POMPONIO

S

e fosse stato giorno le avrebbe viste candide, correre e cambiare di forma sfilacciandosi in fantastiche immagini di mostri e cavalieri, le avrebbe seguite con lo sguardo che si sarebbe perso nel fondo blu del cielo, tra una foglia e l’altra della grande pianta. E qualche volta le avrebbe viste arrivare, livide e alte, a oscurare il sole e lanciare fulmini sulle colline, durante i temporali di agosto. Il vento avrebbe mosso leggermente i rami più alti e qualche fico maturo si sarebbe staccato per spiaccicarsi fra l’erba, gioia delle formiche e delle vespe.

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Ma adesso era sera, anzi notte. Sdraiato al buio sull’erba, senza pensare a ragni o serpenti come succede quando si cresce, respirava tranquillo l’aria fresca dopo un giorno di calura. Ma non ascoltava il canto dei grilli, non sobbalzava ai fruscii del vento, né sapeva di costellazioni e pianeti. Per lui erano tutte stelle, tutte uguali, e ignorava se ci fosse qualcuno a viaggiare in quel cielo nero, volando da un puntino all’altro, fino a posti che egli non avrebbe visto da lì neanche con il miglior telescopio, se mai l’avesse avuto. Altre piccole luci vagavano per la campagna. Ora a grappoli ora isolate, si nascondevano fra i cespugli e ne uscivano poco dopo perdendosi fra i rami bassi, alla ricerca di qualcosa che soltanto loro sapevano. La luna imbiancava i contorni delle nubi che la nascondevano, e certamente in quel momento infiniti e placidi campi di neve si stendevano nel cielo di sopra, quello visto dalla parte delle stelle. Così aveva visto le nubi la notte che ci aveva volato sopra per la prima volta. Ma era durato poco e presto si erano rituffati sobbalzando verso la terra, dove pioveva, come se tutto quel sogno di neve si stesse sciogliendo davvero. Nel silenzio della notte poteva sentire sua madre sbattere sportelli e stoviglie e gli giungeva a tratti l’odore del sigaro di suo padre. Fra un po’ lei avrebbe spento la luce e gli si sarebbe seduta vicino, chiedendo per scherzo di fare una tirata. «No, che poi ti viene la tosse.» «Ma se tu dici che il sigaro non si respira!» «Io lo dico, ma tu lo respiri ugualmente.» Ormai sapeva quello che avrebbero detto e un po’ si annoiava della loro monotona prevedibilità, senza sapere che un giorno nel futuro l’avrebbe rimpianta, come capita quando il ricordo ci fa sembrare migliori le cose che non esistono più. Il voltarsi per un fruscio di passi gli fece cadere l’auricolare. «Lo sai che se ti trovano con quella cosa avremo dei guai, vero?» disse suo padre sedendogli accanto nell’erba. «Ancora non è vietato.» «Ma presto lo sarà e in fondo è per il nostro bene.» «Io non credo a queste chiacchiere, poco fa ne sentivo parlare e si diceva che non c’è nessun supporto scientifico a una simile teoria, non vedo perché dovrei dar loro retta. Secoli fa davano la colpa alle streghe...» Il ragazzo si rialzò a sedere. «E poi quando mai mi scopriranno? Io ascolto solo di notte, al buio e con l’auricolare.»

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«Non sarà necessario che trovino te, troveranno le trasmittenti prima o poi, loro mica possono nascondersi.» «Certo che possono.» «Però è più difficile.» Il ragazzo tacque e spense l’apparecchio per non consumare inutilmente le pile. Non voleva ammetterlo neanche con sé stesso, ma gli sembrava che il padrone dell’emporio lo guardasse in modo strano quando andava ad acquistarle. “Non fai altro che andare in giro di notte, visto le pile che consumi”, gli diceva ogni volta, e ogni volta lui si arrabbiava e avrebbe cambiato negozio, se ce ne fosse stato un altro. “Non voglio mica rompermi una gamba o cadere dentro un fosso, io” rispondeva fingendo disinvoltura e andandosene fischiettando. Aveva pensato di comprarsi un trasformatore e usare la corrente di casa per far funzionare la radio, ma nel negozio non ne avevano più ed egli non aveva il coraggio di ordinarne uno perché sicuramente quel vecchio impiccione gli avrebbe chiesto a cosa gli servisse. Acquistarne una che andasse direttamente a corrente era impensabile e inoltre era comunque troppo tardi adesso che non c’era più nessuno a venderne. Perciò aveva imparato a limitare le ore di ascolto e a riusare le pile vecchie fino a consumarle completamente, non come una volta che le cambiava non appena le voci cominciavano a tremare alzando il volume. E comunque le cose da ascoltare cominciavano ad essere sempre di meno perché nessuno più si sognava di investire in quel settore finché la situazione non si fosse stabilizzata, in un modo o nell’altro. «Io torno dentro e tu non restare troppo qua fuori, la notte fa freddo e c’è umidità.» «Ma papà, io non sento freddo, sono ancora nuovo.» «Per tua fortuna, e io vorrei che lo restassi il più a lungo possibile.» Era un padre che voleva sempre avere l’ultima battuta. Suo figlio sorrise nel buio.

* Era cominciata tempo prima. “Sarebbe ora, così la gente ricomincerà a leggere i libri” dissero tutti non appena la notizia si diffuse per il mondo. E invece nessuno si precipitò a saccheggiare le librerie. Gli unici a guadagnarci qualcosa furono i venditori di quei pochi giornali che an-

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cora sopravvivevano. Tutti volevano sapere le ultime notizie, ma era difficile procurarsene ora che l’uso delle onde radio era stato proibito in tutto il mondo. Le TV via cavo programmavano continuamente film e spettacoli di varietà, i notiziari erano quasi del tutto aboliti e le sole informazioni che si riusciva ad avere erano quelle che giungevano per telefono, su quelle linee, ora stracariche, che ancora usavano i cavi sottomarini. E ‘nessuna trasmissione radio’ significava proprio nessuna trasmissione radio. Erano anni che il Governo avvertiva in tutte le lingue che si stava avvicinando la scadenza e di provvedere perciò a trovare soluzioni alternative, ma si sa come vanno queste cose, nessuno se ne dava per inteso. E un bel giorno la polizia cominciò a chiudere le trasmittenti man mano che venivano individuate. Neanche le navi poterono sottrarsi al provvedimento e fu inutile per i migliori avvocati delle Compagnie sostenere che la radio era di vitale importanza per la sicurezza della navigazione e che aveva salvato migliaia di vite da quando era stata inventata. Per non parlare degli aerei. Tornarono tutti a navigare a vista. Si diceva che presto sarebbe stato pronto un dispositivo che sfruttava un raggio laser per posizionarsi nella giusta direzione e per inviare messaggi verso terra, sia dal mare sia dal cielo, ma per adesso c’era ancora qualche problema per il corretto puntamento. Nel frattempo che si arrangiassero, questa fu la risposta del Governo della Terra. In fondo erano stati avvertiti per tempo e la salute pubblica aveva la precedenza su tutto il resto. Per rimediare in qualche modo qualcuno pensò di riutilizzare un vecchio sistema di punti e linee, che da decenni non si usava più, il quale abbinato a congegni luminosi permetteva di dare almeno le informazioni elementari: la posizione, il proprio codice e dove ci si poteva recare a raccogliere i resti.

* «E tutto questo per colpa di quello lì, accidenti a lui e alla sua teoria» disse il ragazzo rientrando in casa. «Non è una teoria, è effettivamente dimostrato che le onde elettromagnetiche provocano i tumori» disse suo padre scuotendo la cenere del sigaro. «Tutti a dare la colpa al fumo e invece erano quelle robe lì che zitte zitte ti facevano secco.»

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«Tanto zitte zitte non direi, io ancora mi ricordo certe radio a tutto volume…» intervenne sua madre. «Sì, voi scherzate,» disse il ragazzo, «ma intanto le radio sono quasi scomparse, perché allora non hanno eliminato anche le automobili visto che inquinano l’aria?» «Perché i tumori li provocano le onde radio, mica la puzza delle automobili. Che non lo sai?» «Via, che non ci credi nemmeno tu…» «Se ci credessi pensi che ti farei tenere quell’arnese del demonio vicino all’orecchio tutte le sere?» «Quest’arnese riceve soltanto, mica trasmette, e comunque non è rimasto quasi più niente da ascoltare. Ogni sera ce n’è una di meno.» «Ci faremo l’abbonamento a qualche roba via cavo.» «Qui ci siamo solo noi, non li porteranno mai i cavi solo per noi. Io spero solo che chi prende queste decisioni prima o poi rinsavisca e si renda conto che a volte il rimedio è peggio del male.» Il ragazzo accese la luce nella sua stanza e con delicatezza nascose sotto il materasso la sua vecchia radio a pile. «Ragioni bene per essere un ragazzino» scherzò l’uomo. «Perché io ascolto la radio, mica guardo quelle cassette tutte uguali che arrivano con la posta» rispose il ragazzo, che anche lui amava avere l’ultima battuta. «Uno pari» borbottò l’uomo soffiando il fumo verso il soffitto. «Però almeno sono sicuro che è figlio mio.»

* Era da poco finito l’inverno. Le giornate cominciavano ad allungarsi e la sera faceva piacere restare un po’ svegli, senza cadere sul letto alle prime ombre. «In campagna, insieme agli insetticidi, secondo me spruzzano anche qualche sonnifero» diceva suo padre. «Non si spiega altrimenti perché a una certa ora cadiamo dal sonno.» «Non sarà perché ci alziamo presto?» Sua madre si avviava a dormire portandosi dietro la borsa dell’acqua calda, si infilava nel letto freddo e tremava finché non aveva riscaldato la sua parte. Fuori soffiava la brezza gelata delle montagne dove era ancora inverno e qualche fuoco ancora ardeva nei camini sparsi per la valle ed era bello tirarsi le coperte fin sulla testa e addormentarsi con l’anima pulita, senza sognare né di bene né di male.

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Ma di notte il tempo ha tempo di cambiare, e non ci volle molto a trasportare nuvole cariche di fulmini e pioggia, e così quella mattina si svegliarono che era ancora buio, con i vetri scossi dal vento e le finestre disegnate dalla luce blu dei lampi. «Visto che ormai siamo svegli tanto vale alzarsi per fare il caffè» borbottò l’uomo. Sua moglie, che il caffè non l’avrebbe rifiutato neanche in piena notte, farfugliò qualcosa e si girò nel letto per un altro sonnellino.

* In cucina accese per prima cosa il televisore. «Spegni che può cadere qualche fulmine!» gridò la donna. «Non preoccuparti, da queste parti non cadono, con tutti quegli alberi perché dovrebbero scegliere proprio la nostra antenna?» La notizia principale del telegiornale era che presto, secondo le decisioni del Governo, non ci sarebbero state più notizie. Questo andavano ripetendo da qualche giorno i vari notiziari, e doveva essere vero se ogni giorno si vedeva un canale di meno. “Ma qualcuno rimarrà sempre, ti pare che possano proibire tutto?” pensava l’uomo mentre, seduto al tavolo della cucina, aspettava che la caffettiera bollisse. Poi, un po’ per volta il giorno si fece spazio fra le nuvole nere della tempesta e i lampi cominciarono a fare meno impressione. L’acqua smise di scrosciare sul tetto e la campagna si svegliò fra mille sgocciolii. Rigagnoli percorrevano i due solchi della strada e andavano a perdersi nei fossi nascosti fra l’erba. Le grosse nuvole nere si allontanarono portandosi dietro i tuoni e il vento, che smise di tormentare le cime dei pioppi e le foglioline nuove strapazzate dalla pioggia. Ma prima di andarsene diede il colpo di grazia al palo piantato sul tetto. Con un frastuono degno di miglior causa tutta l’antenna precipitò nel cortile e solo alcuni fili rimasero a penzolare davanti alla finestra. Lo schermo del televisore diventò come sarebbe stato per molto tempo a venire e l’uomo corse alla finestra per vedere cos’era successo. Una parabola e altre antenne di tipo diverso giacevano lucide nell’erba bagnata. Metallo contorto e inutile ora, da vivo e vibrante che era stato lassù, dove nelle intemperie e nel bel tempo aveva scrutato il cielo cercando voci invisibili che gli uomini non avrebbero saputo ascoltare. Ma ora gli uomini avevano deciso di rendersi sordi e ciechi,

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nella speranza di conquistare qualche ora in più di una vita miserabile. E forse significava qualcosa il fatto che fosse caduto proprio quella mattina. Questo pensava l’uomo col viso fra le tende della finestra. Il ragazzo e sua moglie accorsero a vedere cosa fosse accaduto e insieme si affollarono dietro i vetri coperti di gocce. Nessuno parlava, perché non c’era molto da dire. Da lontano qualche ultimo lampo illuminava muraglie di nubi. Sul fornello la caffettiera bolliva troppo, bruciando il caffè.

* «Se devo dirti la verità, credo che tu lo abbia avvelenato questo caffè» disse l’operaio del comune con una smorfia. «Purtroppo mi si è bruciata la guarnizione stamattina presto quando è venuto giù il palo con le antenne e non ne ho una di riserva.» Dalla porta spalancata si affacciarono esitanti altri due uomini, con gli impermeabili bagnati e le scarpe sporche di fango. «Entrate, entrate, tanto dovremo comunque ripulire il pavimento, è sempre così in campagna quando piove, questo poi è stato un diluvio» disse il padrone di casa versando del caffè anche per loro. «Comunque ci ha risparmiato la fatica di salire sul tetto. Se vuoi il palo te lo possiamo lasciare, noi dobbiamo sequestrare solo le antenne.» «Tenetevi pure il palo, tanto non saprei che farci, comunque mi sembra assurdo togliere le antenne che ci sono in giro, non basterebbe chiudere le trasmittenti?» «Non chiederlo a noi, credi che ci divertiamo ad arrampicarci sopra i tetti e a litigare con la gente?» «Non c’è che dire, abbiamo un sindaco zelante, magari lo fosse allo stesso modo quando manca per ore l’elettricità o si allagano le strade.» «Mah, io non posso pronunciarmi, è lui che mi paga, anche se dovrei fare il giardiniere non il raccoglitore di antenne.» «Veramente ti paghiamo noi, ma lasciamo perdere.» Finirono il caffè, che nonostante il sapore di bruciato era comunque caldo e dolce, e accettarono anche un bicchierino per riscaldarsi. Poi uscirono salutando rispettosamente la donna che stringendosi in una vestaglia pesante li osservava dalla porta insieme al ragazzo.

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L’uomo li precedette per aprire loro il cancello. Il camioncino carico di ferri lucidi e parabole ammaccate fece manovra e si avviò per la stradina di terra, sobbalzando sulle pozzanghere e spruzzando acqua melmosa. «Si sono portati via anche la radio» disse il ragazzo. «Però hanno lasciato i televisori.» «La radio si poteva ascoltare anche senza antenna sul tetto, adesso siamo proprio sordi, può succedere di tutto nel mondo e noi non lo sapremo mai.» «Lo sapremo un po’ più tardi, perché mai?» «Perché se a qualcuno farà comodo non farcelo sapere non lo sapremo, e ci puoi giurare che a qualcuno farà comodo.» «Non farla così tragica, in fondo è un provvedimento per il bene e la salute di tutti.» «Però almeno la radio, finché qualcuno ancora trasmetterà, mi sarebbe tanto piaciuto poterla continuare a sentire» disse il ragazzo passando la mano nel posto dove era stato appoggiato l’apparecchio a onde corte che si divertiva ad ascoltare la sera tardi, seduto fra il lavandino e la stufa, mentre fuori era buio e freddo e sua madre preparava la cena. «Non disperare mai nella vita, nel buio pesto si vedono meglio le piccole luci» rispose suo padre sorridendo con aria furba. «E io non faccio sempre il bravo cittadino.»

* «Ricordavo di averla vista fra la roba di tuo nonno, ma pensavo che neanche funzionasse» disse l’uomo inserendo le pile che aveva tolto da una lampada portatile. In testa aveva ancora qualche ragnatela presa in soffitta. E quella sera una vecchia radio che temeva di essere diventata muta si scosse la polvere dal vecchio altoparlante di carta, svegliò i suoi transistor e riprese a parlare, con una voce che nessuno dei presenti aveva mai sentito. Raccontando di cose che mai avrebbe immaginato quando era ancora giovane e neanche sapeva di satelliti, cavi e altre diavolerie delle quali oggi si parlava tanto. E per fortuna le pile che le servivano erano ancora usate per le lampade, e comunque lei era sempre stata molto parca nei consumi. E continuava a raccontare, la sera, a un ragazzo che non voleva rassegnarsi ad ascoltare solo le scariche elettrostatiche dei temporali che il governo non era ancora riuscito a proibire. Ma un po’ alla volta sparirono quasi tutti.

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Ogni tanto una voce, per qualche giorno, e poi più nulla per molto tempo. Ma quel ragazzo aveva bisogno di sapere che la sera avrebbe potuto provare a cercare qualcuno, che come lui non credeva né obbediva. Il cielo fu ripulito da quelle onde che secondo molti portavano la morte, e una delle conseguenze fu la facilità con la quale si riuscivano a ricevere le stazioni più lontane, ovviamente abusive, ora che non c’era più l’affollamento di prima. Ascoltò voci in lingue sconosciute e imparò a riconoscerle almeno dal suono anche se non capiva quello che dicevano. Ed era sempre un parlare frettoloso, come di chi ha troppo da dire e troppo poco tempo per dirlo. E poi una sera non c’erano più. Ma un trasmettitore per radio era facile da nascondere e per una che ne scompariva ne nasceva poco dopo qualche altra. Insomma le notizie arrivavano, specialmente quelle brutte, che arrivano comunque. Ma molte persone ci mettevano uno zelo particolare nel denunciare chi provava a trasmettere via radio, e pian piano fu sempre più raro trovare qualcuno che ci si provasse. In fondo non c’era nulla da guadagnare, mentre ci si rimetteva parecchio se si era colti in flagrante. Venne dunque il silenzio. Il ragazzo crebbe e cominciò a pensare a una bella compagna di scuola. Nelle sere d’estate si allontanava verso il paese, alla luce delle stelle che non avrebbe mai più visitato. La radio fu nuovamente riposta da suo padre in soffitta, ben nascosta e senza le pile per non farla rovinare. «Un giorno ti sveglieremo di nuovo, ne sono sicuro» disse chiudendo il vecchio baule. «Quando gli uomini saranno tornati uomini davvero.» Ma molto tempo passò. E molto ancora ne doveva passare. La vecchia radio, ora un pezzo d’antiquariato, rimase nella soffitta di quella casa di campagna, dove un giorno un ragazzino l’avrebbe trovata chiedendosi incuriosito di cosa si trattasse. Probabilmente l’avrebbe smontata per vedere com’era fatta dentro, e i pezzi sarebbero finiti sparsi nell’erba, a inquinare un po’ di terreno prima di tornare ciò che erano stati. I satelliti restarono lassù, nella fascia di Clarke, allontanandosi pian piano dalle loro posizioni obbligate ora che nessuno più si curava di controllarli. Rimasero per anni nel buio, a trasmettere il nulla. <

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BARBARIC 2

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Anche per questo numero abbiamo terminato. Ci auguriamo sia stata una piacevole lettura. Grazie per averci seguito! Arrivederci alla prossima uscita e... ...non dimenticare di venirci a trovare on-line!

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