Quaderni della Pergola n.4

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Quaderni della Pergola n. 4



“La casa tra le case”: queste parole di Gabriele Lavia, nuovo consulente artistico della Fondazione Teatro della Pergola, hanno ispirato l’ultimo numero dei Quaderni della Pergola. La parola casa esprime tante cose. In questo quarto numero abbiamo voluto descrivere alcune sfumature che la parola contiene: la casa dove si abita; la casa da dove partire e verso cui fare ritorno; la casa come libertà e rifugio intimo; la casa dell’anima e delle proprie radici. Luogo di verità e di condivisione con gli altri, in cui sperimentare la propria creatività. La casa tanto amata, quanto odiata. La casa che, inaspettata, si ritrova sul palcoscenico per gli attori, su un campo di calcio per i giocatori, sulla tela per i pittori e attraverso le parole per gli scrittori. La casa come luogo del destino, della memoria e del racconto. Arrivando alla consapevolezza che anche il teatro è casa: una casa accogliente e sempre diversa, dove riconoscersi e trasformarsi, dove piangere e poi ridere. Una casa sempre aperta, in cui scoprire la propria libertà. ¡Viva la Vida!

SOMMARIO

5. Gabriele Lavia La casa tra le case

8. Lucia Poli Vita di attrice

1 1 . La casa dell'anima, dedicato a Orazio Costa Giovangigli

Alessio Boni, Fabrizio Gifuni, Pierfrancesco Favino

1 8. Andrea Camilleri Ti racconto una storia...

21 . Pif incontra Camilleri 22. Felice Laudadio Alla luce del sud

24. La parola al pubblico La casa gialla

26. Helga Prignitz-Poda A proposito di Frida

30. Pino Cacucci

Andata e ritorno per il Messico

33. Encontrando Gabriel García Márquez 34. Mario Vargas Llosa

Quel luogo misterioso dove abita la parola

37. Dalla casa Pergola... 40. Goldoni, convento tra i conventi 41 . I mestieri del teatro La ragazza con la valigia

44. Siro Ferrone

La drammaturgia dello sport

47. Il giorno di San Crispino nel pallone 48. Fabio Baronti Un viaggio teatrale



C

Gabriele Lavia LA CASA TRA LE CASE ome nasce la sua idea di considerare e definire il Teatro della Pergola “una casa tra le case”?

un’immagine dell’uomo in cui mi rifletto: riconosco la mia azione e le mie parole, assisto a me stesso, a quello che è il mio pensiero.

Nell’Atto Costitutivo del Seicento, con cui gli Accademici degli Immobili fondarono la Pergola, c’è una scritta autografa contenente la parola “casa”… Il teatro, proprio dal punto di vista architettonico, dall’esterno non presenta nessuna connotazione diversa da quella di una casa comune, la sua facciata si confonde quasi con le altre… La definizione del Teatro della Pergola come una “casa tra le case” non ha però soltanto un richiamo architettonico ma contiene in sé un significato più profondo, da individuare nell’origine della parola ‘casa’. Che cos’è la casa per l’essere umano? È quel luogo dove l’individuo ritrova se stesso, la propria identità, ed è così che allo stesso tempo riacquista la libertà. Infatti in casa di solito tutti noi ‘ci mettiamo in libertà’: abbiamo le nostre cose e ci comportiamo come all’esterno non faremmo mai.

Quindi il teatro è, secondo Lei, il luogo per antonomasia della libertà?

Attraverso il teatro si ricerca la verità, e il fondamento della verità non può essere altro che la libertà. Ci sono state epoche in cui qualcuno ha fatto in modo che l’uomo non fosse libero, quindi era difficile per l’essere umano ricercare il vero. È per questa ragione, per indagare il tema della verità, che per una delle nuove produzioni della Fondazione Teatro della Pergola metterò in scena Vita di Galileo. Bertolt Brecht ci dice che la verità per l’uomo non esiste e che può solo provare a ricercarla, ma per fare questo ha bisogno di essere libero… Invece per la prima produzione

Nella sua visione del teatro, la Pergola diventa “una casa sempre aperta” per il pubblico.

Sì, questa è l’idea portante che mi ha fatto pensare non solo ad una programmazione di spettacoli serali ma ad un luogo aperto, come avviene nella propria casa dove si invitano, a tutte le ore e non solo a cena, persone. Il teatro diventa allora una casa sempre aperta, in cui identifichiamo la ragione dell’esistenza ritrovando la nostra libertà. Il termine ‘teatro’ proviene dal greco: theatron . Tea significa ‘dea’ e ‘sguardo’, in particolare 'Dio' in greco significa ‘colui che guarda il guardante’; tronè invece ‘il luogo’. Quindi il teatro è il luogo dello sguardo. Da spettatore vedo, per esempio, Edipo Re in scena ed è lo stesso personaggio che mi guarda di riflesso… In questo sguardo reciproco succede che lo spettatore prenda coscienza di sé. Infatti a separare il palcoscenico dalla platea abbiamo il velarium , che poi è stato chiamato ‘sipario’. La sua funzione è quella di svelare la verità: il sipario, aprendosi, svela l’uomo. Sul palcoscenico, io spettatore, trovo -5-


della Pergola abbiamo pensato ad un nuovo allestimento de I sei personaggi in cerca d’autore, un testo così innovativo in cui i personaggi hanno bisogno di essere rappresentati ma, nel momento stesso in cui vengono rappresentati, diventano personaggi di farsa. È proprio questo ribaltamento della tragedia, appunto della farsa, a rendere Pirandello un autore così straordinario. La nostra scelta vuole essere di buon auspicio: è lo spettacolo con cui il Teatro della Pergola ha riaperto la sua attività dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, con la regia di Orazio Costa Giovangigli. E del resto Orazio Costa ha abitato sopra il Teatro della Pergola, è stata la sua ultima casa: ho pensato che tutte queste circostanze fossero come un port-bonheur per il futuro e per il nostro lavoro. E poi c’è un filo strano che lega Pirandello a Brecht e, in particolare, questi due autori a Sofocle. In tutti è presente il tema della luce e del buio: è stando all’oscuro che l’uomo, guardando bene nel profondo della sua cecità, riesce a trovare un chiarore, un barlume che gli indica la strada per mettersi sulla via e ricercare verità. Lavia dice Leopardi nel cortile del Bargello a

«C'è un filo strano che lega Pirandello a Brecht e, in particolare, questi due autori a Sofocle. In tutti è presente il tema della luce e del buio: è stando all'oscuro che l'uomo, guardando bene nel profondo della sua cecità, riesce a trovare un chiarore, un barlume che gli indica la strada per mettersi sulla via e ricercare verità»

Firenze; è vero che affrontare questo autore equivale per Lei “a fare una maratona restando fermo”?

Leopardi è un poeta che ho sempre amato, fin da quando ero molto giovane. Da allora ho imparato i Canti a memoria e non li ho più lasciati. In passato mi è capitato di recitare a Recanati, dove non c'è più la siepe che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Leopardi è un poeta ma, prima di tutto, un filosofo. È di un nichilismo assoluto. La vita altro mai nulla: è così che vede l’esistenza, come il nulla. Il mondo - l’insieme di vittorie e sconfitte, di luce e buio, di amicizie e inimicizie – che l’uomo si è inventato per vivere sulla Terra non è altro che “fango” per questo scrittore.

Qual è il Canto di Leopardi che preferisce?

“Dolce e chiara è la notte e senza vento”: forse questo è il più bell’endecasillabo della letteratura italiana. Vorrei preparare un recital dedicato soltanto a La Ginestra, ma la poesia da me preferita è certamente Le ricordanze, con tutte le maledette memorie che perseguitano Leopardi, a cui lui torna sempre ma che odia. Le "stelle dell’Orsa" a cui si rivolge incarnano questi primi ricordi e le sue disillusioni. Le stelle sono lì da sempre, probabilmente sono la prima cosa che ha visto guardando il cielo e sono vagheggiate, desiderate stelle, anzi non credeva di ritornare a guardarle dalla casa paterna, dove delle sue gioie dice di aver visto la fine. Leopardi è condannato a ritornare alle sue origini, e costantemente lo siamo anche noi tutti: non riusciamo a progredire di un passo, siamo sempre lì a combattere con le nostre maledette, vaghe, stelle dell’Orsa.

Secondo il regista Mario Martone, che sta raccontando la figura di Leopardi sia al teatro che al cinema, questo autore dà un grande valore alle illusioni perché gli danno la speranza e la ragione di vivere…

Leopardi chiama le speranze inganni: “O speranze, speranze; ameni inganni della mia prima età! Sempre, parlando, ritorno a voi.” Il suo è un ritorno costante alla speranza e all’ameno inganno della prima età, il tradimento che in fondo la vita gli ha riservato. Probabilmente è questa la maledizione di Leopardi e anche la sua unica salvezza.

Nella pagina a destra un particolare del Cortile del Museo Nazionale del Bargello

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Dolce e chiara è la notte e senza vento...

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Lucia Poli * VITA DI ATTRICE a sempre pensato di fare l’attrice?

vecchio garage che avevamo adattato come teatro e allora si andava avanti senza sovvenzioni, era difficile gestire il luogo teatrale ma era anche un momento in cui non si faceva un teatro individuale da capocomico, ognuno il suo. Il gruppo lavorava insieme, ci piaceva proprio avere un contatto e uno scambio reciproco, magari si litigava ma si stava a lungo a ragionare… Secondo me questo è uno degli aspetti più belli del nostro lavoro: il lato sociale, che lo rende diverso, per esempio, dal mestiere dello scrittore o del pittore, certamente ruoli più solitari.

No, io in realtà volevo scrivere perché l’attore lo faceva già mio fratello Paolo. Quando mi sono laureata, lui era già famoso. In seguito sono diventata insegnante di Lettere e ho cominciato a scrivere, anche per la radio. Una volta mi hanno proposto di recitare quello che avevo scritto e così ho iniziato la televisione, la frequentazione delle cantine romane e mio fratello Paolo mi ha detto: “Ora che reciti anche tu, facciamolo insieme!”. Erano gli anni Settanta a Roma, quando ho fondato insieme ad altri giovani un piccolo teatro che si chiamava L’Alberico: un centro d’avanguardia e di sperimentazione, è da lì che sono nati anche Roberto Benigni, Carlo Verdone… Vi facevamo i nostri spettacoli, era uno spazio che si viveva a lungo quotidianamente, con musica, incontri di poesia e tante altre attività, fino alla sua chiusura negli anni Ottanta. Si trattava di un

Il teatro è una passione di famiglia? Qual è il suo primo ricordo legato al teatro?

Mio padre suonava il violino, mia madre era una maestra elementare bravissima a tenere inchiodati i suoi studenti raccontando, per esempio, Pinocchio… Noi tutti, siamo cinque figli, abbiamo sempre giocato con il teatro. Le mie sorelle maggiori recitavano nel teatrino parrocchiale e io a tre anni debuttai reggendo uno strascico a una delle mie sorelle. La cosa che mi ha colpito di più entrando in scena sono state le luci. Sul palcoscenico hai la luce in faccia e non vedi niente. Mi sono spaventata e sono rimasta lì immobile, ricordo che sono dovuti venire a prendermi per mano e portarmi via. Proprio come le lepri, quando rimangono abbagliate dai fari delle macchine.

Negli ultimi tempi la sua carriera è legata saldamente a Firenze…

Qualche anno fa ero ospite con un mio spettacolo al Teatro di Rifredi e la Direzione mi ha chiesto di unire le nostre forze e di collaborare. Con loro tutti gli anni faccio uno spettacolo, però ho anche la libertà di seguire altri progetti. Roma è una città un po’ dispersiva, l’idea di tornare con sede a Firenze mi è piaciuta

«Per me il palcoscenico è il luogo della libertà» -8-


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dell’Emilia Romagna, di Roma, di Milano, del profondo Sud; quello abituato ad andare a teatro, quello che ha visto pochi spettacoli… Sono diverse case, culture diverse, e l’energia cambia. Le persone mi incuriosiscono, sia nella vita di tutti i giorni che osservandole dal palcoscenico. Si gira l’Italia; si sperimentano gli umori e si percepiscono le differenze.

«Nella vita reale spesso sonnecchiamo o ci annoiamo, così il tempo si sfilaccia; invece nella concentrazione del palcoscenico tutto diventa particolarmente fervido e messo a frutto: è il tempo dei momenti forti, come il tempo dell'amore, quando si vive appieno la vita»

È difficile riuscire a trovare i ruoli giusti da interpretare?

Sono un’attrice che in genere si scrive da sola le parti o che si adatta gli spettacoli partendo dalla letteratura. I testi di altri autori sono abituata a rimodellarli su di me, soprattutto come solista oppure in passato con mio fratello Paolo, sai quanti spettacoli abbiamo ideato… Non faccio i provini e aspetto la parte, piuttosto penso a come creare lo spettacolo. Per me il palcoscenico è il luogo della libertà perché mi sono sempre inventata il mio ruolo, fin dall’inizio.

subito. Ho trovato di nuovo una casa, un luogo dove fare le prove e progettare.

Il tempo trascorso in palcoscenico, spettacolo dopo spettacolo, che tipo di valore assume?

È un tempo ritagliato dalla realtà che non coincide con lo scorrere del tempo naturale. È tutto concentrato nelle due ore di spettacolo che si vivono con un’intensità tale… Nella vita reale spesso sonnecchiamo o ci annoiamo, così il tempo si sfilaccia; invece nella concentrazione del palcoscenico tutto diventa particolarmente fervido e messo a frutto: è il tempo dei momenti forti, come il tempo dell’amore, quando si vive appieno la vita. Per questo lo spettacolo è anche una forma di terapia per l’attore. Tutte le facoltà devono essere attivate in quel momento: memoria, fisicità, prontezza. Non dimentichiamo che questo mestiere si vive insieme al pubblico ed è curativo per chi sta sulla scena. Tutti gli attori hanno le loro fragilità: Anna Magnani, per esempio, diceva di fare l’attrice per le carezze che le erano mancate da bambina… Quindi l’attore ha bisogno delle carezze del pubblico, di essere confortato dal giudizio degli altri, ma denunciando questa fragilità, se si sceglie di fare questo mestiere, allo stesso tempo ci si cura ed è come una terapia.

Che cos’è il pubblico visto dal palcoscenico?

Il pubblico è tante cose: le scuole, i giovani, i vecchi; il pubblico di provincia, il pubblico delle grandi città; il pubblico della Toscana,

* Vincitrice del Premio Scuole#allaPergola come

Migliore Attrice per la Stagione 201 3/201 4.

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LA CASA DELL'ANIMA

dedicato a Orazio Costa Giovangigli

Particolare dello studio del Maestro Orazio Costa nell'ultima casa da lui abitata sopra il Teatro della Pergola.

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Direttamente dalla Stagione del Teatro della Pergola: gli ultimi allievi del Maestro Orazio Costa

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Alessio Boni

co, acqua, ghiaccio: sperimentavamo interiormente gli elementi naturali per arrivare a dire, nel modo giusto, il monologo di Amleto. Le stesse parole ci veniva chiesto che fossero pronunciate una volta come se fossero fuoco, un’altra come ghiaccio o pioggia… Può sembrare folle ma, dopo tanti esercizi, vedevi dei cambiamenti incredibili all’interno di te stesso. Non puoi dire la parola ‘amore’ come ‘sasso’ o ‘ghiaccio’ come ‘fuoco’: le immagini che arrivano sono diverse. Questa è la forza del Metodo Costa. Ed era anche uno studio corale: avvertivi la forza degli altri allievi attorno a te, un’energia collettiva, che ti aiutava a esprimere una necessità. Ricordo che una volta Costa ci ha impedito di parlare per due mesi: figurati cosa succede quando si toglie la parola ad un attore… Poi un giorno arrivò e ci disse: “Oggi potete dire fuoco”, e non hai idea dei fuochi che sono usciti da quelle bocche, potenti e

n suo ricordo del Maestro Orazio Costa. Orazio Costa era un pedagogo

storico ed una figura davvero anomala nel panorama internazionale, intendo come uomo: lui raffigura veramente il secolo scorso, quell’intellettualità e cultura di allora, tipica di personaggi dell’epoca di Pirandello. È come se Costa, in qualche modo, non avesse voluto varcare il nuovo secolo: ci ha lasciato prima, conservando così quel suo modo classico di intendere la vita. Una persona anacronistica, per certi versi, che ha toccato con mano il mondo del passato e che a ottant’anni conduceva ancora il palcoscenico indossando la sua cravatta… Costa è stato in tutti i teatri del mondo, ha studiato il teatro ateniese e ha dedicato la sua esistenza al teatro, nel senso più alto della parola, dunque senza esibizionismi. Per lui l’attore doveva essere portatore di una cultura seria. Un maestro di vita, a mio avviso, e non solo di recitazione.

I suoi insegnamenti che si fondano sull’uso della parola e del corpo sono stati utili per affrontare in seguito il palcoscenico? Costa è stato il mio Maestro e mi ha forgiato come attore. Il suo è stato un continuo studio sulla lingua e sul parlato. Tra l’altro è stato l’unico ad avere creato un Metodo in Italia, il Metodo Mimico: non ne esistono altri. Si parte da un’essenza fisica, da un’urgenza che nasce dentro il corpo e che diventa parola. Se non senti un’urgenza dentro di te, semplicemente non riesci a dire quella precisa parola. Costa ci parlava dell’energia in scena. Chi sale sul palcoscenico deve interpretare personaggi enormi e le parole, per esempio, che pronuncia Riccardo III sono state studiate per essere dette in un certo modo: ecco perché ci insegnava la mimica, partendo in maniera preliminare dal corpo per arrivare in seguito a questo risultato. Dovevamo sentirci terra, fuo-

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spontanei: non li avevo mai sentiti.

Quindi questo tipo di formazione è stata una vera scuola?

«È come se Costa, in qualche modo, non avesse voluto varcare il nuovo secolo: ci ha lasciato prima, conservando così quel suo modo classico di intendere la vita. Una persona anacronistica, per certi versi, che ha toccato con mano il mondo del passato e che a ottant'anni conduceva ancora il palcoscenico indossando la sua cravatta»

Sì, è stata una scuola di vita dove abbiamo compreso come comportarci con gli altri ma anche con noi stessi, con la nostra solitudine. Una sensibilizzazione fondamentale per l’attore, con esercizi tesi a recuperare quell’ingenuità e quell’entusiasmo tipici dell’età infantile. I bambini nella serietà del gioco non si vergognano di niente ed è lo stesso coraggio che dobbiamo ritrovare sulla scena, recuperando tutta la gamma di sentimenti umani con l’immaginazione. Per arrivare alla resa del personaggio è importante osservare la natura e arrivare a studiare, per esempio, le movenze degli animali. Costa ci chiedeva di dire il monologo di Amleto “pesante come un elefante” o “graffiante come una tigre”: questo tipo di attitudine si ottiene soltanto quando ci poniamo con coraggio e sensibilità, in tutta la nostra nudità e senza filtri, davanti alle varie esperienze umane. Pensiamo a un musical come Cats, che ha fatto il giro del mondo: ai ballerini avevano dato un gatto da portare a casa, per analizzarne i movimenti. Se hai la sensibilità e la voglia di studiare in maniera seria, ecco che alla fine tu, attore, puoi diventare qualsiasi cosa, perfino un felino… -1 3-


Fabrizio Gifuni

«Accademia Nel biennio 1 992-93, Orazio Costa tenne in circa centosessanta lezioni, intera-

che guidano la nostra storia. L’uomo è sempre in colloquio con questi personaggi ideali, la cui presenza è sicura... Il sipario in Amleto potrebbe aprirsi quando appare il Fantasma. Tutto sommato fino al suo apparire, in scena si realizza – sia pure con i dovuti incidenti – una commediola militare.”

mente dedicate all’A mleto di Shakespeare. Questo straordinario momento di studio faceva seguito a un altro ciclo di lezioni sul cosiddetto ‘Metodo Mimico’ tenuto da Pino Manzari e da Costa stesso l’anno precedente. Conservo gelosamente gli appunti di quelle giornate.

“La capacità di ripetere identico un suono o un rumore è un fatto di prodigiosa importanza. Ogni attore dovrebbe sapere esattamente quali siano le proprie condizioni audiometriche. Le attuali condizioni del nostro orecchio devono essere tenute sotto controllo e accuratamente esercitate. E il Coro è senz’altro uno dei modi più efficaci per farlo.” “S.Paolo diceva : ‘Che guerra in me, in cui vivono due uomini diversi’. Io dico, beato lui che ne aveva soltanto due.” “Non basta trovare la propria voce, è necessario volta per volta trovare la voce di un personaggio.” “Siete in una posizione privilegiata. Il teatro è una delle poche strade rimaste all’uomo per salvarsi. Gli attori sono punte ai margini dell’esistenza. Gli altri sono già morti e non sentono, per fortuna loro, la puzza che fanno.”

Il testo su cui si lavorava era quello integrale, dal primo all’ultimo verso. Sette o otto traduzioni a confronto, più quella di Costa, da leggersi - come alcuni romanzi di Gadda - vocabolario alla mano. Tutti i ruoli erano a disposizione di tutti. Donne e uomini potevano cimentarsi indifferentemente su Amleto o Gertrude, Ofelia o Osric, Claudio o Polonio.

Mi è capitato diverse volte durante gli ultimi quindici anni - sia che stessi lavorando a uno spettacolo sia che mi stessi preparando a un film - di sfogliare a caso quegli appunti, quasi scaramanticamente, per ricercarvi risposte a improvvisi quesiti, come nell’antico libro cinese dei Mutamenti, l’I Ching. “È l’aldilà che introduce il teatro, sono i fantasmi

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“Non troverete molte persone che vi correggeranno ‘onestamente’ : siete soli e dovete sentire tutta la responsabilità di essere parte di questo tessuto esistente che è la lingua italiana.” " Colpi di scena e nodi drammatici fanno sì che un fenomeno possa

essere compreso nella sua interezza: non c’è bisogno di conoscere tutte le gocce che compongono un temporale per essere quel temporale. I caratteri distintivi di un fenomeno (una foglia può essere lanceolata, oblunga, a forma di cuore, a trifoglio, etc.), non devono allontanarci dal considerare che, per fortuna, i fenomeni in natura sono omogenei e si possono descrivere con alcuni colpi di scena contestuali. Un albero si può descrivere con tre colpi di scena.” “In questo momento noi facciamo questo tipo di lavoro sul personaggio Amleto, ma il vantaggio che ne avrà chiunque un domani si trovi ad affrontare altri personaggi sarà quello di aver guadagnato un fondo di Amleto” “Il timbro (o colore o metallo) è l’aspetto più personale di una voce, ed è una variabile che l’attore cura troppo poco. Nella vita di tutti i giorni diamo luogo continuamente ad un processo di mimesi spontaneo – anche dal punto di vista timbrico – rispetto alle persone con cui parliamo: a seconda della loro età, del sesso. Cercate di ricordarvelo.” “C’è una splendida frase di Cicerone che dice: non esiste per l’uomo miglior teatro di quello che gli offre la propria coscienza.” ( Etc.etc..)

migliore per prepararlo alla corsa. A una corsa lunga e insidiosa, in cui è facile perdersi o cadere sfiniti.

Ci allenava, il Maestro. Ci educava all’Ascolto, condizione primaria di qualsiasi prassi attoriale, teatrale o cinematografica. E ci insegnava al contempo, attraverso l’antica esperienza del Coro, che non si è mai solisti, anche quando si è soli in scena o si monologa. Precondizione di qualsiasi lavoro

sul testo o sul personaggio, il risveglio dell’infanzia e del suo infallibile istinto mimico. Riavvicinarsi sempre di più a quell’innata capacità di diventare qualsiasi cosa che hanno i bambini nei primissimi anni di vita. Un viaggio a ritroso alla ricerca di un’età dell’oro - il primo stadio dell’esistenza - in cui famiglia, scuola e convenzioni sociali, non avevano ancora avuto il tempo di chiudere la propria morsa infernale sui nostri corpi, interrompendo quel fiume di energia spudorata e benedetta. Che è mimica allo stato puro. Scatenarsi di nuovo nel gioco, recuperarne le regole, smarrire il tempo e abbandonarsi. Costa si preoccupava del nucleo originario

Scorrendo quei taccuini, che hanno resistito a diversi traslochi, ogni volta mi domando quanti altri uomini, in Italia, abbiano dedicato con la stessa intensità tutta la loro vita al lavoro dell’attore. So con certezza che uno dei pensieri che hanno ossessionato Costa fino all’ultimo istante è stato come si potesse rappresentare il fantasma del padre di Amleto, in scena, senza scadere nel ridicolo.

dell’attività espressiva, del ri-avviamento all’Espressione. Stava all’attore scegliere successivamente la propria strada, che fosse la Fonè di Carmelo, la comicità di Panelli o il realismo mimetico di Volonté. In questo sta la

Chi ha avuto l’immensa fortuna di partecipare a quelle lezioni d’Arte sa che ha passato sicuramente molte più ore ad ascoltare la sua voce inconfondibile o a recitare in Coro tutto l’A mleto, di quante non ne abbia passate a provare una scena o un monologo, in questo o quel ruolo. Senza accorgersi, allora, che quella condizione di incomprensibile attesa a cui Costa spesso ci sottoponeva per ore e ore, era il modo migliore per infiammare la nostra fornace. E che quel morso tenuto sulla bocca del cavallo fino a farlo schiumare, era il modo

grandezza della sua intuizione e l’unicità del suo insegnamento: il Metodo Mimico si antepone a qualsiasi altra tecnica, dandogli linfa e anima. Non può contrapporsi a nessun altra pedagogia perché, inevitabilmente, la precede.

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Sopra: la targa dedicata a Orazio Costa, posta in via della Pergola 20.


Pierfrancesco Favino «come Ho avuto la fortuna di avere Orazio Costa «qualcosa Orazio Costa significa per me avvicinarsi a Maestro. Ho imparato tutto da Mario di inarrivabile, proprio dal punto di Ferrero e da Orazio Costa. Mi hanno insegnato il rispetto e la disciplina del mio lavoro; ancora

vista della conoscenza e dell’intuizione. Sono particolarmente emozionato di essere stato nella casa di Costa sopra il Teatro della Pergola;

oggi apro i diari di Costa e capisco meglio il significato della parola ‘attore’. Penso alle sue

ognuno di noi attori porta con sé il ricordo di questo Maestro, questo ricordo è così forte che diventa addirittura ‘carne’, non è più soltanto pensiero… C’è una targa alla

parole e so che non smetterò mai di avere curiosità per una battuta, per le sue infinite possibilità.

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«mioCome allievo di Costa, per quanto riguarda il mestiere, seguo una linea emotiva, lontana

Pergola che cita uno dei tanti pensieri di Costa. Io non mi ricordavo queste parole, però mi hanno colpito: le ho prese come un segno. Si parla di acrobazia, dell’anima e del corpo. Noi del gruppo Danny Rose, per lo spettacolo Servo per due, abbiamo fatto tanti seminari di clownerie, acrobatica, canto, danza e lavoro con la maschera. Questa coincidenza, a distanza di vent’anni, mi ha fatto pensare all’immedesimazione del nostro progetto e del nostro gruppo di lavoro con le parole di Orazio Costa. È questa forse l’eredità più bella che uno si possa portare dietro.

dalla semplice contropartita economica: lo spettacolo è una scelta fatta insieme ai tuoi colleghi, inteso come un momento che vada a nutrire spiritualmente una piccola comunità, quella compagnia teatrale che realizza lo spettacolo; a sua volta questa comunità di attori entra a contatto con la comunità più ampia del pubblico: quello che si ottiene genera un certo tipo di profitto che non è semplicemente materiale; anzi, si assiste ad uno scambio reciproco, un benessere collettivo.

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I bauli, le case viaggianti degli attori.


Andrea Camilleri TI RACCONTO UNA STORIA...

L

ei è uno degli scrittori più letti in Italia e più tradotti all’estero, ma il successo è arrivato con il tempo, dopo anni di tentativi e grazie alla fiducia della casa editrice Sellerio.

questa persona, che mi ha chiesto: “Cosa fa qui?”. Gli ho spiegato: “Sono uscito a prendere un po’ d’aria…”. Subito mi ha intimato: “Torni subito a casa a scrivere, ha capito?”.

Lei non è solo autore delle storie di Montalbano, ma è anche regista, autore teatrale e televisivo. Come si è avvicinato al mondo dello spettacolo?

Leonardo Sciascia è stato il primo a portare un mio libro a Delfina Sellerio e da quel momento ho cominciato la mia collaborazione con questa casa editrice. Io e Sciascia avevamo tanti punti in comune: tutti e due ci muovevamo sotto il segno di Pirandello che era nato ad Agrigento - la nostra casa - e poi lui aveva avuto come professore Vitaliano Brancati che era un mio idolo… La nostra era una vera amicizia, nel senso che litigavamo, a volte anche duramente, però quello che devo a Leonardo è enorme: ancora oggi, a 88 anni filati, nel momento in cui mi sento le batterie scariche prendo un suo libro e torno ricaricato.

Nel ’49 sono stato ammesso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica come unico allievo regista; ogni mattina mi svegliavo prestissimo, arrivavo in treno da Ostia e il Maestro Orazio Costa ‘picchiava’ quotidianamente sul mio cervello, fino a che mi prese come aiuto regista nel Poverello d’Assisi di Copeau: questo spettacolo cresceva, meraviglioso esempio del Metodo Mimico da lui ideato… Però poco dopo mi capitò ‘l’incidente’, nel senso che venni cacciato dall’Accademia per condotta immorale: allora usava così, se mettevi il braccio attorno ad una compagna arrivava l’ispettrice e non c’erano scuse, venivi espulso. Mi trovai allora di fronte al problema di sopravvivere perché venne a mancare la mia borsa di studio e il primo lavoro che trovai fu in una casa cinematografica che era di proprietà di due greci anche se, chissà perché, non mi pagavano con i soldi ma con le sigarette di contrabbando: il sabato le andavo a rivendere nella vicina stazione! Anni dopo, pur condividendo una vera fratellanza di vita, Costa non venne mai a vedere i miei spettacoli. Non me lo motivò mai. Forse mi sentiva estremamente diverso da lui, anche se mi stimava moltissimo. Lui considerava il teatro come una chiesa e io invece ero forse il più infedele dei suoi allievi… Eppure, quando lasciò l’insegnamento all’Accademia designò me come suo successore.

Con la grandissima popolarità raggiunta è cambiato il suo modo di confrontarsi con la gente? La scoperta del successo mi ha fatto capire che il lettore vuole avere con l’autore un rapporto assai diverso da quello dello spettatore di teatro: il lettore cerca il contatto diretto. Tu mi hai raccontato una storia? E ora io ti racconto la mia! Infatti mi scrivono centinaia di lettere ma senza mirare a fini particolari, solo per il gusto di raccontare, proprio come io ho fatto con loro, e questo mi fa piacere. Però la popolarità comporta di vivere sulla tua pelle fatti anche eccessivi. Per esempio, una volta che camminavo da solo a Roma ho sentito che una macchina mi si inchiodava accanto; il guidatore mi ha urlato: “Camilleri!”. Sentendomi chiamare così perentoriamente ho pensato di conoscere

«Orazio Costa considerava il teatro come una chiesa e io invece ero forse il più infedele dei suoi allievi»

La sua scrittura narrativa è influenzata dal fatto che ha frequentato i maggiori palcoscenici italiani? Sicuramente sì; Orazio Costa è stato un regista particolarmente attento all’uso della parola, con lui ho cominciato a studiare i testi drammatici ed ho imparato l’attenzione per la stesura dell’impianto teatrale, una cosa che mi -1 8-


serrato interrogatorio tra il Commissario Maigret e il portinaio che era un bravissimo attore goldoniano, Cesco Baseggio. Per l’età aveva perduto completamente la memoria, quindi occorrevano due gobbi! Però gli interrogatori si fanno guardandosi occhi negli occhi e invece un gobbo qui e un gobbo là, insomma c’erano difficoltà di ripresa e sentivo l’ululato del primo cameraman che diceva: “Andrea, attento che scavalchi il campo”… Rivedendo poi la puntata in TV ho avuto l’impressione che si trattasse di due strabici!

è servita molto quando in seguito sono diventato anch’io regista. In questo senso forse posso affermare che Costa mi ha insegnato a scrivere perché mi ha dirottato verso il teatro, mostrandomi come si legge teatralmente un testo. E alla fine, con la scrittura, mi sono accorto di compiere un’operazione di netta derivazione teatrale: se devo far entrare un nuovo personaggio in un mio romanzo, non lo descrivo a priori, ma lo deduco dai dialoghi. La figura fisica si intuisce solo dopo che ha parlato: prima lo faccio esprimere e poi dico che era alto, magro, con una leggera balbuzie… Di chiara derivazione teatrale è anche un certo taglio dei dialoghi, il ritmo con cui comunicano alcuni miei personaggi ricorda proprio il teatro. Nel suo libro Le parole raccontate c’è un re-

Un aspetto che caratterizza fortemente i suoi libri è un particolare uso del dialetto, quasi un italiano sicilianizzato, che conferisce una grande espressività ai suoi personaggi…

Nella mia scrittura è presente l’orgoglio del dialetto che è all’origine della lingua italiana, al fine di raggiungere una certa espressività: soltanto così riesco ad ottenerla. E del resto anche il lato più umoristico delle mie storie viene sottolineato dall’uso del dialetto; l’atteggiamento ironico credo che sia parte del mio essere naturale, nel senso che prendo sempre tutto con ironia, anche i fatti privati miei, e tramite certi vocaboli riesco poi a riversare questo mio stato d’animo nella scrittura.

cupero di alcuni termini che appartengono al teatro…

Per esempio, parlo del suggeritore; è una figura teatrale che si è rifugiata sotto forma di gobbo in televisione: si tratta di un ‘affare’ che girava a mano e scorreva con le battute dell’attore scritte sopra. Un grande maestro di lettura del gobbo fu Gino Cervi e quando interpretava Il Commissario Maigret – da me prodotto – aveva quella meravigliosa espressione, quei tempi rallentati… ecco, in realtà stava leggendo! Un giorno il regista Mario Landi mi disse che doveva scappare a Messina perché la madre era gravissima, così mi lasciò a dirigere la scena che doveva essere assolutamente registrata nel pomeriggio. Ed io mi ritrovai per la prima volta dietro la telecamera a fare il regista: in quella puntata si svolgeva un

Come vive il rapporto con il pubblico? Quando scrive pensa ai futuri lettori?

No, mai! È una situazione curiosa: come narratore non tengo mai presente il pubblico, invece mi sono reso conto che come regista penso sempre agli spettatori che giudicheranno una mia regia. Eppure questi mezzi di -1 9-


comunicazione sono entrambi rivolti ad un interlocutore estraneo: la scrittura è dedicata non solo a se stessi ma anche agli altri, altrimenti nessuno scriverebbe, l’autore terrebbe un diario e lo conserverebbe in un cassetto; il teatro per la mediazione che ha, per sua stessa necessità, di attori, scenografia, luci, costumi, è già di per sé un ponte verso il pubblico. E questo anche se noi, in teatro, non facciamo altro che affrontare il pubblico e annullarlo: vi sentiamo respirare, ridere, applaudire, però non vi vediamo… Al contrario generalmente a me piace guardare le persone in faccia e conoscerle perché sono estremamente curioso dell’uomo, mi piace osservare l’essere umano.

«Con la scrittura mi sono accorto di compiere un'operazione di netta derivazione teatrale: se devo far entrare un nuovo personaggio in un mio romanzo, non lo descrivo a priori, ma lo deduco dai dialoghi»

Il successo delle storie di Montalbano non ha limitato la conoscenza di Andrea Camilleri come scrittore di altri romanzi, ai quali dice sempre di tenere molto di più?

Ogni volta che esce un libro di Montalbano il numero dei lettori cresce e le copie vendute aumentano almeno di ventimila a pubblicazione, però accade che ad ogni nuovo romanzo di Montalbano i miei primi libri - i romanzi storici, i romanzi civili come La stagione della caccia, Il birraio di Preston o La concessione del telefono ritornino ad essere venduti, non come i primi anni naturalmente, ma Montalbano fa sì che tutti i miei lavori continuino ad essere di catalogo e questo è già tanto, è importantissimo. D’altronde per me la letteratura, al di là del successo, è riuscire a comunicare qualcosa che

ho dentro rivolgendomi al più vasto pubblico possibile, ma senza cedere al gusto del pubblico, piuttosto cercando di tirarlo dalla mia parte.

Perché Montalbano piace così tanto?

Pur essendo un poliziotto è un po’ un antipoliziotto, nel senso che i lettori si immedesimano e possono riconoscersi anche in certi scatti caratteriali del personaggio che lo rendono umano. Per esempio, Montalbano è influenzato nei suoi comportamenti anche dall’andamento metereologico: se diluvia e l’aria è scura, diventa di pessimo umore, impazzisce in giornate così cupe e potrebbe anche prendere delle decisioni sbagliate. Inoltre Montalbano è un poliziotto con una coscienza e questo aspetto, in tempi di corruzione e di perdita costante di democrazia, colpisce profondamente.

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PIF INCONTRA CAMILLERI

chiaramente il giudizio morale. Pif: Dunque è vero che Sciascia si stupiva quando in alcuni cinema della Sicilia, appena il mafioso diceva quaquaraquà, la gente rideva e applaudiva? Camilleri: Sì, lui si arrabbiava… Per un narratore è questo il rischio, ecco perché nei miei romanzi la mafia è presente ma sempre come un rumore di fondo. Pif: Quando la sento raccontare gli incontri della sua vita, mi rendo conto che la mia infanzia è stata meno affascinante… Mi sembra che la mia generazione non abbia tanto da raccontare; ho il sospetto di essere arrivato troppo tardi - come mi capita spesso - quando il divertimento è già finito! Camilleri: Mio padre diceva che avevo curiosi modi di approccio e di amicizia… Sono fatti generazionali. Il mondo cambia, per fortuna, e cambiano i rapporti umani: certe situazioni alle quali noi prestavamo un valore assoluto, ora hanno un valore minimo. Ognuno realizza i rapporti secondo il modo e i sistemi del proprio tempo. Per esempio, quando ho letto le lettere che si scambiavano Pirandello e Martoglio, amici fraterni, mi è parso curioso leggere: “Nino, ti saluto con un grosso bacio sulla bocca”. All’epoca era normale scrivere così, invece oggi è impensabile salutarsi tra amici in questo modo. Sono i rapporti tra le persone a variare. Tutto è relativo.

Pif: Dopo il mio primo film La mafia uccide solo d’estate, una delle domande che mi fanno più

spesso riguarda il fatto se sia ancora il caso di girare un film che unisca la Sicilia alla mafia. È sempre brutto associare la mafia alla Sicilia, anche se sicuramente credo che sia peggio non parlarne o negarne l’esistenza… Forse ci siamo rassegnati al fatto che questo sia il Paese del Gattopardo perché la celebre frase: “Tutto cambia, affinché nulla cambi” ci dà un allure intellettuale per giustificare le nostre lamentele. Queste parole è come se ci autorizzassero a non fare niente. Camilleri: La mafia esiste, è un dato di fatto; allora perché non riconoscere che sia una parte del nostro mondo e che abiti la nostra casa? L’unico rischio, descrivendo la mafia, è che il mafioso possa diventare perfino simpatico al pubblico; pensiamo, per esempio, a Il giorno della civetta e alla celebre espressione su com’è fatta l’umanità: “gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i piglianculo e i quaquaraquà”. Si tratta di un’espressione così azzeccata che, anche se sono parole pronunciate da un mafioso terribile, sono entrate ormai nel linguaggio comune. Pensiamo anche al Padrino, che nell’interpretazione di Marlon Brando diventa quasi mitico. Trovo che tra gli scrittori italiani chi ha saputo raccontare bene la malavita organizzata sia Saviano, perché emerge

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P

Felice Laudadio * ALLA LUCE DEL SUD tazione a Bari. La nuova generazione di attori, che ha solidificato la sua esperienza tra cinema e teatro, si è formata in uno degli ultimi corsi tenuti da Orazio Costa all’Accademia di Arte Drammatica sull’A mleto: un laboratorio memorabile, dove attori come Gifuni, Favino, Boni o Lo Cascio si scambiavano il ruolo tra loro. Nel nostro Festival cerchiamo di indagare la figura dell’attore e tanti artisti sono presenti con incontri, film e spettacoli. Nei Focus gli attori incontrano il pubblico e raccontano quale circostanza ha cambiato la loro vita facendogli scegliere proprio questo mestiere: è l’origine del lavoro dell’attore, ciascuno con la propria storia che spesso è radicalmente diversa da quella del collega che hanno accanto.

erché ha scelto Bari come casa del suo Festival del Cinema?

In pochi anni la Puglia è diventata un’oasi culturale in un Paese dominato ormai dal malessere politico e dal malaffare. Andare a lavorare al Sud dove sono nato, dopo essere stato a Roma o Milano, inventandomi un Festival, mi sembrava giusto, anche per dare una mano al processo di rinnovamento e di cambiamento dell’aria culturale, prima ancora che politica e sociale. Bari è una città a valenza universitaria che costituisce una forte base per le attività culturali: il pubblico del Festival è formato per un’alta percentuale da giovani, anche se è la città nel suo complesso a rispondere alle sollecitazioni, con file interminabili per seguire le attività e i personaggi del Festival.

Un attore che ha studiato con Orazio Costa in che cosa si caratterizza?

Come direttore artistico, quale linea segue per ideare il programma del Festival?

Fondamentalmente per l’uso del Metodo Mimico elaborato da Costa, soprattutto è importante vedere come gli attori hanno applicato il suo insegnamento nella pratica attoriale. Il cinema è finzione pura e se provieni dalla scuola di Costa disponi di quella straordinaria capacità di lettura e di interpretazione dei testi che ti permette di immaginare qualsiasi cosa. Lo stesso Andrea Camilleri, unico allievo di Orazio Costa per tre anni al corso di regia, definisce il suo stile di scrittura impressionistico perché attento a cogliere il dato, che nel suo caso è sempre un dato mimico.

Il concetto è quello di progettare un Festival che contenga tanti tipi di Festival al suo interno, pieno di attività, come una matrioska russa. Orazio Costa è un riferimento importantissimo perché è stato il formatore di almeno cinquecento artisti, alcuni dei quali sono diventati fondamentali per il cinema: da Monica Vitti a Edmonda Aldini, da Gian Maria Volonté a Gigi Proietti, da Nino Manfredi a Camilleri… Costa creò anche una scuola di reci-

«Il cinema è finzione pura e se provieni dalla scuola di Orazio Costa disponi di quella straordinaria capacità di lettura e di interpretazione dei testi che ti permette di immaginare qualsiasi cosa»

L’ultima edizione del Festival del Cinema di Bari è stato dedicato a Gian Maria Volonté…

È stata un’occasione commemorativa perché ricorrono i venti anni dalla sua morte… Volonté è stato un altro grande formato da Orazio Costa ed è un attore molto diverso da tutti gli altri, forse troppo dimenticato e poco conosciuto dalle nuove generazioni. Volonté è stato un personaggio anche molto scomodo, con una carriera di attore cinematografico davvero rigorosa: i suoi film sono fortemente politici e vengono trasmessi solo a notte fonda, e anche per questo andava riscoperto Gian Maria Volonté, secondo me. -22-


e i miei genitori erano veri appassionati di cinema, ci andavano quasi tutte le sere e mi portavano con loro, anche perché allora non c’erano le babysitter. Mia madre mi racconta che, a poco più di un anno, iniziando a parlare citavo le scene dei film… Sono letteralmente cresciuto dentro ad un cinema, vedendo lo stesso film anche due o tre volte, e il primo film che ho capito è stato Cristo fra i muratori perché mi colpì tantissimo. Anni dopo, grazie al mio lavoro, sono andato a ricercare quelle immagini.

«Che cos'è alla fine il cinema? Semplicemente... Luce!» Quindi per la sua idea di Festival il lato formativo è fondamentale?

Il racconto del mestiere dell’attore è parte del lavoro del Festival ma ci sono anche le lezioni di cinema e i laboratori che si occupano del dietro le quinte: la critica, la scenografia, i costumi, i direttori della fotografia… Oltre a Orazio Costa come riferimento, nel 201 2 abbiamo dedicato un grande tributo a Carmelo Bene, un mito dimenticato. Finalmente molti giovani hanno potuto vedere i filmati televisivi relativi a Carmelo Bene mai più andati in onda: il nostro è un lavoro anche di ricerca e di raccolta di materiali tramite le Teche della RAI o gli archivi della Cineteca Nazionale… Spesso le fonti sono totalmente inedite.

Se dovesse dare una sua definizione di che cosa è il cinema? Per rispondere devo raccontare un aneddoto legato alla luce del Sud, a cui io sono profondamente legato… Una volta ho portato il regista Michelangelo Antonioni in Puglia, a conoscere i posti più segreti di questa terra, le meraviglie della natura che sono piene di luce. Siamo arrivati un giorno su una stranissima collina fitta di olivi, a picco sul mare. Il cielo era limpidissimo e Antonioni ha fatto il segno di girare: al di là dell’inquadratura, era la luce che voleva catturare. Per Antonioni, ma così anche per Fellini, che cos’è alla fine il cinema? Semplicemente… Luce!

La sua passione per il cinema da dove nasce? Assomiglia molto alla storia del bambino di Nuovo Cinema Paradiso, il film di Tornatore. Mio nonno ha creato il cinema Orfeo a Mola di Bari

* Direttore Artistico del Bif&st, Bari International Film Festival

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La parola al pubblico LA CASA GIALLA

A te, Adorato Gelso A te, Sepolta Mimosa A te, Ombroso Glicine Profumato A te, Ortensia Regina del Muretto A te, Novella Rosa Principessa delle Siepi A voi, Rondini Gioiose A voi, Grilli A voi, Cicale A voi, Api operose A voi, Lucciole Ballerine Il mio cuore è giallo/arancio come le pareti di questa Casa; Il mio cuore è verde come il prato che profuma e rallegra questa Casa; Il mio cuore è azzurro come il cielo che abbraccia ed illumina questa Casa; Il mio cuore è trasparente come l’acqua che scorre vicino a questa Casa; Il mio cuore è rosso, come rosso e acceso è il cuore di ogni persona che abita questa Casa.. e dolce e forte e pieno d’amore.. come i cuori che attraversano e abitano e fanno vivere ogni giorno questa Casa. La mia Casa, la nostra Casa, per sempre, da sempre, Amata. A.


¡ VIVA FRIDA !

Del año más maligno, nace el día más bonito -25-


Helga Prignitz-Poda * A PROPOSITO DI FRIDA

H

ow the idea of this great and important exhibition of Frida Kahlo was born?

I was asked to create this exhibition after the big one that I had organized in Vienna some time ago. They wanted something similar and they asked me some suggestions to create a new exhibition about Frida. My project was composed of different visions; the idea of the roman exhibition was to confront Frida Kahlo with the avanguardes, with the artistic movements of her time. But they were interested in the enterity of Frida's world and that’s why we made two exhibitions, one at Scuderie del Quirinale in Rome and one at Palazzo Ducale in Genova: you can’t show everything in one exhibition, it’s too much, it’s too complex. Indeed, I think it’s important to be very efficient and exhaustive.

The exhibitions in Rome and in Genova are totally different…

Yes, they are very different because in Genova we introduce Frida’s private life, her relationship with Diego Rivera and the impact of his works and their marriage on her art. I’m interested in explaining why she loved this man so much and where the fascination for Rivera’s works came from (I think she was attracted partially because he was a very important painter.). We exhibit big paintings and mural productions, to show their importance and influence at the time. In Rome the show Frida Kahlo underlines Frida’s importance not only for her times, but up to now. I think we really reached some new ideas about her with this exhibition.

Where your love for Frida Kahlo character come from? Which is the origin?

It started a long time ago. I was a young girl when I started to learn Mexican art and I had studied American Science and Artistry and I decided to make my degree in Mexican Art in 1 970. I had to study in Mexico some years and I began to make translations; I found the first little biography of Frida and I translated it into German. It was not a big biography like the next one that I translated in 1 983; I found interesting the story of her life and I wanted to know what this woman

C

om’è nata l’idea di questa grande mostra su Frida Kahlo?

Mi hanno chiesto di creare una mostra dopo aver visto quella che avevo organizzato a Vienna in passato. C’era l’intenzione di qualcosa di altrettanto grande e mi hanno chiesto dei suggerimenti. Il mio progetto si componeva di differenti visioni. L’idea della mostra a Roma era di confrontare Frida con le avanguardie artistiche del suo tempo. Poiché vi era l’interesse sulla figura di Frida nel suo complesso sono state create due differenti mostre: una a Roma alle Scuderie del Quirinale, in seguito un’altra al Palazzo Ducale di Genova. Non era possibile mostrare tutto in una sola volta, era troppo complesso; io stessa penso che sia importante spiegare Frida nella sua interezza.

A Roma e Genova troviamo due mostre differenti? Sì, sono molto differenti perché a Genova si parla della vita privata dell’artista messicana, della sua relazione con Diego Rivera e dell’impatto del loro matrimonio nell’arte di Frida. Voglio spiegare perché lei ha amato quest’uomo e da dove viene la sua fascinazione per le opere d’arte di Rivera (penso che Frida fosse innamorata di lui anche perché

«Frida Kahlo non è soltanto un'eroina della tristezza e del dolore, voglio far capire al pubblico quanto sia interessante la sua arte e come sia complesso metterla in mostra»


painted because, at that time, her work was pretty unknown; so I decided to make Kahlo's catalogue raisonné to find all the works that she had done. How did I start? I started searching for her works. I found her fascinating. Nevertheless for long time I was distant from her: I stopped studying Frida ‘cause I was busy with my own family and children. But in the end I started to think that all these paintings were very mysterious to me and I wanted to understand them. So this was the next step: first collecting all her works, later starting understanding her paintings.

What’s the message and meaning of this Italian exhibition you want communicate to the public and international visitors?

As I find Frida works so fascinating, I don’t get tired working on her. Frida Kahlo became very popular in 1 993 thanks to the bio-movie with Salma Hayek; now I’m trying to give a reason for this popularity by displaying artworks, because the movie shows her life story mainly, not her art. The biography fascinated the people first. I want to transport this idea to the public: Frida Kahlo in not only a hero of sadness, dolor, pain; I want to

influenzata dalla sua grande fama come uomo e artista). Sono messi in mostra i grandi dipinti di Rivera e parte della produzione murale, per comunicare l’importanza che avevano a quel tempo. A Roma la mostra sottolinea l’importanza di Frida Kahlo per la sua epoca e la risonanza fino a oggi. Credo che questa mostra offra un punto di vista diverso su di lei.

Da dove ha origine il suo amore per la figura di Frida Kahlo? È iniziato tanto tempo fa, nel 1 970 quando ero una giovane studentessa, decisa a laurearsi in arte messicana. Ho iniziato a studiare in Messico per alcuni anni facendo traduzioni; ho trovato una biografia di Frida che ho tradotto in tedesco, molto più breve rispetto a quella che ho poi tradotto nel 1 983. Mi sono subito appassionata alla vita di Frida volendo sapere di più sui suoi dipinti che al tempo erano quasi sconosciuti: un catalogo ragionato era il modo migliore per raccogliere tutta la sua produzione artistica, che ho trovato incredibilmente interessante. Nonostante questo per alcuni anni ho interrotto il mio studio su Frida perché impegnata con la mia famiglia e i figli. I dipinti di Frida per me erano molto misteriosi e in seguito ho voluto capirli, così è iniziata una nuova fase di studio, raccolta e analisi di tutta le sue opere.

Qual è il significato che le mostre italiane vogliono comunicare al pubblico? Non mi stanco mai di lavorare su Frida; lei è diventata veramente nota al grande pubblico nel 1 993 grazie al film biografico con Salma Hayek. Il mio intento con queste due mostre è riuscire a dare una spiegazione alla sua popolarità, nata dall’attrazione verso la sua figura. Il film mostra principalmente la sua vita, non la sua arte. Frida Kahlo non è soltanto un’eroina della tristezza e del dolore, voglio far capire al pubblico quanto sia interessante la sua arte e come sia complesso metterla in mostra. Parte di questo arriva alle persone: il fatto che i suoi dipinti siano così pieni di significati perché la sua arte è intrecciata con i cambiamenti storico politici del mondo contemporaneo, frutto del punto di vista di Frida sul mondo.

È mai stata nella casa di Frida in Messico?

Sì, spesso, ma non propriamente per vedere solo la casa. Ci sono andata come ricercatrice perché hanno un grande archivio messo gentilmente a disposizione dei miei studi. Frida non è una religione per me; ho studiato e analizzato il suo lavoro, le mostre sono un risultato di ciò che ho compreso.


make people understand how interesting her artistic production is and how difficult is to make an exhibition on her. I think that something of it reached the people; her paintings are very complex and always full of meanings, because her art is fused with the history of her contemporary world, social changes and her knowledge ofit.

Have you never been to Frida house in Mexico?

Yes, quiet a lot (but not to see the house only ) I go there because they have a big archive; they were so kind and let me work at the archive and study the letters. I went there as a researcher; Frida is not a religion to me; I study and analyze and the exhibitions are the results to explain people what I understood.

Frida’s house La Casa Azul is considered a pilgrimage place to find out Mexican roots of the artist, a contemporary icon. People join this magical place to be connect with Frida’s memories. What were your personal feelings about the house and what was Frida’s feeling about her home? Many people like to come and want to get in touch with her, with her life and her story. For me also is always a nice place to go because I like to see the atmosphere, non only the house but the environment. It’s a very nice area, the southern of Mexico; it’s very pleasant to go there, and see how was her life in Mexico city at that time. We can imagine how she lived. For me, I guess for everybody who comes there, the house is important because makes you know how create all environment for yourself.

Frida’s words “mi pintura lleva con ella el mensaje del dolor” mean that her artistic expression was a needing to express herself, in a deep and very personal way, or also to explain a message to people? I think she knew that her paintings would, one day, reach the public. To me, her way of feeling pain, the story of a truly great woman who lived to the full, makes her so popular today. We can paraphrase Frida’s attitude of transforming dramatic events ofher life with the maxim “seize the day” (in latin carpe diem ); when the situation is becoming very horrible you just have to enjoy life more and more, cause you live once. The vision of death is essential for her works we can look at her unbearable suffering and feel the triumph. that makes it so intense for us. Nowadays the world is nearly sick, it’s all going down, people feel so bad with the environment, we extremely need the feeling of living on the volcano, to change strongly that’s like what she has painted.

La casa di Frida La Casa Azul viene da sempre considerata un luogo di pellegrinaggio dove trovare le radici messicane dell’artista divenuta un’icona contemporanea. Le persone raggiungono questo luogo con la speranza di entrare in contatto con Frida. Qual è stata la sua sensazione nell’entrare in contatto con questo luogo? E come Frida considerava questa casa? Molte persone arrivano a La Casa Azul con l’intenzione di entrare in contatto con Frida, la sua vita, la sua storia. L’atmosfera e quello che la circonda rendono la casa sempre un posto piacevole in cui tornare. Il Sud del Messico è veramente una bella zona ed è interessante andare lì e vedere come poteva essere la vita in Messico al tempo di Frida, immaginarci come viveva. Lei, insieme a Diego Rivera, ha adottato uno stile messicano partendo dalle origini colombiane. La mia speranza è che da questa visita si possa trarre ispirazione per una propria originale idea di casa.

“Mi pintura lleva con ella el mensaje del dolor”: con questa frase Frida ci mostra come l’arte fosse l’espressione di se stessa. Questa rappresentava una sua intima necessità oppure era la volontà di lanciare un messaggio al pubblico? Credo che Frida sapesse che, un giorno, i sui


Do you think that there is someone as important, strong and attractive as Frida nowadays (in artistic, political or moral way)?

This is the most complicated question, I think. It’s not so easy. I think every era has its heroes and every peer group, every clan has its own hero. Nowadays, again, it’s difficult to pick out one personality but I think about all these living figures like Charlie Chaplin or Einstein, for example, or others polititians. Frida is more personal, she leads many people deep inside her world, you can’t even explain why it happens so much; she gives people hope, her baroque feeling of carpe diem offers a way to work all problems and loneliness out. I don’t see anyother artist loved like her, for example many painters, that are very successfull at the moment, don’t have this popularity that Frida has. People are not only interested in art but they want to be captured by personality.

«Possiamo riassumere il suo modo di vivere con l'espressione carpe diem. Quando la vita diventa veramente tragica, è lì che inizi ad apprezzarla» dipinti avrebbero raggiunto il pubblico. Secondo me il suo modo di affrontare le difficoltà e il dolore, la sua esistenza di donna vissuta pienamente, sono il motivo del suo successo. Possiamo riassumere il suo modo di vivere con l’espressione carpe diem. Quando gli eventi della vita diventano veramente tragici, è lì che inizi ad apprezzarla. In questo senso la visione della morte è essenziale per i suoi lavori. La sua sofferenza e il modo in cui lei riusciva a superarla rendono Frida così intensa. Adesso che il mondo è malato, come impazzito, e gli esseri umani iniziano a preoccuparsi per ciò che li circonda, proprio ora che siamo al limite e sentiamo di vivere come se fossimo su un vulcano, soltanto adesso possiamo capire veramente quello che lei ha dipinto.

Riesce ad individuare qualcuno di altrettanto affascinante, carismatico e forte come Frida, nel mondo di oggi? Questa penso sia la domanda più difficile. Ogni periodo storico, ogni gruppo, ha un proprio eroe. Diventa complicato scegliere un individuo solo. Penso però a tutte quelle figure ancora vive nella memoria come Charlie Chaplin, Einstein o certi politici, per esempio. Frida ha una dimensione più personale, riesce a trasportarci nel proprio mondo interiore. Difficile spiegare come ci riesca. Lei dà speranza, proprio per questa idea di “cogliere l’attimo” che offre un modo per vincere la solitudine e i problemi. Anche altri pittori contemporanei, pur famosissimi oggi, non sono amati e popolari quanto Frida. La gente non è interessata solo all’arte ma vuole essere catturata anche dalla personalità dell’artista.

* Curatrice della mostra Frida Kahlo in corso alle Scuderie del Quirinale di Roma e della mostra Frida Kahlo e Diego Rivera al Palazzo Ducale di Genova dal 20 settembre.


Pino Cacucci ANDATA E RITORNO PER IL MESSICO

D

ed attuale, quasi un’icona per il pubblico contemporaneo?

a dove nasce questa sua passione per la figura di Frida Kahlo?

Sicuramente con l’innamoramento per il Messico. La conoscenza di questo Paese, scoperto con un viaggio più di trent’anni fa, va di pari passo con la conoscenza di Frida perché lì lei è ovunque. Sono partito sulle tracce di Tina Modotti – in Italia non si trovavano notizie all’epoca – e sono arrivato a Frida perché loro per un periodo furono amiche. Studiando veniva fuori questo stupendo affresco di Città del Messico nel periodo post rivoluzionario: una straordinaria fase creativa in tutti campi, dalle arti alla questione sociale, e le donne furono protagoniste assolute in quell’epoca. Ho scritto libri su Tina Modotti, su Nahui Olin, altra interprete di quel periodo, e con ¡Viva la Vida! ho dedicato un libro a Frida Kahlo, volendo concludere idealmente una sorta di trilogia: tre figure femminili che in quegli anni brillarono intensamente. Ho provato a dare voce a Frida facendole raccontare attraverso un monologo in prima persona la sua emozione: era una donna capace di una grandissima dolcezza e tenerezza, ma aveva anche molta rabbia dentro di sé. Il titolo ¡Viva la Vida! che ha scelto per il suo

Frida come personaggio è universale, proprio per il senso di solitudine dell’individuo davanti alle sofferenze che comunica la sua storia. Credo che oggi la sua figura sia attuale più che mai, in un’epoca come la nostra dove l’individuo è spesso solo con se stesso davanti ai fatti della vita. Un tempo si pensava in maniera più comunitaria, i problemi diventavano sociali, e ora invece domina l’individualismo. Sono sicuro che anche oggi esistano donne e uomini che hanno lo stesso coraggio, la forza di volontà e la creatività dimostrate da Frida, ma temo che non sia permesso loro di emergere. Stiamo vivendo in un’epoca tra le più scellerate che ci siano mai state nella storia dell’umanità, proprio dal punto di vista delle passioni e dei valori che sono stati lasciati appassire o repressi. La Città del Messico degli anni Venti esprimeva un mondo postrivoluzionario dove tutto sembrava possibile. Oggi invece tutto sembra impossibile!

Quali caratteristiche deve avere un personaggio per essere raccontato ed entrare a far parte delle sue storie?

Uno dei principali motivi per cui mi viene voglia di scrivere è l’attrazione per i dimenticati, per gli sconfitti che però non si danno mai per vinti: mi piace raccontare le vicende di chi ha combattuto e perso la sua guerra ma senza arrendersi mai. Individui che hanno perso tutto tranne la dignità, che magari la Storia ha di-

libro, è anche un messaggio verso il pubblico?

L’espressione ¡Viva la vida! è stata usata in mille occasioni, Frida l’ha scritta nei suoi dipinti e, in qualche modo, riassume l’essenza di tutta la sua esistenza. Nonostante le grandi sofferenze e le tante traversie che dovette affrontare, aveva una prorompente voglia di vivere. ¡Viva la vida! sembra ricordare l’urlo furioso di attaccamento alla vita che Frida lanciò in quell’incidente terribile che spezzò la sua vita e la sua spina dorsale in tre punti. Contro la medicina dell’epoca, contro ogni previsione, Frida reagì ai rovesci del destino: ¡Viva la vida! è stato il motto di ogni suo giorno, anche di quelli più bui, e sono parole che arrivano con forza a tutti noi.

«Tutti i miei libri parlano di sconfitti che non hanno mai abbassato la testa, proprio come Frida: una grande ribelle»

Perché la figura di Frida Kahlo è così seguita

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interrompere il gioco, ho aspettato a passare con la macchina…

menticato o ricordato in maniera superficiale. Tutti i miei libri parlano di sconfitti che non hanno mai abbassato la testa, proprio come Frida: una grande ribelle.

In un suo racconto parla del rapporto forse un po’ schizofrenico che ha con la casa…

Si intitola La casa, una casa, tornare per poi ripartire e si trova adesso nella raccolta Vagabondaggi. La casa per me è una contraddizione: continuo a tornarci ma allo stesso tempo mi sento un nomade, sempre sul punto di ripartire. Racconto il momento del ritorno, quando poso i bagagli e ritrovo la casa, come una vecchia amica che però sono disposto a tradire, un’amica a cui voglio bene ma che non deve illudersi perché la lascerò e ripartirò. Del resto il momento del mutuo per me fu uno shock, ci ho messo anni ad accettare l’idea di avere una base fissa che mi costasse anche dei sacrifici… Adesso mi piacerebbe avere anche una casa in Messico e di fatto alla fine ne vivo tante, tutte quelle dei miei amici.

Oltre ai libri legati al Sud America ha scritto anche di calcio: in San Isidro Futból, per esempio, questo gioco così popolare è affrontato in chiave ironica… Il calcio è una forma di spettacolo, anche se purtroppo sappiamo tutti che ha perso qualsiasi forma di genuinità, specie ad alto livello. Ogni volta che sono tentato di parlare malissimo del mondo del calcio affiora il ricordo di cari amici, scrittori estimati come Osvaldo Soriano o Eduardo Galeano, e penso a come loro siano riusciti a scrivere di calcio in maniera ironica, tirando fuori quell’essenza che vorremmo in tanti che ancora il calcio avesse: uno sport popolare, nel senso più positivo del termine. Con la scrittura mi sono divertito a prendere in giro quel calcio che forse non esiste quasi più e che io vedo giocare a volte in certi piccoli paesi del Messico, lontani dal turismo di massa. In questi casi basta poco: a volte non c’è neanche un pallone vero ma è la forma più genuina di questo sport, con la voglia di giocare e di stare insieme. Recentemente mi è capitato di fermarmi su una stradina che era diventata un improvvisato campo di calcio: fino a che non è finita l’azione, per non

Il suo ultimo libro parla sempre del Messico… Il titolo del libro è Mahahual, il nome di un paesino con un migliaio di abitanti, dove finisce il Messico. È l’ultimo avamposto abitato e stando lì ho trovato un sacco di storie da raccontare: è una zona fitta di leggende, di corsari e piratesse… Come sempre, quando vado a scavare nella storia del Messico, emergono figure di donne inestimabili: Elia,

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una ribelle in mezzo allo Yucatan conservatore che ha il coraggio, per esempio, di fondare delle scuole per alfabetizzare le donne indigene. Sono gli stessi anni di Frida Kahlo ma era ancora più arduo affermare le proprie idee e la propria libertà in questo angolo di mondo.

«Racconto il momento del ritorno, quando poso i bagagli e ritrovo la casa, come una vecchia amica che però sono disposto a tradire, un'amica a cui voglio bene ma che non deve illudersi perchè la lascerò e ripartirò»

Dopo tutti questi viaggi, che cosa che ha trovato in Messico che l’Italia non ha?

In Messico si trova ancora quello che l’Italia forse aveva una volta: una certa forma di comunicazione tra gli esseri umani più istintiva e meno ragionata, la capacità di ritagliarsi pezzi di esistenza quotidiana dedicati alla cura e all’attenzione per le persone. Sono cose che fanno parte delle nostre radici mediterranee e che non riusciamo più a coltivare.

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Encontrando Gabriel García Márquez [ . . . ] Florentino Ariza lo ascoltò senza battere ciglio. Poi guardò dalle finestre il cerchio completo del quadrante della rosa dei venti, l’ orizzonte nitido, il cielo di dicembre senza una nuvola, le acque navigabili per sempre, e disse: «Andiamo a dritta, a dritta, a dritta, di nuovo verso La Dorada. » Fermina Daza rabbrividì, perché riconobbe l’ antica voce illuminata dalla grazia dello Spirito Santo, e guardò il capitano: era lui il destino. Ma il capitano non la vide, perché era annientato dal tremendo potere di ispirazione di Florentino Ariza. «Parla sul serio?» gli domandò. «Da quando sono nato» disse Florentino Ariza «non ho detto una sola cosa che non sia sul serio. » Il capitano guardò Fermina Daza e vide sulle sue ciglia i primi bagliori di una brina invernale. Poi guardò Florentino Ariza, il suo dominio invincibile, il suo amore impavido, e lo turbò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti. «E fino a quando crede che possiamo proseguire con questo andirivieni del cazzo?» gli domandò. Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatré anni, sette mesi e undici giorn i con le loro notti.

«Tutta la vita» disse. Tratto da L'amore ai tempi del colera

Fine.


Mario Vargas Llosa QUEL LUOGO MISTERIOSO DOVE ABITA LA PAROLA

C

Y

redo che esista una differenza fondamentale tra il linguaggio con cui scriviamo un articolo o un saggio, per esempio politico, e il linguaggio con cui realizziamo un romanzo. Nel primo caso la scrittura è fondamentalmente uno strumento per esprimere delle idee, affermando alcune verità o denunciando falsità: quello che si scrive deve necessariamente trovare un riscontro con la realtà. Invece in un romanzo non è il rapporto con la realtà che determina la verità o la menzogna di quello che diciamo, direi che è il linguaggio stesso a stabilirlo. Quando, per esempio, leggiamo libri come La montagna magica di Thomas Mann o La metamorfosi di Kafka, il racconto ci appare come vero perché il linguaggio ha un potere di persuasione che ci convince di questa verità. Le parole ci esaltano

o creo que hay una diferencia fundamental entre el lenguaje de escribir un artículo o un ensayo, por ejemplo, político y el lenguaje con que se cuenta una novela. En el primer caso, la escritura es básicamente un istrumento para expresar ideas, diciendo algo de verdad o falsedad: lo que usted escribe debe encontrar necesariamente una comparación con la realidad. Pero en una novela no es la relación con la realidad que determina la verdad o falsedad de lo que dices, yo diría que es el lenguaje mismo a determinarlo. Cuando, por ejemplo, leemos libros como La montaña mágica de Thomas Mann o La metamorfosis de Kafka, la historia se nos presenta como verdadera porque el lenguaje tiene un poder de persuasión que nos convence de esta verdad. Las palabras nos exaltan o entristecen y es la forma en que se escribe la historia a desencadenar nuestras reacciones emocionales e intelectuales: el lenguaje literario se convierte en un instrumento y un fin al mismo tiempo. Cuando yo era joven - durante los años del Existencialismo de Sartre o Camus – la literatura tuvo que ser cometida, o mejor engagé, pero ¿qué significa eso realmente? Esto se explica por Sartre en su ensayo en el que se confirma que el autor debe escribir teniendo en cuenta el momento en el que vive y relacionarse con los diversos problemas que existen, sólo asì la literatura se convierte en una manera de entender mejor el mundo que nos rodea: un mundo confuso, laberíntico y misterioso. A través de la literatura podemos entonces movilizarnos cívicamente, política y moralmente, y afectar a la sociedad. Para Sartre "las palabras son actos" y es a través de la palabra que el escritor puede afectar a la historia y cambiar el mundo. Por ello, el escritor tiene una enorme responsabilidad y no puede escapar, ni siquiera tiene que tomar conciencia y actuar en consecuencia. Hoy en día a los jóvenes este argumento parece absurdo: nadie piensa que con la literatura se puede cambiar el mundo. Pero yo creo que la literatura

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Incontro di Leggere per non dimenticare alla Biblioteca delle Oblate con Mario Vargas Llosa e Claudio Magris.

o intristiscono ed è il modo in cui è scritta la storia a scatenare le nostre reazioni emotive ed intellettuali: il linguaggio letterario diventa così un strumento e un fine al tempo stesso.

es capaz de transformar las cosas, aunque no de una manera espectacular o fulminante como se creía hace años, más bien llevando al lector en un viaje íntimo, que le hace descubrir su propia sensibilidad. La literatura debe mostrar la imperfección del mundo, el hecho de que la sociedad en que vivimos ya no es capaz de materializar nuestros sueños. La literatura siempre deja una huella en el lector y es en esta profundidad, en esta íntima emoción, que se puede encontrar la fuerza para influir en la realidad.

Quando ero giovane - durante gli anni dell’Esistenzialismo di Sartre o Camus – la letteratura doveva essere impegnata, o meglio engagé, ma questo che cosa significava realmente? Lo ha spiegato Sartre in un suo saggio dove si conferma che l’autore deve scrivere tenendo ben presente il tempo in cui vive e riferendosi alle varie problematiche esistenti, solo così la letteratura diventa un modo di comprendere meglio il mondo che ci circonda: un mondo confuso, labirintico e misterioso. Attraverso la letteratura possiamo allora mobilitarci civicamente, politicamente e moralmente e incidere sulla società. Per Sartre “le parole sono azioni” ed è proprio attraverso la parola che lo scrittore può influire sulla storia e cambiare il mondo. Lo scrittore ha dunque una responsabilità enorme e non può sottrarsi, anzi deve prenderne coscienza ed agire di conseguenza. Oggi ai giovani questa tesi sembra un assurdo: nessuno pensa che con la letteratura si possa cambiare il mondo. E invece io ci credo: la letteratura è in grado di trasformare le cose, anche se non in una maniera spettacolare o fulminante come si credeva anni fa, piuttosto conducendo il lettore in un viaggio intimo, che lo induca a scoprire la propria sensibilità. La letteratura deve mostrarci l’imperfezione del mondo, il fatto che la società in cui viviamo

Flaubert creía que había una palabra correcta, le mot juste, para expresar cualquier idea, y que el escritor tuvo la tarea de encontrarla. Y creo que todas las historias necesitan su propio lenguaje: la mayor dificultad de un autor, cuando él comienza a escribir su libro, es para hallar la palabra... El lector debe estar convencido de la verdad de lo que es la lectura. Una condición que siempre está cambiando para el escritor, en el sentido de lo que está escribiendo en ese preciso momento: mis primeros libros, como La casa verde, tienen un estilo totalmente diferente de un libro como Pantaleón y las visitadoras. La casa verde es el hilo metafórico utilizado para atar el destino de la vida de las personas, una historia casi mítica, mientras que las aventuras de las prostitutas y Capitán Pantaleón en la selva amazónica son imposibles de contar con un lenguaje serio: para ser creíble la historia exigía un lenguaje humorístico, un humor bastante vulgar, que fue un descubrimiento para mí.

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non riesca più a materializzare i nostri sogni. Alla fine la letteratura lascia sempre un’impronta sul lettore ed è in questa profondità, in questa emozione intima, che si può trovare la forza per influire sulla realtà.

La maravilla de la literatura es que expresa la experiencia humana en su totalidad, resumiendo en sí mismo todas las contradicciones y sentimientos que constituyen la vida. Esto se debe a que el novelista, en el momento de la escritura, no sólo sigue la racionalidad pura, sino que emerge, casi de forma automática, el instinto. La gran obra literaria se hace con pasión, con la profundidad y la superficialidad, y es hecha de la intuición, de esos fantasmas subterráneas que el escritor descubre, contra su voluntad, con el acto de escribir. La construcción de una novela es la verdadera libertad para el escritor, porque es la palabra que se reúna con su propio ser interior. Por el contrario, en nuestra vida diaria estamos nunca completamente libre, porque a menudo recitamos una parte que no corresponde exactamente a lo que realmente queremos hacer o queremos decir. Nos sentimos, y no siempre de manera consciente, la necesidad de representar un papel para comportarnos de la manera correcta. Por eso, creo que en cada hombre y en cada mujer hay un actor nascondido.

Flaubert credeva che esistesse una parola giusta, le mot juste, per esprimere ogni idea e che lo scrittore avesse il compito di trovarla. E anch’io penso che tutte le storie necessitino di un proprio linguaggio: la difficoltà più grande di un autore, al momento di cominciare a scrivere il suo libro, è di incontrare la parola… Il lettore deve essere persuaso della verità di quello che sta leggendo. Una condizione che cambia sempre per lo scrittore, in direzione di quello che si sta scrivendo in quel preciso momento: i miei primi libri, come La casa verde, hanno uno stile totalmente differente da un libro come Pantaleón y las visitadoras. La casa verde rappresenta il filo che il destino usa per legare le vite delle persone, una storia quasi mitica, mentre le avventure delle prostitute e del Capitan Pantaleón nella selva amazzonica sono impossibili da raccontare con un linguaggio serio: per essere credibile la storia esigeva un carattere umoristico, una comicità anche volgare, che è stata una scoperta per me. La meraviglia della letteratura è che esprime l’esperienza umana nella sua totalità, riassumendo in sé stessa tutte le contraddizioni e i sentimenti che compongono la vita. E questo perché il romanziere, al momento di scrivere, non segue soltanto la pura razionalità ma affiora, in maniera quasi automatica, l’istinto. La grande opera letteraria è fatta di passioni, di profondità e superficialità, di intuizione, di quei fantasmi sotterranei che lo scrittore scopre, suo malgrado, con l’atto della scrittura. La costruzione di un romanzo vero rappresenta la libertà per chi scrive perché è con la parola che si incontra la propria interiorità. Al contrario, nella nostra vita quotidiana noi non siamo mai completamente liberi perché spesso recitiamo una parte, che non corrisponde esattamente a quello che davvero vogliamo fare o vogliamo dire. Avvertiamo, e non sempre in maniera cosciente, la necessità di rappresentare un ruolo per comportarci nel modo giusto. Ecco perché credo che in ogni uomo e in ogni donna ci sia un attore segreto. Mario Vargas Llosa è stato insignito della Laurea Honoris Causa in Lingue e Letterature Europee e Americane dall'Università degli Studi di Firenze.

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. . . a l o g r e P a s a c D a lla

La facciata del Teatro della Pergola, in via della Pergola 1 2/32

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Particolare della porta riservata all'ingresso artisti

L'uscita del teatro, vista dalla parte degli attori

Le scale che vanno dai camerini al palcoscenico


Le assi del palcoscenico e i palchi illuminati

Le corde usate dai macchinisti per muovere le scene

Una storica scarpetta danzante abbandonata dietro le quinte


Riccardo Ventrella

GOLDONI CONVENTO TRA I CONVENTI

Il concetto di un edificio teatrale che non presupponga una soluzione di continuità con la rimanente parte di costruzioni affacciate su una via o su una piazza è tipico di città che non hanno abbastanza spazio per potersi permettere troppo isolamento. La Firenze della massima espansione teatrale, quella tra la seconda metà del Seicento e la prima parte dell’Ottocento per intendersi, è sicuramente in questo numero: non c’era troppo posto in uno spazio urbano ancora limitato alla cerchia di mura per immaginare un qualcosa di simile alla Scala, se non andando in luoghi remoti anche se intra moenia, come fino all’Unità d’Italia ad esempio rimase la zona di Piazza D’A zeglio. Casa tra le case era il vecchio Alfieri demolito nello sventramento degli anni Trenta, casa tra le case il Nuovo o della Pallacorda immerso nell’odierna via Bufalini, casa tra le case il Teatro di Borgognissanti dove nacque Stenterello. Fa eccezione il Pagliano, oggi Verdi, per un motivo semplice: fu edificato sulle macerie del carcere delle Stinche, una sorta di piccola “isola” (ce lo dice il toponimo stradale ancora oggi esistente) circondata da fossati a due passi da S.Croce. Rispetta la regola appieno il Goldoni per un motivo altrettanto semplice: fu ricavato da un edificio religioso di notevoli dimensioni, servito alla triste Annalena vedova inconsolabile di Baldaccio d’Anghiari. Soppresso che fu dalle volontà napoleoniche il convento, passò nelle mani di un impresario, Luigi Gargani, che aveva in mente di realizzare in quel luogo un sistema d’offerta di spettacoli molto ambizioso, con un teatro al chiuso, un Salone delle Feste e un’arena all’aperto. Visto da via Santa Maria il prospetto del Goldoni si presenta totalmente circondato da altre costruzioni, a loro volta frutto dell’adattamento di quel grande convento delle terziarie domenicane. Lo stesso avviene con l’ormai chiuso cinema, affacciato su via dei Serragli e amorevolmente abbracciato dalla Galleria Pio Fedi, pezzo di un altro convento più antico di quello di Annalena nella cui chiesa lo scultore omonimo tenne studio dal 1 842. Ecco, si potrebbe dire di questo teatro convento tra i conventi: perché in fondo a teatro si viene cum , si conviene, ci si riunisce coi nostri simili. Uomini tra gli uomini.


I MESTIERI DEL TEATRO

Giulia Carlaccini LA RAGAZZA CON LA VALIGIA

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om’è iniziato il suo mestiere di amministratrice di compagnia?

insieme con il gruppo un imprevisto legato alla messinscena dello spettacolo… Sono incontri più forti di qualsiasi altro incontro si possa fare nella vita di tutti i giorni. Tutto è molto rapido.

Ho iniziato per caso, pur venendo da una famiglia di teatranti. Mio padre fa l’attore e mi racconta sempre di quando ero piccola, quando mi cullava nei camerini durante le prove. Crescendo ho scoperto che non c’è solo il lato artistico ma esiste anche il mondo dell’organizzazione legato al teatro, e me ne sono innamorata. Ho avuto la fortuna di incontrare Marco Balsamo del Nuovo Teatro e sono stata formata come amministratrice di compagnia, prima per un progetto piccolo, e poi non mi sono più fermata. Mi rendo conto di quanto sono cresciuta, forse in maniera anche un po’ folle ed estremamente intensa. L’amministratrice di compagnia, per definizione, è il tramite tra la produzione e gli artisti che stanno in tournée: dalla sua figura passano tutte le informazioni, è il punto di riferimento logistico e organizzativo di questa realtà viaggiante. Alla fine comincia una specie di vita parallela durante l’allestimento, fino ad arrivare al debutto dello spettacolo e alla sua tournée.

Durante le ultime stagioni ha seguito Stefano Accorsi e Marco Baliani in tournée, avendo modo di seguire il progetto dei loro spettacoli. Ognuno di noi fa parte di un tassello e sono felice di avere la possibilità di continuare a seguire il loro progetto, ci credo molto. Anche se sono una semplice amministratrice di compagnia, il mio lavoro è fatto per quello spettacolo teatrale e diventa entusiasmante assistere alla realizzazione. Vedi le cose che avvengono in scena e ti ricordi perché erano state pensate così, scopri il riscontro del pubblico… Io alla prima di ogni spettacolo sono emozionatissima: non so cosa possano provare gli attori sul palcoscenico, io muoio già stando dietro le quinte!

L’amministratrice di compagnia è anche il filtro tra gli artisti, spesso molto noti e seguiti dal grande pubblico, e l’esterno.

Di fatto l’esperienza girovaga della vita di tournée ti porta ad avere casa in tutto il mondo…

La fiducia che si crea con gli artisti è fondamentale. Sono personaggi popolari e molto seguiti. Stefano Accorsi, per esempio, che è uno dei più amati, dice sempre di dovere tutto al

La casa si forma con il gruppo che si crea: una sorta di famiglia in movimento, di solito sempre unita. Sono abituata a convivere con delle compagnie dove ci sono ottimi rapporti perché alla base c’è un rapporto molto familiare e umano nella produzione stessa in cui lavoro. I rapporti in tournée si vivono all’eccesso perché tutto è intenso. Nascono delle forme di parentele, anche molto forti, e non sai neanche spiegarti bene il motivo perché alla fine queste persone le conosci soltanto da pochi mesi. Si sta insieme veramente ventiquattr’ore su ventiquattro: la mattina appena ti svegli incontri gli altri che fanno parte della compagnia, poi si viaggia per tanti chilometri e si arriva in un teatro nuovo, magari affrontando

«I rapporti in tournée si vivono all'eccesso perché tutto è intenso. La casa si forma con il gruppo che si crea: una sorta di famiglia in movimento, sempre unita» -41 -


Giulia Carlaccini con Stefano Accorsi, in una pausa delle prove di Giocando con Orlando

pubblico e passa tanto tempo ad incontrare la gente. In realtà quando abbiamo i nostri momenti di chiacchiera, aspettando che inizi lo spettacolo, per me parlare con un personaggio come lui equivale a parlare con te. Non penso alla sua popolarità.

stare fissa a casa, non ci sono più abituata. Mi piace muovermi con la valigia e girare i teatri.

Ma le piace tornare a casa?

Sì, è bellissimo tornare a casa, anche se lavorando tanto fuori diventa difficile portare avanti dei rapporti. In questo periodo sono tornata a casa per qualche tempo e in realtà già non riesco a starci… Partirò presto per una nuova tournée. Del resto il mestiere del teatro è il mio sogno realizzato, quello che volevo fare quando ero piccola e adesso non posso farne a meno. Non so davvero cosa potrebbe significare abitare in una stessa città tutti i giorni dell’anno.

Che cosa trova affascinante della vita di tournée?

Diciamo che la cosa a cui non riesco a rinunciare è il palcoscenico. Tutto il lavoro precedente in ufficio è interessante per creare le basi di questa realtà teatrale, ma è impossibile pensare alla mia quotidianità senza mai vedere un palcoscenico e mettendo in pratica quello per cui sto lavorando. In tournée si incontra gente e non mi stanco mai di essere in viaggio: mi spaventa quasi la quotidianità e il fatto di

Un’immagine, da scegliere tra i ricordi di tutte queste lunghe tournée.

Ne ho tante, e tutte legate all’adrenalina del debutto in una nuova piazza, all’ansia dell’incertezza di riuscire ad andare in scena. Ricordo, per esempio, l’allestimento del Furioso Orlando ad Ascoli Piceno con una nevicata pazzesca: avevamo la neve fino alle ginocchia ma nessuno si fermava, veramente non sapevamo se ce l’avremmo fatta a debuttare… E poi la gioia quando ti rendi conto che, al di là delle mille problematiche, the show must go on e la magia del teatro continua.

«L'amministratrice di compagnia è il punto di riferimento di questa realtà viaggiante» -42-


Omaggio ai Mondiali

LO SPETTACOLO DEL CALCIO Da sempre il gioco del pallone accompagna la storia dell’umanità. Oltre a rivestire una parte fondamentale nella vita sociale dei cittadini, l’origine del calcio si ricollega, da subito, alla sfera del sacro e attinge, nel profondo, alla componente più religiosa della comunità. Fin dall’antica Grecia i ragazzi, appena terminato il tempo da dedicare allo studio, organizzavano appassionate partite con palle di cuoio imbottite di lana o piccoli semi, mentre per il popolo dei Maya il gioco era molto più di un semplice divertimento: si trattava di un rituale che conferiva alla palla giocata un alto valore simbolico, legato alla tradizione e ai riti propiziatori del sole. Questo gioco quasi cerimoniale aveva molto a che fare con il teatro, basti pensare che i giocatori spesso ricorrevano al travestimento e appendevano al collo degli oggetti in pietra che servivano da amuleti. I latini chiamavano ludi sia gli spettacoli sportivi che quelli teatrali e durante le Olimpiadi lo stadio e il teatro erano spesso contigui. L’epoca moderna ha tolto al gioco del calcio un po’ del suo misticismo ma ne ha accentuato sicuramente la spettacolarità conferendo un fascino particolare a questo sport, quello di riuscire ad emozionare profondamente lo spettatore, anche il più profano. Alcune categorie di ‘non-atleti’ – gli scrittori, i cantanti, gli attori – si uniscono periodicamente in una loro squadra Nazionale, mentre molti intellettuali hanno sempre seguito e scritto di questo sport, uno fra tutti Pier Paolo Pasolini, ‘fantasiosa ala destra’: “il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. Ė rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro."

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Siro Ferrone * LA DRAMMATURGIA DELLO SPORT

a Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze ha indagato, in passato, il senso teatrale che lo sport, al di là della pura azione tecnica, nasconde sempre al suo interno. Com’è nata l’idea di legare lo sport al teatro?

sica – e, più in generale, la creatività è legata al movimento. L’attività teatrale è anche un atto fisico: il performer o la cantante d’opera sono degli atleti della voce e del corpo, i ballerini utilizzano in maniera predominante il lato fisico.

Siamo partiti da un’idea letteraria di spettacolo legata al significato del termine ‘recitare’: l’italiano è l’unica lingua ad utilizzare questa parola, le altre collegano l’arte del palcoscenico al gioco. Ulteriori conferme per la nostra ricerca sono stati gli scritti teorici di uomini di teatro come Stanislavskij e i suoi riferimenti alle azioni fisiche, fino ad arrivare all’uso del corpo in Grotowski. Talvolta lo sport è stato anche all’origine di creazioni musicali o teatrali – penso al tennis e alle sue attinenze con la mu-

Lo sport conserva una comunicazione diretta, capace di trasmettere un’emozione immediata; invece nello spettacolo l’azione non è mai consequenziale ma frutto di una mediazione tra testo e pubblico. Questa freschezza dell’azione sportiva, in teatro dove va ricercata? Rispetto allo sport solo una cosa il teatro non potrà mai raggiungere: l’incertezza del risultato finale che tiene in sospeso chi guarda l’azione. Lo stesso senso di freschezza comunicativa forse in teatro si può ritrovare con una riduzione del ruolo del regista che ha ridotto l’imprevedibilità della scena, costruendo una macchina di significati che ha praticamente schiavizzato gli attori. Il regista deve essere capace di lasciare alla recitazione quella elasticità e imprevedibilità di movimento che è possibile ottenere, pur con una storia già predeterminata, cercando di assecondare gli attori. Mi riferisco ad alcuni episodi in particolare: il teatro francese di Jérôme Deschamp, fatto di poche parole, oppure certe messinscena affidate essenzialmente al ritmo della parola che viene giocata quasi a ‘ping pong’. Gli spettacoli di Carlo Cecchi, per esempio, mantengono questo senso della freschezza, come se ogni sera si rinnovasse la rappresentazione, così come il teatro napoletano che in genere rende chi è in scena non del tutto prevedibile. Anche i testi di Beckett danno una grossa possibilità di ritmo, lo stesso succede nel teatro musicale: durante l’esecuzione di un concerto il direttore d’orchestra può variare i tempi e dare così smalto nuovo all’intera esibizione.

Quindi un collegamento tra lo spettacolo e lo sport può essere anche l’improvvisazio-44-


un’alchimia segreta.

Quali aspetti legano la ritualità dello sport a quella dello spettacolo?

Alcuni momenti rituali vengono costruiti per tradizione: lo schierarsi delle squadre in campo, i diversi colori delle maglie per identificare le squadre, tutta un’aura di sacralità che è stata progressivamente sporcata e rovinata dal sistema commerciale. Oggi le squadre spesso cambiano la disposizione dei colori, mentre all’estero è diverso: si rispetta il desiderio di immedesimazione dei tifosi. Da questo punto di vista c’è stata un’evoluzione nello sport. Inizialmente i gesti e le azioni rituali erano consumate in una specie di gruppo chiuso, oggi invece avvengono apposta per il pubblico. L’esplosione gioiosa allo stadio degli spettatori ha aggiunto allo spettacolo sportivo un altro protagonista: la partecipazione di un coro attivo che costituisce contemporaneamente due realtà: il pubblico che è anche attore dell’avvenimento. Ė il segno di una capacità entropica di questo sport, di una sua abilità che parte dall’interno, di produrre spettacolo. Sono dei meccanismi che, sganciati da tutte le componenti commerciali, ricordano probabilmente alcuni riti primari, da cui nascono la tragedia e la commedia. Nei cori del teatro tragico greco e nell’ambito delle processioni nei villaggi c’era un forte coinvolgimento del pubblico: si giudicava e si dava un voto a un tragediografo piuttosto che a un altro, addirittura si veniva pagati per mantenere un determinato ritmo, ci si addestrava per la giusta esecuzione. Ė chiaro che, rispetto al passato, i cori dello stadio si esprimono in maniera davvero bizzarra, ma a

ne…

Sicuramente sì. La memoria e l’intelligenza sono profondamente legate al movimento, infatti è nello stare insieme in scena, nel rapporto fisico tra gli attori, che si alimenta l’invenzione. Tanto più l’azione fisica è animata, tanto più si crea la possibilità di produrre idee e fantasie che vanno, naturalmente, subordinate al testo dello spettacolo. Anche lo sport ha come elemento motore la comunicazione fisica: più della preparazione o della tecnica è importante la percezione del movimento del compagno, la scelta del ritmo con cui si imposta un’azione. Fondamentale però è lo scarto individuale e creativo: succede che ti capitano delle situazioni improvvise e devi essere capace di reagire, così compi delle azioni di cui non ti rendi neanche esattamente conto, movimenti non preparati razionalmente ma che fanno parte di una specie di inconscio profondo. Ė il ricorso all’io, alla memoria profonda dell’attore di cui parla Stanislavskij. Questo aspetto è comune all’attore e al giocatore: deve scattare uno spazio di irrazionalità, è determinante. Maradona quando racconta l’azione di un suo famoso goal non si ricorda esattamente tutti i passaggi, forse perché quei movimenti sono frutto di

«L'esplosione gioiosa allo stadio degli spettatori ha aggiunto allo spettacolo sportivo un altro protagonista: la partecipazione di un coro attivo che costituisce contemporaneamente due realtà: il pubblico che è anche attore dell'avvenimento» -45-


Un'azione dalla Partita del Cuore

volte possono essere anche molto belli: per esempio, l’Arsenal lega certe canzoni dei tifosi all’inno nazionale, recuperando la storia e la tradizione della propria squadra.

goal, il giocatore corre sotto la curva o, al contrario, per una brutta azione riceve i fischi dello stadio.

Lei parla dell’incertezza del risultato nella gara sportiva che contraddistingue e differenzia lo sport dallo spettacolo ma la cronaca ci ha spesso abituati al contrario, rivelandoci gli effetti negativi della corruzione, relativa soprattutto al calcio…

Quindi la presenza nello sport di un coro attivo può ricordare alcune forme di spettacolo moderno, la famosa ‘quarta parete’ che viene eliminata…

Basta pensare al teatro di avanguardia del Living Theatre oppure agli show di Paolo Rossi o Dario Fo, dove gli spettatori sono addirittura invitati a salire sul palco. Nei concerti rock il pubblico, attraverso un meccanismo di provocazione, viene ‘costretto’ a partecipare: è spronato a cantare, muovere le mani e tenere il ritmo con le luci, insomma fa parte dello spettacolo. Nel calcio il procedimento di spettacolarizzazione è determinante perché provoca un cambiamento del gioco: una squadra rende di più in una partita giocata in casa, davanti ai propri tifosi, che in una città avversaria. Non dimentichiamo che, dopo un

È vero, ci è stato tolto il piacere della sorpresa dell’avvenimento sportivo ed è la dimostrazione del fatto che quando il denaro entra troppo in un’attività non è mai positivo. Lo sviluppo capitalistico della società è sostanzialmente dannoso: prima di tutto sul piano morale, poi estetico e sul fronte della vivibilità. Il calcio è diventato sempre più un fenomeno di capitali e questa è la causa della sua decadenza; ecco perché sono convinto che andrebbe restituito a una sua natura primitiva, quasi infantile, cosa che probabilmente farebbe bene anche al teatro. Alcuni grandi artisti come Jacques Copeau o Orazio Costa già perseguivano questo fine, ma è difficile riportare il sistema ad uno stadio primitivo. Un segnale positivo in questa direzione può essere dato dalla ripresa del dilettantismo. Conosco molti gruppi che si basano sul disinteresse assoluto e hanno un entusiasmo straordinario: quando non ci sono interessi, il fascino dello sport, così come quello del teatro, sono insopprimibili. Ed è la gioia della rappresentazione che allora può dirsi immortale.

«Sono dei meccanismi di questo sport che, sganciati dalle componenti commerciali, ricordano alcuni riti primari, da cui nascono la tragedia e la commedia»

* Professore ordinario di Storia del Teatro e dello Spettacolo dell'Università degli Studi di Firenze.

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IL GIORNO DI SAN CRISPINO NEL PALLONE Noi pochi. Noi felici, pochi. Noi manipolo di fratelli. L'esortazione alla battaglia dell'Enrico V di

Shakespeare ben si adatta a sottolineare dramma e teatralità del più teatrale tra i giuochi, quello del calcio.

Quanti ci hanno riflettuto su questo parallelo, su quanta scrittura di scena ci sia nelle partite di calcio. Abbiamo pensato così di mettere due squadre di teatranti a confronto sulla più teatrale delle superfici, la sabbia. A due passi dall'Arno, sulla lama del coltello che taglia in due Firenze. Nulla in palio se non l'onore; con in mezzo un po' di spettacolo, le letture da un bel libro sui portieri, Eroi di sventura, scritto da un operatore teatrale, Fausto Bagattini. A fischiare un professore chiarissimo, Siro Ferrone. Nel mezzo del campo un manipolo di genti. Farne il nome non servirebbe: erano pochi, ma felici. Con la palla che s'impenna improvvisa sulla sabbia, le cadute accentuate, le maglie sporche di rena e sudatissime. Vigorosamente impegnati a scrivere un mito autocatartico, la liberazione dai mali attraverso un passaggio. Perché si vede più teatro scorrendo i volti degli azzurri durante gli inni nazionali prima di Italia-Brasile del 1 982 che in tanto teatro. Quelle facce di guerrieri, quel manipolo di fratelli pronti ad accettare ogni ferita nel presagio che quel giorno si sarebbe ricordato per sempre. C'è stato del dramma sincero anche sulle rive dell'Arno, che hanno restituito dopo la partita uomini lordi di viaggio e tempeste come lo fu Odisseo vomitato dal mare sulla spiaggia di Nausicaa. Si ricorderà anche questo giorno, 1 2 giugno 201 4, anche se magari un po' meno di quello di San Crispino. Per la cronaca hanno vinto i rossi, cinque a tre. Avevano più difesa, e una bella scrittura di scena. Ma tutti sono stati contenti. (R.V.)

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Fabio Baronti UN VIAGGIO TEATRALE

a Compagnia delle Seggiole – di cui lei è fondatore e capocomico – propone spettacoli itineranti all’interno di luoghi storici, con l’obiettivo di far rivivere i tanti personaggi che li hanno abitati nel corso del tempo.

sformazioni gestionali subite dal teatro, le nostre visite-spettacolo sono state una costante. L’anno prossimo festeggeremo i dieci anni di rappresentazioni, con oltre 250 repliche e quasi 1 5 mila persone che hanno visto il dietro le quinte della Pergola. Noi attori siamo come dei semplici accessori alla storia e al prestigio del teatro e, attraverso la parola, raccontiamo l’essenza del luogo teatrale. Il concetto da cui siamo partiti è di intendere il Teatro della Pergola come ‘la Casa del teatro’ e gli altri luoghi da noi esplorati – il Corridoio Vasariano, la Certosa, Palazzo Davanzati o Casa Martelli, per citarne solo alcuni – come case vicine da cui si può raccontare teatralmente nuove storie.

L’ispirazione per questa idea risale a molti anni fa, quando il Direttore Marco Giorgetti attrezzò i sotterranei della Pergola in maniera spettacolare in occasione di uno dei primi Premi Galileo 2000 (premio dedicato alla cultura, alla scienza e alle arti). Le persone visitavano questi luoghi in genere chiusi, con la collaborazione di tanti attori che li rendevano vivi. E poi nel 2006, su un’idea di Riccardo Ventrella e nell’anniversario dei 350 anni del Teatro della Pergola, la nostra Compagnia ha iniziato queste visite guidate all’interno della Pergola facendo rivivere alcuni dei personaggi più importanti della sua storia: da Meucci, inventore del telefono e macchinista della Pergola, alla sarta di Eleonora Duse. Ricordo che quell’evento doveva essere unico e invece fu ripetuto cinque volte per l’affluenza del pubblico… Da allora, malgrado le varie tra-

Tra i luoghi ‘abitati’ dalla vostra Compagnia, negli ultimi tempi avete dunque sperimentato due importanti ed esclusive case fiorentine: Palazzo Davanzati e Casa Martelli. Il nostro può definirsi un viaggio teatrale all’interno di un monumento o di un museo, una passeggiata con delle storie relative al posto in cui ci troviamo, raccontate dagli attori. La particolarità è che noi scriviamo i testi per il luogo che ci ospita, quindi le nostre visite diventano tutte delle prime nazionali, se così vogliono chiamarle, perché mantengono la caratteristica dell’unicità. Si aprono le porte ad un pubblico trasversale e devo dire, in particolare, che il pubblico dei bambini è molto attento durante le visite. È una cosa che ci

«Alla fine è questa l'essenza del teatro: un luogo dove, attraverso il mezzo della parola, si riescono ad evocare sensazioni e suggestioni che creano emozioni» -48-


Uno scorcio dell'interno di Palazzo Davanzati

riempie di orgoglio: i bambini non hanno sovrastrutture, si distraggono facilmente, e rappresentano quindi il pubblico più difficile da catturare. I personaggi che interpretiamo raccontano, attraverso una serie di aneddoti curiosi e divertenti, i luoghi. Palazzo Davanzati è la casa fiorentina per eccellenza, che conserva al suo interno gli strati delle varie architetture che hanno reso bella la nostra città ed è stata la prima abitazione ad avere in casa, attraverso un pozzo al suo interno, un bene di prima necessità come l’acqua. Invece durante il settecentesco Gran Tour - quel viaggio in cui Goethe chiamava l’Italia “il Paese dove fioriscono i limoni” - Casa Martelli era una tappa d’obbligo per i viaggiatori stranieri. Entrambi gli edifici rappresentano il simbolo di una Firenze che ha lasciato un segno indelebile di civiltà nel corso della storia.

mo su un piedistallo e invece in questa situazione di visita-spettacolo siamo proprio parte integrante del pubblico.

Attraverso le vostre esperienze teatrali nei diversi edifici storici riuscite, stando fermi in una casa, comunque a viaggiare con la fantasia…

In questo Salgari è stato un maestro: le sue avventure le ha scritte senza uscire dal salotto di casa sua e ci ha fatto sognare, raccontandoci un mondo in cui, anche solo per un secondo, ognuno di noi si è identificato. E alla fine è questa l’essenza del teatro: un luogo dove, attraverso il mezzo della parola, si riescono ad evocare sensazioni e suggestioni che creano emozioni. Le persone, nell’arco della propria vita, possono vivere momenti brutti, in cui le situazioni non sono mai identiche a quelle del giorno prima; invece, se si riesce a vivere un’emozione, questa non ci abbandona e rimane dentro di noi. Un enologo una volta disse che, al di là delle caratteristiche di un vino, fondamentale è considerare il momento in cui si stappa la bottiglia, dove siamo in quel momento e con chi beviamo il vino: è quella l’emozione che rimane in noi. Credo che questo aspetto valga anche per il teatro e infatti, chi ha la fortuna di avvicinarsi al teatro, non smette mai di frequentarlo. Se scatta la magia, rimane per tutta la vita.

Che tipo di recitazione occorre per interpretare un personaggio di una visita-spettacolo? Il pubblico è sempre diverso. E anche se ti ritrovi a dovere ripetere più volte, una dietro l’altra, lo stesso personaggio non è mai un fatto ripetitivo. Reciti a un metro di distanza dal pubblico e ciò ti permette di sentire gli umori delle persone, la loro predisposizione ad un sorriso o ad un particolare attimo di attenzione. Quando si sta sul palcoscenico, sia-49-



Quaderni della Pergola

- numero 4

A cura di Angela Consagra e Alice Nidito Interviste e testi di Angela Consagra Gli articoli a pag. 40 Goldoni, convento tra i conventi e a pag. 47 Il giorno di San Crispino nel pallone sono di Riccardo Ventrella L’articolo dedicato a Orazio Costa a pag. 1 4 è di Fabrizio Gifuni La rubrica La parola al pubblico è a cura di Alice Nidito Da un’ideazione grafica di Gabriele Guagni Impaginazione e progetto grafico di Chiara Zilioli Immagini La fotografia di copertina, la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo e tutte le foto dei Quaderni della Pergola sono di Filippo Manzini La fotografia del cielo sul retro di copertina è di Chiara Zilioli La scritta sulla lavagna in copertina, i disegni grafici di Andrea Camilleri a pag. 1 9, della cinepresa a pag.23, del pappagallo a pag. 43, del calciatore a pag. 44 e della Coppa del Mondo a pag.45 sono di Clara Bianucci L’elaborazione grafica dei libri a pag. 36 e delle case a pag. 40 sono di Dalila

Chessa

Hanno collaborato a questo numero: Elisabetta De Fazio, Claudia

Filippeschi, Adela Gjata, Orsola Lejeune, Simona Mammoli

Il materiale editoriale per Pif incontra Camilleri prende spunto dall’incontro tra i due artisti avvenuto in occasione del Bif&st 201 4 di Bari La parte dedicata a Mario Vargas Llosa è frutto degli incontri pubblici con lo scrittore a Firenze; in particolare si ringraziano Anna Benedetti e Paola Pesci di Leggere per non dimenticare Per contattarci:

sala@teatrodellapergola.com quaderni@teatrodellapergola.com


i d e i p i o n o v r e s i m e h Ac e r a l o v r e p se h o a l i Frida Kahlo


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