Cyclette

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12 scrittori e 12 illustratori in movimento


La nostra Cyclette parla di tutto. PurchĂŠ il tutto sia in movimento. Cyclette come 12 umoristiche istantanee di appassionato disincanto. Cyclette come un mulinante turbinio di parole e immagini. Cyclette come virtuali orizzonti disegnati tra le mura domestiche. Cyclette come un modo di fare movimento senza che la meta tolga il piacere del movimento stesso. 12 racconti, accompagnati da 12 illustrazioni, che meritano di essere letti in viaggio dentro casa.


Associazione Culturale Tapirulan www.tapirulan.it



Cyclette

12 scrittori

Lisa Biggi Alberto Calorosi Enrico Cantino Edoardo Cavazzuti Andrea Cisi Marco Delmiglio French Giovanni Locatelli Michele Prosperi Andrea Rivieri Roberto Stradiotti Daniele Veroni

e 12 illustratori

Margherita Allegri Claudio Arisi Siria Bertorelli Luca Bonardi Matteo Cuccato Giada Delmiglio Andrea Gualandri Sabrina Inzaghi Fausto Merli Cecilia Mistrali Elena Prette Roberta Tiboldi

Prefazione di: Massimo Zilioli

Tapirulan

in movimento


Cyclette © 2007 Associazione Culturale Tapirulan www.tapirulan.it redazione@tapirulan.it Cyclette è un progetto dell’Associazione Culturale Tapirulan Coordinatore editoriale: Alberto Calorosi Grafica e impaginazione: French Stampa: Tipocrom s.n.c., Baganzola (PR), marzo 2007 Progetto realizzato con il contributo dell’Università degli Studi di Parma ISBN 978-88-902767-0-5


Indice

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Prefazione di Massimo Zilioli

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Introduzione a cura della Redazione

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Rapporto epistolare racconto di French, illustrazione di Elena Prette

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Uno sei sei racconto di Enrico Cantino, illustrazione di Roberta Tiboldi

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Appuntamento al buio racconto di Andrea Rivieri, illustrazione di Siria Bertorelli

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Calliope racconto di Michele Prosperi, illustrazione di Sabrina Inzaghi

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Berlino, 30/04/2006 - 4:00 AM racconto di Alberto Calorosi, illustrazione di Andrea Gualandri


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Attacco vegano racconto di Giovanni Locatelli, illustrazione di Fausto Merli

58

Formica blu racconto di Andrea Cisi, illustrazione di Margherita Allegri

68

Vladimirka racconto di Roberto Stradiotti, illustrazione di Luca Bonardi

76

Autobus racconto di Lisa Biggi, illustrazione di Claudio Arisi

80

Distruggere un mondo racconto di Edoardo Cavazzuti, illustrazione di Matteo Cuccato

84

La libreria racconto di Daniele Veroni, illustrazione di Cecilia Mistrali

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Epperò non ti porto indietro racconto di Marco Delmiglio, illustrazione di Giada Delmiglio


Si ringrazia

In ordine rigorosamente casuale: Massimo Zilioli per l’amicizia e la stima che ci ha dimostrato; Lorena Montini per avere suggerito il titolo, e per tante altre cose; Stefano Duchi che per oltre un anno ci ha ospitato ai microfoni di Radio Jtj; Elisabetta Sartori per la preziosa collaborazione; le favolose Tapirugirls, indispensabili promotrici dell’Associazione: Dani, Elena, Erika, Lady Bell, Lalla, Raffy, Venerdì; tutto il gruppo del Condominio, che presenzia sempre alle nostre iniziative; Angelo Rossi che è un vero grafico; Faber per i consigli; Elena Vacchelli e le sue splendide piante; Ivana Iotta, Mariella Cesura, Cesare Guarneri, Palmiro Donelli; l’Università degli Studi di Parma per aver contribuito al progetto; tutti gli autori dei racconti e delle illustrazioni; Angelo Facchetti per il supporto; infine Topus per una serie inenarrabile di motivi e per nessun motivo al tempo stesso.


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Prefazione di Massimo Zilioli

Sono seduto prima della mezza su una sedia di giunco. Leggo in modo rilassato ma attento una scrittura che mi sembra di conoscere. Perché tutto questo affannoso affannarsi per tenersi in movimento? L’uomo, il gruppo, la folla, sono tutti spinti da un desiderio intimo e itinerante che porta a sudare salite e a sperare discese. La domanda risuona costantemente tra una sinapsi e l’altra. Le risposte possibili sono tendenzialmente infinite. Le risposte probabili sono solo alcune. La risposta che vi propongo è quella di farci un bel giro panoramico in Cyclette. La Cyclette è lo strumento della contemporaneità per mantenersi in movimento. È quell’arnese che porta con sè il fascino della libertà e il fardello della solitudine. Il ciclista d’appartamento, come il lupo italico, non perde, anche se in cattività, il richiamo del bosco. Questo urlo, che profondamente pervade il cyclettista, prima o poi – molto spesso poi – irrompe nella camera da letto o nello studiolo dove è sita la bicicletta da appartamento. È proprio in quell’istante che l’extrema ratio deve prendere il sopravvento; il bisogno di alimenti ricchi di potassio per

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salvaguardare i muscoli, e di zuccheri insaturi per dar energia alle gambe, impone di mangiare. Quale cibo per quale Cyclette? Questa domanda accompagna lo sportivo e ci permette di provare una gamma di possibili pietanze. La gradevolezza delle stesse e i valori nutrizionali creano una scala simbolica di importanza e di domanda del mercato. Tra le tante offerte, da oggi, ce n’è una in più. Il movimento. Questa strana passione irrefrenabile, di che cosa si tratta? Abbiamo parlato di muscoli e di gambe, ma potremmo parlare di crostacei e di voglie, nonché di mente ed emozioni. La nostra Cyclette parla di tutto. Purché il tutto sia in movimento. E allora, Cyclette come dodici umoristiche istantanee di appassionato disincanto; Cyclette come un mulinante turbinio di parole e immagini; Cyclette come nuovi virtuali orizzonti disegnati tra mura domestiche; e infine, Cyclette come un effimero viaggio senza meta nella creatività. 12 racconti brevi che meritano di essere letti in viaggio dentro casa. La scrittura e gli stili sono diversi e variegati. Sempre dissacranti le sacralità che ognuno si porta appresso. Il progetto che Tapirulan propone, dal punto di vista del lettore, è quello di mettere in circolo, come raggi di una ruota, delle idee diverse di scrittura e di pensiero. Una selezione di figure anomale e caratteristiche che vanno in giostra in modo armonioso. Il lettore rimane immobile di fronte al tratto dei disegni che, come angeli custodi, illustrano il senso primo ed ennesimo del significato visuale e simbolico delle parole dei narratori. Si tratta di un viaggio ai bordi della strada, del desiderio, del paradosso, dell’umano e dell’ultraterreno che porta, come la nostra Cyclette, a visitare luoghi ameni senza mai spostarsi dal baricentro. Il sudore, in realtà piacere, per la non fatica della lettura di questa raccolta, deve offrire alla perpendicolare che scende da ognuno di noi l’opportunità pisana di avere paura che le oscillazioni la portino fuori dal cerchio immaginario della stabilità. In questa terra di nessuno, di dubbio e di coraggio, dove il concet-

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to di baricentro viene ad essere superato da nuovi equilibri,Tapirulan è presente all’appello e sull’attenti per, come se niente fosse, offrirvi un caffè. L’attività motoria è forse un’attività degna d’essere monitorata con tanta cura? (1) A mio parere, assolutamente sì. E dove la possiamo svolgere in questo piccolo infinito mondo di Tapirulan? Presto detto: si sale di sopra, nella solita stanza in fondo al corridoio, sulla destra(2). In quel luogo si può sognare anche di essere fuori a cena; in prima persona è come se mi siedo e aspetto. Frattanto inizio a osservare la carta dei vini pensando a come sfoderare le mie qualità di intenditore (3). E seduti in attesa, se si rimane con la bocca semiaperta, nessuno ha un’espressione sveglia, tanto meno se la mascella sporge quel tanto che basta perché gli incisivi inferiori siano più esterni rispetto a quelli superiori (4). Continuo ad attendere la persona che nella mia fantasia dovrà cenare con me; si fa aspettare così tanto anche se le ho fatto recapitare un grazioso pensiero: sette nani da giardino, con un biglietto d’accompagnamento che diceva: “un ammiratore” (5). Iniziano a venirmi cattivi pensieri che preannunciano un possibile “bidone” al mio “dinner” virtuale: il loro arrivo è annunciato da un fischio sottile e quando il carro s’arresta il carico ondeggia come Spiderman sospeso tra i grattacieli (6). A questo punto, facendo un salto nel futuro, il mio ego si avvicinò alla porta. Mise fuori la testa, un’occhiata veloce (7). Una brutta visione mi riporta nel presente; la distanza rispetto al ristorante dove è là seduta che mi aspetta è notevole. Escludo di farmi un chilometro e mezzo a piedi, e anche di prendere un taxi per farmi portare cento numeri civici più in là (8). La soluzione che mi sovviene è quella di fingere che la mia Cyclette sia un mezzo pubblico su cui salire. L’autobus riparte e riprende a singhiozzare nel traffico, il controllore si avvicina, la nausea sale velocemente e una raffica di brividi freddi mi paralizza la schiena (9). Non ho tenuto conto che serviva il biglietto e ora sono nei guai. L’inerzia mi spinge e indietro non posso tornare. Un solo istante e il piede compie il suo giro (10). Sono stato costretto a scendere al volo e ruba-

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re una motocyclette con i rischi annessi e connessi. Sono più scaltro di un impiegato in ritardo, brucio i sensi vietati che sembro la nemesi dei vigili urbani, per cogliere al volo il tre a zero (11). Il primo goal è raggiungere la mia accompagnatrice che attende, il secondo è aver messo il motore alla Cyclette, e il terzo rimane sempre quello del movimento. All’arrivo del mio sogno la ragazza era già andata e non aveva pagato il conto; l’esito infausto fu quello di lavare i piatti. Si rivelò un lavoro vero e proprio, decisamente non meritavo un simile trattamento (12). Cyclette, nell’augurare buona lettura, è il primo viaggio di un modo di muoversi nuovo, spontaneo e poco subalterno; è il modo di fare movimento senza che la meta tolga il piacere del movimento stesso.

(1)

French, Rapporto epistolare, p. 19.

(2)

Enrico Cantino, Uno sei sei, p. 25.

(3)

Andrea Rivieri, Appuntamento al buio, p. 33.

(4)

Giovanni Locatelli, Attacco vegano, p. 53.

(5)

Roberto Stradiotti, Vladimirka, p. 69.

(6)

Andrea Cisi, Formica blu, p. 62.

(7)

Michele Prosperi, Calliope, p. 38.

(8)

Alberto Calorosi, Berlino, 30/04/2006 - 4:00 AM, p. 45.

(9)

Lisa Biggi, Autobus, p. 78.

(10)

Edoardo Cavazzuti, Distruggere un mondo, p. 82.

(11)

Marco Delmiglio, Epperò non ti porto indietro, p. 93.

(12)

Daniele Veroni, La libreria, p. 88.

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Introduzione a cura della Redazione

Dal 2004 l’Associazione Culturale Tapirulan cerca di fornire visibilità e opportunità a pittori, scultori, fumettisti, illustratori, fotografi, scrittori, poeti, musicisti, teatranti, videomaker; l’obiettivo è anche quello di mettere in contatto tra loro artisti che operano in differenti forme espressive. A tal fine, Tapirulan ha pensato e realizzato la sua prima antologia di racconti illustrati: Cyclette, 12 scrittori e 12 illustratori in movimento. Ogni scrittore ha potuto scegliere un illustratore tra quelli ospitati nello spazio virtuale del sito www.tapirulan.it, il risultato di dodici fruttuose collaborazioni è il libro che avete tra le mani: una manciata di racconti introdotti, integrati e – perché no – reinterpretati da altrettanti disegni eseguiti al tratto. In Cyclette la sinergia tra l’elemento narrativo e quello figurativo assurge a nuovo mezzo espressivo a disposizione degli autori per raccontare e per raccontarsi. Cyclette rappresenta, infine, un’accattivante vetrina per questi ventiquattro giovani artisti che, magari, un giorno faranno parlare di sé. Benvenuti a bordo della Cyclette, quindi. Accomodatevi sul sellino, aggrappatevi stretti al manubrio, posizionatevi sui pedali: state per compiere un comodo viaggio con la fantasia. Naturalmente, senza muovervi di un millimetro.

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Rapporto epistolare racconto di French illustrazione di Elena Prette

Cara Francesca, non riesco a trovare aggettivi per comunicarti l’immenso piacere che ho provato nel ricevere la tua lettera. Eppure qualcuno ce ne deve pur essere. In effetti, uno l’ho trovato, che è immenso, ma avrei potuto anche dire gigantesco, forse meno elegante; oppure sconvolgente, che sarebbe suonato falso perché non sono affatto sconvolto. È giunta davvero inaspettata – la tua missiva intendo – non tanto perché io diffidi del servizio postale, ma temevo che in seguito a quel piccolo inconveniente incorso tra noi, non volessi più sentirmi. Invece mi sbagliavo, per fortuna. Sono felice di non essere defluito nel lavandino del dimenticatoio: a quanto scrivi, ti manco e mi pensi molto, sogni i bei momenti passati insieme. Ricordi le nostre cenette a lume di candela? Ma cerchiamo di non essere troppo nostalgici, la vita ha un guardaroba ricco di molti altri anni nuovi da farci indossare, almeno a me. Forse a te un po’ meno, giacché ti ricordo come una creatura deliziosa, ma di salute cagionevole. Tuttavia non bisogna disperare. Non sai come sono eccitato all’idea di rivederti, di che colo-

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re hai i capelli adesso? Porti ancora il quarantadue di scarpe? E le scarpe? Ti ho già detto che sono eccitato all’idea di rivederti? Avremo sicuramente un sacco di cose da raccontarci e cercherò di non sbadigliare mentre parlerai delle tue. Ricordo che, quando eravamo fidanzati, ti arrabbiavi se mi addormentavo durante i tuoi discorsi, ma non succederà più. Lo prometto, e sai che ogni mia promessa è un debito che tu hai verso di me.Vorrà dire che offrirai la cena. Ringraziandoti ancora per avermi scritto, ti saluto affettuosamente, Carlo * Per nulla caro Carlo, se ti scrivo è solo per evitare il sorgere di un equivoco terribile: io non ti ho spedito alcuna lettera, né ho mai avuto desiderio di farlo, almeno sino ad ora. Troppo forte sarebbe stata la tentazione di allegare a foglio e busta gli innumerevoli insulti che ti sono dovuti. Purtroppo, adesso, le circostanze mi costringono a scriverti. L’averti trovato tra le ondose braccia del mare dei sensi, come tu definisti gli arti superiori della mia amica Stefania e il suo letto, non lo chiamerei un piccolo inconveniente. Ma devo trattenermi, altrimenti avrei io qualche definizione che ti calzerebbe a pennello... Delle nostre cenette a lume di candela ho un ricordo limpidissimo, soprattutto del conto, che sempre io dovevo pagare. Ti ripeto, perché sia chiaro, che non ho alcuna intenzione di rivederti, né a lume di candela, né a lume di lampadina, né a lume di qualsiasi altra fonte luminosa! A non rivederci, Francesca *

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Carissima Francesca, perché discorrere ancora del passato? Perché piangere sul latte versato? È la Provvidenza che ha voluto ricongiungere i nostri destini, e che vorrà certamente ricongiungere i nostri corpi, spero. Il passato è soltanto una foto scattata da un’angolazione casuale, riduttiva; una foto sfuocata, che si può conservare gelosamente oppure stracciare, ma è inutile, anzi dannoso, contemplare in continuazione. Accetto le critiche sulle nostre cene, però potevi dirlo che ti dava fastidio la luce! D’altra parte, il dopocena è sempre stato memorabile, perché di me tutto si può dire tranne niente, che è troppo. Nessuna donna potrà mai lamentarsi di me, a letto duro anche quindici ore, dormendo. È tempo di fissare una data per il nostro incontro, pensavo che sarebbe stupendo vedersi il 23 gennaio: era il nostro anniversario. Non sto più nella pelle, sento il nostro amore gonfiarsi a ogni parola che scorre, credimi Francesca, perché ti sto scrivendo con il cuore in una mano e la biro nell’altra. Immagino che tu sia curiosa di sapere se sono fisicamente cambiato... Praticamente sono sempre uguale, ho solo messo su qualche chilo: trentotto per l’esattezza. E tu? Hai ancora il naso uguale? Il terzo molare otturato? Mangi ancora i pasticcini? Rispondi presto, ti prego, altrimenti potrei prendere un coltello, una forchetta, e fare una pazzia: divorare una bistecca. Un bacio, tuo Carlo * Carlo, sembra quasi che tu finga di non capire, eppure nella mia precedente lettera credevo di essere stata di esemplare efficacia espositiva. A nulla varrebbe ribadire concetti già espressi, quali non ti voglio più vedere o non ti voglio più sentire... che, tut-

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tavia, mantengono la loro indiscutibile veridicità. Ho deciso di incontrarti. Ho pensato che, dopotutto, non sia da persone intelligenti conservare il rancore come una reliquia: il rancore non è nient’altro che un fastidioso strato di polvere che ammanta i nostri pensieri di pesantezza e irrazionalità. Ciò non significa che io intenda ricominciare a frequentarti. È un gesto di perdono quello che compio nei tuoi confronti, consapevole che, troppo spesso, il perdono è il vestibolo di nuovi torti. Direi, ad ogni modo, che il 23 gennaio potrebbe andare bene come data. Scegli tu il luogo e l’ora. Arrivederci, Francesca * Francesca adorata, con quale gioia ho ricevuto la tua ultima missiva? Non lo ricordo, ma doveva trattarsi di una gioia enorme, perché ho saltato, saltato... e poi ho sentito qualcosa di duro sulla fronte, duro come lo stipite della porta, tant’è che si trattava proprio dello stipite della porta. Ho completamente perso la testa per te (e non credo a causa dello stipite); perdona l’ardire, ma il cuore non è una prigione sicura in cui rinchiudere i propri sentimenti, cosicché essi poco s’attardano a fuggire verso la libertà che meritano. Mentre lacrimo parole salate su questo foglio ingiusto, penso al tuo sorriso apparecchiato tra le labbra e ai tuoi occhi, che splendono come i fanali d’un trattore solitario tra le stelle, nel campo della notte. O maravigliosa dulcinea, voglio sorvegliare financo i pertugi del tempo, che nessuno di essi trascorra senza un pensiero a te riservato. Purtroppo duco una triste notizia: dovremo rimandare il nostro atteso convegno di qualche giorno. Sono imperdonabile, lo so, ma chi abbisogna del perdono più di chi non lo può ricevere? A proposito, che cosa fai adesso nella vita? Quali sono i tuoi attuali interessi?

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Ti ho già chiesto se mangi ancora i pasticcini? Se no: mangi ancora i pasticcini? Scrivimi subitaneamente, Carlo * Caro Carlo, sono stupita, lusingata. Non ti ricordavo artefice di parole affettuose. Divento sempre più curiosa anch’io di incontrarti, ansiosa di verificare questo tuo positivo cambiamento. In fondo sono trascorsi oltre sei anni, un periodo che consente incredibili mutazioni. Dunque non può che rincrescermi un rinvio ormai non desiderato. È incredibile, perché fino a poco tempo fa il solo pensiero di vederti, anche il più remoto, mi caricava d’odio e d’ira. Nella tua lettera non fai cenno ai motivi che impediscono l’appuntamento del 23 gennaio, quali sono? Spero non sia a causa della contusione che hai rimediato contro lo stipite della porta! Mi chiedi cosa faccio attualmente nella vita: principalmente insegno greco al liceo classico, ormai da tre anni. Negli ultimi tempi sono accadute cose piuttosto spiacevoli alla mia famiglia, soprattutto dal punto di vista finanziario: l’azienda di mio padre, un tempo florida e redditizia, è fallita. C’è stato quindi un brusco cambiamento del mio tenore di vita che, inizialmente, è stato duro da sopportare. Mi è rimasta l’atavica passione per la lettura, mentre ho dovuto soffocare l’amore per i viaggi, ovviamente per motivi economici. Perché sei tanto insistente nel chiedermi se mangio ancora i pasticcini? È forse un’attività degna d’essere monitorata con tanta cura? Non mi descrivo fisicamente, ti toglierei la sorpresa. Ti andrebbe se ci vedessimo il 24 gennaio? A presto, Francesca *

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Cara Francesca, come va? Dove va? Chi va là? Pensaci e rispondi con calma. Sono lieto che tu abbia accolto di buon grado l’idea di rivedermi. D’altra parte, assai mi duole costatare che tu, a differenza di me, non sei affatto cambiata rispetto al passato. Eri curiosa e sospettosa, esattamente come lo sei adesso quando vuoi sapere perché non ci possiamo vedere il 23, o perché ti chiedo se mangi ancora i pasticcini. Eri pressante e possessiva, esattamente come ora pretendendo di incontrarci il 24, laddove ti ho esplicitamente informata che dovevamo rimandare di qualche giorno... Non posso avere continuamente il tuo fiato sul collo, finisce che mi viene l’artrosi! È crollato un sogno, e i sogni, quando crollano, emettono un frastuono assordante destinato a echeggiare per lungo tempo nella mente, lasciata intirizzita ai rigori della fredda realtà. Meglio così, di te non ho mai sopportato quelle orecchie asventolate ai quattro venti e il naso, troppo aquilino per trovare nel tuo volto un nido adeguato. Meglio così, dicevo, che la tristezza che indosso non si può dismettere e neppure capire. Meglio così, che l’amore mette le ali ai piedi, e non è che siano comodissime. Addio, Carlo

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French www.tapirulan.it/french Nasce il 16 marzo 1976 nella ridente cittadina di Desenzano del Garda (BS). Conduce una vita estremamente faticosa, lavorando come grafico e come insegnante di grafica.

Elena Prette www.tapirulan.it/elenaprette Nasce a Monza (MI) nel 1983, e nella stessa città frequenta il liceo artistico. Nel 2003 viene segnalata al concorso LIBRI MAI MAI VISTI indetto dall’ASSOCIAZIONE VACA. Nel 2005 si diploma in illustrazione e animazione multimediale all’ISTITUTO EUROPEO DI DESIGN di Milano. Viene selezionata per la realizzazione dell’ILLUSTRATORI ITALIANI ANNUAL 2006, indetto dall’ASSOCIAZIONE ILLUSTRATORI. Da segnalare collaborazioni con AB COMUNICAZIONI, FUNBOX, KREAS, IODONNA RCS, EDITRICE GIOCHI. Le tecniche che utilizza sono varie: digitale, acrilico, tecnica mista. Oltre che all’illustrazione di libri e riviste, si dedica anche all’illustrazione di giochi da tavolo.

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Uno sei sei racconto di Enrico Cantino illustrazione di Roberta Tiboldi

«Un po’ di pornografia, dottore, crede che mi farebbe male?» Leo Longanesi

* Sale i gradini uno per volta. Lentamente. Assaporando quasi la cadenza dei passi sulla moquette. Le sue movenze sono state accuratamente elaborate a tavolino. Sa cosa fare. Sa come farlo. E lo fa. La stanza è in fondo al corridoio, sulla destra. I tacchi a spillo affondano nel pavimento, come a volerlo penetrare.Vuole che lui ascolti. La porta cigola. Dovrà ricordarsi di oliare i cardini. Non vi sono luci, nella camera. Gli scuri sono appena accostati. Ti vedo e non ti vedo. L’atmosfera ideale, quella che voleva lei. È pronta. Siede sul letto. Pulito. Rigovernato. In ordine. Odore di buono intorno a lei. Non mette mai rossetto: si vede involgarita dalle labbra troppo carnose. Al massimo, un po’ di fondotinta. Giusto una velatura. Suggerire, mai dire. Ai capelli raccolti sulla nuca sfugge una ciocca dispettosa, che le avvinghia uno zigomo. Complicità dei lineamenti.

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Che aspetta?... Siede sulla sponda del letto. Le scarpe finiscono sul pavimento, con rumore sordo. Adesso non le servono. Si mette comoda, su un fianco. Solleva impercettibilmente la gonna. Lo spacco dice tutto e non dice niente. Adora il fruscio del tessuto. Le mette indosso idee impavide, fantasie abominevoli, pensieri ignominiosi. Sbottona la camicia, aprendo sui seni che ammirevoli resistono alla forza di gravità. Niente sciocchezze. L’autoerotismo può attendere. Sbuffa d’impazienza. Non chiama... il cretino non chiama... che cavolo aspetta?... Io sono qui da ore... (non è vero, ma lo dico lo stesso) pronta e disponibile... e lui, niente... Inaffidabile. Come sempre... Si gira verso il comodino. Guarda il telefono. Gli ordina di... Due squilli. È il segnale. «Cosa mi faresti, se fossi lì con te?» «Tutto!... ti farei tutto...» «Puoi essere più preciso?» «... tutto... tutto quello... che vuoi tu!...» «Non hai intraprendenza. Non hai volontà. Non hai nerbo.» «Be’, vedi... non mi sono ancora fatto... un’idea... precisa...» «Non hai fantasia. Un altro avrebbe saputo cosa rispondere alla mia domanda.» «Sono... troppe le... cose che... vorrei farti!...» «Non hai niente di quello che cerco in un uomo.» «Aspetta!... Non riattaccare!...» «Che ci sto a fare al telefono con uno come te?» «Be’... ecco...» CLIC! Non lo ama più da tempo. Però gli vuole bene, ecco. E non perde occasione per dimostrarglielo, sebbene in un suo personalissimo modo. Non lo tradisce. Non lo ha mai tradito. Per farlo, dovrebbe cercarsi un altro uomo, e a lei non va. Le corna sono una pratica banale. Un alibi.

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Un abuso. Ada sta bene dov’è. Andarsene di casa? Abbandonare il tetto coniugale? A che scopo? Che gliene verrebbe in tasca? Niente di niente... In trepida attesa, fissando l’apparecchio. Indossa solo l’intimo: reggiseno e mutandine neri. Come il carbone. Come il suo desiderio di sentire la sua voce. Lo ammette: ci ha preso gusto. Il gioco le è sfuggito di mano. Per questo risponde quasi subito. Nemmeno lascia che l’eco del primo squillo vanisca dalle orecchie d’entrambi. «Sei pronto, questa volta?» «Mettimi alla prova...» «Ti sento diverso. Più determinato. Il tono della tua voce, rauco di vino e caffè, mi eccita.» «Guarda che sono astemio. E non bevo caffè.» «Ecco, lo vedi? Perché sprecare in questo modo una partenza promettente? Non va, non va...Te ne rendi conto, almeno?» «Ma insomma!... Ascoltami bene, brutta troia!... Pensi... che per... me... sia FACILE tutto questo?... Lo credi? Lo credi DAVVERO?» «Finalmente. Un guizzo. Un’impennata d’orgoglio. Quasi non ci speravo più. Ora sei pronto, per me.» «Da... davvero?...» «La tua libido ristagna come la superficie d’un lago morto, ma io sarò il sasso che ne increspa le acque. Darò vita ai cerchi della tua passione.Vuoi andare avanti? Lo vuoi?» «Sì!... Sì!!!...» «Mi tocco? Vuoi che mi tocchi?...» «SÌÌÌÌÌÌÌÌÌÌ!!!...» Così tutti i giorni. Finita la cena, lei non rigoverna nemmeno. C’è chi lo fa al suo posto. Sale di sopra, nella solita stanza in fondo al corridoio, sulla destra. Chiude a chiave la porta. A volte si spoglia nuda. A volte no. Dipende da come le gira, da come si sente. Poi aspetta che il marito la chiami al telefono. L’idea della doppia linea è stata sua. Lui non era granché convinto. Lo è poco anche adesso.

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«Coraggio. Cosa vuoi che ti dica?» «Dunque... fammi pensare... ecco, sì: descrivi il... tuo corpo, dài! Dài, che mi attizzo come una bestia!...» «Da dove comincio?» «Da dove ti pare. Basta che cominci... fai tu, fai tu!... Mi... fido del tuo... buon gusto!» «Parto dai seni, se vuoi.» «Sì, sì... le tette, le tette!...» «Seni, prego. Sono una signora. Raffinata, per giunta. Per cui, risparmiami le volgarità gratuite, fuori contesto. O vuoi che riattacchi?» «No!... Questo no!... I... seni!... Parti dai seni...» «Così va meglio. Le mie mammelle sono grandi, con capezzolo esterno, a forma di pera...» «Hai i seni a pera?...» «È quello che ho appena detto.» «Sai che non me n’ero mai accorto?...» «Cretino.» «Perché?...» «Devi far finta di non conoscermi, no? Se no, che la facciamo a fare, tutta ‘sta pantomima telefonica?!...» «Hai... ragione...» «Ho sempre ragione.» «Scusa...» Ada ha sempre ragione. Lo conosce a menadito. Sa tutto di lui. Così, almeno, crede. «Immagina che io sia lì con te, nuda, al tuo fianco... Cosa mi faresti?...» «Be’... vediamo... potrei trascinarti in bagno con la forza... vincendo le tue resistenze a suon di sberle...» «Promette bene.Vai avanti.» «Entrato in bagno chiuderei la porta a chiave, che non si sa mai... ti afferrerei per i capelli... costringendoti ad appoggiarti sul lavandino con la parte superiore del corpo...» «Ottimo.»

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«Ti... strapperei... le mutande...» «Guarda che sono già nuda...» «Ah, è vero... be’, allora... ti costringerei a tenere il viso nel lavandino, mentre io ti... afferrerei le natiche...» «Perfetto.» «E... te... lo... metterei nel...» «Basta così. Ho capito. Lo sai che non mi piacciono certi termini.» «Scusa, scusa... volevo... dire che... ti penetrerei analmente... poi comincerei... a... manipolare da... dietro... con i tuoi... seni... e ti... infilerei la lingua nell’orecchio...» «Va bene. È sufficiente.» «Suffi... ciente?...» «Sì. Stai migliorando, e te ne do atto. Domani saprai certamente fare meglio.» «Come, domani?...» «Domani, domani. Ora sono stanca.» «Ma io... mi stavo... scaldando...» «Ho detto domani. Ciao caro.» «Ciao...» È coricata sul letto da più di mezz’ora, e quello ancora non chiama. Di solito non fa neanche in tempo a spogliarsi, che il telefono già squilla. Oggi, invece, l’apparecchio tace. Sembra un soprammobile. Si alza, decisamente contrariata. Indossa la vestaglia. Non le piace girare nuda per casa. A qualcuno potrebbero venire strane idee. Scende dabbasso. «Tesoro...» Suo marito non risponde. Lo cerca ovunque. La casa non è grandissima. I posti nei quali nascondersi non sono molti. Non c’è. Forse è andato via. Forse l’ha abbandonata... Ma no, ma no! Le avrebbe lasciato un biglietto... una lettera... qualcosa di scritto, insomma... nel quale addurre motivazioni... al quale affidare eventuali rancori o risentimenti... Si rassegna. Non c’è.Torna in camera. Siede sul letto. Si spo-

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glia completamente nuda. Indossa solo un filo di perle. Chi lo sa. Magari torna e la chiama... Si è addormentata. Rumori percepiti nel dormiveglia. È tornato. Giusto per portare via la sua roba, e lasciarle una lettera. C’è rimasta male. Non se l’aspettava. Adesso cosa faccio?... Ha trasformato casa sua in una linea erotica a pagamento. Ancora giovane. Ancora bella. Libera.Trasgredisci anche tu la mia oralità. Ti aspetto ogni sera, dalle 20.00 alle 4.00. E non preoccuparti. Non dormo mai. Non ne ho bisogno. Un successo travolgente. Imprevisto. Telefona perfino lui.

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Enrico Cantino www.tapirulan.it/enricocantino Aspirante scrittore (così almeno si definisce lui) e poeta (per sua, ma soprattutto nostra, fortuna) occasionale, collabora – quando capita – con alcune pubblicazioni locali parmigiane, on line e cartacee. Lavora a Parma e vive in stretta simbiosi con un gatto che, oltretutto, nemmeno gli appartiene. Dice che se volete sapere altro, dovete chiederlo a lui.

Roberta Tiboldi www.tapirulan.it/robertatiboldi Nata nel ‘76, a 20 anni frequenta la SCUOLA DEL FUMETTO di Milano dove s’innamora letteralmente del PC. Dopo aver fumettato a mano, tempera, matite e chine, trova finalmente la sua vera passione nella elaborazione e colorazione a video dei suoi schizzi cartacei. Si rimette perciò a studiare il mondo del web, altra passione scoperta di recente. Sogno nel cassetto? Creare siti folli. Ossessione? Horror video games...

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Appuntamento al buio racconto di Andrea Rivieri illustrazione di Siria Bertorelli

«Ahi!» Quanto tempo è passato dall’ultima volta che mi sono fatto la barba con la lametta? Ormai non lo ricordo più. Ultimamente mi limitavo a un taglio veloce col rasoio elettrico, nemmeno troppo frequentemente. Ma stasera è diverso, bisogna cercare di essere il più decente possibile e il bruciore del dopobarba mi ricorda che per un buon risultato serve sempre sacrificio. Alle 18 sono praticamente pronto: lavato, rasato e profumato. Devo solo vestirmi. È il caso di abbandonare per una volta lo stile sportivo e mettere qualcosa di più elegante, un bel vestito fa sempre la sua figura. Resta però un dubbio da risolvere: «Papà! Secondo te è meglio con o senza cravatta?» «Èh? Sbrigati che tra un po’ è ora di preparare la cena.» «Ma io sono fuori stasera!» «Ah, è vero... e con chi vai?» Già, con chi vado? Ricordo bene quando la settimana scorsa Valentina mi propose questa serata.Veniva a trovarla una ragazza conosciuta l’anno prima in Inghilterra e si sarebbe fermata per un po’ con lei e Marco. «Ho pensato di portarla fuori a cena,» mi disse «vieni anche tu, così saremo in quattro.»

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«Ma non so nemmeno chi sia, e poi non spiccico una parola d’inglese.» «Abita in Inghilterra ma ha padre russo e madre italiana, quindi non ci sono problemi, e poi l’hai già vista a Carnevale, l’avevamo incontrata a Venezia, non ricordi? Era quella vestita da Maria Antonietta.» Sarà, ma come posso dire d’averla vista se indossava un lungo abito settecentesco, una parrucca e pure la mascherina? Prendo la macchina e parto. Il sole non è ancora tramontato, ma Valentina ha voluto che prenotassi in quel posto in riva al lago dove avevamo festeggiato il suo ultimo compleanno e una mezz’ora ci vuole, inoltre mi piace arrivare presto per controllare che tutto sia a posto e fare bella figura come organizzatore. La strada è agevole e alle 19.40 mi presento al bancone del locale: «Buona sera, ho prenotato per due...» Proprio così, per due, dato che l’altro ieri Valentina mi ha chiamato per informarmi che la sorella di Marco, causa infortunio di una ballerina, aveva il debutto a teatro a Milano e dunque loro non potevano mancare. «Potremmo uscire la settimana prossima» le avevo detto. «Ma no, voi dovete andare lo stesso, mi spiace che Evdokiya resti a casa da sola. Avrei voluto portarla a Milano ma poi restiamo là a dormire e non mi sembra carino presentarmi con degli ospiti.» «Ma sarà imbarazzante solo noi due...» «Ma cosa dici? Vedrai che andrà tutto bene. Mi raccomando, lo sai che mi fido di te, dove lo trovo uno più gentile, simpatico, disponibile e carino?» Tutti questi complimenti e la situazione di estrema gravità non hanno potuto che convincermi, e ora eccomi qui ad attendere una ragazza dal nome che non riesco nemmeno a pronunciare per questa sorta di appuntamento al buio. Seguo il cameriere che mi conduce su per una scaletta, verso il mio tavolo. Causa la rinuncia di clienti facoltosi sono finito nei tavolini sulla terrazza con vista lago. Quei pochi fortunati

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che vedo seduti qui sono tutte coppiette più o meno giovani, giunte con l’intenzione di stupirsi, difatti la vista del lago e la vegetazione che lo attornia, nelle sere primaverili, sono da togliere il fiato. Il panorama e le coppie innamorate intorno a me hanno mutato il mio stato d’animo, ora sto pensando che tutto questo può anche risultare interessante e che forse da questa cena può nascere una bella serata. Mi siedo e aspetto. Frattanto inizio a osservare la carta dei vini pensando a come sfoderare le mie qualità di intenditore. Dopo mezz’ora comincio a guardarmi attorno con preoccupazione quando un anziano cameriere, con l’espressione vissuta di chi ha servito nella sua onorata carriera fior di coppiette, si avvicina e mi chiede: «Si fa attendere?» Rispondo amichevolmente: «Eh sì, le donne!» «Buon segno, giovanotto, buon segno.» Quel tono di complicità e il suo ammiccamento a fine frase mi mettono subito a mio agio, anzi mi sento incredibilmente rinvigorito e pronto per affrontare la serata.Vedo già la mia damigella salire la scaletta e muoversi verso di me indossando un lungo abito scuro studiato apposta per lei. Allora io le prenderò la mano e lei mi saluterà col suo buffo accento russo fissandomi con occhi lucenti, mentre una lieve brezza ci circonderà col suo profumo selvatico. Assorto in questi pensieri non sento più il tempo che passa, e più il ritardo aumenta, più crescono le mie aspettative. Sono trascorse ormai più di due ore, non ci sono più grissini sul tavolo e anche le mie buone speranze sono svanite. La coppia seduta di fronte ha appena terminato la propria serata. Lei ha deciso di alzarsi e di andarsene in modo molto scenografico rovesciando sul suo compagno i fiori che ornavano il tavolo. Non è un buon momento e credo che anche la mia sorte non sia diversa. Il pensiero che la mia generosità e le mie buone intenzioni siano state ripagate lasciandomi a piedi sta diventando

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insopportabile. Mi alzo e mi allontano dal tavolo diretto verso l’uscita, circondato dal brusio degli altri clienti che sembrano raccontare di me e della mia pessima serata. Esco dal locale e nell’oscurità dell’ora cerco con impazienza la macchina poco lontana. Estraggo dalla tasca il telefono che finora la galanteria mi aveva sconsigliato di usare. Sono deciso a riversare la mia rabbia su quella traditrice venuta dall’est. Non trovo però il suo numero e se fossi più lucido non lo cercherei nemmeno dal momento che, in quell’unico nostro incontro, non ce li siamo scambiati. I miei terribili propositi si rivolgono dunque verso Valentina che ha messo in piedi tutta questa sceneggiata esponendomi al ridicolo. La chiamo, ma il telefono è spento. Naturalmente sarà ancora a teatro, magari a divertirsi, mentre io mi rodo il fegato per colpa sua. Mentre sfogo la rabbia sul mio povero cellulare pigiando con forza i tasti mi capita sottomano l’ultimo messaggio di Valentina, spedito nel pomeriggio e non ancora letto, sicuramente inviato, come suo solito, per augurarmi una buona serata. Quale ironia della sorte ricevere al termine di questa orribile avventura gli auguri e gli incitamenti affinché, invece, potesse risultare positiva! Ormai in preda a una spinta masochistica decido di leggere ugualmente: Ciao Andrea, mi raccomando stasera, fai il bravo e non far bere troppo Evdokiya perché non è abituata. Le ho prestato il mio abito nero smanicato e, vedrai, le sta a meraviglia. Divertitevi e fate pure tardi, baci Valentina. P.S: dato che io e Marco non veniamo, ricordati di passarla a prendere. E puntuale! Ciao.

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Andrea Rivieri www.tapirulan.it/andrearivieri Nato in una calda mattina di giugno del 1979, cresce nel piccolo paese di Casteldidone (CR). Dopo le scuole medie frequenta il LICEO SCIENTIFICO ASELLI di Cremona dove legge il primo numero di TAPIRULAN e scopre una vena di accesa contestazione. Vicino al diploma dà un taglio a barba, capelli e passato e si iscrive alla FACOLTÀ DI INGEGNERIA DELLE TELECOMUNICAZIONI a Parma, ma tutto ciò che sa lo deve ai numerosi cartoni animati visti fin dall’infanzia. Incredibilmente e costantemente in ridardo, ha probabilmente finito di scrivere queste righe pochi minuti fa.

Siria Bertorelli www.tapirulan.it/siriabertorelli Nata a Crema nel 1978. Diplomata in pittura all’ACCADEBELLE ARTI di Brera si è specializzata in seguito in arte sacra contemporanea. Lavora nel campo della grafica, dell’illustrazione e dell’installazione artistica. Fa parte della redazione della fanzine BAKELITE. Vive e lavora a Cremona, dove da alcuni anni si occupa di laboratori didattico/espressivi multidisciplinari.

MIA DI

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Calliope racconto di Michele Prosperi illustrazione di Sabrina Inzaghi

Entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle. Era da tempo che non si sentiva così stanca. D’altra parte sette ore e passa, in piedi, dietro un bancone di marmo, potevano fiaccare chiunque, anche donne più forti di lei. Anche quella giornata era andata e finalmente poteva rifiatare, a cominciare da una doccia rilassante. Si sedette sul letto perfettamente rifatto (doveva averci pensato sua madre, visto che lei non ne aveva avuto il tempo), inspirando il profumo di mughetto sprigionato dalle lenzuola. Pensò al negozio. Il mughetto era finito e sarebbe arrivato solo tra qualche giorno. Non era un problema: solitamente era un fiore poco richiesto. Anche se, proprio oggi, una signora aveva avuto la folle idea, per il matrimonio della sua unica figlia, di addobbare la chiesa solo di mughetti. Sorrise. Come si poteva decorare una chiesa così grande con un fiore così piccolo? Chissà quanti ce ne sarebbero voluti, per notarli in quello spazio immenso! Era sicuramente un bel fiore, ma lei non si sarebbe mai sposata in una chiesa di soli mughetti. Non ne avrebbe avuto la forza, tutto qui. Appoggiò la caviglia destra sul ginocchio sinistro e cominciò a liberare il laccio di cuoio dalla fibbia argentata. Lentamente.

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La scarpa cadde al suolo con un tonfo. Ripeté l’operazione con l’altra, lentamente, e anche questa rimbalzò sul marmo rosato, andando a finire con una goffa capriola vicino alla compagna che giaceva appoggiata di lato. Al suo occhio abituato ad abbinare colori non sfuggì il singolare contrasto tra il nero delle scarpe e il rosa tonno del pavimento. Affondò le braccia nel letto, inarcando la schiena all’indietro per poi allungare le gambe quasi snelle, strette in collant neri, tenendole a mezz’aria dritte come aste. Prese a far roteare i piedi, il destro in senso orario, il sinistro antiorario. Le piaceva sentire lo squittìo delle caviglie che scricchiolavano, lo trovava rilassante, ma mai quanto una doccia bollente. Il silenzio si rimpossessò della stanza quando le caviglie si fermarono. Con un balzo si rialzò, i piedi vicino alle scarpe dalla fibbia argentata. Si guardò attorno, con aria circospetta, come se avesse avvertito la presenza di qualcun altro, ma non c’era nessuno oltre lei nella camera. Doveva essere la televisione; chissà cosa stava guardando sua madre. Sicuramente niente di interessante. Si spogliò, veloce, quasi con foga, trattenendo il respiro nel togliersi maglione e camicia. Come una creatura appena nata che sente per la prima volta il sapore dell’aria. Si avvicinò alla porta. Mise fuori la testa, un’occhiata veloce. Sua madre era ancora in cucina. Dal vetro opaco della porta filtrava fioco il bagliore bluastro della televisione, liberando un alone fluorescente nel corridoio. Con un paio di passi rapidi s’infilò nel bagno e si chiuse dentro a chiave. Aspettò qualche secondo al buio, dopodichè accese la luce. Il bagno era stretto e lungo, illuminato da una luce soffusa attraverso un vetro smerigliato, posizionato al centro del soffitto bianco. In fondo, la cabina della doccia, oggetto del desiderio in quel momento. Si lavò sotto un getto bollente, proteggendo i capelli corvini in una cuffia di plastica, recuperata mentre l’acqua si scaldava. Con estremo piacere notò che la stanchezza accumulata durante il giorno la stava abbandonando, sembrava quasi stesse scivolando giù per lo scarico accompagnata dall’acqua, che batteva impetuosa sulla pelle. Uscita dalla cabina, s’infilò l’accappa-

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toio: anche questo odorava di mughetto, come le lenzuola, come una chiesa in cui non si sarebbe mai sposata. Sorrise. Si sfilò la cuffia e si diede una scossa ai capelli cercando di riordinarli. C’era un’atmosfera surreale in quel bagno angusto, l’aria era talmente satura di vapore acqueo, che ogni cosa appariva indefinita e vaga. La luce era sabbiosa e gonfia, come in quelle domeniche pomeriggio invernali, in cui, assieme alla sua amica Sara, attraversava la città avvolta dalla cappa bianchiccia della nebbia, con la faccia perennemente incollata al parabrezza della sua Panda 4x4, facendosi guidare unicamente dalla luce nebulizzata in grosse molecole. A volte avevano rischiato grosso con quella densa caligine che incatenava stretta la città ma, come diceva Sara al telefono ogniqualvolta lei esprimeva qualche dubbio sull’uscire in macchina con un tempo del genere: «Figurati Cal... non ci faremo mica spaventare da un po’ di foschia. E poi basta fare attenzione, che non succede niente; e per giunta restiamo in città... Convinta? Ti aspetto giù, allora!» Così ogni domenica pomeriggio verso le sei, sei e mezza, lei passava a prendere Sara che, diligentemente, la aspettava giù, davanti alla porta di casa. E tutto questo per cosa? Per andare a prendere il solito tè nel solito locale, incontrando le stesse persone e ridendo per le stesse cose. Ma chi glielo faceva fare? Aprì la finestrella quadrata situata in alto, sopra il water, quindi arrancò a piedi nudi sulle mattonelle scivolose, raggiungendo il lavabo. Si massaggiò a lungo attraverso l’accappatoio per asciugarsi: prima i polpacci, poi le cosce, che palpeggiò emettendo uno sbuffo insoddisfatto, quindi il ventre e il seno, infine il viso. La doccia l’aveva rigenerata: si sentiva rilassata, distesa, come se neanche avesse lavorato tutto il giorno. Cercò la sua immagine nello specchio rettangolare che le stava di fronte, sopra il lavabo, per avere la conferma delle sue sensazioni, ma non la trovò: la superficie era velata da una lieve patina bianca, residuo dei vapori della doccia. Continuò ad osservarla con attenzione, mentre l’appannatura scompariva lentamente.

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Le erano sempre piaciuti gli specchi: strane creature, quasi magiche, nella loro delicata anima di vetro; nella sua fantasia da bambina la accompagnavano in dimensioni fatte di giochi di fate e di elfi (sapeste quanto aveva amato Alice, da piccola, e le testate prese nel tentativo di raggiungere il Coniglio Bianco!), ma ora, meno romanticamente, erano sguardo piatto e fedele, talvolta crudele, di una realtà in evoluzione in cui il Tempo, con i suoi segni, è l’incontrastato tiranno. Eppure, anche se non più bambina, la magia la sentiva ancora, forse in modo più sottile, ma la sentiva, l’avvertiva nello sguardo riflesso appena velato di bianco. Suo padre. Era stato suo padre il primo a rivelarle la magia, ma lei non l’aveva compresa, non subito. Così aveva pianto. Oh, quanto aveva pianto per il suo settimo compleanno, un acquazzone con tanto di tuoni e fulmini. «Non lo voglio!... Io questo non lo voglio!», furono le uniche parole comprensibili in quella tempesta di lacrime, urla e singhiozzi. No, non lo voleva proprio lo specchio che suo padre le aveva regalato, e non le importava quanto fosse grazioso nella sua linea ovale e nello stretto manico allungato. Lo allontanò dagli altri regali, per emarginarlo, per fargli capire quanto lei amasse le sue Barbie e gli animaletti di peluche dagli occhi splendenti, per dimostrargli che lei non aveva bisogno di uno stupido specchio. Quel 22 febbraio aveva quasi odiato suo padre per aver trasformato il compleanno tanto atteso in un giorno triste e grigio. Riscoprì lo stupido specchio solo qualche mese più tardi, per caso, durante uno dei suoi giochi, sepolto in un cassetto tra mille cianfrusaglie. Se ne stava lì, il vetro ovale buio, un po’ triste, di quella tristezza opaca che è la solitudine. Afferrò con le piccole dita il manico di legno lucido, intagliato di fiori e stelle. Era frassino. Lo tirò fuori, gli ridonò la luce, e l’incantesimo si liberò. Bastò un attimo soltanto. Lo guardò meravigliata. Si guardò meravigliata. I grandi occhi neri, le guance leggermente arrossate, le labbra sottili incurvate in un’espressione di stupore, perché quella era lei. Cambiandone l’inclinazione, si stupì della facilità con cui

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poteva cogliere la profondità della sua stanza e imprigionarla, fin nei minimi dettagli, nell’ovale sottile meno di un dito. Provò e riprovò ancora, pensando che la magia di quell’oggetto sarebbe svanita, che prima o poi avrebbe fallito, dimenticandosi di riflettere qualche particolare, ma ciò non accadde mai. Continuava perfettamente a riprodurre dentro di sé tutto ciò che inquadrava, qualunque cosa, senza distinzioni, senza favoritismi, senza sosta. Instancabilmente. Solo ora comprendeva il suo potere, la sua magia. Quello stupore di bimba le era rimasto, ma il regalo di suo padre no. Chissà dove si trovava ora, forse sul fondo marcio e buio di qualche discarica, con l’immagine della sua stanza di bimba impressa in ricordi di vetro, trattenuti da un sottile legno di frassino, ricamato di fiori e stelle, che ormai non brillano più. I vapori della doccia erano completamente scomparsi dalla superficie dello specchio. Si guardò. Calliope e i suoi trent’anni (ventinove per la precisione, ma mancava veramente poco al 22 febbraio), avvolti in un accappatoio bianco che sapeva di mughetto. Questo le raccontava lo specchio. Con sincerità, senza inutili lusinghe. E lei l’aveva imparato. Assottigliò le labbra rosate, incanalando i muscoli delle guance lungo quelle impercettibili linee situate sopra agli angoli della bocca. Il sorriso combaciava perfettamente con quelle due piccole rughe. Non ricordava di aver riso così tanto in passato da farsi venire le rughe del sorriso. Si toccò il viso attraverso lo specchio, sfiorando con le dita i lisci capelli neri che ricadevano umidi sulle spalle color latte, troppo bianche per sopportare il sole estivo. Ma era fine gennaio, l’estate lontana. Solo una cosa poteva ingannare in quel viso da trentenne. Gli occhi. Quei grandi occhi neri non erano maturati come il suo corpo col passare degli anni. Guardandoli, si poteva scorgere ancora la bambina incantata di un tempo e anche perdersi nel candore innocente del suo sguardo. Cosa ci facevano gli occhi di una bimba in quel corpo di donna? Sembrava quasi che il tempo fosse stato generoso con lei, lasciandole un ricordo della sua fanciullezza.

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Due occhi neri da fata. Da musa. Per questo suo padre aveva scelto per lei quel nome, per i suoi occhi. Cal-li-o-pe. Suonava bene anche sillabato. Eppure un tempo aveva desiderato un nome più normale, qualcosa tipo Giulia, Silvia, Cristina, in modo da non sentirsi diversa dalle altre. Calliope. «Che strano nome.» Glielo dicevano tutti. «Ma che bel nome...» anche questo dicevano. Non mancavano mai di aggiungerlo. Ma lei non si sentiva una musa, non credeva di averne la stoffa. Eppure suo padre non la pensava affatto così. Il suo romanzo, Mezzanotte a Berlino, primo di una lunga serie di successi, le fu dedicato con la frase: A Calliope, mia unica figlia, mia unica scintilla di potere, mia unica musa. Calliope, la musa della poesia epica invocata dai poeti come ispiratrice dei loro canti, ora diveniva la musa di uno scrittore di romanzi tutto sesso e azione. Era buffo, ma non c’era da meravigliarsi, questo era il ventunesimo secolo: anche le muse dovevano aggiornarsi, altro che danzare sulle divine note del divino Apollo nei verdi prati ai piedi del monte Olimpo! E lei, da musa moderna qual era, lo sapeva. Lavorava come fiorista in quel negozio del centro, vicino alla Galleria. Probabilmente ci sarete passati qualche volta, attirati da quelle vetrine che parlano di primavera e dei suoi colori, anche se fuori è pieno inverno e si gela. Magari sarete pure entrati in cerca di un pensiero per il vostro amore o per vostra madre, e la musa era lì, dietro al bancone di marmo, nel suo camicione verde da lavoro e nei suoi occhi neri da bambina, pronta a servirvi dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 19 tutti i giorni, tranne il lunedì e la domenica pomeriggio, perché anche le muse devono riposare. Ma domani non sarebbe stato lunedì. A quel pensiero la stanchezza le ripiombò addosso. Doveva ancora rivestirsi, mangiare. «Speriamo che Sara non chiami stasera», fu l’unico pensiero che le attraversò la mente, mentre usciva dalla stanza e richiudeva la porta alle sue spalle.

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Michele Prosperi www.tapirulan.it/micheleprosperi Nasce il 1 luglio 1976 a Cremona. Frequenta il locale liceo scientifico dove si imbatte in un gruppo di loschi figuri con i quali fonda il giornale umoristico TAPIRULAN, firmando i suoi articoli sotto lo pseudonimo di Pigi. In seguito si trasferisce a Milano, dove si laurea in INGEGNERIA GESTIONALE. Nel 2003, vince un concorso per sceneggiature di cortometraggi con IL PESCATORE, che successivamente trasporta su pellicola. Terminata questa esperienza, con alcuni amici appassionati di cinema, decide di cimentarsi nel videomaking, dando vita al gruppo KAMALAFILM, con cui realizza vari cortometraggi e pubblicità, senza però trascurare la passione per la scrittura. Attualmente si diletta a giocare a cricket durante l’orario di lavoro e ad attaccare gomme da masticare nelle cornette dei telefoni pubblici.

Sabrina Inzaghi www.tapirulan.it/sabrinainzaghi Nasce a Codogno (LO) nel 1977, nel 2002 si diploma in pittura all’ACCADEMIA DI BELLE ARTI di Milano. Successivamente frequenta un corso di animazione teatrale presso il TEATRO DEL BURATTO con il quale, per qualche tempo, collabora anche come aiuto scenografa. L’esperienza milanese viene portata avanti, in seguito, con la compagnia teatrale MANICOMICS per la quale progetta scenografie e oggetti di scena. Per quanto riguarda la produzione pittorica, è da sempre legata al figurativo. Lo spunto per le sue opere non è il mondo reale, bensì quello dell’immaginazione: personaggi fantastici e grotteschi animano le sue tele caratterizzate da una tensione al cromatismo e spesso velate di ironia. Gli stessi personaggi si ritrovano anche nelle illustrazioni per l’infanzia, colorate e surreali, alle quali rivolge una particolare attenzione.

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Berlino, 30/04/2006 - 4:00 AM racconto di Alberto Calorosi illustrazione di Andrea Gualandri

Sono nuovamente in strada. Ho lasciato la cartina a Mario pertanto dovrò fare affidamento esclusivamente sulla mia creatività. Là in fondo c’è una U-bahnof. Bene. Salgo. Aspetto. Il treno arriva pochi minuti più tardi. Alla stazione di Eberswalderstrasse scendo per la coincidenza. Ma la U2 non passa. Lavori in corso. Già: lavori in corso alle quattro del mattino di domenica trenta aprile. I tedeschi! Scendo in strada pensieroso sul da farsi. Sono stanco, ho sonno. E sono pure febbricitante. Escludo di farmi un chilometro e mezzo a piedi, e anche di prendere un taxi per farmi portare cento numeri civici più in là. Attraverso la strada e mi siedo ad aspettare un autobus, sì, questa mi pare proprio un’ottima idea. La faccia affondata nei palmi, le ciglia corrucciate e pensose, la fronte aggrottata per il freddo: con quell’espressione, la giacca di velluto marrone, la maglietta nera, gli occhiali e i jeans sporchi di tutta Berlino somiglio a un esistenzialista in ferie. «Aghswaldenshörrenhüberwalzenkopffershtaub?» «Èeeh?» Una ragazza in piedi giusto di fronte a me indica qualcosa alla mia destra. Ruoto la testa: a un centimetro dal mio piede vedo una melmosa pozzanghera rosa scuro dentro cui galleggiano solidi bran-

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delli bruni, e qualcuno chiaro. La superficie ondulata, frustata dal vento, riflette le opalescenti luci del locale gay al di là della strada. Sembra proprio che qualcuno m’abbia appena tritato di fianco un intero succulento Barbapapà. «Agh-swal-den-shörr-en-hü-ber-wal-zen-kopf-fer-shta-ub?» ripete pazientemente la ragazza, sillabando. Mi giro verso di lei. Occhi chiari, capelli biondi, pelle bianca, gote rosse. La tipica crucca. Bassina, bei fianchi, due grosse tette.Venticinque/ventisette anni.Tra lo scopabile e il carino, direi. Mi guarda e muove le labbra al rallentatore, come se mi fossi vomitato anche un po’ di cervello, oltre che la cena. Nel frattempo dondola avanti e indietro tenendo le braccia staccate dal busto per stabilizzare l’equilibrio precario. Ho il chiaro sentore che mi produrrà un bel Barbamamma sulle scarpe entro pochi secondi. È con due amici, i quali si guardano la scena a una manciata di metri. Ridacchiano e si palpeggiano con trasporto. «No spreche deutsch. Speak english?» replico. «Heavy drink or heavy food?» ribatte pronta, invero sorprendendomi. Ride. Cerco di spiegarle che non è roba mia: io sono appena arrivato. E che, qualunque cosa sia quella, io non ho mai ingurgitato, né mai ingurgiterò niente di simile. Mai e poi mai. Un rumore metallico lacera il silenzio. L’autobus giallo luminescente mastica la notte come una gigantesca dentiera sferragliante. Salgo. Sale anche lei. Salgono pure i due amici, senza smettere di palpeggiarsi. Heike, così si chiama la ragazza, continua a parlare in un inglese piuttosto impastato. Mi parla della DDR, della sua infanzia vissuta in una Berlino Est crudele e anacronistica. Mi parla di sé, del nuovo lavoro da parrucchiera che rende due lire ma chissà, un giorno... Le chiedo informazioni sui locali notturni dei paraggi. Mi snocciola una serie di nomi incomprensibili e comincia a sbracciarsi per indicarmeli tutti assieme. Unico risultato: fare sballonzolare un po’ di più queste due belle tettone alle quali le mie pupille sono irrimediabilmente appiccicate ormai da alcune fermate. Gli amici salutano e scendono. Dicono qualcosa in tedesco alla ragazza attraverso la porta. Risponde con un tono che suona di insulto scherzoso.

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Chiedo a Heike dove abita, un po’ per fare conversazione, un po’ speranzoso che ricominci a sbracciarsi. Oltre Pankow, risponde, a quattro/cinque chilometri da qui. Pankow è ancora una brutta zona, dice, e non le piace tanto andare sola a quest’ora. A pensarci bene io non ho poi granché da fare se non ritornarmene in camera a smaltire la febbre sentendomi per otto ore i rantoli e le scoregge di Mario. «If you want... I can come with you...» dico. Sgrana gli occhi e mi guarda dubbiosa. Sta caracollando persino seduta. L’autobus fa una curva. Heike mi frana letteralmente addosso. La afferro prontamente e la sorreggo un po’. Beh, dato che ci sono, do anche una tastatina alle tette, per vedere come sono. Sode, piuttosto sode. «Just bring you home and talk. Nothing more» aggiungo. Spiego poi che in quelle condizioni potrebbe anche perdersi in giro. Heike pare non chiedersi come posso aiutarla a non perdersi dal momento che uno: non so dove abita e due: non sono mai stato a Pankow. A lei la spiegazione pare convincente e accetta. Scendiamo. Prendiamo un altro autobus. Scendiamo di nuovo. Ne prendiamo un altro ancora. Quando comincio a pensare che questa abiti a Danzica invece che a Pankow balza in piedi e suona il campanello per scendere. Schizza fuori in strada e si gira a guardarmi. «Schnell, schnell!» dice. Camminiamo alcuni minuti per la periferia della periferia di Berlino Est, lungo grandi strade malamente asfaltate e marciapiedi sconnessi che sembrano scavi archeologici. I palazzi sono cubici, grigi, alti cinque piani e senza balconi. I vetri del primo piano sono in genere tutti rotti, oppure scritti o graffiati. I muri sono una schizofrenica successione di poster e graffiti di ogni tipo, tranne che osceni. Non un’anima per la strada. Non un locale aperto. Più precisamente: non un locale affatto. Heike svolta in una stradicciola e perde l’equilibrio di nuovo. Anche stavolta l’afferro in tempo circondando veloce la vita con un braccio. Riprendo a camminare senza lasciare la presa. Si appoggia a me, anche lei mi cinge la schiena. Incediamo così, in silenzio, per

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un’altra manciata di minuti, abbracciati come una coppietta di fidanzatini a solo pochi passi dalla scopatina della buonanotte. «It’s here!», Heike si arresta, si libera della mia presa e cerca in tasca la chiave. Apre il portone. «Goodnight and thank you», mi bacia una guancia e fa un passo indietro. Mi guarda. La guardo. Non entra: è ferma sulla soglia, appoggiata allo stipite per non dare giù. Abbassa lo sguardo. «Goodnight» rispondo. Alza di nuovo gli occhi. Sorride. «Goodnight» ripete. Rimane sempre ferma dov’è. Ricambio il sorriso: «Goodnight and good luck.» Giro i tacchi e mi incammino da dove sono venuto. Sento chiudere la porta alle spalle, in cielo sento gracchiare una gazza. Mi guardo attorno: le case sembrano un’infinita sequenza di immense scatole di fiammiferi; gli alberi bruni e spogli paiono infernali zolfanelli. Guardandola bene la fetta di cielo che intravedo non è più nera nera: l’orizzonte ora è frastagliato di un blu molto scuro. Mi guardo dietro: una luce soltanto è accesa, al terzo piano della scatola n°19847345. Sarà il bagno di Heike? Sarà corsa a vomitare? Sarà la cucina? Avrà pensato di farsi un paio di würstel? Che starà facendo, Heike, ora? «Bah...» dico a voce alta. Infilo in tasca una mano, trovo una sigaretta e me l’accendo. Accelero il passo. «Bah, bah, bah...» continuo a ripetere a voce sempre più alta, inspirando ed espirando il fumo della sigaretta. Sì: sbuffo, cammino e rumoreggio proprio come una locomotiva a vapore in partenza. In partenza, bah, bah, per casa mia. Gli edifici sfilano lenti, pigri e massicci. Heike sarà già a letto, che belle tette che aveva. Il cielo schiarisce pian piano, le gazze sembrano dirmi all’unisono qualcosa che non riesco ad afferrare. Mani in tasca, sigaretta in bocca, sto tornando a casa. Mi arresto all’istante. Mi guardo attorno di nuovo. Già, sto tornando a casa. Ma prima vorrei tanto sapere dove cazzo mi trovo ora.

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Alberto Calorosi www.tapirulan.it/albertocalorosi Nato a Genova nel 1972.Vive e lavora a Parma. Quando non lavora e non tracanna birra trascorre il proprio tempo a leggere vecchie storie di fantascienza, ascoltare Neil Young e De André, guardare film di Russ Meyer e John Carpenter. Scrive per passione e per necessità. Per il resto, è un personaggio assolutamente noioso. La storia pubblicata nella presente antologia rappresenta la sua “prima volta” editoriale.

Andrea Gualandri www.tapirulan.it/andreagualandri Nato a Reggio Emilia nel 1978, si diploma all’ISTITUTO PAOLO TOSCHI di Parma. In seguito, si iscrive all’ACCADEMIA DI BELLE ARTI di Bologna, fondamentale passo per il concreto sviluppo del suo stile di disegno; grazie agli studi di anatomia, il suo mondo grottesco inizia ad acquisire una forma più matura, in una soluzione grafica che lo porta a un continuo confronto con la realtà: fiere, festival, piazze diventano il suo luogo di studio. Nel 2003 partecipa alla 22° BIENNALE INTERNAZIONALE DELL’UMORISMO NELL’ARTE di Tolentino: la giuria, presieduta da Sergio Staino, lo seleziona per partecipare alla mostra ufficiale della biennale e lo inserisce nel catalogo della manifestazione. Nel 2005 ci riprova e vince il primo premio. Il suo percorso creativo passa dalle dimensioni editorialmente ristrette del mondo del fumetto e dell’illustrazione a quelle più estese di murales e tazebao eclettici, forme espressive che sono sempre andate di pari passo. Attualmente lavora come atelierista in una scuola dell’infanzia. Ambisce a diventare fumettista, nonché capo dell’Impero del Male, entrambe le strade si presentano irte di difficoltà, ma non per questo impercorribili. D’ARTE

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Attacco vegano racconto di Giovanni Locatelli illustrazione di Fausto Merli

Il fruttivendolo del mercato s’è svegliato stamane convinto che la venditrice di dolciumi, negli ultimi giorni, abbia invaso parte del lotto a lui destinato. Il letto matrimoniale sa che quest’idea è dovuta piuttosto a una progressiva rototraslazione della moglie dalla sua dolce metà del talamo a quella del coniuge vicino, ma non ne farà parola. La moglie invece così lo interpella (fa parola lei, eccome): «Prepara il caffè, Giacomo», ma Jack, così lui pensa a se stesso, escogiterebbe più volentieri un piano per smascherare la ribalda e ricacciarla nei suoi ranghi. Mi serve la planimetria della piazza con gli spazi a ciascuno assegnati e una foto dall’alto, passerà il satellite da Casalbuttano, CR? Mi serve per dimostrare l’inondazione di caramelle a scapito degli ortaggi. Inattuabile. Che faccio, allora? «Non sento il profumo, sbrigati», non ha davvero più tanto tempo Jack: sono le sei, tra mezz’ora sarò in piazza a preparare il banco, se non riesco a stabilire un’evidenza dell’appropriazione indebita, sarà un’altra giornata di... concime, anche quello ha il suo valore, però sempre di merda si tratta! Ricapitoliamo: i confini della Jack’s bancarella sono inattaccabili su tre lati: essendo posta a un angolo della piazza, alle spal-

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le ha i gradini del sagrato e di lato la strada: inamovibili. Di fronte, ovviamente, deve esserci lo spazio per la gente che compra, quella che guarda e quella che passa. L’unico fianco prestato al nemico è proprio quello che dà sul Fort Knox di marzapane e cioccolato abitato dalla vecchia strega. Eppure è convinto di essersi sentito più stretto negli ultimi giorni: tutta la sezione insalate – a partire dal radicchio rosso di Verona, passando da indivia e lattuga spesso così pallide da tirare al bianco, fino ai verdissimi grumolo e rucola – che formava una barriera patriottica all’attacco delle gomme americane e che si estendeva così smisurata da rendere difficile restituire il resto brevi manu alle vecchine, ora aveva così poco spazio da ricordare più la Striscia di Gaza che l’italica penisola. Che faccio? «Il caffè!», dalle catacombe. Rivoluzione logistica della bancarella: via le indifese a foglia larga e stretta. Al loro posto una bella trincea di tuberi: non solo patate, sarebbero capaci tutti, ma anche tartufi (crepi l’avarizia, insieme alla vecchia, magari) e manioca sapientemente intervallati da carciofi spinosi perché venga infilzata qualunque morbidosa cerchi di oltrepassare, e da girasoli per far da vedetta. Subito dietro le leguminose: file e file di caricatori con proiettili pronti all’uso. Ho bisogno di una catapulta con la quale scagliarli. «Sei una testa di cavolo!», anche la moglie, appena alzata, sembra avere dei vegetali in mente al posto dei capelli. «Lo sai che non riesco a svegliarmi senza un caffè, ma non ti importa! Non pensi mai a me!» «Ma cara...» «Invece... Quando sono entrata avevi un’espressione più assente del solito. E ce ne vuole. A chi, o a cosa pensavi?» «A come fermare l’avanzata delle truppe zuccherate sulle mie colonie più esterne...» «Farnetichi. Passami lo zucchero, a proposito.» «Ecco, appunto. Lo zucchero, una spia in casa nostra! Secondo me invece, la megera non ha neanche un frutto in cucina.» «Beh, qual è la tua strategia per riprenderti quello che ti avrebbe tolto?»

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Jack le spiega, con un certo imbarazzo, perché la Linea Maginot non convince tanto nemmeno lui, quello che ha precedentemente immaginato. «Hai perso il senno. Da stamane non hai fatto altro che farneticare. Non hai fatto il caffè soprattutto! In una sola cosa hai ragione: la necessità di allargare un po’ il banco. Ma non credo che la tua strategia possa servire allo scopo.» «Ma io non voglio allargarmi. Mi basta che non sia la strega a pestarmi i piedi.» «Taci e ascolta, invece. Non possiamo chiedere la licenza per uno spazio maggiore. Dobbiamo usare l’astuzia. Proponi alla signora Maria, non chiamarla più vecchia, tanto meno strega, neanche quando pensi a lei, sempre signora Maria, avrai bisogno di un atteggiamento positivo nei suoi confronti, proponile di fare posto a qualcuna delle tue cassette di ortaggi tra le sue caramelle. Lei non ha problemi di spazio come noi! Accetterà se saprai rendere la cosa allettante. E naturalmente dille che dividerete i ricavi! È chiaro?» Con la bocca semiaperta nessuno ha un’espressione sveglia, tanto meno se la mascella sporge quel tanto che basta perché gli incisivi inferiori siano più esterni rispetto a quelli superiori. A questo, nell’aspetto di Giacomo, vanno aggiunti occhi semichiusi come di chi ha sonno, per capire che nemmeno sua moglie ha un’alta considerazione di lui. La moglie Lisa, viceversa, ha l’aspetto delle donne severe: naso gobbo, occhi, narici, labbra, mento stretti, collo lungo, supera il marito in altezza e in tutto il resto. Non potendo competere dal punto di vista del pene, s’è trovata un amante maggiormente dotato, come a dire che anche in quel campo è riuscita a fare meglio di lui. La vecchia Maria che vende caramelle, ma non le potrebbe mangiare a detta del medico, se non fosse che è inutile fare sacrifici tutta la vita per morire sani, non ha solo rughe in volto, ma tra le pieghe si intravedono anche occhi, naso, bocca, del tutto insignificanti però rispetto a quella ragnatela di solchi spaccature e segni che descrivono tutta una vita di albe gelide e pomeriggi torridi.

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La vigilessa non ha nemmeno un nome, oltre a mancare di seno, vita, fianchi. In compenso svolge un’attività che la rende simpatica a tutti. Così non può che puntare tutto sugli occhi, belli quelli, e attendere che la jihad islamica imponga anche a noi il burqa, unico indumento per il quale scambierebbe la sua divisa. Resta solo Agosti, contrabbandiere, brutto, tarchiato, storto, sempre indaffarato, fiato affannoso, spesso pesante, pesante lui stesso, ossa grosse, nodose, con attorno muscoli spessi, pelle dura, grossi peli neri, neri i capelli, riccioluti, larghi come un dito, unti, grassi, come lui, grasso, pancia enorme, dura, alta sul diaframma a rendere il respiro difficile, ma non i movimenti, rapidi, scattosi, mai fermo, mai zitto. «Ehi Jack, ciao. Ho il raccolto.» Brusca frenata per accostare l’auto più possibile al banco del fruttivendolo, mani sul volante in attesa della risposta, Agosti accende le quattro frecce e si guarda intorno. «Dove?» Agosti ha fretta, finestrino per metà abbassato, si tocca un orecchio e tira il freno a mano. «Nel baule, dove se no? Apri il tuo furgone, poi vieni a prenderla, io non scendo», muove la leva che apre il portellone posteriore, guarda la strada e chi sopraggiunge, passa un dito sul bordo del vetro, come a pulirlo. «Giochi a fare la spia? È una cassa come tante altre, esternamente.» Agosti sbatte due volte le palpebre e fa una smorfia di impazienza, sollevando una natica dal sedile. «Sbrigati.» Rilascia il freno a mano, toglie un filo di polvere dalla plastica della portiera, controlla nello specchietto retrovisore. «Fatto» «Ciao», si sincera per l’ennesima volta che il freno a mano sia rilasciato e riparte senza fretta, apparentemente. Nel frattempo si è fatto giorno e la piazza si è letteralmente riempita di gente. La folla scorre disordinata tra i banchi del mercato come globuli rossi nei capillari rimbalzando gli uni contro

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gli altri fino a raggiungere l’alveolo desiderato, il banco di mutande e corpetti rovesciati alla rinfusa a formare una montagna di candida riservatezza. Immergendo mani e testa nella cima di medie e di large, generando un’unione mistica tra richiesta e offerta, ciascuna cellula, al posto di cedere ossigeno e ottenere ci-o-due, compra tessuto restituendo carta. Il grande cuore del mondo, l’economia, spinge tutte queste cellule contente verso gli acquisti, senza soluzione di continuità, a meno dell’infarto, dovuto alla presentazione del conto o al consumismo, volevo dire colesterolo. Mentre vigili leucociti regolano la proliferazione di illecite bancarelle fagocitando abusivi venditori, causa di indebolimento fiscale dell’Organismo Stato. «Tutto bene, Signor Giacomo?», dopo aver dato un paio di multe per attraversamento pedonale fuori dalle strisce, i pedoni vengono presi per le terga, non per la targa, ed aver raccolto i frutti fotografici degli autovelox seminati lungo la statale, la vigilessa, senza aspettare risposta: «mi hanno detto che ultimamente frequenta personaggi ben conosciuti nel nostro ufficio. Lo fa per sentirsi giovane e ribelle o è un sistema per arrotondare... la verdura, diciamo.» «È solo un vecchio amico, non vedo cosa ci sia di male nello scambiare quattro chiacchiere.» «Se vi siete fermati a quelle, niente. Ma, a me, hanno detto che proprio oggi avete scambiato anche una cassa, e piuttosto pesante. Anche la nostra conoscenza si è data ai prodotti dell’orto?» «No, sì, è... vino. Mi ha portato una cassa di bottiglie. Siamo tornati al proibizionismo?» «Da noi non c’è mai stato. Comunque sappia che non c’è posto per i traffici illeciti nel nostro paese. Arrivederci.» È proprio un problema di posto, il mio, ma non sarà chiedendo a quest’androgina dalla faccia pallida, i capelli piatti e sotto la divisa il vuoto, che lo vedrò risolto. Devo passare all’azione. «Signora Maria, ma non la vuole un po’ di verdura da mettere sul suo banco? Tutte quelle caramelle le faranno venire la carie ai denti!» «Ma io mica le mangio, queste le vendo!»

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«Cosa vuol dire? Anche il benzinaio non beve il carburante, eppure soffre degli effetti nocivi del benzene! E chi lavora con l’amianto, non ha un’altissima probabilità di prendere l’asbestosi? Quindi lei... Guardi me invece, come sono in forma, tutte fibre e vitamine. Le farà bene! Mi dica cosa vuole, dopo vediamo dove metterle, le cassette. E se vende qualcosa... dividiamo!» «Mah, non saprei... non capisco... in un banco di gigione, la verdura cosa c’entra? Non ho mai venduto verdura, io.» «Preferisce la frutta?» «Beh, quella almeno è dolce...» «Frutta, aggiudicato!» «Ai miei tempi, per Santa Lucia ci regalavano un po’ di liquirizia con un limone ed eravamo già contenti...» «Ha perfettamente ragione, bisogna sapersi accontentare! Comunque frutta ci vuole in un banco di dolciumi, ma quella esotica, che ha più fruttosio della nostra. Le do un bell’ananas per cominciare!» Dalla cassa nel furgone prende un ananas, strappa con la bocca la linguetta e lo lancia, accompagnandolo gentilmente verso il suolo. L’ordigno tocca terra, rimbalza correndo un paio di volte, arriva proprio in mezzo alle caramelle ed esplode. Al processo, il fruttivendolo Giacomo si difenderà dicendo che stava solo cercando di esportare i propri prodotti, ananas appunto, in un mercato inesplorato. Considerata dal magistrato una strategia commerciale aggressiva, ma ammissibile, verrà condannato solo per frode fiscale, non avendo emesso regolare bolla di trasporto.

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Giovanni Locatelli www.tapirulan.it/giovannilocatelli Nato a Cremona nel 1977, ingegnere in VOLKSWAGEN, viaggiatore, scrittore e chitarrista. Così inizia la biografia che lo racconta: in auto suona un jazz elettrico, tagliente e acido. Dalle casse, che non riescono più a contenere la rabbia e l’estro dei musicisti, esonda, come dagli argini di un fiume in piena, un suono limaccioso e turbolento, frammisto di detriti e alberi abbattuti durante il concerto. «Pronto?! Oh, buonasera! No, non disturba, sono in auto. Non ha ancora ricevuto il mio curriculum vitae? Eppure gliel’ho spedito. E oggi era l’ultimo giorno valido! Come si fa? Posso riassumerle i dati a voce? Grazie, gentilissimo!»

Fausto Merli www.tapirulan.it/faustomerli Nato a Cremona il 23 novembre 1977, vive a Casalbuttano (CR). Laureato in INGEGNERIA INFORMATICA al POLITECNICO di Milano. Da sempre attratto e appassionato dall’arte dipinge con le più svariate tecniche: dai classici colori a olio, all’aerografo. Durante gli studi si dedica anche alla computer grafica e matura esperienze nel campo della video produzione e montaggio digitale. Realizza il progetto grafico di alcuni libri, di cd musicali e realizza loghi per aziende. È membro del consiglio direttivo della PROLOCO di Casalbuttano sin dalla fondazione. Partecipa alle manifestazioni del GRUPPO CULTURALE CONCERVELLO di Casalbuttano, dal 2001 collabora alle iniziative di ATTRAVERSARTE, e periodicamente realizza delle mostre personali. Con altri cinque artisti ha fondato il catalogo di immagini BAKELITE.

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Formica blu racconto di Andrea Cisi illustrazione di Margherita Allegri

Arrivo alla cancellata del tubificio, il mattino è frizzante novembrino e la stradina del sottoargine che raggiunge tutti gli stabilimenti del Gruppo Chrom è dissestata, come un campo di esercitazioni militari per il tiro col mortaio. Il manto d’asfalto è perforato da crateri impressionanti, il mio R4 è così instabile che mi sembra d’esser un surfista sulla cresta delle onde. Come mi faranno capire in seguito, i buchi meno profondi son quelli dovuti alla pesantezza degli autoarticolati che trasportano l’acciaio fuori dai capannoni, verso le stazioni di carico e smistamento e gli aeroporti. I buchi più abissali invece sono dove il camion si è proprio capottato, e la rondella d’acciaio da 25 tonnellate, detta coil, si è stampata giù dal rimorchio, direttamente di piatto sulla strada. Antani e De Visi sono già lì, accanto alla portineria, mi aspettano. Li ho conosciuti alla visita medica, in mezzo alla mucchia di extracomunitari noi abbiamo fatto comunella. Antani ha la siga in bocca e la barba incolta, lo sguardo partigiano. De Visi le mani in tasca, trema di freddo, un sorriso di smarrimento. Passiamo nel sentiero pedonale, attenti a non farci schiacciare dai sette TIR carichi che fanno manovra nello spiazzo tra la portineria e i capannoni. Di giorno gli stabili non fanno brutta im-

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pressione, oggi poi c’è un solettino smunto che stuzzica l’umore. Sono le 7.30, siamo arrivati un po’ prima. Io tanto non ho dormito tutta la notte. Il custode ci saluta, ha l’aria assonnata ma la sua divisa è impeccabile.Tra la portineria e il mio capannone c’è una stradina di cemento immersa in verdissimi giardinetti all’inglese. Su uno dei praticelli si eleva, come un dito medio in curva Sud, una struttura dalla forma improponibile, totem cuneiforme, fatta di lamine strette di acciaio intrecciate, slanciate verso le nubi come un monito divino. Veniamo sorpassati da operai a mucchio, come formichine, ne vediamo alcuni in tuta da lavoro blu pastello, altri in tuta verde pastello, uno infine è bianco ma sporco di nero. Stanno chiacchierando e scherzando, hanno tutte le età possibili. Alcuni poi, come graduati, sulla stoffa dei pantaloni sfoggiano nastri lucidi, gialli e arancione. Ci esce il fiato bianco dalla bocca. Fiancheggiamo lo stabilimento sulla destra, sembra infinito. Alcuni personaggi, certi in tuta da lavoro ed altri in borghese, percorrono la distanza su biciclette tutte uguali, con le ruote piccoline e il telaio color ruggine. Le parcheggiano nei prati, poi arriva un altro personaggio, le recupera e fa la strada inversa. C’è del comunismo reale, in tutto questo. Sulla sinistra invece, nei prati, si alza la struttura degli uffici amministrativi, finestre oscurate, tutte quadrate, tutte chiuse. Subito dietro compare dal nulla la struttura bassa degli spogliatoi. Da lì ci viene incontro un uomo sui sessanta, forse più. È in bici ed è vestito bene, pantaloni di fustagno con la riga davanti, scarpe lucide marroni da papà in pensione, camicia panna e maglione di lana natalizio, una giacca d’altri tempi e occhiali chiari e sottili molto rassicuranti. La cosa che stona è l’elmetto da pozzo petrolifero. «Buongiorno», ci sorride. Ricambiamo imbarazzati, tutti tranne Antani, che ha già la grinta di uno che di quel posto qui sa tutto. L’uomo ci conduce a un ingresso sul retro del capannone, poi dentro un cortile interno, brulicante di formichine blu. Nessuno ci presta la minima attenzione. «Ne vedono passare tanti...» ci spiega il dottore. Si chiama

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Dottor Riviera, è un pensionato che ha dato il sangue qui dentro ed ora collabora da esterno alla struttura. Ci istruirà sulla sicurezza in acciaieria. «Qui» esordisce dotandoci di ciclostili «abbiamo fatto passi da gigante. Siamo riusciti, in poco meno di dieci anni, a ridurre di due terzi gli infortuni sul luogo di lavoro. Per infortunio intendo da quello lieve a quello molto grave.» De Visi assume il colore dell’ansia. «Mi scusi sa, cosa si intenderebbe per lieve e per molto grave?» Doc Riviera minimizza con un calcolato gioco di spalle e guance. «Bah, si va dallo sfregamento all’amputazione dell’arto.» Sentiamo un ciocco legnoso. Ci giriamo, De Visi è in terra, faccia al pavimento. Lo aiutiamo a risedersi, il Doc estrae sali in boccetta e un ventilatorino, glielo punta nelle iridi. «Va meglio?» De Visi annuisce, allargandosi il colletto e guardandoci. «Dài,» lo conforta Antani «due terzi è già una bella riduzione. E in un anno quindi quanti?» «Tra lievi e gravi quest’anno son solo 297.» «Ah,» dice Antani «mica cazzi!» Un’ora dopo io e De Visi entriamo in reparto, il tubificio vero e proprio. Prima di entrare siamo stati dotati di tappi gialli in poliuretano spugnoso, antisuono. Li schiacci tra le dita, li infili, si espandono, ti turano il padiglione. Ci terrorizzano facendoci capire di non entrare mai in reparto senza i tappini o le cuffie. Le cuffie sono meglio, dicono. «Voglio le cuffie» dico. «Le cuffie le hanno solo i capetti!» mi rispondono. Coi tappini impiantati nel condotto auricolare affronto senza ripercussioni la presenza dell’infernale frastuono dei macchinari, gli slitter tagliano i tappeti d’acciaio in strisce di diverse misure, producendo acuti strilli e raschiamenti da accapponamento, ma noi viviamo tutto in una specie di bolla ovattata, come galleggiare in un acquario. Parlare invece si riesce, le voci si sentono. Oggi e solo oggi ci viene concesso di aggirarci senza guida nel capannone, a nostra discrezione, per osservare. Dobbiamo

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renderci conto delle mansioni, capire come ci si comporta, cercare insomma di abituarci all’ambiente. Antani non c’è, non con noi insomma, lui è stato assegnato all’automazione. Andrà a schiacciare dei bottoni. De Visi sostiene che era raccomandato, troppa arroganza, troppa sicurezza, nessun segnale di paura all’ingresso nel tubificio. Non ho tempo di rispondergli, l’ambiente mi cattura per difformità da qualsiasi altro ambiente io abbia mai visto. Tutto intorno a noi è grigio. Grigio il soffitto altissimo che scompare alla vista, grigie le tute da lavoro blu sporche di metallo, grigio l’acciaio da lavorare e quello già trasformato in tubi di varie dimensioni, grigie le espressioni degli operai che senza mostrare emozioni ripetono operazioni pesanti e regolari. Grigio è il pavimento che non ha disegno, tutto è stato ricoperto da decenni di polvere di metallo ormai sedimentata, come camminare sulla ruggine solida, e non c’è piattezza, come sentieri in una boschina sabbiosa. Sopra di noi, nell’aria ammorbata del capannone, maestosi carriponte trascinano su ganci titanici rotoli di acciaio da oltre 20 tonnellate come fossero quarti di bue, spostandoli dallo stoccaggio alla lavorazione e contrario. Il loro arrivo è annunciato da un fischio sottile e quando il carro s’arresta il carico ondeggia come Spiderman sospeso tra i grattacieli. Sono manovrati da personaggi quieti e dall’occhio clinico detti gruisti, che con pulsantiere a cavo si aggirano ogni tanto tra i campi cimiteriali dei coil già pronti per il trasporto, sbucando all’improvviso da un angolo con sopra la testa sospeso il micidiale carico. Perdere in volo uno di questi bisonti significa un grave danno economico, una perdita di tempo lavorativo, il rischio di spaccare macchinari costosissimi e la triste possibilità di seppellire in modo irreparabile corpi umani inconsapevoli. Infortunio molto grave, direi. Come mi muovo mi sembra di rischiare qualcosa, un taglio, un’abrasione. Appoggiare senza i guanti la mano su una ringhiera, la ritrovi nera che sanguina e non sai perché. De Visi non si muove dal suo posto praticamente per l’intera giornata, lo sguardo di chi pensa di aver fatto una cazzata imperdonabile a

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firmare. Io sono in ansia, ma non per oggi, oggi è ancora giorno di visita istruttiva, non mi sento parte dell’ambiente. Ma da domani inizio davvero. Turno di notte. La sera non m’addormento subito, nelle orecchie ho ancora il frastuono sottile del capannone, negli occhi il grigio dei muri, del soffitto, del pavimento. Cerco di leggere, ma ho un peso sul cuore, come qualcosa di inevitabile. Spengo la luce e resto così, immobile nel buio. Il giorno dopo mi sveglio presto ma mi obbligo ad alzarmi il più tardi possibile, per abituarmi alla notte in fabbrica, me lo ha insegnato un amico. La giornata vola via, come sempre accade nell’attesa di qualcosa che non si desidera. Ed eccomi, in men che non si dica, parcheggiato nello smisurato piazzale di cemento del tubificio. Esterno notte. L’inizio dell’avventura. Solo il gabbiotto della portineria fa luce, e i lampioncini gialli del viale che conduce ai capannoni.Visti di notte, i capannoni spaventano. Decine di piccole formiche blu, raccolte dai coni di luce dei pali luminosi in lontananza, si avventurano fuori dalla struttura bassa in muratura degli spogliatoi per raggiungere con passo quieto l’ingresso dello stabilimento, un portellone a scorrimento alto almeno 10 metri, da cui una voluta di fumo bianco scappa fuori costante per innalzarsi al cielo buio. Il portellone dal quale anch’io, tra pochi istanti, sarò inghiottito. Che fare? Scappo? Ho indosso la mia tutina blu pastello d’ordinanza, di una misura in meno però, i pantaloni mi arrivano alla caviglia. Per fortuna che lo scarpone antinfortunistico è bello alto, sennò mi si congelano le tibie. Un paio di strati di lana, sotto la giacchetta abbottonata al gozzo, per vincere la notte nel capannone, e un berretto di lana blu a tema. A tracolla il marsupio con dentro il pasto notturno, due tramezzi col prosciutto e un succhino alla pera. Cracker salati per i due spuntini di alleggerimento, uno verso le 23 e

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uno verso le 4. Che tristezza. Mi guardo bene intorno. L’auto di Antani c’è. De Visi non si vede, e fra sette minuti squilla la sirena della timbratura. Ha già mollato. Io invece, se mi sbrigo, ce la faccio. Che fare? La comincio questa nuova vita? Lo attacco questo periodo di transizione? Sarà poi davvero un periodo di transizione? Tiro un bel sospiro e mi avventuro. Penetro il cancello, saluto il guardiano, ricambia senza conoscermi, sono in tuta blu pertanto vado bene. Canticchio mentalmente il tema musicale trascinante di Crazy by love di Beyoncé, immaginandomi un piccolo esercito blu assolutamente sincronizzato che si immerge nell’antro del Leviatano. Non funziona, non mi carico. Mani in tasca, testa china, fiato bianco che sbuffa. Avanzo. È importante, importantissimo, che io impari alla svelta a non pensare a ciò che m’appresto a fare. È importante, importantissimo, che io non mi lasci abbattere, che io capisca che qui dentro ci sono centinaia, forse migliaia di persone che fanno questo stesso lavoro che ancora non ho capito bene, e che magari già lo fanno da anni. Magari da sempre. Ecco. Ecco, è importante, importantissimo che io non mi lasci convincere che questo sarà il lavoro della mia vita, che io sappia vederlo per ciò che realmente è, un piccolo passaggio evolutivo, un’esperienza. Ci sarà pure qualcosa che io posso imparare qui dentro, al di là del lavoro. Magari conoscerò gente simpatica, che ne so, magari trovo anche qualcuno meno bestiale di quel che m’aspetto. «Oh, te...» sento chiamare alle mie spalle. Mi volto, è il mio capoturno, in tuta verde. Mi fermo ad aspettarlo. «Ciao» dico mogio. Lui mi passa senza fermarsi. «Guarda che noi abbiamo già timbrato da dieci minuti, cerca di essere qui prima, sennò non andiamo bene!» e mi lascia indietro. Blocco il magone, mi sistemo la berretta blu, annullo i pensieri e lo seguo accelerando.

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Il vero fattore umano però lo colgo due ore dopo, la prima volta che mi scappa. Tocca andare in bagno, e intuisco immediatamente il senso del termine cesso. Questo di Chrom S.p.A. è il peggior cesso della Lombardia. E grazie alle metafore colorite che allietano il mio sguardo e contribuiscono al mio bagaglio culturale a basso profilo mentre svuoto il sacco sulla turca, e grazie alla delizia di pareti marroni scrostate che ho fin il terrore di toccarle senza i guanti per paura di rimanere intossicato dalle particelle di merda di qualcun altro, particelle che mi sento intorno come corpi senzienti, e grazie anche alla spiacevole sensazione di disagio che provo tentando un improbabile equilibrio circense, gambe larghe per pisciare, una mano che regge il pantalone e l’altra che tiene chiusa la porta sottile come compensato e con la maniglia sfondata, mentre col mento sul petto tengo sollevati corpetto di lana, lupetto di lana, maglioncino-pile, giacca della tuta blu e giubbotto trapuntino smanicato, che qui dentro si gela, ecco, grazie a tutto questo scopro che far pipì qui dentro è un’esperienza al di sotto della soglia di tolleranza. ... Se l’esperienza anale vuoi provare, da Gigetto devi andare!..., segue numero di cellu di Gigetto. Questa è solo l’ultima perla che trovo, incastrata tipo Bartezzaghi tra le mille saggezze dei turnisti notturni, deviati da un mix di orario e mansioni alquanto provanti. Mi domando chi sia Gigetto. Soprattutto quanto è vecchia la frase e se lui poi sia sopravvissuto a tale sport in questo ambiente. E mi stupisce l’entusiasmo con cui questi pazzi corrano a pisciare portandosi dietro il bianchetto per le scritte. Per me sono i gruisti. Ho finito. Due minuti per rificcare tutto nei pantaloni, il vestiario è ingombrante ma necessario, la notte novembrina all’aperto è un’esperienza, qui dentro. L’acciaio sta bene a temperature basse, tranne quando nasce, che il suo parto avviene a 1.400° nell’altro stabilimento, la famigerata Fonderia. Che vita, l’acciaio. Una vita da Leviatano. Esco dalla turca, mi lavo le mani al rubinetto spaccato, l’ac-

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qua scorre bollente. Non c’è sapone né carta per asciugarsi. Dietro di me, nello specchio, vedo arrivare Abdul, il marocchino sardo. Il mio primo contatto umano. Lo saluto nel frastuono senza togliermi i tappi dalle orecchie. «CIAO ABDUL!» grido. Lui, per risposta, mi mima sorridendo sornione di stare attento. Che se non sto attento, prima o poi, me lo ficca nel culo. Ah, che piacere lavorare qui!

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Andrea Cisi www.tapirulan.it/andreacisi Classe 1972, ha all’attivo due pubblicazioni, COSÌ COME VIE(EDIZIONI TRANSEUROPA, 2000) e AYE – ARE YOU EXPERIENCED? (EDIZIONI BEVIVINO/CONVEGNO, 2003). Ha vinto il concorso milanese SUBWAY-LETTERATURA, edizione 2003, col racconto CHE EFFICIENZA! (prefazione di Raul Montanari); e il concorso CENTRO FUMETTO ANDREA PAZIENZA 2006 per racconti a fumetti (in coppia con l’illustratrice Margherita Allegri); è giunto terzo al PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE VILEG NOVELLA DAL JUDRI col racconto L’IDOLO; ha pubblicato racconti sulla fanzine web del ROXY BAR di Red Ronnie, sul sito letterario NAZIONE INDIANA, sullo stagionale padano IL GRANDE FIUME e alcuni articoli di rabbia urbana sul settimanale locale IL PICCOLO, nonché 14 racconti di lavoro operaio sul quotidiano locale LA CRONACA. È operaio metalmeccanico. NE

Margherita Allegri www.tapirulan.it/margheritaallegri Nasce nel 1977, in estate. Dopo il liceo artistico si laurea in CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI e, nonostante l’esame di latino, continua a disegnare. Vive a Pizzighettone (CR) e si occupa di didattica del fumetto collaborando con il CENTRO FUMETTO ANDREA PAZIENZA di Cremona. Ha partecipato a numerose rassegne di grafica umoristica, sia in Italia che all’estero, ottenendo diversi premi e menzioni speciali.

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Vladimirka racconto di Roberto Stradiotti illustrazione di Luca Bonardi

La mia vicina di casa si chiama Vladimirka, ha un marito perso in città da qualche parte che non si fa vedere ormai da sei mesi, un minuscolo cane stupido di nome Briciola, e un bravo figliolo di nome Piero, che lei chiama indifferentemente Piero o Briciola. Ha cinquantatré anni, e così tanta carne che ci potrei riempire la cantina di insaccati. Io, di tutta quella carne, sono perdutamente innamorato. Non mi sono ancora dichiarato, però. Non è che uno al mattino si alzi dicendo: «Adesso mi dichiaro». Dichiararsi vuol poter dire cambiare la vita per sempre, dividere la propria giornata con un essere vivente, pensante, agente, e uno stupido cane. Il figlio non avrebbe problemi a lasciare la mamma: taglia l’erba ed estirpa le erbacce a una a una, appende i quadri, lucida i mobili, a volte le fa anche il bucato, e tutte le incombenze passerebbero in mano mia. È il cane che, sono sicuro, non si abituerà mai alla mia presenza. Le ho fatto recapitare un grazioso pensiero: sette nani da giardino, con un biglietto d’accompagnamento che diceva: un ammiratore. Lei li ha messi nell’erba, a casaccio, come se andassero in miniera ognuno per proprio conto, poi è andata dalla sua vicina Ortensia, e le ha raccontato tutto. Vladimirka e Ortensia

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sono amiche per la pelle. Ortensia ha chiesto al marito di regalare anche a lei sette nani. Lui, curvo sotto il peso dei suoi settantotto anni, ha continuato a zappare come se non avesse sentito. Così Ortensia si è fatta accompagnare da Vladimirka a comperare i nani, e li ha posizionati nel suo giardino, con precisione geometrica. Pare che qui intorno sia pieno di miniere. Si ritrovano insieme tutti i giorni e si siedono nell’orto di Vladimirka. Io, dietro il muro di cinta, mi siedo a mia volta, sospiro e ascolto. Ieri parlavano di me. «Quel Brontolo, così imbronciato, dimmi se non sembra vero. Si vede che il mio spasimante ha buon gusto. Dici che li ha presi in oreficeria?» «Come li trovi, gli arnesi?» ha domandato Ortensia, guardando i nanetti da lontano con sufficienza. «Molto realistici. C’è anche il martello pneumatico.» «Gli arnesi dei miei nani sono in oro laminato. Vendono anche il caterpillar, ricordi? Ma poi mi costava troppo.» «Ma tu non hai uno spasimante.» Ortensia si è voltata verso il marito. Quegli zappava e a ogni colpo si piegava un po’ di più. Se avesse continuato così avrebbe raggiunto la terra col naso. «Non ho spasimanti, io.» Vladimirka gongolava ancor meglio di Gongolo. Eolo sbuffava spazientito. «È qui del paese, lo sento. Un ammiratore è uno che ammira. Secondo me mi spia quando sono nell’orto.» Mi è corso il sangue alla testa. Come sono perspicaci, le donne. «Anch’io, se volessi, lo avrei. Ma nell’orto ci va sempre mio marito.» Ad ogni colpo di zappa il naso del vecchio si avvicinava paurosamente al terreno. «Io quando c’era mio marito gli spasimanti li avevo lo stesso, ne sono sicura, solo che non avevano il coraggio di scrivere. Mio marito è un tipo molto violento, è capace di impiccare sul ciliegio tutti gli ammiratori, a uno a uno, come gli ornamenti di un alberello di Natale.»

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«Mio marito...» ha iniziato Ortensia. L’ha guardato zappare, curvo che sembrava una campana, rantolante, gli ci volevano cinque colpi per uno buono. «Mio marito spasima per me, e non ho bisogno di altri spasimi.» «Allora ce li ha messi lui i soldi per i nani?» «Non proprio.» «Quindi che spasima, che spasima?» «Non c’è bisogno di spasimare tutto il giorno.» «Allora non è uno spasimante, è uno che prende la giornata come viene, e l’amore anche.» «Non è vero. Lui, quando spasima, spasima meglio di tutti.» «E come fai a sapere come sono gli altri?» «Èh!» ha fatto Ortensia, con un largo gesto della mano. In realtà di uomini si intendeva ben poco. «Vuoi dire che sei una mangiauomini? Oddio, la mia amica è una mangiauomini!» ha urlato Vladimirka, e si è fatta una grassa risata. Io, che l’adoro quando ride, non ho potuto fare a meno di sporgermi un poco. Aveva la testa indietro e la bocca spalancata, e la carne si muoveva sotto il vestito come l’acqua dentro un materasso. Delizia dei miei occhi. «Non sono una banderuola» si è difesa Ortensia. Ma Vladimirka rideva a più non posso e un paio di pesche sono cadute dall’albero alle sue spalle. «Mangiauomini!». «E tu sei una mangiananetti» ha esclamato Ortensia spazientita. Era troppo. Vladimirka ha rovesciato indietro la sedia scoprendo le abbacinanti cosce suine, ed è caduta riversa sull’erba, paonazza, senza fiato, con le lacrime agli occhi. «Proprio così, una mangiananetti. Pisolo non trova dove entrare, e Dotto mentre ti scopa ti spiega il corpo umano.» Vladimirka ha smesso improvvisamente di ridere, ha guardato Ortensia e quella si è zittita, timorosa. «Mangiauomini!» ha ripetuto, poi si è coricata nell’erba tenendosi la pancia dal ridere. Oh, quelle distese bianco latte! Quella spessa polposa coltre umana che decimava teneri virgulti! Tutti quei litri di sangue felici di correre dal rubizzo petto verso il viso rubicondo!

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«Ed Eolo sbuffa sotto la tua mole mentre te lo fai, e Melchiorre ti guarda e ti fa le foto per il suo calendario.» Preoccupato mi sono accertato che nell’erba non ci fossero capanna e cometa. Non mi piace mischiare il sacro con il profano, né che la mia ragazza si prenda gioco dei santi. Ma lei è candida come la neve, è la mia Biancaneve forever. «E Mammolo ti ciuccia le tette fino a lasciartele pendule come un ciondolo.» Saltellava sull’erba,Vladimirka, come morsa dalle formiche. «E Pisolo si addormenta sulle tue chiappone chiattone.» Biancaneve schizzava come percorsa dalla corrente elettrica. «E quando ti alzi la mattina gli vai a passare a tutti la lingua in faccia.» Vladimirka sbuffava come una sirena. «Orteeee, Orteeee...» «E la sera tardi, cosa fai nell’orto in mezzo a loro? Ti vedo, sai?» «Eeeee...» Ortensia, senza sapere se ridere o indignarsi, guardava l’amica che si dimenava, un cetaceo a fior d’acqua. Adoro i cetacei. E quella continuava a fare «eeeee» pancia all’aria, agitando le zampette. Ortensia si è alzata ed è andata a vedere.Vladimirka, cianotica, aveva gli occhi più grandi del viso. «Aiuto! Aiuto!». Il cane, stupido, scodinzolava. Il mio amore! Ho preso il telefono e ho chiamato l’ambulanza. E mentre la caricavano in barella, Ortensia è venuta da me, con gli occhi lucidi. «È colpa mia.» «Ma no, signora Ortensia, è un attacco di asma.» (megera!) «Colpa mia, colpa mia, colpa mia» ripeteva, vagando senza requie. Il vecchio di Ortensia, con il naso per terra e la zappa fra le mani, ha gracchiato: «Troppo grassa. Dove batte il sole non va il dottore, ma lei fa ombra dappertutto.» Dell’ombra del vecchio non c’era quasi traccia. Al ritorno dall’ospedale Vladimirka ha trovato un pacco davanti alla porta. Le ho regalato un medicinale per l’asma da portare al collo. Lei l’ha raccolto, e ha aperto la lettera che lo ac-

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compagnava: Continuo ad ammirarti. Mi sono trincerato dietro il muro dell’orto e ho atteso. Oh Vladimirka, uscirai nell’aria fresca del mattino con il mio regalo appeso al florido seno, respirando la tua medicina penserai a me, senza sapere che io sono qui vicino, che vorrei che questo muro fra noi non ci fosse, che tu senza affanno potessi corrermi incontro, senza affanno dire ti amo con la t impertinente e la punta umida della lingua fuori dai denti. Biancaneve, sono geloso dei tuoi nani, ti vorrei tutto per me, vorrei che tu mi adagiassi nell’erba e mi mandassi in miniera, e quando io torno a casa stanco la sera con un piccolo diamante trovato fra le rocce tu ti illuminassi tutta come quel diamante e mi chiedessi di portartene un altro come prova del mio amore. E poi un altro, e un altro ancora, e io avanti indietro, pendolare dell’amore, schiavo di una fiaba, fragile come un cartone animato, perché come ti si può resistere? Come si può rimanere forti e liberi, una volta che ti si vede nell’orto chinata a raccogliere i pomodori agostani? Come si può rimane rigidi e intransigenti davanti a una dea che scende in terra per allietare con la sua presenza i meschini mortali? Per farli ridere con il suo riso argentino, per farli rotolare con i suoi rotoli cristallini? Una dea pura come la neve, che si chiama Biancaneve, è scesa fra i suoi nani, ed essi d’improvviso si sentono grandi come vatussi. Questo è il tuo potere, o dea. Io sono pronto ad aspettarti anche tre o quattro anni. Allora ne avrai cinquantasette, e altri cinquantasette li farai con me. Ti chiamerò White, come un dentifricio, come tutte le cose che cominciano con w. E tu con le tue setole robuste mi fregherai l’anima e mi renderai simile a te e anch’io sarò un po’ white, di riflesso. Andremo insieme nell’orto a raccogliere zucchine e pomodori, e tu mi guarderai invecchiare e io ti vedrò sempre uguale, perché in questo tempo non ti ho mai vista invecchiare veramente. So che il tempo passa perché strappo le pagine del calendario, ma se guardassi te sarei sempre fermo a gennaio. Ho aspettato tutto il giorno, mangiando cibo in scatola, ma lei è rimasta chiusa in casa. Chissà che spavento, che sofferenza.

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Ha piovuto tutta la notte, ha rinfrescato l’aria. Mi sono alzato con il cuore trepidante, ho spalancato le ante, sono uscito e ho respirato a pieni polmoni l’aria odorosa, poi mi sono avvicinato a quel muro con la stessa riverenza che si prova davanti al muro del pianto, e ho guardato oltre. Lei non c’era. Ho visto Brontolo, però. Aveva il mio medicinale appeso al collo, il boccaglio calcato contro il labbro pendulo. Deve essere pesante, l’aria, laggiù in miniera.

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Roberto Stradiotti www.tapirulan.it/robertostradiotti Non è questo un mondo buono per scrivere. E infatti lui entra sempre nel momento sbagliato, iniziando possibilmente dalla fine. Ha lavorato quando doveva studiare, ha studiato quando lavorava. Lavora per passatempo – e per zittire i pigolii della nidiata – e usa i ritagli di tempo per lavorare. Ha scritto quando era tempo di amare, e ancora adesso non ama a sufficienza. Scrive che è già vecchio, ma si sente nuovo, come il colore dell’ultima rosa che pare superstite, e col gelo permane.

Luca Bonardi www.tapirulan.it/lucabonardi È nato a Trivero (BI), il 14 settembre 1968. Nutre da sempre una grande passione per il disegno che lo porta a frequentare la SCUOLA DEL FUMETTO di Milano. Al termine degli studi, esordisce in ambito editoriale realizzando, tra l’altro, vignette umoristiche e illustrazioni per ragazzi. In seguito disegna storie a fumetti e clip per DISNEY, e illustrazioni editoriali di vario genere per i COLLEZIONABILI DE AGOSTINI. Oltre al fumetto e all’illustrazione, si dedica alla musica, come batterista e autore di canzoni. Nell’ultimo periodo si cimenta nella scrittura di romanzi e racconti brevi.

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Autobus racconto di Lisa Biggi illustrazione di Claudio Arisi

Mi sto appena riprendendo dai postumi di una sbronza, ma il forte odore d’ascella, misto al lieve ondeggiare del mio corpo pressato tra gli altri, non aiuta. I semafori, in questi casi, sono sempre rossi. Un vecchietto si è preparato davanti alla porta chiusa e aspetta da dieci minuti la sua fermata. Alcuni ragazzi scambiano occhiate e commenti da uomo quando il signore finalmente scende i gradini e al suo posto s’infila una ragazza di quelle che la sanno lunga. Loro invece hanno tutta l’aria di essere appena usciti da un film di Carlo Verdone e smascellano quanto basta per mostrare i denti giallofumopatatine. Cerco di sporgermi dai finestrini per cogliere qualche dettaglio familiare e riconoscere la mia fermata, ma non riesco ad orientarmi. La signora seduta davanti a me si è già infastidita per il mio spostamento, che deve averla turbata nell’intimo perché si è stretta la borsetta al cuore. Mi verrebbe da implorare: «Fermate l’autobus!», ma sono a disagio e mi trattengo. La salama è arrivata al capolinea e io devo proprio scendere se voglio scongiurare il disastro. Mi avvicino faticosamente all’uscita tirandomi dietro lo zainetto che si blocca tra la gente e i sedili, ma alla fermata le porte non si aprono. Vorrei chiamare il

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conducente ma mi trovo in un equilibrio precario e temo che aprendo la bocca accada il peggio. Un signore si fa strada tra la gente accatastata lungo il corridoio dell’autobus che ormai è diventato un ecosistema a sé stante. Lo riconosco dal berretto: è il controllore. La signora della borsa mi guarda con rimprovero, come se avesse già capito che io il biglietto non ce l’ho. Devo scendere. Devo scendere! L’autobus riparte e riprende a singhiozzare nel traffico, il controllore si avvicina, la nausea sale velocemente e una raffica di brividi freddi mi paralizza la schiena. Ci sono. La signora, che continua ad osservarmi con sdegno, non è abbastanza veloce per capire: le prendo la borsa dalle ginocchia e mi libero d’un sol getto, lasciando anche gli altri passeggeri a bocca aperta. Le porte a soffietto si spalancano: «Scusate. È la mia fermata.»

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Lisa Biggi www.tapirulan.it/lisabiggi Vive e lavora a Milano, in una scuola professionale per OPERATRICI PER LE CURE ESTETICHE. Sì, proprio così: ci lavora e ci vive, considerando il tempo che passa in quel manicomio in incognito. L’ambiente lavorativo le è congeniale: fatica a stare ferma, si annoia in fretta, è impaziente e testarda. E bugiarda. Anche permalosa, attenti. Inoltre non le piace il cioccolato e questo dovrebbe essere sufficiente a mettervi in allarme. Peggiora la situazione nutrendosi di limoni che mantengono stabile il tasso di acidità e il sarcasmocinicomilaneseover30magiovanedentro. In realtà non è affatto milanese ma emiliana, di Reggio. È nata nel 1975 e quest’anno accidenti sono 32. Terribilmente seccante!

Claudio Arisi www.tapirulan.it/claudioarisi Nato a Torricella del Pizzo (CR) il 12 Agosto, vive e lavora a Cremona. Attivo in vari campi espressivi: realizza installazioni, opere grafiche e illustrazioni. Autoproduce comics underground, vincitore nel 2004 del concorso CENTRO FUMETTO ANDREA PAZIENZA, ha partecipato a workshop con Matt Madden, Jessica Abel, Tito Faraci, Antonella Toffolo, Maurizio Ribichini, Gipi, Chuck Sperry e Ron Donovan. Fa parte della redazione della fanzine BAKELITE.

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Distruggere un mondo racconto di Edoardo Cavazzuti illustrazione di Matteo Cuccato

Cammino rasente a un palazzo. A sinistra un muro. A destra basse siepi di pitosforo. Il traffico mi scorre via, così, come se niente fosse. I miei piedi viaggiano lentamente, uno dopo l’altro. La guerra in Iraq, il petrolio alle stelle, la natura allo sbando, l’ozono, l’azoto, Freud, il mutuo. E le mie suole una dietro l’altra passano da tacco a punta, da sinistra a destra, senza soluzione di continuità. Silenziose. Poi sento un crack. Crack. Limpido e liquido allo stesso tempo. Chitinoso, in un certo senso. Chiudo gli occhi per un istante e ricordo con chiarezza il rumore dell’esoscheletro dei cervi volanti che mio cugino mi obbligava a uccidere. Erano una minaccia, a quanto mi diceva. Pareva pungessero. Crack. Da fermo immagine. Il tallone scarica il peso. La tomaia schiaccia circolare. Questo suono infame di sgretolamento l’ho già sentito. A volte è vuoto, a volte umido. Non può essere un coleottero.

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L’inerzia mi spinge e indietro non posso tornare. Un solo istante e il piede compie il suo giro. Ho rotto una vita, di questo sono certo. Nessuno ha gridato, ma il rumore è stato spaventoso lo stesso. Come una frana, come una casa che crolla. Forse una casa perfetta. Un guscio magari. Sì. Un guscio: la perfezione aurea. Avanzo di un passo. Giro la testa, lentamente. Socchiudo gli occhi in un’espressione di disgusto preventivo. Aspetto di vedere quelle sue antenne mobili, ferme per sempre. Irriconoscibili sul nudo del selciato. Ecco, penso, la lenta vita della natura stroncata da un uomo distratto. Ed è così, credo, che, prima o poi, ce ne andremo tutti. Con un enorme piede o mano o asteroide o atomica che, con distratta sufficienza, ci schiaccerà sotto la tomaia dei secoli. Il collo ruota e, finalmente, fisso lo sguardo sul mio scempio. È una forchetta di plastica. Ma vaffanculo.

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Edoardo Cavazzuti www.tapirulan.it/edoardocavazzuti Nato a Genova nel 1976 dove vive e lavora come art director. Nel 2006 ha pubblicato una raccolta di racconti illustrati intitolata NERO+.

Matteo Cuccato www.tapirulan.it/matteocuccato Nasce a Bolzano a metà degli anni ‘80 e già questo gli preclude la partecipazione a qualsiasi evento culturale o di rilevanza storica che nel frattempo avviene regolarmente altrove. Inizia a pastrocchiare ricalcando un disegno della mamma che non se ne accorge (o fa finta?) e lo appende in bella vista... La passione nasce così, quasi per senso di colpa, e cresce lungo il tortuoso percorso scolastico tra conservatorio e liceo artistico, fino ad oggi, alla FACOLTÀ DI DESIGN (intendere) E ARTI (volere) di Bolzano.

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La libreria racconto di Daniele Veroni illustrazione di Cecilia Mistrali

Ho sessantacinque anni. Ieri è stato il mio ultimo giorno di lavoro. Per quarant’anni sono stato scrittore. Rigovernare il mio tavolo da lavoro è stata cosa di poco conto, presto ne scoprirete il motivo. Ho salutato tutti, ora mi rimane solo da svelare perché io sia riuscito così bene in un mestiere tanto difficile, come io abbia potuto mantenere lucidità e originalità a ogni prova. Avevo vent’anni e buoni propositi. Scrivevo intorno alle cose che mi suggestionavano e cercavo di uscire da quella timidezza postadolescenziale che mi guastava la mondanità. Non ero ancora scrittore e mi guadagnavo da vivere in altro modo; intanto leggevo e cercavo di imparare da autodidatta il mestiere: mosso dall’ispirazione buttavo pensieri su un quaderno, sperando si trovassero talmente bene assieme da poter convivere. Mandavo testi agli editori, mi sforzavo d’avere a che fare con tutti coloro che mi potevano essere utili nell’impresa di poter far coincidere piacere e lavoro. Ho parlato con uomini che, in altre circostanze, avrei serenamente disprezzato; ho dato adesione a club e associazioni assurde e, a mio avviso, criminali. Acquistavo libri. Quest’ultimo fatto si rivelò essere decisivo.

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Partecipavo anche a discussioni monografiche: Il verissimo Zola, Il demoniaco Fedor, Mann: morto a Venezia, Borges ma non troppo, e poi Vita, istruzioni d’abuso, Se una notte d’inverno un lettore, per terminare con il temerario Dalla parte di Proust. Vivevo, insomma, annoiato nel girone dei novizi. Un giorno tutto cambiò. Avevo da poco accesso all’esclusivo Club Incipit. Avevo ottenuto questo onore prestando una certa somma al presidente; questi, per sdebitarsi, mi concesse l’elitario tesserino che permette d’essere iniziato. Tema della prima riunione a cui dovevo partecipare: Se fossi un Karamazov Bene, pensai, nessun compito a casa. Un mese prima avevo acquistato i Fratelli Karamazov e da pochi giorni avevo terminato di leggere le sue 300 pagine; andai all’incontro vestito bene e con un certo piglio da polemista. Già mi sentivo calato nelle vesti del protagonista del libro in discussione quella sera: lo spietato Piotr, principe spocchioso e violento che tormenta gli angelici fratelli Karamazov. Cinici: così bisogna porsi per essere rispettati in un consesso di aspiranti scrittori. Tutto pieno di perfidia, tremavo sul divanetto che mi era toccato in sorte e spiavo le ghigne dei miei avversari. C’era il temibile presidente, venale ma brillante e arguto, e c’erano gli altri, armati di libri e sorrisi. Iniziò la discussione. Dopo venti minuti era fuori concorso che la palma del personaggio più amato spettava a Ivan Karamazov, tutta la simpatia dei critici era vomitata su di lui. «Indubbio esempio di anima sospesa tra la dannazione e la beatitudine...» Chi diavolo era Ivan? Possibile che fossi a un tratto diventato demente? Che non riuscissi a ricordare niente a proposito di ciò che i miei compagni stavano analizzando? A me risultava che i fratelli Karamazov fossero sette. Non mi

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veniva mai in mente l’ultimo, il più piccolo, ma erano sette. Nessun Ivan! Nessun Ivan! Precipitai nello sconforto e non fui più in grado di ascoltare alcunché. Tranne la mia voce interna: disgraziato, pazzo, loco, sono il principe Piotr, vi ordino di tacere! Poi ritornai in me e pensai che probabilmente mi stavano prendendo in giro. In definitiva, ero l’iniziato e qualche scherzo me lo meritavo. Con occhi folli cercavo di scorgere nei miei compagni l’inizio di una sonora risata che interrompesse il mio stato di terrore. Niente. La serata terminò. Il presidente mi sussurrò all’orecchio: «Lei non è intervenuto... Non ha letto il libro?» Risposi di no. «Vergogna!» mi disse di rimando. Avevo le gambe di gelatina ma riuscii a compiere l’atto cruciale: chiesi a un compagno se potevo avere in prestito la sua copia dei Fratelli Karamazov; mi giustificai dicendo che possedevo solo una vetusta edizione in francese. Quello acconsentì. Aprii il volume all’ultima pagina. Scoprii che l’avventura si spiegava in più di mille pagine. Ebbi un infarto emotivo. Fu così che lessi i Fratelli Karamazov. Trovai che il libro fosse un capolavoro irraggiungibile, dovevo però andare alla ricerca del principe Piotr. Non approdai a nulla. Il principe Piotr e i sette fratelli Karamazov risultava una storia mai scritta: originale. Prontamente me ne appropriai. Mandai a un editore di mezza tacca il romanzo di trecento pagine La punizione del malvagio. L’unica variazione fu sostituire Fratelli Karamazov con Fratelli Timotin. Arrivò il successo e con esso il lavoro dei miei sogni. Fui criticato con benevolenza, acclamato dai lettori e il libro fu ristampato numerose volte. Potevo finalmente permettermi di scrivere, pertanto iniziai a pensare a un testo originale. Dalla zucca non mi usciva niente, continuavo a pensare al fatto miracoloso che mi aveva reso scrittore.

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Dai tempi dei Fratelli Karamazov non avevo più acquistato alcun libro, in una libreria del centro comprai La bestia umana. Lo lessi e subito telefonai a un conoscente divoratore di libri. Gli chiesi: «Ector Balaban è ne La bestia umana?» Al suo: «No di certo!» mi resi conto che avevo in mano la bozza della mia seconda pubblicazione Chiamami Maggiolino. In breve tempo divenni bello, ricco e famoso. Tutto però durò troppo a lungo, fu straziante. Si rivelò un lavoro vero e proprio, decisamente non meritavo un simile trattamento. Avevo preso tanti di quei vizi che per mantenerli mi toccava sgobbare. Interviste, spostamenti, convention, seminari. Ora eccomi qui, sessantacinque anni e finalmente a riposo. Ho acquistato una macchina fotografica ultimo modello. Farò foto, che metterò nella mia libreria al posto dei libri.

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Daniele Veroni www.tapirulan.it/danieleveroni Da trent’anni vive in provincia di Reggio Emilia. Da qualche tempo passa le sue giornate all’interno di un magazzino. In questo luogo da inventariare cerca d’essere un uomo che onestamente conta pezzi per vivere.

Cecilia Mistrali www.tapirulan.it/ceciliamistrali È nata a Parma il 6 Marzo 1975. Tra le mostre e i concorsi più importanti cui ha partecipato si possono ricordare: nel 1998 la selezione alla 60° MOSTRA INTERNAZIONALE DELL’ARTIGINATO, a Firenze; nel 2000 è stata vincitrice del concorso AVVOCATURA E GIUSTIZIA; nel 2003 la mostra personale d’illustrazione per bambini, a Parma; nel 2004 la mostra collettiva IN ARTE DONNA - LA PAROLA E L’IMMAGINE; nel 2004 presente alla MOSTRA INTERNAZIONALE D’ILLUSTRAZIONE PER L’INFANZIA di Sarmede (TV); nel 2005 selezionata per la mostra OVOLOGO, a Viareggio; nel 2005 è stata in mostra presso il MONDADORI MULTICENTER di Milano; sempre nel 2005, presente alla NOTTE BIANCA di Napoli; nel 2006 è risultata vincitrice del concorso CREA UN LOGO PER I GRUPPI DI VOLONTARIATO DELLA FAMIGLIA.

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Epperò non ti porto indietro racconto di Marco Delmiglio illustrazione di Giada Delmiglio

Quattro del mattino. Merda, mi sono dimenticato di dormire. È che ho troppe menate. Mi appisolo e si dividono i compiti: una attacca il cervello e mi sveglia. Un’altra salta nel cuore e mi metto a piangere. Prova te a dormire, poi. Non è cattiva digestione. Mai avuto problemi: allo stomaco non ci arrivano. Ho sempre mangiato cinghiali vivi alle due di notte; poi, appena nel letto, occhi chiusi e via, a far solletico ai piedi di Ipno e compagnia. Non è neanche stress. Tutta la mia giornata è andar per pioppeti suonando. Lo faccio bene. Fin troppo bene. E mi rilassa, arrivo a sera che sono più tranquillo di quando ho lasciato le lenzuola. Ma non c’è verso di chiudere occhio. È che lei mi torna sempre in mente. Chiudo gli occhi. Il suo viso. Li riapro, buio, cicale in lontananza. Chiudo. Il suo sorriso. Riapro. Buio, cicale più vicine. Chiudo. I suoi occhi. Penso che dopo una notte così sarò pronto a tirare portacenere di marmo in faccia alla gente. Ma non è vero, anche ieri è stata una notte così, anche se questa mi sembra peggio. Questa mi sembra sempre la peggiore, non mi abituo mai. Richiudo gli occhi, stavolta la vedo tutta, sembra che mi chiami, devi venire a prendermi, mi dice.

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Facile. Basta trovare le porte dell’inferno, imbambolare Cerbero con la musica, entrare, rapirti e riportarti su, che ci vuole? Vabbhè ciao, adesso lasciami stare, devo dormire, davvero. Invece mi richiama. Devi venire a prendermi, voglio tornare da te, vieni a prendermi. Devi venire a prendermi, voglio tornare da te, vieni a prendermi. Devi venire a prendermi, voglio tornare da te, vieni a prendermi. Devi venire a prendermi, voglio tornare... Va bene basta. Mi alzo, e adesso sono le cinque. Di che colore è il cielo alle cinque del mattino? Ma appena alzato hai davvero voglia di guardare il cielo? Non mi levo neanche il pigiama, che se me la cavo alla svelta rinforco il letto e dormo una settimana. Via. Intanto a cercare un cane con tre teste. Non è difficile, che quando vuoi trovare un posto, quando l’inferno lo vuoi trovare davvero, l’inferno ce l’hai lì dietro l’angolo. Svolto l’angolo. Bau bau Cerbero, come va? Gli tiro della carne avvelenata. Musica? Suoni tu alle cinque del mattino abbastanza bene da far addormentare tre teste? Lascia perdere, meglio i metodi nuovi, da furto in villa. Funzionano meglio, soprattutto se hai fretta. Le anime dei morti mi lasciano stare, vedono che sono più incazzato di loro. Ade, me la devi ridare. Qui non si tratta, me la ridai e basta. Alla fine mi convince (più con le cattive che con le buone) ad accettare almeno un patto: io me la riporto su, ma non devo guardarla. Non devo trasgredire gli ordini degli dei. Devo avere fiducia in lei. Devo tornare facendomi i cazzi miei. Mi seguirà. Sì, come no. Sembra facile, ma provaci. Cammini e dietro non senti niente: lei ci sarà? Ade mi avrà fregato? Vatti a fidare del dio dei morti. Ma no, che non sono nato ieri, non mi faccio mica fregare, io. C’è di sicuro, è che l’hanno insonorizzata per farmi voltare. Uno a zero per me. Ci sono, mi dice lei, ci sono, non preoccuparti. Oh no, mi dice poi, mi rapiscono!

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Mi riportano indietro! Aiuto! Ti prego aiutami! No bella, non ci casco. Questa non è la sua voce, anche se ci assomiglia. Non è neanche corrotta dalla morte, perché in sogno era perfetta.Volevate fregarmi ancora, eh? Non mi volto, due a zero. Avanti. Fanno anche scherzetti da assessore al traffico, con sensi unici a catena, per farmi voltare in un modo o nell’altro. Ma sono più scaltro di un impiegato in ritardo, brucio i sensi vietati che sembro la nemesi dei vigili urbani, per cogliere al volo il tre a zero. È quasi fatta.Vedo già l’uscita. La riporterò su, c’è bisogno di lei. Senza giustizia il mondo non può stare, e io non posso dormire. Ecco la porta dell’inferno, l’uscita. Belli. Gli scherzi di Ade sono davvero belli. Sei un simpaticone, Ade, chi l’avrebbe mai detto. Una porta a specchio: una grande idea. L’ho guardata, senza neanche bisogno di voltarmi. Boccia punto, briscola, settebello e partita tua. Ade, vaffanculo, va’.

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Marco Delmiglio www.tapirulan.it/marcodelmiglio È al mondo dal 1976, e da allora cerca di capirci qualcosa.

Giada Delmiglio www.tapirulan.it/giadadelmiglio Nata a Cremona nel 1986. Dopo aver seguito alcuni corsi locali di disegno, fumetto e fotografia, si è iscritta all’ACCADEMIA DI FOTOGRAFIA JOHN KAVERDASH di Milano. Lavora come grafica e disegnatrice. Ha partecipato ai concorsi per illustratori banditi dall’ASSOCIAZIONE CULTURALE TAPIRULAN: CALENDARIO DUEMILA6 (scelta per il mese di aprile) e CALENDARIO DUEMILA7 (opera segnalata).

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N.B. Se trovi questo libro in giro, in un bar, su una panchina, per strada, in treno, in autobus, dentro un tombino, sotto una sedia, in mezzo al mare, insomma ovunque, portalo via con te, leggilo, se vuoi commentalo, correggi gli errori, fai un tuo disegno, e poi rimettilo in circolo; abbandonalo in un luogo qualsiasi, altre persone potranno trovarlo e leggerlo. Puoi anche collegarti a questo indirizzo: www.tapirulan.it/cyclette, per scriverci cosa ne pensi di questi 12 racconti e di queste 12 illustrazioni.


12 scrittori Lisa Biggi Alberto Calorosi Enrico Cantino Edoardo Cavazzuti Andrea Cisi Marco Delmiglio French Giovanni Locatelli Michele Prosperi Andrea Rivieri Roberto Stradiotti Daniele Veroni e 12 illustratori Margherita Allegri Claudio Arisi Siria Bertorelli Luca Bonardi Matteo Cuccato Giada Delmiglio Andrea Gualandri Sabrina Inzaghi Fausto Merli Cecilia Mistrali Elena Prette Roberta Tiboldi in movimento * Prefazione di: Massimo Zilioli



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